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Sciogliere Leu? Non capisco e non mi adeguo.
Il pippone del venerdì/77

Nov 16, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Allora, di solito non mi adeguo per ragioni di opportunità neanche quando capisco, figuriamoci quando non capisco. Riassumo per gli amanti del brivido. Il 4 marzo si è presentato alle elezioni politiche un raggruppamento elettorale di sinistra, Liberi e Uguali, nato dall’unione di tre partiti: Sinistra Italiana, Possibile e Mdp. I tre rispettivi leader, nel momento stesso in cui hanno individuato in Pietro Grasso la figura guida di Liberi e Uguali, hanno dichiarato solennemente che quel cartello elettorale, subito dopo le elezioni, sarebbe diventato un partito unitario. Per la prima volta da decenni, insomma, a sinistra si metteva in campo un processo di aggregazione. Il risultato elettorale non ha premiato questo tentativo: il 3,4 per cento ottenuto è un risultato quantitativamente inferiore alle attese, non qualitativamente. Perché puoi prendere il 5 o il 3 ma conti sempre poco se non consideri quei voti una base su cui costruire un futuro più consistente. Così non è avvenuto. Evidentemente Leu era considerato un semplice autobus per confermare un gruppetto di parlamentari. L’elettorato lo ha capito e non ci ha premiato.

Il 5 marzo, malgrado le promesse, si sono sfilati immediatamente i compagni di Possibile, subendo  a loro volta una scissione. Ancora prima l’ex presidente della Camera, Laura Boldrini, aveva dato vita a un suo movimento.  A maggio l’assemblea nazionale di Liberi e Uguali ha deciso di continuare comunque la costruzione del partito, dandosi delle precise scadenze. Poco dopo è stato nominato, non si sa bene con quali criteri e proposto da chi, un comitato promotore nazionale, in molte città sono nati i comitati locali, è stata avviata una campagna di pre-adesione. Io, a oggi, sono iscritto a Liberi e Uguali.

Da lì, il nulla. Prima si è chiamata fuori Sinistra Italiana dando la colpa a Grasso e a Mdp, poi Mdp ha annunciato che, visto che era finita l’esperienza di Leu per colpa di Si e di Grasso avrebbe dato vita, a sua volta, a una fase costituente. Appuntamento il 16 dicembre. In tutto questo non c’è stato un solo momento collettivo in cui poter discutere. Anche l’ex presidente di Lega Ambiente, Rossella Muroni, nel frattempo, ha annunciato, nel frattempo la volontà di costruire un suo partito, i nuovi verdi.

In mezzo al guado, a partire dal mese di ottobre, alcuni comitati locali di Leu hanno cominciato a parlarsi, a incontrarsi e hanno lanciato l’idea di vedersi tutti quanti a Roma il 24 novembre. Per discutere insieme, appunto, e vedere se ci sono le condizioni per proseguire. Al momento, gli unici ad aver risposto presente fra i dirigenti sono Grasso e Laforgia, senatore, ex capogruppo di Mdp alla Camera.

Tirando le somme, allo stato attuale, tralasciando alcune figure minori e patrioti vari, allo stato attuale da Liberi e Uguali rischiano di nascere almeno 6 partiti. Si fa per dire. Diciamo che rischiano di nascere 6 segreterie nazionali. Alle elezioni europee, per essere concreti, nella migliore delle ipotersi potremmo dover scegliere fra il partito di Grasso e Laforgia, la formazione di Boldrini e Smeriglio, il nuovo raggruppamento fra Sinistra Italiana e Rifondazione, il partito rosso-verde annunciato da Speranza. In più avremo Pap, i soliti sei, sette partiti comunisti, Possibile da qualche parte si andrà a collocare. Una roba che viene voglia di metter su casa nella foresta amazzonica, altro che nel bosco di bersaniana memoria.

Fin qui la descrizione della situazione, mi perdonerete la rozzezza delle semplificazioni, ma altrimenti servivano due pipponi. Ora provo a dire la mia. Intanto non capisco. Ma davvero, non è una provocazione. Non capisco la differenza fra la fase costituente che propongono Grasso e Laforgia e quella che propone Speranza. L’unica differenza che percepisco chiaramente è che si tratta di due progetti distinti. Per quali ragioni non è dato sapere. A meno che non si voglia davvero sostenere che ci si divide sul metodo da adottare per prendere le decisioni: solo online? Solo nelle assemblee fisiche? Sono problemi seri che attanagliano il Paese intero. Almeno Sinistra Italiana e Mdp sembrano avere differenze di prospettiva: a quale gruppo aderire una volta eletti nel Parlamento europeo? Presentare o no la lista di Leu alle elezioni? Certo, ci sarebbe piaciuto dire la nostra, ma capiamo che praticare sul serio un percorso di partecipazione democratica è più complesso che annunciarlo. Invece tra Speranza e Grasso le divisioni sono davvero incomprensibili. L’unica cosa certa è che le opposte tifoserie sono già al lavoro. E quando partono gli ultras tutto è perduto. Non c’è più il ragionamento, non c’è più il confronto, tutto si riduce al “serrate le file” della propaganda.

Io credo, però, che possiamo ancora fermarci a riflettere e creare le condizioni per il rilancio di una forza che abbia una forte tensione unitaria. Il tempo non è ancora esaurito. E credo che l’occasione, l’ultima, possa diventare proprio l’assemblea nazionale lanciata dai comitati locali per il 24 novembre. Le condizioni per farla diventare un appuntamento costruttivo sono chiare, ma non semplici. Intanto bisogna arrivarci con la mente aperta, non con i paraocchi del tifoso. E poi bisogna invitare tutti, ma proprio tutti. Da Lotta Comunista fino alla sinistra del Pd, direi tanto per chiarire il campo a cui secondo me dovremmo provare a rivolgerci. Dovremmo guardarci in faccia e capire che il momento è talmente grave che non si può stare a sottolineare le virgole che ci differenziano. A me sembra che un buon punto di partenza per la discussione sia il documento proposto da Grasso. Non è perfetto, ma è una base che non mi sembra si distanzi in maniera così profonda da quello consegnato sabato scorso al coordinamento nazionale di Mdp. Assumiamo quel documento, facciamo ripartire un movimento unitario con quel percorso che avevamo immaginato. Creiamo in ogni città dei luoghi in cui discutere unitariamente, non per partiti separati. E da lì diamo la spinta necessaria a superare le difficoltà. In parallelo si può eleggere (non nominare per carità) una commissione nazionale che prepari poche e semplici regole per adesioni e percorso congressuale. Il tutto entro gennaio.

C’è il rischio, lo sento già molto presente nelle discussioni online, che, invece, l’assemblea del 24 novembre diventi il luogo in cui ci si limiti a sancire le divisioni e si fa nascere non Liberi e Uguali, ma l’ennesimo partitino senza prospettiva. E’ perfino facile: si parte con le accuse ai gruppi dirigenti inadeguati, ci si autointesta la rappresentanza esclusiva della base, si affibbiano colpe a destra e a manca. Basta un attimo e  ci si ritrova intruppati al seguito di qualche aspirante leader. La prospettiva francamente non mi alletta un granché. Come si dice a Roma: peppa per peppa mi tengo peppa mia. Eppure, prima di prendere la strada della foresta, secondo me vale la pena di fare l’ultimo tentativo. Parliamoci con sincerità, ascoltiamoci con attenzione e valutiamo insieme. Ci sarà tempo per creare un gruppo dirigente nuovo, mettendo alla prova tutti noi nel processo unitario.
Non mi adeguo, lo ribadisco. E, lo spero davvero, credo che il 24 novembre saremo in tanti a non adeguarci.

Mi raccomando fate i moderati.
Il pippone del venerdì/76

Nov 9, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Non è uno scherzo, leggo l’ennesima intervista di Romano Prodi, come sempre con il rispetto che si deve a una persona di una certa età, e scopro che ha la testa ancora ferma lì: per vincere servono candidati moderati, anzi un fronte che comprenda tutti i cosiddetti anti populisti per avere la maggioranza nel prossimo parlamento europeo: l’alleanza con Macron è servita. Ora, io che sono un ingenuo, mi sarei aspettato che dopo quanto sta succedendo ormai da un paio di anni a questa parte in tutto il mondo, anche i tifosi più accaniti dell’ulivismo se ne fossero fatti una ragione. E invece no, non sono bastate neanche le elezioni americane. Nulla, hanno la testa tarata sul “centro”. E poi ho l’impressione che si confonda il concetto di populismo con quello di popolare. Una generazione di dirigenti troppo abituata ai salotti della politica non sa più neanche dove sta di casa il popolo. Non lo trovano manco se lo cercano su google.

Ma torniamo alle cose serie. Un compagno, giusto ieri, mi ha detto che “sono intelligente, ma anche mezzo matto”. Io, a dire il vero, essendo da sempre seguace di Steve Jobs, ambirei a essere tutto matto, anche perché sono i folli che cambiano il mondo, che fanno andare avanti la società, non i sostenitori dello status quo. Ma anche senza essere del tutto fuori di testa, andrebbe portata avanti una qualche forma di riflessione sul ritorno del radicalismo in politica in rapporto alle evoluzioni della nostra società. Non sono davvero in grado, servirebbero sociologi, esperti di new media, fini analisti politici. Io da umile osservatore, mi limito a considerare che perfino nel paese più moderato del mondo occidentale ormai la sfida è fra la destra e la sinistra radicale. Negli Stati Uniti si contrappongono Trump e Sanders, non Cruz e Clinton, tanto per semplificare il ragionamento. E quando la dirigenza democratica prova a inventarsi in provetta un candidato, malgrado una campagna faraonica, prende sonore mazzate. Beto insegna. E’ solo un fenomeno momentaneo? Io non credo. Anzi, penso che la contrapposizione politica sempre più netta sia una caratteristica di fondo di questo modello di società.

Provo ad articolare un pensiero logico. Viviamo in un mondo sincopato, in cui il tempo è fattore essenziale e l’attenzione è sempre più labile. Ormai ognuno di noi fa sempre due cose contemporaneamente. E basta guardare i ragazzi per capire come la tendenza sia sempre più marcata. Si guarda la tv e si sta con lo smartphone comunque in mano. Ci sono paesi dove hanno addirittura pensato di rafforzare la segnaletica orizzontale per le strade perché oramai tutti camminano  a testa bassa, meglio scrivere a terra le indicazioni adatte a evitare frontali fra pedoni. Mettiamoci anche un altro concetto: la comunicazione tende a essere sempre meno scritta e sempre più basata su immagini chiave. Il pippone resiste, ma nasce appunto con l’idea stessa di essere orgogliosamente controcorrente. Tant’è vero che il social emergente è Instagram, ovvero un luogo dove non ci sono sostanzialmente testi scritti ma solo immagini.

E anche la politica non può che seguire la tendenza: sempre più messaggi video, a fare i volantini anni ’50 c’è solo qualche sindacalista in pensione. Insomma una comunicazione sempre più secca. Succede in tutto il mondo, in Italia ne abbiamo avuto la prova sul campo alle ultime elezioni, nelle quali hanno pagato i messaggi asciutti di Lega e 5 Stelle, non la vaghezza di Leu o il finto giovanilismo di Renzi.

Insomma, la nuova parola d’ordine di tutti noi dovrebbe essere radicalità. Teniamone conto. Emerge chi si fa capire in 15 secondi. Come farlo, invece, richiede decisamente più tempo: bisognerebbe partire da un solido ancoraggio ideale. Una volta definite le coordinate, declinare il messaggio in maniera efficace è lavoro da comunicatori. Ma se non si parte dalle fondamenta anche il messaggio non può colpire. A me hanno sempre dato fastidio quelli che dicono: “Non siamo stati capiti, non abbiamo saputo comunicare”. A titolo di mero esempio: se vuoi i voti dei lavoratori e hai appena votato la riduzione sistematica dei loro diritti puoi essere bravo come ti pare, ma alla fine la verità viene fuori.

Quindi radicalità, dicevamo. E direi anche volti credibili. Gli Usa, come accennavo prima, insegnano. La società attuale non ti permette più il candidato creato in provetta, il falso dura lo spazio di un click. Serve gente vera da mettere in campo, nuova e non consumata, avvezza alla lotta, pronta alla clava più che al fioretto. Questo richiedono i tempi. Chiarezza e credibilità sono la chiave (data la premessa di una necessaria robustezza ideologica) per costruire un movimento politico in grado di attrarre consenso.

Chiudo, infine, il pippone di oggi con un appello ai romani per un voto “accorto”. Domenica i cittadini della capitale sono chiamati ad esprimersi su alcuni quesiti referendari promossi dai Radicali con la complicità del Pd. Si tratta di un referendum consultivo, quindi potrebbe anche essere ritenuto secondario, ma in realtà rappresenta il tentativo della destra liberista di rialzare la testa dopo la mazzata della sconfitta sull’acqua. Si torna a pensare che privato è bello, pubblico è per forza brutto. Ora, come sapete ritengo la tutela dei beni comuni una delle chiavi su cui una sinistra che si vuole definire contemporanea deve necessariamente cimentarsi. L’acqua era un tema forse più facile. Ma sono beni comuni anche le reti di comunicazione, i trasporti, le grandi infrastrutture. E a maggior ragione è un bene comune anche il trasporto pubblico. I promotori dicono che non si tratta di privatizzare ma di liberalizzare. Balle. Il trasporto è per sua natura un monopolio. Può essere gestito dal pubblico o dal privato. La sola differenza è il profitto. E siccome i soldi sono gli stessi, se qualcuno ci deve guadagnare lo farà deprimendo ancora di più la qualità del servizio. Non è questione di opinioni. E’ matematica.

Quindi domenica si vota no. Si potrebbe anche pensare di boicottare semplicemente il referendum non facendo arrivare la partecipazione al quorum previsto (33 per cento). Lascio a voi la scelta: occhio alla percentuale dei votanti e pronti a scattare se si alza troppo.  Ma anche se resta molto basso, una dose di no di sicuro non faranno male. Nel dubbio facciamoci una croce sopra.

La manovra che certifica il declino.
Il pippone del venerdì/75

Nov 2, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Io credo che questa manovra economica del governo sia una sorta di bollino blu che certifica in maniera inequivocabile il declino del nostro Paese. Il cosiddetto governo del cambiamento ha messo insieme qualche norma raccogliticcia su una specie di sussidio di disoccupazione, una mezza truffa sulle pensioni, un condono davvero paradossale che riguarda il terremoto a Ischia, l’aumento di imposte varie (un must quella sulle sigarette) e poco altro. Anzi, dimenticavo, c’è la norma sulla terra in omaggio a chi fa il terzo figlio.  Ora, allo stato attuale delle cose, siamo sempre la secondo potenza manifatturiera d’Europa. E vi pare che questi possano essere i provvedimenti che ci portano fuori dalla crisi economica? Anche il Pil alla fine ha certificato che la stentata crescita tanto sbandierata dai governi degli ultimi anni era mera illusione. Siamo tornati alla stagnazione. Allo zero per cento. Gli osservatori più avvertiti, a dire il vero, lo avevano già spiegato, che i dati con un pallido segno più che ci avevano illuso erano un mero riflesso della ripresa avvenuta a livello mondiale. Il nostro declino, invece, è continuato imperterrito, al di là del Pil che si conferma indice insufficiente a valutare lo stato di salute dell’economia, tanto meno di un Paese intero.

Al di là dei numeri: l’Italia è un paese che frana alle prime piogge, che ha paura delle diversità, dove la povertà che si sta diffondendo invece che protesta sociale diventa rabbia nei confronti dei più deboli. Questa è la fotografia che abbiamo di fronte. Dal punto di vista industriale abbiamo regalato in giro per il mondo i pezzi pregiati della nostra industria, perché i famosi capitalisti nostrani si sono rivelati capaci di andare avanti soltanto con i contributi dello Stato. Una volta finiti quelli hanno fatto cassa e sono scappati con il malloppo. Tutti intenti a speculare sui titoli, guai a investire nel Paese. E per convincerne qualcuno i governi non hanno trovato di meglio che regalare a quelli più amici i resti del fu sistema delle partecipazioni statali: abbiamo cominciato con Telecom, proseguito con Alitalia e concluso le autostrade. Io capisco che lo Stato non deve fare i panettoni, non deve produrre auto, non deve occuparsi del latte. In realtà capisco poco anche questo, ma non è la sede per aprire un dibattito sull’economia socialista. Qualcuno mi deve però ancora spiegare come può un governo rinunciare ad avere sotto il controllo pubblico settori strategici come la mobilità, i collegamenti, le comunicazioni. Il che non significa che necessariamente debbano essere pubblici i provider di internet, ma la rete sì. Lo dicevo quando un governo di centro-sinistra svendette Telecom, figuriamoci adesso: le grandi reti infrastrutturali sono la chiave per la crescita di un territorio. Non si può lasciarli in mano privata, magari neanche italiana.

Addirittura a Roma fra una settimana voteremo sulla privatizzazione del trasporto pubblico locale. Atac fa schifo, mettiamo tutta a gara, basta con il monopolio pubblico dicono i promotori, Partito radicale e Partito democratico. Ora, il ragionamento potrebbe anche essere sensato se il trasporto pubblico, per la sua stessa natura, non fosse un monopolio. Che facciamo mettiamo diversi gestori su una stessa linea? Ovviamente no. E allora, va detto con chiarezza, mettere a gara il servizio di trasporto pubblico vorrebbe dire far diventare monopolista un imprenditore privato, o magari una società pubblica di altri paesi, visto che in tutta Europa le grandi capitali hanno gestione interamente pubblica di questo essenziale servizio. Unica eccezione di rilievo è Londra dove si sono amaramente pentiti. Altro tema sarebbe quella di creare una vera Agenzia della mobilità con il compito di programmare e monitorare il servizio. Quando ancora c’erano forze di sinistra di questo parlavamo.

Questa fissazione del privato che funziona meglio del pubblico è sbagliata nel suo stesso presupposto. Funziona meglio (forse) dove c’è concorrenza, nei settori dove invece la concorrenza non è possibile, al contrario, il privato punta a massimizzare i suoi profitti, senza dover offrire un servizio in grado di reggere il confronto con altri operatori dello stesso settore. Di prove, anche tragiche, ne abbiamo sotto gli occhi a dozzine. In realtà, poi, il pubblico negli altri paesi europei funziona bene e si espande anche: basta pensare a Parigi, dove Ratp, la società che gestisce i trasporti locali, è talmente forte che può permettersi di andare a gestire servizi anche fuori dai confini francesi. Chissà che non ci provino anche a Roma. Del resto, proprio nella capitale, un esempio di ente comunale che non solo funzionava, ma garantiva profitti costanti all’amministrazione lo avevamo: Acea. Poi, pur con un ruolo di minoranza, sono stati fatti entrare soci privati. I profitti sono diminuiti e il servizio è peggiorato. Certo, lo sfacelo complessivo di Roma ci mette del suo, ma anche la fornitura di elettricità e – soprattutto – acqua non è più ai livelli che aveva prima della quotazione in borsa.

Ovviamente di tutto questo la sinistra non parla. Mi sarei aspettato una campagna casa per casa sulla manovre economica. Alla vecchia maniera: gazebo in tutte le piazze, manifesti e volantini. Magari anche un minimo di campagna sul referendum romano. Nulla di tutto questo. Facciamo girare un po’ di materiale sul web, spesso confuso e pieno di errori. Senza capire che sui social ci parliamo e ci convinciamo fra di noi. Non si va oltre che rinforzare le tifoserie.

Siamo però tutti impegnati a capire in quale forma ci si dovrà presentare alle prossime elezioni europee. Perfino il timido Speranza alla fine si è accorto che il tempo stringe. Al coordinatore nazionale di Mdp verrebbe da dire: caro Roberto, bastava una telefonata a un qualsiasi elettore di Liberi e Uguali, te lo avrebbe detto mesi fa che il tempo stringe. Adesso, io credo invece che il tempo sia proprio scaduto.   Non abbiamo alcuna credibilità, alcun progetto di lunga portata. A che serve l’ennesimo autobus per portare qualche parlamentare in Europa? Lo dico subito, io su quell’autobus non ci salgo.

Ritorno nel Paese che non sa più ribellarsi.
Il pippone del venerdì/74

Ott 26, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Tornare da Cuba e ritrovarsi immersi nella tristezza nostrana. Servono nervi saldi. Non che mi sia distaccato completamente dall’Italia in questi giorni. Anzi. Sotto il sole dei Caraibi ho letto documenti in cui le stesse persone che fino a pochi giorni prima si lamentavano del fatto che Grasso non esercitasse la sua leadership attaccavano lo stesso Grasso per averla finalmente esercitata. Ho letto di manovre finanziarie bocciate all’unanimità da tutti i governi europei ancor prima che venissero approvate dalle Camere. Ho letto di Renzi salito sul palco dell’ennesima Leopolda insieme a Bonolis. Sarà lui il nuovo riferimento per gli intellettuali del Pd? Chissà. Poi sbarchi a Fiumicino e ti ritrovi Salvini a San Lorenzo a volteggiare come un avvoltoio sul cadavere di una povera ragazza violentata e ammazzata, le scale mobili che impazziscono come nei cartoni animati, la sindaca che per combattere lo spaccio di droga e la prepotenza dei criminali che ormai comandano in pezzi interi di città vieta la vendita di alcolici dopo le 21. Sempre a San Lorenzo.

E qualcuno ancora si sorprende del mio pessimismo di questi mesi. A dire la verità credo di essere anche troppo ottimista. Anzi, temo che se non ci diamo una svegliata collettiva, il prossimo governo sarà molto peggio di quello che abbiamo adesso. Sia a livello romano che nazionale. Partiamo dalla capitale: la sentenza nel processo a carico della sindaca arriverà a breve. Quasi quasi tocca sperare che venga assolta. La sinistra romana è totalmente impreparata. L’opposizione ormai la fanno i cittadini. Si organizzano, scendono in piazza autoorganizzandosi come accadrà il 27 ottobre, non danno più retta a noi sinistra “istituzionale”. Anzi, veniamo spesso percepiti come un ostacolo. Lo dicono anche i ragazzi del Mamiami: siamo orfani di un sogno. E come non sentirsi responsabili, dall’89 in poi di aver contribuito a negare il diritto a quel sogno. Il sogno, semplice, di un mondo migliore, in cui la lotta alle sofferenze, alle ingiustizie, sia patrimonio collettivo. Che poi torni da un posto in cui i cittadini si sentono rivoluzionari e patrioti del mondo intero, malgrado gli errori e i 50 anni di embargo da parte degli Usa, e senti ancora di più addosso il peso di aver contributo a questo furto di sogni,  o almeno di non averlo contrastato abbastanza. Il furto del secolo.

Delle tante immagini di Cuba che mi porto dentro ce n’è una un po’ strana: tarda serata a Santa Clara, piazza centrale piena di gente, due tipi un po’ ubriachi litigano strillando. Ascoltare è inevitabile: litigano su Maduro, sulla società comunista. Poi si abbracciano e vanno a farsi un altro bicchiere. Due matti, ma è significativo di come quel popolo viva il suo essere comunità. La discussione sulla nuova Costituzione si fa casa per casa, sono informatissimi, trovi perfino uno che ti chiede se in Italia sia finita la crisi. Rovesciando le parti sarebbe da provare a chiedere a un italiano se sa chi sia il nuovo presidente all’Avana. A stento saprebbe dire chi è Mattarella.

Questo furto di sogni ci ha portato a un Paese cattivo e distratto, che se la prende con chi sta peggio per consolarsi. Che per vigliaccheria non è più in grado di gridare contro i potenti ma solo contro i miserabili della terra. Certo, prima o poi ne usciremo. Verrà alla fine il momento di rialzarsi, di tornare a sognare quel mondo migliore che adesso non vediamo più. Ma non sarà oggi e probabilmente neanche domani. Io credo che serva una generazione di distanza. Almeno. Il corpaccione profondo dell’Italia ha bisogno di disintossicarsi, di prendere le distanze dalle corti che hanno sostituito i partiti, dalle clientele che hanno reso marcio il sistema politico. Non credo che la cura siano i grillini o i leghisti, semmai sono la fase terminale (speriamo) della malattia. Temo molto quello che può succedere in caso di nuove elezioni, sia a Roma in seguito alla probabile condanna della Raggi, sia a livello nazionale magari dopo uno scontro furibondo con l’Europa

La guarigione, dicevo, sarà lenta. Serve tempo, serve la discesa in campo di una generazione non corrotta dalle pratiche nefaste degli ultimi 20 anni. Serve una generazione che sia in grado di scandalizzarsi e ribellarsi. Ecco, ritrovare il valore e il gusto della ribellione, della contestazione al sistema nel suo complesso. La chiave forse sta lì. E facciamola finita con gli eterni richiami al civismo come soluzione di tutti i problemi, la soluzione è far sì che le tante isole di impegno civico capiscano che senza un riferimento politico rischiano di provare a svuotare l’oceano con il cucchiaino. L’ho già scritto: dalle isole bisogna passare agli arcipelaghi per tornare poi sulla terraferma. Qualche esempio lo abbiamo, qua e là. Serve pazienza. Intanto ho disdetto Sky. Meno telegiornali farlocchi non mi faranno di certo male.

E io me ne vado a Cuba.
Il pippone del venerdì/73

Ott 12, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Nei giorni scorsi, nel corso di una chiacchierata, mi sono trovato a dover illustrare a mio figlio diciassettenne l’esistenza in Italia di un Pci, un Pc, un Prc. Ovvero, per i non addetti ai lavori, tre partiti che si ispirano al comunismo. In realtà le sigle che contengono la parola magica sono molte di più, ma siccome non siamo provvisti di microscopio elettronico ci siamo limitati alle tre più note. Ovviamente non mi sono addentrato sulle ragioni dell’esistenza di forze comuniste distinte, ma solo a una descrizione statica. Né ho provato a spiegargli perché Potere al popolo e Liberi e Uguali, liste nate prima delle scorse elezioni con la medesima ambizione di creare una nuova voce unitaria della sinistra, si siano presentate separate, né, tantomeno, perché adesso siano a loro volta sull’orlo di una nuova spaccatura. Potere al popolo si è addirittura diviso sulle modalità con cui le proposte di statuto sono state pubblicate sul sito. Alla votazione, per dovere di cronaca, hanno partecipato circa 4mila persone su 9mila iscritti complessivi. Ora Rifondazione, si vocifera, potrebbe bloccare l’uso del simbolo.

La discussione dentro Liberi e Uguali (sempre per partiti separati, non sia mai che ci si vede tutti insieme) nel frattempo prosegue con un irrisolvibile tira e molla fra chi vuole allearsi con Potere al popolo e De Magistris e chi guarda al Pd di Zingaretti. Nel Lazio, dove siamo sempre un passo avanti, un nutrito gruppo di dirigenti e amministratori vari è già salito sul carro del presidente della Regione, con la benedizione dell’assemblea di Mdp. Mi auguro che qualche zelante funzionario non mi chieda di fare i nomi, basta usare google e leggere i documenti approvati. Per farla breve: secondo quelli di Sinistra italiana Leu non si farà per colpa di Mdp, per quelli di Mdp Leu non si farà per colpa di Sinistra italiana. Tutti d’accordo solo nel dire che le colpe maggiori le ha Grasso. Che magari non sarà proprio un leader di prima grandezza ma, francamente, mi sembra meglio della marmaglia assetata di strapuntini che lo attornia. Liberi e Uguali, diciamolo, è morto.

Insomma, la situazione è al limite della farsa. Unica nota positiva di questi giorni è che le grida di allarme e di dolore che sento sono (forse) meno isolate e, con molta lentezza, si stanno mettendo in rete. Diverse zone di Roma, della provincia, il coordinamento milanese, molti compagni toscani hanno cominciato ad agitarsi in forma meno isolata e stanno provando a costruire un appuntamento comune. Un primo tentativo ci sarà a Roma il 20 ottobre (cliccando qui trovate il documento), ma sono molti gli spunti interessanti che si trovano in rete, come la petizione lanciata dal coordinamento del VII Municipio. Il percorso sarà lungo e l’esito è davvero non scontato. Siamo appena ai preliminari. L’importante è partire avendo, secondo me, poche ma chiare coordinate. La prima è spazzare via questi gruppuscoli dirigenti che ormai guardano soltanto alla propria salvezza e non riescono ad avere uno sguardo oltre l’oggi. Non sono cattivi, sono proprio poca cosa. Archiviamoli con decisione.

Resto pessimista e resto convinto che bisogna darsi un orizzonte lungo, evitando accelerazioni elettorali. E magari anche aprendo un confronto con quello che resta di Potere al popolo. Anche loro, se si sbarazzano davvero della zavorra di Rifondazione, sono un soggetto con il quale mi piacerebbe discutere. Da pari a pari. Sono anticapitalisti e antiliberisti, hanno in mente una forma di soggetto politico interessante, dove l’agire va di pari passo rispetto all’elaborazione ideale. Insomma una sorta di Syriza all’italiana. Perché non avviare un percorso comune di confronto per valutare se ci sono le condizioni per buttarsi alle spalle qualche divisione artificiosa? Io resto convinto che tutte le divisioni di questi anni siano il risultato di dirigenti litigiosi che appena vedono venir meno il loro ruolo si fanno il proprio partitino personale. Sarebbe il caso, lo so sono ripetitivo ma serve, di lasciarli a parlare da soli. Manco se ne accorgono secondo me. E di finirla con il classico “io con quelli mai perché vent’anni fa…”. Parlandosi potremmo scoprire di essere meno diversi di quello che sembra guardandosi da lontano.

Credo anche che nelle prossime settimane, però, si avrà un po’ di chiarezza in più. Inutile dilungarsi oltre adesso. E allora per questa volta la faccio davvero breve e vi lascio alle vostre beghe italiche. E’ molto dura abbandonare questo momento così effervescente e brillante dal punto di vista intellettuale, ma il dovere mi chiama: preparo le valigie e me ne vado a Cuba. Dove spero di non sentire parlare di voi. Ci vediamo fra 15 giorni.

Alle prossime Europee? Tutti al mare.
Il pippone del venerdì/71

Set 28, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

In queste settimane apparentemente silenziose in realtà la sinistra italiana si sta accapigliando per trovare una soluzione al tema dei temi. Non si parla di ambiente, di immigrazione, di politica della casa o dei trasporti, non vi preoccupate, ma semplicemente di come garantire la sopravvivenza di qualche parlamentare europeo. L’idea brillante è di fare una lista, ma alla fine vedrete che ne saranno almeno due, ovviamente unitarie, antagoniste, anticapitaliste. Non è una novità, quella dell’ammucchiatina dei residuati bellici degli anni ’90 da assemblare in contenitori dei quali si magnificherà per qualche mese il futuro unitario per poi dividersi il giorno dopo le elezioni. E come al solito saremo costretti a leggere l’ennesima sfilza di pensosi interventi di dirigenti e intellettuali che cercano di spiegarci per quale motivi gli elettori non ci votano.

C’è chi vuole fare una lista con Varoufakis, chi con Mélenchon, chi resta ancorato al Pse. Si cercano possibili leader, ora va di moda il sindaco di Napoli De Magistris, che dopo molti tentennamenti si sarebbe deciso a scendere in campo in prima persona, forse convinto dall’avvicinarsi della scadenza del suo secondo e ultimo mandato. Da parte mia, ho passato la scorsa domenica alla festa nazionale di Mdp. Ho ascoltato due dibattiti e il comizio di Speranza. Ne ho tratto due o tre impressioni che vi racconto come mi sono arrivate, senza troppe rielaborazioni. La prima: c’era molta gente ai dibattiti, zero nel resto della festa. Oddio non che ci fosse molto da vedere, giusto qualche stand per altro molto “essenziale”. Però è esattamente il contrario di quello che succede di solito nelle festa in piazza: molta gente a mangiare oppure nella parte commerciale, meno quelli interessati alla politica. Insomma, un appuntamento per soli addetti ai lavori. La seconda: proprio nel giorno in cui Grasso sui giornali parlava di stato di “stallo” di Liberi e uguali, il coordinatore nazionale di Mdp, nel comizio conclusivo della festa non ha nominato né Grasso né tanto meno Leu. Cancellati. La terza è che, delle discussioni a cui ho assistito, quella più attuale e legata alla concretezza dell’oggi è stata quella sul valore di Marx oggi, il dibattito, insomma, che avrebbe dovuto essere più intellettuale. E sicuramente è stata un’ora di buon livello, con spunti di livello universitario da parte degli oratori, ma è stata anche la più utile se ci si vuole calare nella realtà e tornare a fare iniziativa.

In estrema sintesi, comunque, tutti d’accordo nel porre l’accento sulla gravità della situazione attuale, nessuna indicazione o proposta per mettere un freno alla destra, per dare qualche segno di esistenza in vita. Il gruppo dirigente della sinistra nelle sue varie forme, dal 4 marzo in poi è intronato. Non trovo forme più eleganti per definirlo. Non che prima fossero poi tanto più svegli. Ma oggi il tracciato cerebrale è tendente al piatto assoluto.

L’analisi più lucida l’ho letta in una lettera al Manifesto di un gruppo di giovani, la sintetizzo così: non siete riusciti a fare un partito decente, non siete riusciti ad avviare un po’ di ricambio della classe dirigente, non siete nemmeno riusciti a fare un’analisi delle ragioni della sconfitta, adesso manco riuscite a mettere in piedi un’opposizione decente al governo sempre più Salvini e sempre meno Di Maio. Conclusione secca: dimettetevi in blocco, pensionatevi. Dieci minuti di applausi.

Ora, nessuno probabilmente li ascolterà. Non si prenderanno neanche la briga di dare una risposta. Continueranno nell’insulso dibattito fra dirigenti che non riusciranno mai a trovare un minimo comune denominatore. Io sono convinto che sarebbe semplice: basterebbe partire dalle questioni su cui ci si trova tutti d’accordo e lasciare aperte quelle in cui non si arriva a una posizione unitaria.  E invece non vogliono trovare un accordo che ponga le basi per un nuovo partito. Nel Pd, che secondo molti resta l’unica scialuppa da non abbandonare, fra Renzi e Zingaretti si dibatte all’ultimo sangue per stabilire chi dei due sia più antigrillino. Per le europee si parla di un fronte unico da Macron a Tsipras (che ha già detto no) e Renzi che come al solito si porta avanti con il lavoro firma il manifesto del leader francese. Nell’arcipelago variegato extraPd si dibatte su chi bisogna escludere per fare una lista di sinistra vera. Con tutti gli “anti” del caso.

Personalmente mi annoio e penso sinceramente che forse sarebbe il caso di prendere la famosa strada del bosco. E questa volta niente tenda, che si ha una certa età e di inverno fa pure freddo e c’è molto umido. Si fa una bella casetta di legno, con tanto di camino. Comincio a pensare che forse sarebbe bene stare fermi un giro, eliminando l’ansia da prestazione elettorale, la corsa al seggio verso Strasburgo, la lettura affannosa dei sondaggi che ti danno sempre in bilico sul quorum. Questa volta probabilmente non lo supereremo, tra l’altro. Eliminata l’urgenza, forse, ci si potrebbe dedicare a questa scomposizione e riaggregazione della sinistra di cui tutti parlano ma che nessuno ha il coraggio di cominciare visto il prossimo appuntamento elettorale. Certo, si lascerebbe libero il campo alla destre e a Grillo, ma viene il dubbio che forse con due o tre liste raccogliticce non solo il suddetto campo sarebbe altrettanto libero, ma anche arato e pronto al raccolto per Salvini e soci.

Forse, il dubbio me lo consentirete è legittimo, sarebbe bene cominciare a piantare qualche seme che vada oltre l’urgenza elettorale. Sarebbe bene mettere qualche radice più forte, far crescere una pianticella nuova. Vi lascio con questa domanda. Non credo che nessuno abbia la risposta, ma secondo me è più interessante rispetto allo stabilire se Zingaretti sia un argine ai Cinque Stelle o no.

Nel frattempo il governo Salvini si prepara a una legge di stabilità pericolosa: aumenta il deficit, la nota di aggiornamento del Def parla del 2,4 per cento, con buona pace del ministro Tria costretto alla resa. Sarebbe anche interessante se le risorse in più fossero destinate agli investimenti. E invece no, tutto sulla spesa corrente. Dei tagli agli sprechi, dei fondi per mettere in sicurezza il territorio nessuna traccia. Ci vorrebbe un partito che facesse opposizione sociale. E invece pensano a garantire qualche poltrona. Auguri.

Indovina chi viene a cena?
Il pippone del venerdì/70

Set 21, 2018 by     1 Comment     Posted under: Il pippone del venerdì

Anche diversi autorevoli commentatori, perfino qualche maître à penser, dopo una lunga e approfondita analisi si sono accorti della fase di implosione che sta vivendo il Pd. I più acuti sono perfino arrivati alla conclusione che non è tanto questione di questo o quel segretario, ma che proprio non si tiene insieme. Ci tengo a far notare come noi, che siamo comuni mortali e non abbiamo lunghi titoli accademici, c’eravamo arrivati tempo fa. Senza farla troppo per le lunghe, per chi quel partito l’ha vissuto a lungo, perfino con ruoli dirigenti, non è stato troppo difficile capire che due culture politiche così differenti possono allearsi ma non riescono a convivere nello stesso contenitore. Non è soltanto una questione di linea politica, di essere più o meno di sinistra, ma di cultura. Basta pensare al tesseramento. Alle tessere fatte a pacchetti per contarsi ai congressi  rispetto a quello che era l’iscritto al Pci. Acqua e olio, si potrebbe dire. Anche se il paragone in realtà regge poco perché nel nostro caso la cultura politica ex dc ha inglobato fino a farla sostanzialmente scomparire la cultura politica ex comunista.

Insomma, non servivano menti così elevate, né analisi epistemologiche approfondite per arrivare a questa conclusione. Se  in più ci si mette il corto circuito creato dal renzismo, che in un certo senso è riuscito a riunire il peggio delle due culture, si capisce anche come, oltre all’amalgama impossibile, si sia arrivati alla attuale farsa delle cene contrapposte. Che poi, questa abitudine di fare i patti politici a cena non mi ha mai convinto. A cena si mangia e si beve. Gli accordi sarebbe bene farli nelle sedi proprie. Si potrebbe anche finire qui, lasciando all’oblio della cronaca che si cancella nello spazio di un click, questa ridicola vicenda delle cene contrapposte. Non prima, però, di aver rilevato quanto fosse “antipatizzante” l’originale proposta di Calenda, perfetta esemplificazione del cosiddetto “partito ztl”: ci vediamo in quattro ai Parioli e decidiamo per tutti. ‘Na roba che ti fa perdere un paio di centomila voti solo con il titolo dei giornali. C’è da dire però che anche la risposta di Zingaretti (prendo qualche idealtipo e lo metto a tavola in trattoria) è sembrata un po’ raccogliticcia. Lo staff che segue la comunicazione dell’aspirante leader del Pd deve cercare di fare di meglio che riciclare format che già con Veltroni suonavano un po’ finti.

Archiviamo dunque il Pd e le sue cene? Magari. Ci vorrà anche qualche mese, ma forse alla fine anche i suddetti commentatori ci arriveranno: non solo il Partito democratico non riuscirà mai a essere unitario per la sua stessa natura, ma la sua esistenza stessa impedisce, di fatto, che in Italia ci possa essere una sinistra realmente competitiva con la destra.

Le ragioni sono essenzialmente due. La prima è evidente: quel partito, con tutti i suoi difetti e la sua crisi irreversibile, comunque sia è un contenitore da sei milioni di voti. Un grande inganno, insomma, che tiene prigioniero un bacino elettorale ancora decisamente di sinistra. Una sorta di sindrome di Stoccolma su scala italiana, in pratica. A torto o a ragione, non è questo il dato importante, l’elettore italiano ritiene che quella sia l’unica esperienza di sinistra credibile e in grado di essere sfidante nei confronti della destra. Non dico che questa situazione sia irreversibile, anzi il progressivo travaso di voti dai Democratici verso l’astensione e – forse ancora di più – verso i 5 stelle, ci dice il contrario. Eppure restano quei 6 milioni di cittadini, secondo me ancora legati da un voto ideologico per il quale il “Partito” si vota comunque. Con questa realtà tocca farci i conti.

La seconda è forse più sottile. Il Pd, in realtà, resta anche il partito di riferimento di chi lo critica da sinistra. Basta guardare con occhi attenti la vicenda di Mdp. Quel pezzo di gruppo dirigente che si è separato dai Democratici oramai quasi due anni fa, in realtà si considera ancora una corrente interna. Poco importano le parole o le sigle messe in campo. Siccome sono convinti che il problema fosse Renzi, aspettano soltanto che il fiorentino venga messo da parte una volta per tutte. Magari non torneranno subito a casa, magari si acconceranno a fare qualche listarella civetta per far finta di aver fatto un nuovo Ulivo. Ma la strada per loro è segnata. Proprio non ci riescono a immaginarsi autonomi, liberi di percorrere strade differenti. Aspettano comunque di capire cosa succederà nel Pd. Poco importa che i democratici che si definiscono più di sinistra, Zingaretti ad esempio, li considerino quasi un peso, preferendo affidare il lato “radicale” della coalizione a figure considerate più attraenti, come Boldrini e Smeriglio. Loro stanno lì, seduti sul loro strapuntino ad aspettare un cenno, un segnale di benevolenza. E intanto, come in un gioco degli specchi con il Pd, non si rendono conto di offrire un altro contributo alla disperazione di quel popolo di sinistra che si è rotto le scatole di essere considerato “carne da elezioni” o poco più.

Questo, diciamolo con chiarezza, ha piombato le ali di Liberi e uguali fin dall’inizio. Non solo e non tanto l’essere percepiti come troppo vicini al Pd, ma l’essere, di fatto, una sua succursale costruita soltanto in attesa di tempi migliori. Nel nostro piccolo questo rischio lo abbiamo denunciato per tempo, non da soli. Ma l’attuale gruppo dirigente di Mdp questo è in grado di fare, non altro. Né, del resto, si va più lontano con quelli di Sinistra italiana, abituati anch’essi a definire se stessi in funzione del Pd. Non dimentichiamo che Sel (più o meno la provenienza è quella) non nasce come soggetto autonomo ma come gamba sinistra della coalizione. Le origini quelle sono, non se ne esce. E ha ragione Grasso a dirlo chiaramente: i dirigenti non vogliono la trasformazione di Leu in un partito, contro quello che pensa buona parte della loro base.

Per dirla in breve, tutti noi, tutti insieme, non saremo in grado di fare una cosa davvero differente fino a quando l’implosione dei democratici non sarà completa. Allora, solo allora, si libereranno le energie necessarie e ripensare una forza di sinistra. Inutile, quindi, agitarsi troppo, questa la drammatica conclusione a cui volevo arrivare, basta mettersi a sedere, sperando che Salvini e soci facciano in fretta a spazzare via quello che resta. Sarò anche cinico, ma, come sempre ve la dico come la penso. Una cena alla volta, non ci vorrà molto tempo. Nel frattempo studiamo, documentiamoci, lavoriamo sui territori, teniamoci allenati, torniamo magari a parlare di questioni comprensibili ai più e non solo dei villini liberty da difendere a tutti i costi. C’è un popolo che non riesce più a mettere insieme il pranzo con la cena. C’è un paese che crolla letteralmente. La sinistra esca dal ghetto dorato dei centri strorici: deve tornare in sintonia con il sentire profondo di questo Paese, tornare ad essere popolare.  Invece delle cene con le posate d’argento, invece dei tavoli a invito, tocca ripensare alle tavolate di un tempo.

Il centrosinistra è morto il 4 marzo.
Il pippone del venerdì/69

Set 14, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Io credo che qualsiasi persona sana di mente dovrebbe arrivare facilmente a questa conclusione: il voto del 4 marzo ha sancito la morte del centrosinistra come lo abbiamo conosciuto dagli anni ’90 in poi. Tutte le forze che, in un modo o nell’altro, possono essere racchiuse in questo campo superano a stento i 9 milioni di voti. Il Pd, ovvero quella formazione politica che addirittura ha rappresentato il tentativo di racchiudere la galassia di centrosinistra in un solo partito supera a stento i 6 milioni di voti. Credo sia facile capire che la somma degli elettori di sinistra che ha preferito l’astensione o ha votato i 5 stelle sia più numerosa.

Non è la sconfitta di Renzi (da un lato) o di Grasso (dall’altro). E’ la fine di una stagione politica durata 30 anni. Riproporla in forme più o meno nuove, parlare della necessità di superamento delle attuali aggregazioni per riassemblarle secondo schemi conosciuti potrà anche sembrare rassicurante, ma significa non aver capito la lezione fondamentale che ci hanno dato gli elettori. In questa stagione non c’è stata una fase positiva seguita a una negativa. E’ stato un lento scivolamento verso l’irrilevanza attuale. Abbiamo fatto da sponda a tutte le tendenze peggiori. E così abbiamo accompagnato lo smantellamento dei partiti, dei corpi intermedi, la destrutturazione del mercato del lavoro. Abbiamo inseguito Bossi sul federalismo, Berlusconi sulla comunicazione, i 5 stelle sull’attacco alle istituzioni. Certo poi Renzi e il Pd hanno dato il colpo di grazia, impresso un’accelerazione decisa verso la disfatta. Questi anni hanno senza dubbio rappresentato il culmine di quel leaderismo senza partiti che però il Pd, fin dal suo statuto in cui si confonde il plebiscito con la partecipazione, aveva ben iscritto nel suo Dna.

Stabilito questo, dovremmo anche avere ben chiaro che da un lato non si può tornare indietro riproponendo all’infinito riedizioni dell’Ulivo (badate bene: non basta un nome nuovo se la zuppa è sempre la stessa), del partito dei sindaci, oppure appellandosi al “fare” contornato da un civismo finto e stanco, soprattutto se non si capisce neanche bene cosa dovremmo fare, ma dall’altro non si può neanche continuare a inseguire l’avversario sul suo campo. Non vorrei che dopo la sinistra neoliberista ci avventurassimo sulla strada scoscesa della sinistra sovranista. I sintomi ci sono tutti. Taluni provano addirittura a tirare in ballo il patriottismo di Togliatti quando basterebbe far mente locale per ricordare in quale situazione ci trovassimo allora. Che poi qualcuno mi dovrebbe anche spiegare quale sarebbe questa famosa identità nazionale italiana da difendere, visto che siamo un popolo frutto di una storia di contaminazioni. La stessa posizione geografica italiana ci dovrebbe suggerire quanto meno un po’ di cautela prima di avventurarci in dotte dissertazioni su questi temi.

Né basta stare lì mangiare i famosi popcorn evocati dal fiorentino, facendo il tifo un giorno per lo spread, l’altro per Macron e la Merkel. Ai teorici di questa tattica suicida vorrei solo rivolgere una domanda: ma una volta finiti sotto il fuoco incrociato dei mercati e ripiombati nell’ennesima crisi, che pensate che gli italiani daranno fiducia a chi faceva il tifo contro di loro?

Ribadisco la premessa iniziale, a me sembra che questi ragionamenti siano talmente semplici e confortati da evidenze talmente lampanti che non ci si dovrebbe neanche perdere tempo. Dal 5 marzo avremmo dovuto far partire un grande lavoro di ricerca e di costruzione. In questi mesi – non da solo – mi sono sgolato su questo e non ci torno più. Se non proprio dal 5 marzo, magari un mesetto dopo. E invece, mese dopo mese, mi pare che ognuno si stia rinchiudendo a casa sua. Quasi che i nostri leader fossero obbligati a ripercorrere sempre le stesse strade rifacendo sempre gli stessi errori. Basta pensare al dibattito (c’è è sotterraneo e riguarda pochi eletti, ma c’è) che continua a martoriare quello che rimane di Liberi e Uguali. Da un lato c’è chi sente fortissima l’attrazione del “ritorno a casa”, favorito dalla scesa in campo di Nicola Zingaretti nel Pd, dall’altro chi dice: facciamo pure un partito, ma lavoriamo da subito per una lista di sinistra insieme alle altre forze “radicali” per le elezioni europee. Insomma l’alternativa sarebbe fra tornare (di fatto) nel Pd, costruendo magari una lista civetta che faccia da ponte all’operazione, e mettere insieme l’ennesima lista raccogliticcia, in cui si parte dicendo che va fatta dal basso e poi alla fine decidono i soliti quattro chiusi nelle solite stanzette.

L’ho un po’ semplificato, ma il senso è questo. D’altro canto non possiamo neanche permetterci il disimpegno in attesa nell’arrivo di un quale Godot. Non ne arriveranno e anche nel caso in cui trovassimo il più capace del leader non avremmo fatto alcun passo in avanti nella soluzione del problema. E allora torniamo appunto al problema: ovvero la necessità di avere una forza politica organizzata della sinistra in Italia. Esiste in tutto il mondo non si capisce bene per quale maledizione noi non possiamo averla. Io continuo ad essere convinto che la ricetta sia una sorta di “ritorno in avanti”. Ovvero ripartire dai valori tradizionali della sinistra calandoli nella realtà di oggi. Farli vivere con azioni concrete, ricreando una comunità solidale sulla quale costruire una classe dirigente da presentare agli elettori. Una classe dirigente che si deve (ri)formare nella lotta, nell’iniziativa e nel confronto politico non nei salotti né tantomeno all’ombra di qualche leader. Quella attuale non va. I vecchi sono usurati dalle sconfitte, non si può cambiare il copione senza interpreti nuovi. E i giovani sembrano intronati, non ci sono proprio abituati a essere protagonisti, sono figli della stagione delle batterie di allevamento di polli tutti uguali. E di signorsì non ne abbiamo bisogno.

E poi sarà anche vero che la società è cambiata, i tempi sono frenetici, si discute solo sui social. Ma io credo che i nostri valori siano sempre non solo attuali,  ma – e forse a maggior ragione – rivoluzionari. Tutto sta nell’abbandonare la subalternità che ci ha caratterizzato negli ultimi 30 anni e tornare a pensare, a essere popolari e non populisti. In una sola espressione, torniamo a fare la sinistra. Anche così non sarebbe lavoro di un giorno. Perché sono più facili e rassicuranti gli slogan di un Salvini, che promette panem et circenses per tutti. Ma del resto noi non eravamo quelli che “veniamo da lontano e andiamo lontano”? Tutto sta nel rimettersi in cammino senza paura. Magari ripartendo dal confronto con i Cinque stelle, lavorando sulle loro contraddizioni che stanno man mano emergendo. Non si può, del resto far finta di nulla. Un bel pezzo del nostro elettorato sta lì, facciamocene una ragione.

Ho visto Salvini e mi sono detto…
Il pippone del venerdì/68

Set 7, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Intanto ben ritrovati, tutto bene? Passato bene agosto? Vi siete riposati e siete pronti a un nuovo anno politico? Beati voi, per quanto mi riguarda non mi sento pronto per niente. Anzi, se fosse possibile vorrei proprio  emigrare. Già il ritorno a Roma è come sempre traumatico. Passare in poche ore da un posto dove la mattina lucidano il marciapiede ai nostri abituali cumuli di immondizia non è facile. Per di più accendi un qualsiasi tg e ti chiedi se l’Italia sia sempre stata così e tu hai vissuto in una specie di bolla isolata o se sia drasticamente peggiorata negli ultimi decenni.

Ma la storia che volevo raccontarvi, tanto per tirarvi su il morale, è un’altra, anche se molto collegata. Partiamo dall’inizio. Facendo parte della razza di quelli che si fanno del male anche in vacanza, verso metà mese, insieme alla mia compagna abbiamo pensato bene di andare a sentire un’intervista a Matteo Salvini. Per di più l’intervistatore era Augusto Minzolini. Il luogo è uno di quelli storici di Marina di Pietrasanta, il Caffè della Versiliana, da ben 39 anni teatro di interessanti confronti estivi aperti a politici, uomini di cultura e di spettacolo di tutti gli orientamenti. Il cartellone di questa stagione, a dire il vero, mi è sembrato uno po’ spostato a destra. Solo un po’.

Intanto: folla delle grandi occasioni. In un’area con 300 posti a sedere ci saranno state almeno 2mila persone. Viste anche altre volte, non è da record, ma fino a poco tempo fa Salvini da queste parti non lo facevano proprio parlare. Anche questo è significativo. E’ lui il personaggio del momento, su questo davvero nessun dubbio. Il ministro dell’Interno arriva puntualissimo, applausi – moderati – e parte l’intervista, si fa per dire. Sì, perché tutto è meno che un’intervista. Già ce ne mette del suo Minzolini, uno che da tempo non è più il pungente giornalista che non guarda in faccia a nessuno e ha preferito trasformarsi un accomodante uomo di corte. Ma poi Salvini… che delusione. Non riesce proprio ad andare oltre il tuitte. Non risponde alle domande, già di per sé mielose e fa solo battutine. Le solite: pagare meno tasse, meno controlli agli imprenditori, via gli immigrati.

Per la cronaca, nei giorni successivi, proprio sulla spiaggia di Marina di Pietrasanta respingerà sdegnoso un venditore di colore che evidentemente non sapeva con chi aveva a che fare. Per fortuna Salvini non è ancora noto urbi et orbi, insomma. Ma torniamo alla storia principale: abbiamo resistito una mezz’ora, infastiditi da un lato dalla pochezza dell’oratore, dall’altro da una platea composta a occhio da una grande maggioranza di piccoli imprenditori del nord, vero brodo di coltura della Lega. Una platea che pendeva letteralmente dalle labbra di questo conducador de noantri.

Come siamo ridotti male, ragazzi. Già con Berlusconi avevamo toccato il fondo, ma il fascino era davvero differente. Poi ci è toccato Renzi e pensavamo che il fastidio per la politica italiana avesse di nuovo toccato il fondo. Ma con Salvini si è davvero continuato ostinatamente a scavare. Non tanto per i contenuti che esprime. Ma per la totale assenza di contenuti. Con Berlusconi e Renzi c’era un’idea di fondo, che si poteva apprezzare o meno ma c’era: hanno rappresentato due diverse declinazioni del liberismo internazionale. Salvini no. Non ha un’idea guida. Tira fuori soltanto – e lo fa con grande fiuto – i temi che gli portano consensi. Il sovranismo lo usa fino a quando gli conviene. Si guarda bene dal fare il ministro dell’Interno, si limita a una sorta di campagna elettorale permanente che lo porta a girare costantemente il nostro paese. Sarebbe interessante sapere quante ore passa al Viminale. Credo poche. Meglio il comizio continuo, sempre sugli stessi tasti, sventolati abbondantemente anche in Versiliana. Ogni opinione differente è un oltraggio. Ogni iniziativa avversa, sia pur della magistratura un complotto e al tempo stesso una medaglia da appuntare sulla sua camicia da battaglia. E’ il sistema che si oppone al cambiamento. Sull’ennesimo giudizio contrario alla Lega nella vicenda del sequestro dei fondi si è appellato addirittura alla Bibbia.

Insomma, il personaggio del momento è questo qui. Bravissimo a dire agli italiani quello vogliono sentirsi dire in un determinato momento. Capace perfino di far scordare a tutti che la Lega al governo non è poi ‘sta gran novità, basta pensare che la legge sull’immigrazione si chiama Bossi-Fini. La cosa a cui volevo arrivare però non è un mero giudizio su Salvini. Che non sia il mio politico preferito non mi pare una gran novità. Volevo porvi (pormi) la domanda angosciata, che mi gira in testa da quel pomeriggio alla Versiliana: se è vero che questo tizio è davvero poca roba – consistenza culturale zero, capacità oratoria modesta, mera capacità di annusare il vento – come fa ad avere consensi in crescita, ormai stabilmente oltre il 30 per cento?

La domanda, se ci pensate bene, è fondamentale per due ordini di motivi: il primo è che la risposta è necessaria per capire come mai siamo arrivati a questo punto. Il secondo perché da questa risposta dovremmo partire per riuscire a provare quanto meno a opporsi a questa ondata che sembra travolgere tutto. Credo che di questo parleremo ampiamente nelle prossime settimane. Questa volta la finisco qui, meglio tornare a ragionare gradualmente che il cervello già di per sé non è un granché, l’agosto l’arrugginisce ulteriormente.

Da Roma all’Italia, come si blocca un Paese.
Il pippone del venerdì/67

Ago 3, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Chi mi segue sa come la penso su Roma e sulla sindaca Raggi, sull’immobilismo che sta riportando questa città agli anni ’80, quelli della stagione finale delle giunte di pentapartito, in cui tutta la città era come avvolta da una cappa grigia. Una delle città più famose del mondo, con una ricchezza storica senza paragoni, era ridotta a una cittadina di provincia. Zero vita culturale, zero progetti di lungo respiro, zero manutenzione. Poi arrivò il ’93, la vittoria di Rutelli, una giunta comunale che fece ripartire la capitale. Con il nuovo sindaco e poi ancora di più con la vittoria di Veltroni, Roma tornò ad essere una metropoli di livello internazionale. Per i progetti in campo, per gli eventi che riempivano tutto l’anno. Siamo andati avanti fino a l’altro ieri con i progetti pensati in quella stagione. Serviva la fase due, realizzare una città più amica di chi ci abita e di chi la visita. Per qualità dei servizi, dei trasporti innanzitutto. Con Alemanno, al contrario, siamo tornati al grigiore, poi è arrivata la stagione di Marino e pur nel caos qualche timido segnale in questo senso c’era stato. Oggi la Raggi e l’ottuso senso della legalità di facciata a cui fanno appello i cinque stelle ha letteralmente paralizzato la città.

Faccio solo l’esempio della cacciata (per ora fortunatamente soltanto minacciata) della Casa internazionale delle donne. Una esperienza unica (e non solo in Italia), uno spazio che il Comune dovrebbe usare come fiore all’occhiello, rischia invece lo sfratto per una questione di canoni arretrati contestati dall’associazione e non pagati. Hanno provato a trovare una soluzione ma si sono scontrati con la legalità dei cinque stelle. La legge dice che dovete pagare, non avete pagato ve ne dovete andare. Poco importa quello che fai, il ruolo che hai nella città. Paradossalmente non viene sfrattata invece Casapound che occupa prestigiosi stabili nel centro di Roma. Evidentemente non avendo una convezione con il Campidoglio la sindaca non se ne occupa. Diciamo così.

Questo, ovviamente è soltanto un esempio. L’Estate romana, la straordinaria intuizione di Renato Nicolini, poi riportata agli antichi fasti da Gianni Borgna, non esiste più. Solo qualche bancarella piazzata qua e là. La stessa esperienza del cinema in piazza ha subìto un forte ridimensionamento. Anche qui la vicenda dei “ragazzi del cinema America” è esemplare di come agisca questa amministrazione. L’associazione si inventa una formula vincente, con le proiezioni in piazza San Cosimato. Tutto gratis, partecipazione di attori e registi per commentare insieme i film. Un gran successo, fino a quando l’assessore alla cultura non decide di mettere a bando l’iniziativa. Insomma, per realizzare una mia idea devo partecipare a una gara con altri. Se ci pensate bene è una follia. Anche perché di piazze ce ne sono tante, se altri soggetti avevano in mente di realizzare arene estive potevano farlo altrove. Nulla da fare, la legalità impone di mettere tutto a bando. Alla fine il bando è andato deserto e il prode assessore è dovuto andare dai ragazzi del cinema America a testa bassa e tutto si è risolto. Ma anche questo è sintomatico di quanti danni produca una pedissequa applicazione delle regole disgiunta dal buon senso.

Di progetti di lungo periodo non se ha traccia, della manutenzione della città non ne parliamo proprio.

Scusate se sono stato un po’ lungo, ma – lo dico soprattutto ai non romani – serviva per far capire quello che adesso rischiamo in Italia. In aggiunta al razzismo di Salvini, all’incompetenza di qualche ragazzotto messo a guardia di ministeri importanti, c’è anche questo. Il governo Salvini-Di Maio sta bloccando tutto. Che si sia d’accordo o meno sulla Tav, sull’Ilva, sul Tap, una decisione si dovrà pur prendere. E invece no. Stanno studiando i dossier. Calcolando che viviamo nel Paese più complicato del mondo, dove le leggi si sovrappongono e si smentiscono l’una con l’altra, con grande gioia di avvocati e tecnici vari, siamo messi male. Siamo sopravvissuti a tangentopoli e agli squali famelici della prima Repubblica, moriremo per la legalità di facciata dei Cinque stelle.

Sarà il caldo, sarà che ormai alle vacanze mancano ore e non più giorni, ma il senso di impotenza ormai prevale. L’unico provvedimento vero portato alle Camere in questi mesi è il cosiddetto decreto dignità. Un provvedimento messo in piedi da Di Maio per mettere un freno alla costante presenza mediatica di Salvini. Un decreto che contiene norme positive, come l’aumento degli indennizzi in caso di licenziamenti ingiusti o le norme che rendono meno convenienti i contratti a termine, ma alla fine sarà usato per reintrodurre i voucher. Insomma una roba né carne né pesce che non servirà a nulla. Senza dimenticare che quando si è trattato di votare la reintroduzione dell’articolo 18, sia pure limitato, i Cinque stelle hanno votato contro, alla faccia delle promesse della campagna elettorale. Su tutto il resto siamo, lo so mi ripeto, alla paralisi totale. Il tutto coperto dalle strillate di Salvini e soci con cui solerti colleghi riempiono giornali e Tg.

Ora, quanto durerà questo Governo non è dato saperlo. Di certo c’è che in queste condizioni rischiamo di arrivarci con un Paese più incattivito e ancora più stremato di quanto sia attualmente.  Non ci possiamo permettere la paralisi con i nostri conti e con l’economia che corre tutto intorno a noi. Ho sinceramente timore di cosa possano combinare questi cialtroni quando dovranno mettere mano alla legge di stabilità. Perché lì bisogna fare i conti con i numeri, non basterà l’oratoria volgare ma efficace dei leghisti a coprire il vuoto. Sarebbe allora il caso di attrezzarsi, di cominciare a fare opposizione, a costruire pezzi di alternativa. Anche questo l’ho già detto e scritto. Non che pretendo che qualcuno risponda. Ma il silenzio continua a essere totale. Si fanno polemiche sul nulla, non si mette in campo una pur minima iniziativa alternativa. Non è che basta presentare qualche emendamento scritto bene in parlamento. Stanno ancora giocando agli statisti, ballano sull’orlo del burrone senza accorgersene. A settembre, solo per dirne una, ci saranno le feste nazionali di Articolo Uno e di Sinistra Italiana. Farne una sola di Liberi e uguali? Eppure mica ci vuole un genio secondo me.

E insomma, non la faccio lunga e vi lascio con questo messaggio angoscioso. Non riesco a essere ottimista: servirebbe una sorta di calcio-mercato nella politica. Potremmo prenderci un Corbyn, uno Tsipras, un Sanders. L’unico problema sarebbe piazzare i nostri. Me li immagino ai giardinetti a dare da mangiare ai piccioni. Ma purtroppo rimarrà un sogno. Intanto, cari ragazzi, io me ne vado al mare. Ci vediamo a settembre.

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