Lo #spiegone del lunedì/5.
Appunti sui partiti politici
La scorsa settimana leggevo un articolo di Curzio Maltese nel quale il giornalista ed eurodeputato fa un’analisi impietosa sul nostro sistema democratico. Al di là dei ragionamenti più contingenti, la tesi di Maltese è netta: con la probabile affermazione di Matteo Renzi alle primarie del 30 aprile tramonta in Italia l’era dei partiti politici organizzati. Ormai sono tutte liste personali.
Andiamo con ordine. L’esistenza di partiti politici è prevista dalla Costituzione stessa. In particolar modo dall’articolo 49: ”Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Parole, come al solito, precise: i partiti vengono riconosciuti come l’anello di congiunzione fra cittadini e istituzioni, e determinano la politica nazionale, con metodo democratico. Da queste parole più volte si è rimarcata la necessità di normare il funzionamento dei partiti in maniera da favorire la partecipazione democratica, poi in realtà ci si è fermati alle proposte di legge. In questa legislatura si è arrivati a un testo unificato, approvato dalla Camera e in discussione al Senato.
Comunque sia, i costituenti davano grande importanza all’esistenza dei partiti. Che poi nel corso del dopoguerra hanno assunto in Italia il carattere di organizzazioni di massa, a cui aderivano milioni di cittadini. Ora, sostiene Maltese, l’ultimo dei grandi partiti si avvia a diventare lista personale, come Forza Italia, come il M5s, la Lega. Per non parlare delle sigle minori, di cui, appunto, spesso si ricorda il leader ma non il nome.
Non so, sinceramente, se abbia ragione Maltese. Di certo, fin dalla scelta delle primarie come meccanismo per la selezione del segretario, il Pd si è presentato come un partito dalla forma un po’ atipica. Tanto che si è parlato più volte di partito liquido, destrutturato, in contrapposizione al partito pesante del ‘900. Una forma liquida che ha sicuramente favorito quell’identificazione con li leader che denuncia Maltese. Resta da vedere cosa capiterebbe in caso di una nuova sconfitta elettorale: una lista personale tenderebbe a sfaldarsi e a scomparire, un partito vivrebbe un momento di crisi per poi rigenerarsi con nuovi dirigenti.
Ma perché, assumendo per valida la tesi del giornalista, sarebbe un fatto così grave? Cosa cambia? Noi siamo in una democrazia rappresentativa. In pratica eleggiamo i nostri rappresentanti nelle istituzioni a cui deleghiamo, detta banalmente, la sovranità che (articolo 1) appartiene al popolo. Il nostro potere si limita, nel caso in cui non siamo soddisfatti del loro operato, a sostituirli alle elezioni successive.
I partiti, in questo contesto, svolgono una duplice funzione:
1) Danno la possibilità ai cittadini di partecipare alla vita democratica fra un’elezione e l’altra;
2) Selezionano la classe politica che poi sarà sottoposta al giudizio degli elettori.
Sono tutte e due funzioni essenziali se non vogliamo vivere in una sorta di democrazia autoritaria, dove pochi, senza alcun controllo, decidono tutto e le possibilità di incidere da parte dei cittadini sono limitate al momento elettorale.
I partiti, insomma, sono il luogo principe dove si dispiega la partecipazione dei cittadini, dove la politica, nel senso più alto della parola, svolge a pieno la sua funzione di composizione del conflitto. A patto che non siano liste personali, perché in quel caso, invece che favorire una sorta di continuità democratica fra un’elezione e l’altra, diventano semplicemente strumenti per amplificare la linea politica del leader. Una sorta di megafono puntato costantemente verso i cittadini. Quella della propaganda, insomma, da funzione derivata, di secondo livello, diventa preminente. E una certa idiosincrasia dei partiti personali nei confronti degli altri corpi intermedi che esistono nella società di oggi, dalle associazioni ai sindacati, si spiega proprio per questo motivo. La propaganda soffre l’interlocuzione, il confronto tipico della democrazia, ha bisogno solo di un pubblico acritico.
Resta da capire quanto questa trasformazione rappresenti un passo in avanti e non un ritorno, in forme differenti, al sistema ottocentesco dei “notabili”.
Tutto questo, per la precisione.
Lo spiegone del lunedì/2
Il sistema proporzionale e la formazione del governo
Una premessa doverosa, perché girano troppe balle: non abbiamo la attuale legge elettorale, anzi le attuali leggi elettorali visto che sono diverse per Camera e Senato, perché c’è stato il referendum del 4 dicembre e il relativo trionfo del no. Non c’entra nulla, il referendum riguardava la riforma della Costituzione e non la legge elettorale. Il cosiddetto Italicum, a detta del suo ideatore la legge più bella del mondo che tutti ci copieranno, è stato ampiamente bocciato dalla Corte costituzionale perché illegittimo. E quindi, abbiamo la attuale legge elettorale per l’incapacità di una classe politica che manco è stata in grado di capire che la sua proposta andava contro la Costituzione. Ricordate i gufi e professoroni polverosi? Ecco non li avete ascoltati e i risultati sono questi.
Fatta doverosamente chiarezza, le norme attualmente in vigore sono sostanzialmente proporzionali. Non si venga a dire che c’è il premio per il partito in che supera il 40 per cento. Intanto perché tale premio è previsto solo alla Camera e in più perché in un sistema in cui i poli saranno almeno 4 se non 5, è praticamente impossibile che qualcuno superi il 40 per cento.
Dunque, se si votasse oggi, l’attribuzione dei seggi avverrebbe in maniera proporzionale. E qui si leggono in giro cose davvero fantasiose per spingere a un nuovo voto utile. Si dice, infatti: se arriva primo il M5s il presidente della Repubblica darà a loro l’incarico di formare il nuovo governo, dunque bisogna turarsi il naso e votare Pd. A parte il fatto che ormai manco non basterebbe manco la maschera antigas a coprire la puzza di marcio, ma in realtà questa ricostruzione è del tutto falsa.
In realtà il presidente della Repubblica, dopo le elezioni, comincia le sue consultazioni, sente i partiti rappresentati in parlamento e poi decide non in base a chi è arrivato prima, ma a chi ha la possibilità di avere la maggioranza dei voti necessari per ottenere la fiducia delle camere.
Anche se, per ipotesi, seguisse questa idea di affidare un primo incarico esplorativo a un esponente del partito di maggioranza relativa, poi questo dovrebbe cercare la maggioranza. E i grillini, fermi intorno al 30 per cento non ci arriverebbero neanche con un’alleanza (impossibile) con Salvini che veleggia intorno al 10. Dunque dovrebbero rinunciare all’incarico e si andrebbe a un nuovo giro di consultazioni e a un nuovo presidente incaricato.
Certo continuare a votare per garantire l’impunità dei parlamentari come nel caso Minzolini non aiuta a smontare i 5 stelle, ma questo, di certo, non è colpa di chi ha lasciato il Pd, semmai di chi ci è rimasto.
Qual è dunque, lo scenario più probabile stante questo quadro istituzionale? Difficile dirlo, le elezioni sono lontane, il Pd sta facendo in questi giorni la conta per il segretario, movimenti e partiti di sinistra sono in fase di costruzione. Se si votasse domani cosa succederebbe? Con ogni probabilità nessuno schieramento, neanche allargato a parenti e amici avrebbe la maggioranza. E dunque si andrebbe verso un governo di responsabilità nazionale: una grande coalizione da Pisapia a Berlusconi, tagliando le ali estreme, con un presidente del Consiglio che garantisca tutti. Per fare cosa? Si spera per arrivare almeno a una legge elettorale condivisa e fare quelle riforme costituzionali necessarie per semplificare il sistema, senza snaturare, possibilmente la Costituzione.
Tutto questo, per la precisione.
Lo spiegone del lunedì\1
Cosa è un’intervista
Intanto sarebbe bene che tutto ve ne faceste una ragione: Esposito non è in grado di intendere e di volere, quindi evitate di seguire le stupidaggini che dice. E invece no, ci cascate ancora e giù a scrivere post su post sui “grillini che sono invitati a programmi televisivi senza contraddittorio”. E allora vi beccato lo spiegone.
Nel giornalismo, in particolare in questo caso parliamo di televisione, esistono vari format. L’intervista è uno di questi. In cosa consiste? Semplice un giornalista pone domande al suo interlocutore e quello risponde. Non è un processo dove ci sono diverse parti e c’è un contraddittorio fra accusa e difesa con un giudice che decide. C’è un giornalista che fa domande. In caso, semmai, si può criticare il livello delle domande, la eventuale mancanza di preparazione del giornalista, il grado di asservimento dello stesso all’intervistato. Ma non si può dire che manca il contraddittorio, per il semplice fatto che non è previsto dal format.
Semmai sarebbe simpatico discutere di altre trasmissioni, in cui le interviste sono condotte da presentatori, non da giornalisti. Non so se ricordate Renzi da Fazio, tanto per fare un esempio. Dove non c’è il contradditorio perché si tratta di un’intervista, ma in realtà non c’è manco il giornalista e diventa una specie di onemanshow che non può definirsi informazione. Ma su questo non ho sentito alzarsi neanche una paglia. Esposito doveva essere distratto.
Altro genere televisivo – e qui serve un contraddittorio – è il dibattito. In questo caso a confrontarsi sono persone che sostengono opinioni differenti e il giornalista ha un ruolo differente, moderatore e conduttore del dibattito stesso.
Tutto questo per la precisione.
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