Il pippone del venerdì/9.
L’eterna rincorsa dell’unità a sinistra
Finito il tormentone politico primaverile delle primarie del Pd, possiamo tranquillamente ricominciare a farci del male fra di noi, fra quelli che si definiscono di sinistra. Anzi, sarebbe il caso che tutti, mi ci metto anche io, pensassimo di più ai guai di casa nostra, piuttosto che gioire dei guai di casa altrui. Non ci serve.
Parto da questa scena. Corteo del 25 aprile, incrocio un compagno di Sinistra italiana che mi fa: “Che poi, io mica capisco perché io e te stiamo in partiti diversi?”. Bella domanda. Neanche io lo capisco. O meglio: le ragioni le conosco, conosco la storia che ha portato da un lato alla formazione di Rifondazione prima, poi delle altre formazioni della sinistra, alla fine di Sel e di Sinistra Italiana, e dall’altro lato alla fusione del Pds con un pezzo dei socialisti e dei Verdi prima, poi con la Margherita. Se guardiamo gli anni dal 1990 in poi, in pratica quello che si vede è questo: la sinistra cosiddetta radicale si è andata via via sempre più spezzettando alla ricerca della purezza ideologica assoluta. Ormai i grafici sono in crisi a forza di disegnare falci a martello in tutti i modi possibili. La sinistra cosiddetta riformista, al contrario, nel corso degli anni ha annacquato la propria identità a tal punto da non riconoscersi più neanche quando si guarda allo specchio. La radice del problema credo sia la stessa: la crisi di un sistema politico che, la verità è questa, non riesce più a rappresentare i cittadini, a svolgere quella funzione importantissima di corpo intermedio fra il popolo e le istituzioni che gli assegna la Costituzione.
Insomma, fin dagli anni ’90 i partiti perdono man mano la loro funzione, diventano sempre più ceto politico e sempre meno popolo. E che succede? Che questo ceto politico cerca disperatamente di proteggere se stesso, cercando recinti protetti da un lato, allargando il proprio recinto dall’altro. Le due risposte, questi sono i fatti, non funzionano. I prodotti più evidenti della crisi del sistema politico sono i Berlusconi, i Renzi, i Grillo, che avranno anche caratteristiche differenti, ma hanno la stessa radice. Di fronte alla fine dei partiti di massa del ‘900, il popolo cerca il “nuovo” e lo identifica nei vari uomini forti che arrivano sulla scena. Salvo poi pentirsi sempre più rapidamente con il passar degli anni.
Dunque ricapitoliamo: crisi dei partiti, la sinistra si frammenta o si annacqua con il centro, arrivano gli uomini forti. Questo è il quadro. Ma torniamo a noi. Cosa succede nelle due anime della sinistra (la dico rozzamente per grandi linee) così come generate dalla dismissione del Pci? Da una parte, nella miriade di formazioni derivate da Rifondazione si fa a gara a chi è più puro, fino a rinfacciarsi l’emarginazione di Secchia dal gruppo dirigente del Pci: prevale una vocazione talmente minoritaria che quando, quasi costretti dagli eventi, si ritrovano al governo si sentono talmente fuori posto da essere la causa della caduta del governo che hanno contribuito ad eleggere. Caso tipo: prima votano Prodi poi lo accusano di essere troppo moderato. E che vi credevate di aver votato il Che? Dall’altra, si percepisce la crisi, ma invece di dare risposte dal punto di vista delle idee e del rinnovamento delle forme della partecipazione politica, si risponde gettando la palla in avanti: viene fuori così questa ossessione di costruire contenitori sempre più ampi, nell’illusione di risultare comunque egemonici. Finisce che scopri che i contenitori così ampi non sono e che i democristiani le preferenze ce le hanno nel sangue e tu no.
Quando te ne accorgi te ne devi perfino andare da quella che consideri casa tua. Ora, io ho partecipato ormai a varie scissioni, avendo girovagato fra le due anime, e quindi cambiare partito non è che mi traumatizzi più di tanto. A dire il vero, però, questa lenta agonia del Pd fa un po’ impressione: non c’è una scissione, c’è una frammentazione individuale che cresce giorno dopo giorno. Non si vede, ma poi all’improvviso ti ritrovi che nelle Regioni rosse gli iscritti sono la metà di un anno prima e gli elettori non vanno proprio a votare. Guardate che è peggio di una scissione “frontale”. Io ho vissuto quella più dolorosa di tutte, quella del Pci, ma mica è stato così: c’erano energie, passioni, anche scontri durissimi. Qua tutto avviene in un clima ovattato. Ha cominciato Civati, poi Cofferati, poi Fassina, poi D’Attorre, ora il gruppo di Bersani, Speranza, Epifani, Rossi e D’Alema. Bene, anzi meglio ci togliamo la zavorra, rispondono gli ultras. Ma il popolo? I militanti? Guardate che quelli sono tornati a casa da anni. Mica da ieri. Eravamo milioni quando si è costituito il Pd. Ricordate? Le assemblee fondative dei circoli, il Circo Massimo. Sono tornati tutti a casa. Quello che resta è ceto politico e affiliati. Poco altro. La ritirata è avvenuta in silenzio, uno alla volta, senza clamori.
Insomma, la cosa curiosa è che le due strade, quella della sinistra “identitaria”, semplifico così scusatemi la rozzezza, e quella della sinistra “ampliativa”, alla fine producono lo stesso risultato: gruppetti dirigenti che si autoriproducono per gemmazione, i militanti semplici che sono sempre meno e sempre più comparse, marginali e quasi fastidiosi. Si celebrano come “volontari eroici” quando devono montare i gazebo, dare i volantini e cuocere le salsicce, ma poi a decidere sono altri. Loro, i volontari eroici al massimo sono convocati a benedire il loro leader. Già scelto da altri. Poco importa la forma, congresso, primarie, caminetti. Il risultato è quello: i militanti servono soltanto come platea. E la logica conseguenza è che le platee sono sempre più ristrette. Parafrasando uno slogan da stadio si potrebbe dire che se qualche anno fa riempivamo il Circo Massimo, adesso riempiamo al massimo un circo.
In tutto questo, puntualmente, una volta ogni due, tre anni rispunta il gioco dell’unità a sinistra. Sinistra Arcobaleno, Lista Ingroia, Lista Tsipras, un paio di costituenti comuniste, poi ancora le riunioni fra Rifondazione, Possibile, Sel, Altra Europa, Tilt, Act, Futuro a Sinistra. Ci sono stati tavoli dove le sigle erano talmente tante che mi è venuto il sospetto che qualcuno rappresentasse se stesso. A stento. A volte questa specie di risiko politico ha prodotto grandi alleanze elettorali del 3 per cento, altre volte neanche quelle. L’ultimo caso è di scuola: la nascita di Sinistra italiana, che aveva alimentato grandi speranze. Si era partiti da tanti soggetti diversi, con l’idea di cedere ognuno un pezzo della sua identità, si è finito tra veti contrapposti e la fuga di tanti a far nascere un partito più piccolo di quello originario.
Altra cosa curiosa: il percorso italiano è del tutto originale, mentre la crisi del sistema democratico e della sinistra ha una dimensione quanto meno europea. Ma negli altri paesi quando i partiti tradizionali della sinistra socialista hanno cominciato a dar segni di confusione e a perdere consenso sono nati movimenti alternativi che hanno preso rapidamente il centro della scena. Il ceto politico, una volta perso il consenso, non è riuscito a sopravvivere, è stato spazzato via. Altro che la finta rottamazione all’italiana. Spagna, Francia, Grecia, solo per citare i casi più importanti: nuovi movimenti, nuove forme di aggregazione e di partecipazione. In Italia no, non ci si aggrega, ci si continua a frammentare. A chi ti si avvicina si chiedono non solo le analisi del sangue, ma l’intero genoma. Non si accoglie, si respinge.
Altra cosa curiosa (l’ultima): pezzi della sinistra italiana, tradizionalmente europeista (Altiero Spinelli era eletto come indipendente nelle liste del Pci), come risposta al sovranismo delle destre non dicono “ci vuole più europa” come sarebbe logico aspettarsi, ma diventano sovranisti a loro volta e si allineano ai colleghi francesi, che però una tradizione isolazionista ce l’hanno eccome. Insomma, per vent’anni ci siamo fatti dettare l’agenda politica da Berlusconi, ora da Salvini e Storace.
Scusate la disanima che più di un’analisi politica sembra l’autopsia di un cadavere, provo come al solito a proporre qualche idea per andare avanti.
- Scordiamoci del Pd. Se partiamo nella discussione da “ci si allea o no con il Pd” non si va da nessuna parte. Definire il proprio campo nel rapporto con un altro partito è già un segno di subalternità politica. La tua esistenza la giustifichi con un fattore esterno. Invertiamo i termini, definiamo cosa vogliamo fare, quale è il campo di valori da cui ripartiamo. Poche cose: siamo contro il liberismo, per il lavoro, per i diritti, per l’eguaglianza. E su queste confrontiamoci liberamente con tutti.
- Non partiamo dall’alto e dalle formule organizzative. Se cominciamo a discutere se, come e in quali tempi dare vita a una nuova formazione politica, se ci si deve sciogliere e rinunciare alla propria identità (leggi al proprio pezzettino di potere), come ci si deve aggregare, se usiamo questo metodo finiamo direttamente in prigione senza passare neanche dal via.
- Aggreghiamo dal basso: i gruppi dirigenti che hanno interesse a un percorso unitario, si mettano, per una volta a ascoltare prima di parlare. Definiamo chi è interessato e poi, invece, del solito tavolo nazionale, lanciamo i comitati città per città, quartiere per quartiere. E ciascun comitato produca idee, documenti. Si caratterizzi come vuole, per tematiche generali, questioni locali, per la presenza nei luoghi di lavoro. La forma partito facciamola strana: ognuno decide come organizzarsi. Facciamo casino, insomma. Chissà che non venga fuori una cosa ordinata e credibile. E apriamo le porte alle associazioni, quelle vere non i soliti amici, che cercano da anni un interlocutore credibile e puntualmente non lo trovano, apriamo le porte agli intellettuali, quelli veri non quelli dei salotti. Contaminiamoci. Partiamo da quel “mica capisco perché siamo in due partiti diversi” e non dal “tu nel 1898 eri turatiano e io no”. Secondo me se cominciamo a confrontarci noi che siamo stati abituati ad attaccare i manifesti più che a discutere di poltrone, una sintonia la troviamo. Cancelliamo le nostre provenienze, magari proviamo ad aggregare qualcuno che non proviene da nessuna delle nostre storie e confrontiamoci sulle cose. Anche perché, guardate che veniamo tutti da sconfitte. Mica c’è qualcuno che aveva ragione e gli altri che devono “solo” cospargersi il capo di cenere e venire a Canossa. Chi più chi meno, siamo tutti responsabili, dello sfascio attuale. Se da un lato si è preparato il campo a Renzi, dall’altro si è talmente poco credibili che piuttosto che votarti gli elettori se ne restano proprio a casa. Insomma finiamola con la gara a chi ce l’ha più lungo, ce l’abbiamo tutti piccolo piccolo.
- Da lì, da questa contaminazione, costruiamo una rete orizzontale, che si concretizzi in assemblee cittadine, poi regionali, poi in una serie di assemblee generali sui temi. Dobbiamo girare come trottole, perdere l’orientamento se vogliamo ritrovare una bussola. Alla fine di questo percorso, si vedrà quali sono i leader. Io eviterei l’uomo solo al comando, abbiamo già dato e non è andata proprio bene bene. Un gruppo dirigente plurale e collettivo, uscito da questo percorso e non calato dall’alto. In parte avrà i capelli bianchi e verrà dalle istituzioni. In parte avrà magliette e scarpe da ginnastica. Nessuna rottamazione, di nessun tipo. Mescolare il tutto e agitare prima dell’uso.
- Discutiamo subito della nostra collocazione internazionale. Per me la politica, a maggior ragione in questo tempo, non può avere una dimensione nazionale. La sinistra, europeista, questo per me è scontato, non può creare da sola nuove barriere “doganali”, per cui la nostra azione deve avere un respiro sovranazionale. Io, lo dico subito, non vedo più nel Partito socialista europeo una casa comune credibile. Poi sono disposto anche a ricredermi, ma vorrei una discussione seria su questo punto.
- Altra cosa da evitare, e concludo, sono le aggregazioni elettorali: non funzionano, si passa il quorum a stento, ma non si incide. Perché questa è l’ultima caratteristica che deve avere la sinistra che vorrei: quella di incidere sulla società. Possiamo perdere, magari non sempre, ma non possiamo essere pura testimonianza. La sinistra è se cambia il mondo che non le piace. Altrimenti è un salotto. Ma di quelli, credo, ne abbiamo tutti le scatole piene.
Ultimissima notazione: facciamo in fretta, facciamolo subito.
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