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Giustizialisti o garantisti? Dipende dai giorni.
Il pippone del venerdì/100

Mag 10, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Premessa doverosa: siamo arrivati a quota 100. Francamente, conoscendomi, non ci credevo quando sono partito. Nei giorni in cui decisi di scrivere questi “pipponi” mi ero convinto della necessità di dare un po’ di ordine alla mia presenza sui social e allora pensai di fare una serie di rubriche, appoggiandomi sul sito che nel frattempo avevo un po’ dimenticato. Con il tempo è rimasto solo il pippone, quella da cui ero partito. È nato come una specie di sfida: intanto a me stesso, per testare la mia capacità di vincere la pigrizia da cui troppo spesso sono affascinato. E poi alle leggi dei social. Quelli bravi vi diranno che sui social vanno messi contenuti brevi, per lo più immagini, dal martedì al giovedì, ore centrali della giornata. E io faccio una cosa lunga, senza o quasi immagini, che esce il venerdì, possibilmente all’alba perché poi mi tocca lavorare.

Non andavo in cerca di popolarità o di grandi numeri di lettori, insomma. In realtà, però, ho scoperto che il pippone ha un suo pubblico, sia sul mio sito che su altri che regolarmente lo pubblicano. Mi succede perfino di essere riconosciuto in assemblee e iniziative politiche varie. La mia vanità ne gode tantissimo, lo confesso. Insomma, e la finisco qui con questa tirata auto celebrativa: il pippone nasce come strumento per riordinare le idee e provare a farle circolare, è diventato, nel suo piccolo un qualcosa che fa opinione. Una strana storia.

Veniamo al dunque: sono settimane curiose, in cui i ruoli si capovolgono con repentina rapidità. Se fossimo un popolo serio avremmo già mandato a quel paese buona parte dei governanti e dell’opposizione. Invece stanno ancora lì. Gente che si è sempre detta giustizialista come i 5 stelle diventa ultragarantista quando si tratta di indagini che riguardano qualcuno dei loro, poi tornano addirittura forcaioli nel caso del sottosegretario Siri. Uno che ha soltanto un avviso di garanzia, pure abbastanza fumoso, e viene mandato via a furor di Di Maio. Salvini, al contrario, fa il forcaiolo nei confronti della presidente della Regione Umbria, Pd, indagata per una storia di concorsi che sarebbero truccati, poi torna ipergarantista nei confronti del suo fidato sottosegretario. Per non parlare del governatore Fontana, anche lui indagato, ma difeso a spada tratta dai leghisti. Il ministro dell’Interno, nei giorni scorsi, ha addirittura evocato il complotto, come fosse un Berlusconi qualsiasi,  le famose toghe rosse, che adesso invece sarebbero penta stellate, vorrebbero colpire il suo partito perché dato molto alto nei sondaggi. Il Salvini torna poi legalista all’eccesso lanciando una durissima campagna contro  i negozi che vendono – legalmente – la canapa light e tuona contro le “droghe che rovinano i nostri figli”. Non risulta un impegno così accanito nelle piazze dove spacciano mafia e camorra.

Anche la vicenda di Casal Bruciato, a pensarci bene, rientra in questo spettro di paradossi: succede che il ministro dell’Interno (sempre lui) decida di chiudere i campi rom. Devono integrarsi nella nostra società oppure andarsene, questo il secco messaggio che gira ormai da mesi. Il Comune ha delle case da assegnare e loro, tutti come minimo cittadini dell’Unione europea, ci rientrano a pieno titolo. Per di più, avendo famiglie molto numerose, hanno anche punteggi molto alti, per cui sono ai primi posti delle graduatorie. Ogni volta che assegnano una casa a una famiglia rom, scoppia la rivolta. Ora è toccato a Casal Bruciato, ex periferia ultrarossa di Roma, dove per giorni Casapound ha fatto quello che voleva. Una vera e propria persecuzione violenta nei confronti di una famiglia di poveracci, spalleggiati da parte degli inquilini del palazzo. Non sono mancate minacce odiose, perfino di stupro nei confronti delle donne. Roma democratica ha riposto, ma non è questo il tema. Il ministro dell’Interno, quello della legalità a tutti i costi, ha tollerato – e con lui prefetto, questore e tutta la catena di comando delle forze dell’ordine – che un movimento neofascista diventasse padrone di un quartiere intero per giorni. Salvo poi cercare di contenere il presidio antifascista. I camerati di Casapound, va ricordato, sono quelli che occupano uno stabile in pieno centro storico e che il solito ministro Salvini tollera e protegge. Solo adesso, finita la fase “calda” della protesta, è arrivata qualche denuncia a piede libero. Se la caveranno con poco, c’è da scommetterci.

Come il garantismo, insomma, anche la difesa della legalità non è proprio un principio assoluto, per la classe politica nostrana. Della destra abbiamo detto, ma anche Zingaretti sembra essere un po’ sballotato dagli eventi. In Umbria ci si comporta con fermezza, salvo poi fare marcia indietro, sulla situazione calabrese non si dice una riga. Certo, anche voler affermare un qualche tipo di principio generale è complesso. Quando si deve dimettere un politico, per di più eletto direttamente dal Popolo. C’è una legge, che prevede la sospensione o la decadenza in caso di condanne per un ventaglio molto ampio di reati.  Ma il tema è delicato comunque: perché un qualsiasi impiegato pubblico non deve avere la minima condanna e un sottosegretario può aver patteggiato addirittura una bancarotta fraudolenta? Negli anni passati abbiamo assistito a fitti lanci di sassi nei confronti di amministratori di sinistra per fatti che si sono poi rivelati bolle di sapone. Basta pensare agli scontrini del sindaco Marino, al caso della Idem, una icona dello sport italiano messa alla berlina per un errore nella dichiarazione dei redditi, peraltro sanati immediatamente pagando quanto dovuto. A Roma ci furono manifestazioni di piazza per chiedere le dimissioni del sindaco Marino.

Servirebbe, intanto, una giustizia rapida. Non solo per i politici, ovviamente, ma a maggior ragione per loro. Ci sono stati casi di personaggi di primo piano travolti da inchieste e poi assolti in tutti i processi. Errani e Bassolino, solo per citarne due.  Hanno scelto di dimettersi e difendersi da privati cittadini, ma la loro odissea è durata anni. Servirebbe insomma, un patto fra tutti i partiti: massima severità, in caso di ipotesi di reato contro la pubblica amministrazione dimissioni immediate a garanzia dello Stato, ma degli stessi indagati. Ma anche processi rapidi che permettano di stabilire con tempi umani la colpevolezza o l’innocenza.  Servirebbero anche partiti che selezionassero la loro classe dirigente, senza bisogno di arrivare ai giudici.

E magari servirebbe, ma questa è una speranza ancor più vana, una classe politica coerente e un elettorato più anglosassone, di quelli che non ti perdonano quando li prendi in giro. Poi uno si sveglia e si trova di fronte Salvini. Che volete fare… siamo il Bel Paese. Mille di questi pipponi a tutti!

Liste per le Europee, la grande truffa
Il pippone del venerdì/97

Apr 19, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Se volete incazzatevi pure e ditemi che uso termini violenti, ma secondo me è una vera e propria truffa. Mi ero ripromesso di non parlare di elezioni europee, di astenermi dalla bagarre fratricida di una campagna elettorale che si preannuncia, come ormai d’abitudine, tutta basata sull’individuazione del nemico (che è sempre il vicino di casa) e non sulla propria proposta. Siccome mi sono stancato di dire che ci vorrebbe una sinistra unita, che non servono a nulla i listoni che poi diventano listini, come non servono le ospitate in liste altrui, avevo deciso di tacere fino al 26 maggio, compreso. Seduto sulla classica sponda del fiume. Con la consapevolezza che il 27, comodamente appollaiato su quelle sponde, ci sarà da divertirsi.

Ma una cosa mi ha fatto salire la mosca al naso, pur in un periodo di grande calma interiore: la presa in giro sulla composizione delle liste. Ho avuto la ventura di seguire un po’ di conferenze stampa di presentazione, di leggere comunicati, commenti sui social dei soliti ultras che si sono già scatenati a più di un mese dal voto. E sono disgustato. Andrebbero denunciati per violenza di genere. Perché trovo che sia violenza l’uso delle donne che viene fatto in questi giorni. Tutti parlano di liste aperte alla società civile, liste femministe. C’è addirittura chi rivendica il fatto che “nella nostra testa di lista non ci sono segretari di partito ai primi posti, ma tante donne”.

Violenza di genere e raggiro dell’elettore. Perché questa volta l’essere in testa alla lista non conta nulla, se non fare da specchietto per le allodole. Si vota con le preferenze, non con le liste bloccate come alle politiche. Dunque l’ordine di presentazione serve soltanto a far vedere quanto è bella, aperta, civica e femminista una determinata formazione politica. Le magagne stanno sotto, fra i nomi messi in mezzo, di cui non ti accorgi fino a quando non arrivano i risultati degli scrutini. Sempre che poi si arrivi al 4 per cento, ipotesi in molti casi ben lontana dalla realtà. Senza quel famoso quorum tutto è vano: puoi mettere anche il nuovo Carl Marx in persona come capolista.

So che è roba da addetti ai lavori, ma provo a spiegarmi meglio: la campagna per le europee è una delle più complesse, anche se si possono esprimere più preferenze. Perché la circoscrizione elettorale è molto ampia. Quella dell’Italia centrale comprende Toscana, Lazio, Marche e Umbria. Per conquistare consensi, insomma, non basta essere la presidente di una favolosa onlus che però nessuno conosce o l’attivista di qualche movimento. Quello serve soltanto a guadagnarsi qualche titolo sui giornali radical chic. Bisogna avere una struttura ramificata, nei partiti più grandi bisogna essere sostenuti da una corrente di peso e, soprattutto, avere una grande disponibilità economica. Che nessuno provi a dire che al tempo di oggi si può costruire una campagna su internet quasi a costo zero. E che internet, per chi vuole usarla in maniera professionale, è gratis? Gli staff che studiano strategie e che poi ti seguono i social giorno e notte che lavorano per la gloria?

Che poi, scusate ma che male vi hanno fatto i vostri segretari di partito? Perché dire “questa volta non candidiamo i segretari”? Siete iscritti a quei partiti, che vi vergognate delle persone da cui siete diretti? E’ paradossalmente più apprezzabile Berlusconi che ci mette la faccia in proprio, magari esagera un po’ e fa il capolista quasi ovunque,  ma non si nasconde dietro candidature civetta. La verità è che nessuno vuole fare spazio a una nuova classe dirigente, cerca solo di proteggere quella esistente. Da destra a sinistra la musica non cambia. I campioni della preferenza ci sono tutti, già schierati ai nastri di partenza, pronti a triturare i nomi nuovi in una gara crudele. Gli unici nuovi che emergeranno davvero sono quelli scelti dalle correnti per il fisiologico ricambio che avviene a tutte le consultazioni. Gli altri sono una truffa, lo ripeto.

Se ci pensate bene, tra l’altro, ma che senso ha sbattere in Europa uno che non ha mai fatto politica nelle istituzioni? Già la nostra natura estremamente provinciale fa sì che spesso l’europarlamento sia visto più o meno come un parcheggio di lusso in attesa di tornare nell’agone politico nazionale. Mandiamoci pure uno che non sa nulla di come funzionano le istituzioni e siamo a posto.

Io ho da sempre un’idea vecchia della politica, nella quale la selezione della classe dirigente comincia nei quartieri dove i giovani si devono sporcare le mani e poi piano piano vengono promossi e inseriti nelle istituzioni. E da lì si percorre una vera e propria carriera, perché la politica deve tornare a essere una professione. Una professione controllata, prima ancora che dalla magistratura, dal partito a cui appartieni. Un tempo questa forma di controllo funzionava. Parlo sempre della mia esperienza, ma fino a qualche anno fa in campagna elettorale si parlava dei programmi del Partito (che per noi aveva decisamente la P maiuscola), ai candidati era addirittura vietata la campagna elettorale personale. E per scoprire le mele marce non c’era bisogno di aspettare le sirene e gli avvisi di garanzia. Fino alla fine degli anni ’80, non secoli fa.

L’ho già scritto più volte e lo ripeterò fino alla noia: servono i partiti per far funzionare la democrazia. Partiti veri, con regole trasparenti, dove ci si confronta, ci si scontra e si decide. Si partecipa. Luoghi di formazione e lotta. Altrimenti continueremo a ritrovarci una stuolo di incompetenti ma onesti, farabutti molto capaci, ladri e pure inetti. E non so quale sia l’ipotesi peggiore. A leggere le cronache di questi giorni spesso le categorie si sovrappongono.

Siamo quasi a Pasqua e ormai avrete tutti la testa alla tornata di pranzi e scampagnate che vi aspetta fra poche ore. Quindi vi lascio prima del solito, questa settimana. Non fatevi fregare da questi ominicchi, e dalle vetrine scintillanti: scegliete un candidato capace, visto che c’è la preferenza multipla, fate almeno una coppia uomo donna, siate sordi agli appelli ai voti utili, il voto davvero utile è il voto scelto con la testa. Dal 27, poi, si potrà ricominciare a ragionare di politica.

Il Paese dei timbri, delle carte e del protocollo.
Il pippone del venerdì/95

Apr 5, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Ci sono settimane in cui il pippone mi viene quasi naturale e settimane in cui invece faccio una gran fatica a scegliere l’argomento. Ora, la tentazione di appuntare ancora l’attenzione sulle emozionanti vicende della sinistra nostrana, lo confesso, sarebbe fortissima.

E’ stata una settimana densa di avvenimenti epocali. Riassumiamo quelli essenziali. I militanti di Diem25, movimento nato per cambiare l’Europa, hanno deciso di non aderire a nessuna delle liste nascenti per le elezioni di maggio, le europee. Si concentreranno sulle amministrative. Intanto nella consultazione lanciata da Rifondazione e Sinistra italiana per la scelta del simbolo, i militanti hanno scelto un logo dove sono presenti anche le rondini di Diem25. Come se la caveranno adesso non si sa, i grafici avranno ulteriore lavoro. Quelli di Possibile, invece, ci saranno alle europee, insieme ai Verdi. Il loro simbolo lo presentano proprio oggi. Lo disegnerà dal vivo un writer, speriamo non su un muro. Di Potere al popolo, lo confesso, ho perso le tracce. Articolo Uno, che si appresta a celebrare il suo congresso con i delegati eletti per il congresso di un anno fa, continua a trattare con Zingaretti. Secondo l’ex ministro Orlando, apprendo dai giornali, la presenza di candidati bersaniani nella lista Pd-Siamo Europei, avrebbe carattere “tecnico”, nessun accordo politico perché altrimenti si incazzano i renziani. Intanto Zingaretti – vale la pena ricordarlo – continua a esprimere pubblicamente posizioni opposte a quelle di Articolo Uno, dalle riforme costituzionali, alla patrimoniale, ai diritti dei lavoratori. Quisquilie, qua si discute di candidature non di politica. Il simbolo, in ogni caso, non avrà alcun riferimento alla loro presenza.

Capirete che la tentazione di discettare su questi argomenti di capitale importanza è fortissima. Resisterò. Come credo di resistere anche alla tentazione di parlare di quanto successo a Torre Maura, periferia romana, con un quartiere intero, o almeno buona parte di esso, che si ribella alla presenza di una settantina di rom. Ho già scritto appena pochi giorni fa di come la guerra fra ultimi e penultimi – la faccio breve – sia un espediente dei potenti per tenere buone le masse popolari. La sinistra farebbe bene a sporcarsi le mani dentro queste contraddizioni, ma, salvo rare e positive eccezioni, preferisce pontificare da qualche salotto su quanto siano fascisti quelli che protestano. Chiediamoci, invece, perché ci siano i fascisti lì, insieme ai cittadini e non ci siamo noi. Quando qualcuno si porrà questa domanda avremo un terreno di confronto comune. Il resto, la sociologia da bar sport, francamente mi interessa poco.

Anche le contorsioni del governo francamente sono di una noia mortale. E’ tutto un gioco delle parti, dove si fa finta di litigare su qualcosa per distogliere l’attenzione dalle stangate che ci attendono e che cominciano a dispiegare i primi effetti. I pensionati già da questo mese. Gli basterà leggere la cifra dell’assegno. Per tutti gli altri bisognerà attendere il dopo europee quando, purtroppo, bisognerà fare i conti con una crescita ben al di sotto di quanto indicato nella manovra economia. E se non si cresce le entrate sono meno e le spese di più. Indovinate dove si andrà a mettere le mani? Nelle tasche di un ceto medio sempre più impoverito, ma alla fine sempre l’unico in grado di pagare i debiti contratti dai governi vari.

Certo, potrei parlare di quello che succede a livello internazionale, dove i socialisti spagnoli paiono in ripresa, in Slovacchia vince un modello nuovo di sinistra, nei bigottissimi Usa viene eletta una donna lesbica sindaca di Chicago. Una delle città più grandi, non un sobborgo sperduto. Io sospetto che i successi di Sanders abbiano fatto da ariete, aprendo la strada a una nuova generazione di militanti democratici, che non ha paura a professare idee socialiste. L’America patria dei moderati li accoglie adesso con curiosità e interesse. Perfino la Turchia dà segni di risveglio, con le elezioni amministrative che segnano una netta sconfitta dei candidati sostenuti da Erdogan. C’è perfino un sindaco eletto dal Partito comunista. Non era mai successo.

E invece no, vi voglio raccontare in breve, una mia piccola disavventura burocratica, con la Regione Lazio. La vicenda è questa: nel 2011 mi rubano la moto, seguo la prassi persecutoria prevista per questi casi, fatta di denuncia ai carabinieri, dichiarazione di perdita di possesso al Pra (a pagamento) e nel 2014, puntuale mi arriva una cartella esattoriale che mi invita a pagare il bollo. Smadonnando non poco, su internet trovo i moduli per presentare la “memoria difensiva”, si può fare via mail, via fax e via pec. Nel dubbio la invio, con allegati tutti i documenti necessari, in tutte e tre le maniere. Non si sa mai. Non mi risponde nessuno e, ingenuo, penso che sia tutto a posto. Pochi giorni fa, Agenzia delle entrate mi avvisa che se non pago la cifra del bollo, più sanzioni e interessi, avvieranno le procedure esecutive per il recupero del credito. Se si vogliono informazioni bisogna parlare con chi ha emesso la cartella perché loro sono meri esattori. Sul sito della Regione trovo un numero, mi faccio la consueta mezz’ora di attesa e risponde una gentile impiegata che verifica. Effettivamente è tutto a posto, ma devo recarmi nei loro uffici di persona. E allora, con grande pazienza, mi prendo un giorno di ferie e vado. Una decina di persone in fila, 5 impiegati allo sportello. Pochi minuti, insomma. Morale della favola, una signora molto gentile si prende la documentazione verifica le mie ragioni sul pc e ritorna con un modulo da riempire. E’ quello della memoria difensiva. Uguale. Le spiego che l’ho già presentata, le faccio vedere le ricevute. E lei, ineffabile: “Ma qui da noi?” No, con gli strumenti indicati sul sito. Lei sorride e ripete: “L’ha presentata qui da noi?”. Mi arrendo, prendo i moduli, dove lei, benemerita, ha aggiunto “urgente”, a mano, vado al protocollo dove riempio un altro modulo e mi ridanno il tutto con un bel timbro. Ora la solerte impiegata dovrà lavorare la pratica e poi mi arriverà lo sgravio a casa, per posta. Sperando che sia davvero la fine e che non debba poi portare il tutto all’Agenzia delle entrate.

Ecco, carta, timbri, protocollo, postino. Non ce la possiamo fare.

Le piazze dei giovani e le nostre speranze.
Il pippone del venerdì/93

Mar 22, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Lasciamo la sinistra nelle sue contorte articolazioni a decidere in pace come suicidarsi alle elezioni prossime venture e parliamo d’altro. O meglio parliamo delle stesse cose, ma da un’angolazione differente. Del resto, che questi gruppi dirigenti non siano all’altezza del compito difficilissimo che abbiamo di fronte mi pare evidente. E forse se fossero all’altezza non ci troveremmo di fronte un compito così difficile tanto che vincere una qualche competizione che non siano le primarie (per chi è del Pd) o un congresso (per tutti gli altri) pare più difficile che scalare una montagna di ottomila metri. Vinciamo le amichevoli, se ci va bene, ma al momento nelle competizioni elettorali vere facciamo la gara per il secondo posto (quando siamo tutti uniti ma proprio tutti). Del resto se non riusciamo a esprimere dirigenti migliori dobbiamo prendere atto che anche i militanti non sono un granché: le zuffe quotidiane su facebook sono la rappresentazione fedele di quanto siamo consunti fra la cosiddetta base. E il fatto che ogni volta ci rinfacciamo i reciproci errori commessi a partire dagli anni ’70 o giù di lì la dice lunga anche sulla nostra età media. Oramai più che militanti di base siamo una sorta di compagnia di giro: ci si incontra di costituente in costituente, di partito unitario in partito unitario, sempre gli stessi, solo con i capelli ogni volta più bianchi (quando va bene).

Detto ciò, mentre la sinistra “ufficiale” langue alla ricerca del sacro graal, la “sinistra sul campo” pare in gran salute. Non faccio l’elenco, ma ormai non passa una settimana senza un grande momento di mobilitazione a livello nazionale. Le donne, l’ambiente, la lotta alla mafia, il lavoro, la scuola. E in tutte le manifestazioni, almeno a quelle a cui ho potuto assistere, c’è una grande partecipazioni di giovani. Non è vero, insomma, che la sinistra non ci sia più in questo paese: solo che la sinistra “ufficiale” non coincide più con quella “reale” che, al contrario della prima, appare in grandissima ripresa.

Ora, non è la prima volta che succede. Anzi, si può dire che dal ’68 in poi i grandi movimenti di piazza sono stati il motore, o almeno uno dei motori, che ha provocato le conquiste sociali, non solo in Italia. Ma questi movimenti avevano uno sbocco nel panorama politico. Non sto a rifare la solita tirata nostagica alla quale vi ho ormai abituato e quindi non ripeto. Ma il Pci, con i suoi tempi spesso non velocissimi, sapeva rispondere alle spinte sociali, le articolava in chiave politica e le portava all’interno delle istituzioni.  Lo stesso è successo con i partiti degli anni ’90. Poi c’è stato il cortocircuito. Se dovessimo dargli una data, anche se arbitraria, per me è quella del G8 di Genova. In generale la stagione del movimento no global, secondo me è la prima che non ha avuto una adeguata risposta dalla politica, se non la repressione pura e semplice.

Eppure avevano capito tutto. Mentre noi eravamo presi a pensare a come far diventare meno cattivi i mercati, a provare a tingere di rosso le teorie liberiste, a Porto Alegre si parlava di ambiente, di cambiamenti climatici, di come la globalizzazione della finanza rendeva deboli gli stati nazionali. Stavano 20 anni avanti e non lo avevamo capito. O meglio lo avevano capito quelli che stroncarono quel movimento a Genova. A comprendere la gravità di quegli avvenimenti ci siamo arrivati, forse, da pochi anni. Forse anche perché in Italia i no global erano personaggi pittoreschi, molti dei quali sono saliti in fretta su qualche carro che passava, diretti in Parlamento. E lì si sono perse le loro tracce. Del resto la stessa sinistra cosiddetta radicale, che pur in quei movimenti c’era stata con mani e piedi, proprio in quegli anni inizia la sua parabola discendente fino al disastro elettorale dell’arcobaleno.

Non è successo lo stesso negli altri paesi, dove, al contrario, partiti e movimenti si sono rivitalizzati (penso ai verdi tedeschi) o hanno mosso i primi passi proprio in quel periodo. La stessa teoria dell’impegno politico di tipo mutualistico, che hanno portato avanti in Grecia e in Spagna, tanto per fare qualche esempio, pur ripetendo esperienze del ‘900, rinasce  con i movimenti no global, quando la concretezza dell’impegno, l’organizzazione orizzontale in rete fra piccole esperienze diverse fra loro, spesso prendeva il posto dell’organizzazione piramidale dei partiti di massa del secolo scorso.  Lo stesso nuovo Labour di Corbyn attinge piene mani dai movimenti, ripescando nella cassetta dei ricordi le parole d’ordine del socialismo alle quali, però, viene dato un nuovo diritto di cittadinanza grazie alle pratiche e alle elaborazioni di quegli anni. Insomma, l’analisi marxiana torna d’attualità quando il capitalismo fa vedere a tutti quello che, secondo me, è il suo lato peggiore, la finanziarizzazione dell’economia.

In Italia questo non è accaduto e, credo, la nostra crisi attuale sia tutta figlia di questa contraddizione: il Paese che per decenni ha avuto il partito comunista più forte dell’occidente, finita quell’esperienza, si è talmente preoccupato di cancellarne le tracce che adesso fatica a ritrovare le strade antiche, figuriamoci a percorrerne di nuove.

Eppure il protagonismo di questi mesi, soprattutto quello dei giovani deve avere una risposta. Non possiamo permetterci di perdere questi ragazzi, la loro freschezza. Si rifiutano di essere inquadrati nelle organizzazioni esistenti? Bene, non possiamo permettercelo proprio per questo: perché rompono, finalmente, la logica dei polli allevati in batteria e selezionati per fedeltà al capetto di turno.

Ecco, piuttosto che arrovellarci su come suicidarci alle Europee, scorniamoci su questa domanda: come tramutiamo l’entusiasmo che ha riempito le piazza di questi mesi in impegno continuo, in grado di cambiare davvero le cose? Possiamo permetterci, ad esempio, che il movimento sul cambiamento climatico non abbia una sua voce nelle istituzioni? Mi sembra l’unica domanda che meriti impegno.

Mica ho capito tutta ‘sta esultanza per l’Abruzzo.
Il pippone del venerdì/88

Feb 15, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Vabbeh che siamo alla canna del gas per cui qualsiasi pallido segnale di esistenza in vita diventa un grande successo, ma io davvero non capisco le dichiarazioni che sono uscite in questa settimana dopo l’ennesima sconfitta elettorale del cosiddetto centrosinistra. Certo, in Abruzzo siamo arrivati secondi e non terzi come succede spesso. Come dire, invece che perdere 4 a zero abbiamo preso soltanto due gol. Sempre “zero tituli” fanno, volendo rimanere nell’ambito delle citazioni calcistiche.

Il risultato delle elezioni regionali in Abruzzo è l’ennesima prova del fatto che usando questo schema siamo condannati a perdere. Al massimo ad arrivare secondi. Ma la distanza con la destra, sempre più a trazione leghista, resta abissale. “Beh, ma abbiamo recuperato”, dicono. E in effetti tutti insieme, ma proprio tutti, arriviamo al 30 per cento. Alle politiche era poco più del 20. Il Pd arriva appena all’11 per cento, Leu si ferma al 2,8. Più 0,1 rispetto a un anno fa. Il resto lo raccolgono liste civiche. Non credo di essere lontano dal vero se scrivo che allo stato attuale delle cose questo schieramento non è più maggioranza in nessuna regione italiana. Temo che ne avremo la riprova a breve, in Sardegna prima e in Basilicata poi. E il voto in fuga dai 5 stelle torna di corsa nell’astensione, se va bene, altrimenti si sposta direttamente sulla Lega. Non c’è nessun recupero in vista.

E questo avviene in una competizione dove l’unico candidato credibile era il nostro Legnini. Ha vinto Marsilio, di Fratelli d’Italia, noto più che altro per le sue frequentazioni romane, di Colle Oppio per la precisione, catapultato in Abruzzo per equilibri fra i partiti a livello nazionale. Insomma, non ci votano proprio in nessun caso. Sarebbe forse il caso di chiedersi perché, invece di esultare e inneggiare a non si capisce bene quale futuro di vittorie.

Per quanto mi riguarda resto convinto di alcuni elementi. Anzi questa tornata elettorale rafforza ancora di più queste mie personalissime convinzioni. Intanto, al netto delle liste civiche che comunque non sono automaticamente sommabili ai partiti nazionali, il declino del Pd continua inesorabile. Anche in un periodo di sovraesposizione dovuta all’infinito congresso che stanno svolgendo. Non faccio raffronti con le precedenti regionali, perché sarebbero davvero impietosi, ma anche rispetto alle politiche siamo quasi a meno 3 per cento. Se qualcuno pensava avessero toccato il punto più basso possibile, insomma, si mettesse l’anima in pace. E lo stesso appeal di Zingaretti, ormai sicuro vincitore delle prossime primarie, non sembra in grado di smuovere le masse popolari.

Il secondo dato che a me pare evidente è che dobbiamo smetterla di pensare a costruire coalizioni raccogliticce e pensare a noi stessi. Ricominciare da una forza di sinistra, ecologista e socialista, che non sia l’ennesimo cespuglietto senza popolo, ma sia in grado, al contrario, di essere polo attrattivo nei confronti della galassia di partitini esistenti. E questa forza non potrà essere un partito tradizionale, ma dovrà necessariamente tenere conto del tempo che viviamo. Faccio un esempio concreto: la grande manifestazione sindacale della settimana scorsa. Sicuramente ci ha fatto bene. Ma come viene tradotta quella spinta in rappresentanza politica? Possiamo ancora permetterci di ragionare per compartimenti stagni (da un lato i sindacati, dall’altro i partiti) o dovremmo abituarci a pensare nuove forme di connessione, organizzazioni ibride, come ha scritto giustamente Michele Prospero? Costruire un partito, dunque, ma con l’obiettivo di costruire una rete sociale ampia.

Il dato dei voti a sinistra resta miseramente ancorato al risultato di Leu alle politiche. Anche questo in realtà è sorprendente. Dopo quasi un anno di disastri c’è ancora qualche ostinato che ci dà fiducia. Malgrado noi, viene da dire. Roba da Tso. E’ evidente però che senza una forte “gamba” di sinistra, qualsiasi alleanza futura si possa ipotizzare è destinata alla mera partecipazione. Di vincere non se ne parla proprio.

In ultimo resto molto dubbioso se sia proprio necessario riproporre ogni volta il famoso centrosinistra. La formula non è sufficiente. Facciamocene una ragione. Non lo è quando si vota con il doppio turno, perché anche se arriviamo al ballottaggio si coalizzano tutti contro di noi. Non lo è, come in questo caso, quando si vota con il turno unico perché arriviamo secondi, se va bene. Non lo è a maggior ragione quando si vota con il proporzionale perché in quel caso le alleanze si fanno dopo il voto, non prima. Sarebbe, infine, il caso di pensare bene, proprio perché si vota con il proporzionale puro, a cosa facciamo per le Europee. Nel mio piccolo ribadisco fin d’ora che un listone da Calenda a Bersani non lo voto neanche sotto tortura. Credo non lo votino neanche Calenda e Bersani, tra l’altro.

L’unica strada, con questi numeri, è riaprire un dialogo con il M5s. Saranno lontani da noi come cultura politica, il loro fideismo ci urta il sistema nervoso centrale, sta cosa della lotta alla kasta non si può sentire… Però se i nemici da battere sono il liberismo e la derivata nostrana in salsa leghista, credo che il programma originario dei grillini non sia neanche tanto lontano da quello che pensiamo noi. Lo stesso reddito di cittadinanza, sia pure fatto male, è una forma di redistribuzione della ricchezza alla quale non possiamo continuare a dire solo no. E fra le colpe del Pd ci metto anche aver consegnato una forza con la quale si poteva davvero lavorare nelle mani di Salvini.

Detto questo: sabato e domenica vado a “Ricostruzione”, ovvero il lancio della nuova formazione proposta da Speranza e soci. E’ poco, con troppe ambiguità e troppe timidezze. Ma da un punto fermo bisognerà pur partire. Vediamo che succede.

Due o tre cose sulle elezioni europee.
Il pippone del venerdì/87

Feb 8, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

O si va avanti tutti insieme o non va avanti nessuno. Era uno slogan di una vecchia campagna di tesseramento alla Cgil, negli anni ’50 del secolo scorso. E nel marasma senza forma della politica attuale suonano davvero lontane e allo stesso tempo sempre più attuali. Non da ora credo che il sindacato sia l’ultimo baluardo della nostra democrazia. Che non è costruita sul rapporto diretto fra governanti e cittadini. Il nostro sistema costituzionale non considera il voto come unico strumento di controllo del popolo sul potere legislativo. Tutt’altro. La nostra Costituzione considera come elemento centrale della democrazia la partecipazione continua dei cittadini alla vita dello Stato. Lo strumento individuato sono i cosiddetti corpi intermedi: i partiti, i sindacati, l’associazionismo. Senza questo elemento di “mediazione” cambia la forma stessa dello Stato.

Il disegno che sta scritto nella carta, non a caso considerata intrisa di elementi di socialismo, è semplice e chiaro: per una vera democrazia l’intervento del cittadino al momento del voto non è sufficiente. Il motivo è evidente. Se così fosse il potere economico, che nella società della comunicazione diventa ancora più pervasivo, diventerebbe un tutt’uno con il potere politico. Ecco allora che l’unione nei partiti e nei sindacati diventa quello strumento di affrancamento dei deboli che nella teoria marxista è la strada che conduce al superamento del modo di produzione capitalistico. Ed ecco perché le forza della destra da sempre hanno osteggiato la partecipazione. Divide et impera, sentenziavano i romani nell’antichità.

E noi, come dire, abbiamo abboccato in pieno. Al di là degli errori strategici, del bagno di liberismo che ha infestato le nostre acque, io resto convinto che l’errore fondamentale che abbiamo commesso dall’89 in poi sia questo. Certo l’aver sposato le teoria della destra capitalista ha un suo peso. Abbiamo perso la nostra diversità e al tempo stesso abbiamo perso la speranza nella possibilità di un futuro differente. Ma ancor più grave è essere stati folgorati dal fascino del leaderismo: abbiamo creduto che la fine dei partiti fosse inevitabilmente collegata al mondo nuovo con il quale non abbiamo saputo fare i conti.

Il congresso del Pd che si sta stancamente svolgendo in questi mesi ne è l’esemplicazione perfetta. Fanno passare come grande esercizio democratico il rito della scelta del leader. Un rito meramente muscolare dove vince quello che ha più mezzi e annovera fra le sue file il numero maggiore di notabili locali. Ogni giorno si alzano polveroni mediatici, si lasciano le truppe libere di scannarsi tra loro, ma su cosa? Sul nulla. Qualcuno si alzi in piedi e mi spieghi le differenze fra i candidati in lizza. Nessuna analisi su quanto è successo, sulle ragioni delle sconfitte. Nessuna proposta di radicale innovazione. Al massimo si invoca discontinuità e ci si propone di ricostruire il Pd. Su quali valori, su quali fondamenta non si dice mai. Semplicemente perché non ci sono valori, non ci sono fondamenta da cui costruire. Il Pd è un’alleanza elettorale resa permanente, non un partito di massa. Non a caso il meccanismo delle primarie è estraneo alla cultura europea e viene direttamente importato dagli Usa. Da un sistema dove, anche qui banalizzo, economia e politica sono spesso una cosa sola e non vi sto a raccontare chi vince.

E’ l’era della cosiddetta disintermediazione. Avviene nell’informazione, così come nella politica. Ce la vogliono far passare come la massima espressione di libertà, ma in realtà rappresenta il culmine della dominazione capitalista. L’eliminazione della libertà di informazione, che è l’effetto della disintermediazione in quel campo, è stata la condizione necessaria per il sovvertimento del sistema dei partiti. Ci hanno cibato per anni con il mito della “kasta” da combattere e non avevamo capito che insieme alla kasta avrebbero spazzato via anche la possibilità di partecipare e di cambiare davvero il nostro mondo.

Detto questo, sabato bisogna andare in piazza con Cgil, Cisl e Uil. Perché, con difetti e limiti che tutti conosciamo, sono l’ultimo presidio di democrazia che ci resta. Ancora di più dopo l’elezione di Landini a segretario della Cgil. Uno che ha ben in testa quello che sta avvenendo. Attorno a questo presidio, insomma, c’è, secondo me, l’unica possibilità di ripartire. E per ripartire bisogna guardare alle elezioni europee andando al tempo stesso oltre le elezioni europee.

A quanto pare, a maggio avremo sicuramente in campo il Partito democratico, non si sa ancora bene se da solo o sciolto nel fronte cosiddetto “antipopulista”, e l’ammucchiata capitanata da De Magistris dove convivono formazioni che si battono per uscire dall’Europa con chi dice l’esatto contrario. Roba che viene voglia di votare Salvini. La sinistra, in tutto questo, rischia di restare a casa. Che, come ho già detto mesi fa, può anche essere un’opzione dignitosa. Ma se su quella scheda ci fossimo sarebbe sicuramente meglio. Ora, alle elezioni regionali in Abruzzo e Sardegna gli elettori troveranno ancora il simbolo di Liberi e Uguali. Perché di fatto era l’unica scelta possibile, anche se le nefaste fratture nazionali si fanno sentire purtroppo anche a livello locale. Vedremo che risultato avranno queste liste. Temo non eccezionale, visto quello che è successo negli ultimi mesi.

Io credo che dovremo impiegare il tempo che ci separa dalle urne a costruire il partito della sinistra ecologista e socialista che abbiamo immaginato. Consapevoli che è un tentativo necessario ma non sufficiente. E credo anche che, al tempo stesso, dovremo verificare fino in fondo se sia proprio impossibile ripresentare Leu anche per l’Europa. Può sembrare assurdo, ma se ci pensate bene, di fratture di fondo fra le forze che hanno dato vita alla lista per le politiche non ce ne sono. Le differenze, io così la penso, sono di poco conto. E se può stare insieme l’accozzaglia di De Magistris, a maggior ragione avrebbe senso ripresentare Liberi e Uguali. Andare alle europee consapevoli che serve un orizzonte più ampio se vogliamo davvero far diventare la parola “Ricostruzione” un percorso concreto verso un soggetto politico basato sulla parola partecipazione. Dove si costruisca la classe dirigente, sperimentandola sul campo e non facendola crescere in provetta. Chissà. Magari a forza di sbagliare per una volta la azzecchiamo.

E’ ora di premere sull’acceleratore.
Il pippone del venerdì/83

Gen 11, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Passate le feste, oltre che con qualche chilo in più, ci ritroviamo tutti con parecchie certezze in meno. Quello che sembrava un asse di ferro fra Salvini e Di Maio, di giorno in giorno, si mostra in tutta la sua fragilità. E’ un po’ la storia della coperta troppo corta: ognuno cerca di tirarla dalla sua parte e i sondaggi ondeggiano a seconda del tema della settimana. La Lega scende? Salvini alza la voce sui migranti. E anche la “sconfitta” subita nei giorni scorsi, quando alla fine ha dovuto ingoiare un accordo sulla vicenda dei 49 disperati rimasti in mare per settimane, in realtà conferma il suo profilo dell’uomo inflessibile. Che siano gli altri che scendono a compromessi, lui dice sempre no. E sono sicuro che i prossimi sondaggi registreranno il favore di un numero crescente di cittadini. Il tema immigrazione, anzi più che il tema la percezione che ne abbiamo, continua a essere terreno fertile per Salvini e soci. Siamo razzisti? Non so, di sicuro temiamo le differenze, un bel paradosso se ci pensate bene: l’Italia nasce come paese meticcio per eccellenza, fin dai tempi dell’impero romano. E non potrebbe essere differentemente vista la nostra posizione centrale nel mediterraneo. Dire “chiudiamo i porti” in un paese accerchiato dal mare è evidentemente una bestialità, ma ci vorrà tempo per capirlo.

Detto questo, comunque, malgrado alzino polveroni per coprire la realtà, presto toccherà fare i conti con l’economia che non tira, una nuova recessione alle porte, i provvedimenti promessi che non arrivano. Il bluff di quota cento e del reddito di cittadinanza sarà evidente. Per non parlare dell’opportunismo dei 5 Stelle. Di Maio sta facendo da uomo di governo l’esatto contrario di quello che predicava dall’opposizione. Salva le banche, fa gasdotti, dà il via libera alle trivellazioni nello Jonio. Solo per citare i titoli dell’ultima settimana.

Non credo che le contraddizioni porteranno all’esplosione di una crisi di governo in tempi brevi, troppo alta la posta in gioco per entrambi gli attori principali della commedia. Più probabile che si attendano le elezioni europee, che saranno una sorta di grande sondaggio sul campo. Se i risultati faranno emergere la possibilità di una maggioranza alternativa, in particolare un classico centro destra, Salvini non ci penserà due volte e scaricherà gli ingombranti alleati, pronto a diventare il protagonista assoluto di un governo con gli alleati di sempre.

In tutto questo non possiamo stare a guardare. Secondo me ci sono due eventi da seguire con grande attenzione. Il primo è il congresso della Cgil, dal 22 al 25 gennaio ci sarà l’assise nazionale che concluderà questo lungo percorso del più grande sindacato italiano. Ora, non ci sarà mai – malgrado secondo me resti la strada maestra per ricostruire una forte rappresentanza della sinistra – un impegno diretto della Cgil in politica. La tradizionale separazione e autonomia del sindacato rispetto ai partiti ha retto in stagioni in cui era molto più difficile, figuriamoci se verrà meno adesso. Ma un sindacato rinnovato e attento a quello che succede nella sinistra serve ai lavoratori, aiuta a costruire un’opposizione più forte e a lavorare per la costruzione di uno schieramento realmente alternativo. La presenza di forti corpi intermedi è la vera cura contro il razzismo e i populismi vari.

Ovviamente in questo senso non si può che auspicare un accordo che porti a una segreteria unitaria guidata da Landini. Una vittoria di Colla, sostenuto sostanzialmente dai pensionati, potrebbe perfino avviare un processo di disgregazione della Cgil, sicuramente non sarebbe accettata dalla grande maggioranza degli iscritti. Intanto per il modo in cui è stata proposta la sua candidatura: non con un documento alternativo, ma, nella sostanza, approfittando di un sistema congressuale che si basa su complicati equilibri fra i delegati. E poi perché, magari a torto, Colla viene rappresentato come la lunga manus del renzismo che cerca di prendere il controllo del sindacato dopo aver lavorato per anni per rendere marginale il suo ruolo, quello della Cgil in particolare. Se ne parla ancora troppo poco di questo congresso, un grande processo democratico che nei mesi scorsi ha coinvolto milioni di lavoratori e pensionati. La passione italica per la notizia secca non aiuta a seguire i percorsi lunghi e complicati. Dovremmo provare ad accendere più di un riflettore sulle scelte che saranno compiute nei prossimi giorni.

L’altro fronte da seguire è il processo di costruzione di una forza di natura socialista nella sinistra italiana. Fronte essenziale se è vero che una parte dell’elettorato grillino manifesta un disagio crescente verso gli atti di questo governo. Diventa ancora più urgente. Il “mi sa che ho fatto una cazzata” degli elettori di sinistra che hanno scelto i 5 stelle non si trasforma automaticamente in un ritorno a casa. Soprattutto se una casa non esiste. Il Pd, ancora dominato nei fatti da Renzi, di sicuro non sarà un porto attrattivo per questi migranti della politica. E neanche una vittoria di Zingaretti alle prossime primarie, secondo me, rappresenterebbe automaticamente un vestito nuovo e convincente per un marchio consumato dalle politiche degli anni scorsi. Del resto il presidente del Lazio, che adesso invoca discontinuità rispetto al passato, non è che sia proprio stato un oppositore di Renzi. Anzi, ne ha sposato tutte le scelte principali, speso con il silenzio, altre volte con un esplicito consenso.

La crisi di consenso di Di Maio  e soci, insomma, ci pone l’urgenza di accelerare. Tanto più se, come pare di capire, il ritorno in campo di Di Battista cercherà di creare una sorta di “partito di lotta e di governo”, in cui si proverà a far ingoiare  grossi rospi all’elettorato grillino tradizionale puntando sull’appeal movimentista del figliol prodigo appena tornato dal suo viaggio in Sudamerica.

Accelerare per fare cosa? Fallito il progetto di Liberi e Uguali, abbiamo il dovere di costruire una forza politica, di natura socialista, che superi le difficoltà del momento e ci faccia stare in campo. E’ necessaria intanto per dare una alternativa ai delusi, ma anche per pensare, dopo le europee alla ricostruzione di un campo ampio che metta insieme i progressisti e venga percepito come alternativa credibile alla destra. La dico chiaramente: anche con il Pd derenzizzato che tutti ci auguriamo di trovare dopo le elezioni, non cesserà la necessità di dare rappresentanza politica alla sinistra italiana. Perchè il Pd resterà quello di Franceschini e Gentiloni.

E allora dobbiamo fare in fretta. Il documento lanciato da Mdp con l’assemblea di metà dicembra rappresenta una buona base di discussione. Si avvii, finalmente, la costruzione di un partito, con iscritti, sedi fisiche, reti di comunicazione classiche e virtuali. Proviamo a sperimentare forme nuove di partecipazione diretta, di organizzazione orizzontale e non tradizionale. Cerchiamo di recuperare l’impegno dei tanti compagni che avevano visto in Liberi e Uguali una speranza e che adesso sono tornati a chiudersi nel pessimismo (con molte ragioni). L’entusiasmo non c’è, non nascondiamolo. Troppo tempo è trascorso a inseguire i tentennamenti di leader senza popolo.

E’ tempo di ripartire dai fondamentali. Una forza socialista. Sarebbe di sicuro un buon inizio.

E’ Natale, a sinistra è ora di parti plurigemellari.
Il pippone del venerdì/81

Dic 14, 2018 by     3 Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

La cosa più chiara, come spesso gli accade, l’ha detta di recente Bersani: data la situazione in Italia sarebbe auspicabile una sorta di big-bang alla fine del quale l’attuale centro sinistra si scomponesse in tre diversi filoni: il partito di Renzi, un nuovo partito della sinistra cosiddetta riformista, un partito della sinistra cosiddetta radicale. E’un po’ quello che vado auspicando da anni anche io. Il Pd, nella attuale conformazione, resta un grande equivoco che elegge moderati (più bravi con le preferenze) con i voti della sinistra. E allo stesso tempo condanna le altre forze progressiste a un ruolo decisamente subalterno. Un equivoco parecchio ingombrante che sta lasciando macerie ovunque. E sta portando la sinistra nel suo complesso a essere quasi “odiata” dagli elettori. E in un sistema democratico potrebbe essere un problemino non di poco conto. Le ultime elezioni insegnano: la caduta renziana, paradossalmente,  ha travolto anche quelli che più si erano battuti contro di lui.

La cosa che Bersani non può dire è come arrivare a una disposizione simile delle forze in campo, disposizione che, forse, potrebbe far ritornare competitivo il fronte progressista, sia pur in una situazione di difficoltà a livello mondiale. Non può dirla perché non è nei suoi poteri provocare la scomposizione che lui si augura.  E poi non è che basta rimescolare la minestra nel pentolone. Servirebbe un serio lavoro sui valori, nuove forme partito più aderenti alla società di oggi , ma allo stesso tempo in grado di farci tornare in mezzo al popolo. Servirebbero anche luoghi dove pensare tutto questo.  Serve, intanto, un punto fermo da cui partire.

Due appuntamenti romani nel fine settimana, il convegno per i 20 anni di Italianieuropei (sabato ore 10, Nazionale Spazio Eventi, via Palermo 10) e l’assemblea nazionale di Articolo Uno (Domenica ore 9.30, auditorium Antonianum, viale Manzoni 1) possono essere utili in questo senso. Prima di tutto riflettere. Ci serve una elaborazione forte e l’elenco dei relatori, in ambedue i casi, fa ben sperare, ci serve una nuova casa da cui partire.  Vedremo se, dopo tante false partenze, sarà la volta buona. Perché se ha ragione, come credo, Bersani, nel disegnare la prospettiva dei tre partiti, da qualche parte bisognerà pur cominciare. La cultura politica che viene dal Pci e più in generale dal socialismo del ‘900 deve ritrovarsi in un luogo, deve darsi una sua identità forte, ma aperta al tempo stesso alle contaminazioni necessarie per restare attuali.

E così, ad esempio, l’ambientalismo che Marx non aveva in testa, ora serve eccome se non vogliamo arrivare in pochi anni all’estinzione della specie umana. E allo stesso tempo le battaglie delle donne devono stare nel patrimonio genetico della sinistra che serve in questo Paese. Così come va ricostruito un vero e proprio cordone ombelicale con il sindacato. Non saremo più ai tempi della famosa cinghia di trasmissione (anche allora, in realtà, considerare la Cgil una mera appendice del Pci era una bestialità), serve un rapporto paritario, ma molto stretto sia pur nel rispetto della reciproca autonomia.

Ora, Articolo Uno, dalla sua fondazione ormai quasi due anni fa ha commesso senza dubbio molti errori: la rincorsa a Pisapia prima, più in generale la ricerca del papa straniero come leader, l’attesa degli alleati dopo le elezioni del 4 marzo. Senza dubbio c’è una difficoltà, direi, di reazione. Pur azzeccando spesso l’analisi, a Speranza e compagni, troppo spesso, è servito un tempo troppo lungo per arrivare a prendere una qualsiasi decisione. Ma la ragione sociale con cui era nato il movimento era quella giusta: costruire una casa della sinistra, riunire non tanto le sigle ma le persone, i militanti che si sono allontanati negli anni, tornando a essere attrattivi al tempo stesso verso quei giovani che sembrano una specie di terra promessa che non riusciamo da tempo a raggiungere. Le elezioni del 4 marzo, in minima parte, avevano rappresentato una limitata inversione di tendenza: Leu ha preso più voti (sia in valore assoluto che in percentuale), alla Camera rispetto al Senato. Non succedeva da anni.

Era un piccolo segnale che la crisi progressiva della sinistra non è ineluttabile, che la tendenza si può invertire. Basterebbe puntare su parole chiare e impegni precisi su scuola, università, lavoro.  In Inghilterra così hanno fatto. Nessuna bacchetta magica e nessun Messia. Corbyn parla un linguaggio semplice e lo accettano addirittura ai concerti rock. Visto che siamo esterofili e anglofili da sempre, per una volta proviamo a copiare quello che di positivo arriva dall’isola oltremanica.

Insomma, pur nel mio pessimismo ormai abituale, mi aspetto un finesettimana in cui si parli di politica, di idee, non di siti, adesioni e organizzazione delle truppe. Le delusioni, anche negli ultimi mesi, non sono mancate di certo. Il fallimento di Liberi e Uguali, le nuove divisioni che hanno superato ogni livello che avevamo immaginato. Eppur bisogna andare, verrebbe da dire. Chi, come dovrebbero essere i militanti della sinistra, soffre per le ingiustizie del mondo, non può adeguarsi allo stato delle cose esistente.

Forse, se prendiamo le cose dal verso giusto, ovvero ripartendo dalle idee, dai valori, dalla politica in una parola sola, sarà anche più semplice dirimere eventuali divergenze e provare a costruire qualcosa di duraturo. Poi discuteremo magari di cosa fare alle amministrative, alle europee. L’appuntamento lanciato da Articolo Uno si chiama Ricostruzione. Speriamo che non sia l’ennesimo buco nell’acqua. Non ci serve un gruppo dirigente senza popolo, di quelli che abbiamo a iosa. Ci serve un percorso di partecipazione democratica, in cui i due livelli – base e altezza – entrino di nuovo comunicazione fra di loro. Sembra semplice. In realtà è una strada stretta e piena di buche. Vabbeh, i romani sono avvantaggiati.

Renzi che va, Renzi che viene.
Il pippone del venerdì/80

Dic 7, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Non cambia molto se Renzi fa il suo partitino. Ci sarà solo da aggiornare il conto delle formazioni politiche personali. E del resto mica era possibile che fosse soltanto la sinistra a sfaldarsi, è proprio questa società che non tiene più. Le varie diaspore politiche sono la conseguenza. La politica non può che essere lo specchio fedele di un paese, della situazione sociale, delle evoluzioni dei costumi. E se un società diventa sempre più individualista, cattiva ed escludente, la politica non può che ripercorrere questi tratti. Il settarismo va di gran moda, il “meglio comandare in una casa piccola che stare insieme ad altri in una più grande” oramai è una sorta di mantra che si sente in ogni angolo.

E comunque, si diceva, non cambia molto se Renzi fa il suo partitino. Almeno per quelli come me che sono convinti che l’errore, anzi direi l’equivoco, stia nell’esistenza stessa di una formazione politica che riunisce due culture distinte. Non si mescolano, al massimo una prova a cancellare l’altra. Come è successo con la famosa rottamazione, che non era la semplice sostituzione di una classe dirigente. Non era un salutare scontro generazionale. Tutt’altro: era la fase finale della cancellazione di una cultura politica, quella che, con una semplificazione necessaria alla salute dei lettori, oserei definire “togliattiana”. La rottamazione era la fine di quell’idea di partito e di funzione del partito nella società che era stata definita nel Pci del dopoguerra e perfezionata con Berlinguer.

Cambia qualcosa se il segretario sarà Zingaretti? Con tutta la stima che ho da sempre per il presidente della Regione Lazio, credo di no. Intanto perché secondo me Zingaretti la sua occasione vera l’ha persa alle primarie del 2009. Un ampio fronte, quello si davvero generazionale, gli chiese di mettersi alla guida di un processo di rinnovamento del partito e candidarsi alle primarie che non potevano risolversi in una conta fra Bersani e Franceschini. Una sfida che sembrava guardare più al passato che al futuro. Zingaretti disse di no, spiegò che il suo impegno era tutto teso alla riconquista di Roma (salvo poi ritirarsi per candidarsi alla Regione). Sappiamo come è andata la storia del Pd da quel momento in poi.

Resto convinto anche dieci anni dopo che quella fosse l’occasione di fare del Pd un partito e non una federazione di correnti personali. Ora è tardi. E’ tardi per due ordini di ragioni. Intanto perché quel simbolo ormai viene associato indissolubilmente a una stagione, quella delle leggi contro i lavoratori, quella delle leggi truffa, quella della riforma costituzionale. Ma è tardi soprattutto perché quel partito ha consumato il legame “empatico” non solo con i suoi elettori, ma con i suoi militanti. C’è stata una rivoluzione genetica che ha cancellato una comunità. Non basta il cambio di un segretario né tanto meno basta invocare una generica discontinuità. Tanto più che appostati dietro di lui c’è la fila di quelli che hanno lavorato strenuamente per arrivare alla situazione odierna. Da Franceschini in giù. Nel Lazio, tanto per dirne una, il candidato di Zingaretti alla segreteria regionale era Bruno Astorre, uno che si vantava pubblicamente di “comprare” migliaia di tessere.

Insomma, per non farla troppo lunga, il presunto partitino di Renzi rappresenterebbe sicuramente una novità, ma non la soluzione del problema. Con Zingaretti, ovviamente, sarà possibile aprire un dialogo. Ma si potrà fare solo se avverrà da pari a pari. Soltanto se, nel frattempo, saremo riusciti a dare una casa aperta e stabile allo stesso tempo a quello che resta della sinistra italiana. Resto molto pessimista, la tentata nascita dell’altro partituncolo personale, quello annunciato da Grasso, è un altro ostacolo in un percorso già travagliato. Credo però che prima o poi dovremo fermarci e contare fino a dieci. Ormai ho la certezza che il problema non siano le divaricazioni programmatiche, su quelle una via di mezzo siamo bravissimi a trovarla. Il vero problema è la sopravvivenza dei diversi gruppi dirigenti. Per fortuna le prossime elezioni europee spazzeranno via quello che ne resta. Sarebbe bene capirlo prima e attrezzarsi, ma mi pare che gli egoismi prevalgano. Le liste della sinistra all’appuntamento di maggio saranno almeno quattro e prima si voterà in 4 regione e 4.200 Comuni. Serviranno a confermare l’irrilevanza di ognuno. Né il pur generoso tentativo di Speranza e soci sembra nascere sotto i migliori auspici. Staremo a vedere.

Eppure avere una solida e autonoma formazione alla sua sinistra aiuterebbe anche Zingaretti a tenere a bada i suoi alleati di oggi, accoltellatori seriali che non vorrei mai avere alle mie spalle. Ridefinire un’alleanza progressista in grado di opporsi alle destre è sicuramente una priorità. Ma non funziona un campo – uso questo termine che va tanto di moda – in cui ci sia un partito e tante liste civetta. Funziona uno schieramento vero, con una base culturale comune che viene tradotta in un programma di governo. Se si uniscono, insomma, strategia e tattica. E per fare questo serve una sinistra che esca dall’abbaglio del neoliberismo e torni a essere popolare. Che si occupi, la finisco qui perché so di essere noioso e ripetitivo, delle condizioni materiali del suo blocco sociale, che dia rappresentanza ai tanti movimenti che proprio in questi mesi tornano a far sentire la propria voce. Mettiamo l’orecchio a terra e guardiamo avanti. Forse ne usciamo vivi.

La sinistra sono io e voi non siete un…
Il pippone del venerdì/79

Nov 30, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Girando e curiosando fra le varie fasi costituenti di questi giorni mi sono reso conto di alcuni elementi che potrebbero sembrare particolari irrilevanti, ma con cui, in realtà, secondo me dovremmo fare bene i conti. In primo luogo abbiamo un po’ tutti la tendenza a ritenerci depositari della verità assoluta. Un po’ come quando esisteva il Pci e dicevamo che non poteva esistere nulla a sinistra del Partito. Che non a caso aveva la P maiuscola. Solo che allora, il fatto non è da poco, c’era – appunto – il Pci. Ovvero un partito che aveva quasi due milioni di iscritti e arrivava a dodici milioni di voti. Anche all’epoca, in realtà, l’affermazione era almeno presuntuosa, però aveva un suo fondamento: nel momento in cui c’era una casa comune dei comunisti italiani, da Amendola a Ingrao, era lecito guardare con sospetto  a chi si chiamava fuori. Adesso, nel suo complesso, il campo della sinistra italiana non arriva al 10 per cento dei voti. Gli iscritti ai vari micro partiti sono meno, sempre nel complesso, di 100mila. Non a caso, di anno in anno, le costituenti, i cantieri che si aprono, i campi larghi da esplorare, sono sempre di più ma si svolgono in sale sempre più intime. E ultimamente neanche troppo piene.

Il secondo dato è che, anche all’interno della stessa formazione politica siamo come monadi separate, dove non solo tutti parlano male di tutti. Al chiacchiericcio che ha sostituito la sana battaglia politica ormai ci siamo abituati. Il dramma vero è che nessuno ascolta più gli altri, né si sente rappresentato da altri. Assistito a riunioni dove se i presenti sono venti intervengono tutti e venti, con ragionamenti completamente slegati fra loro. Una specie di seduta di autocoscienza continua. Il bisogno di apparire, di affermarsi personalmente, ha ormai sostituito il riconoscimento delle capacità dell’altro. Sarò anche questo un frutto avvelenato della nostra società sempre più individualista?

Il terzo dato è la scomparsa del “popolo”. A parlare, sempre più spesso, sono sedicenti intellettuali, esperti di non si sa bene cosa, portatori di non si capisce bene quale messaggio superiore. E pretendono sempre di insegnarti qualcosa, di spiegare al muratore come si fa un muro, all’idraulico come si monta un rubinetto, allo sfruttato come bisogna lottare per i propri diritti. E’ qualcosa che va oltre la spocchia, è una superiorità aristocratica conclamata. Non ci si interroga, non si ascolta. Si proclama. Noi siamo, noi spieghiamo, noi vogliamo. Ora, in Italia la sinistra funzionava quando era fusione di popolo e intellettuali, quando i lavoratori parlavano del lavoro, gli intellettuali si confrontavano con loro e da lì nasceva la “linea”. Quando abbiamo cominciato a imporre le riforme dall’alto, quando abbiamo perso le nostre radici, non ne abbiamo più azzeccata una. La lezione, almeno questa, dovremmo averla imparata. E invece no. L’operaio, il precario, sono soltanto figurine che si mettono sui palchi perché fa tanto fico. Un po’ come avere l’amico gay qualche anno fa. Ma ci si ferma lì. E così andiamo a salvare naufraghi nel mediterraneo – cosa sacrosanta per carità – ma siamo lontani mille miglia dai tanti naufraghi che abbiamo nelle metropoli cattive che abbiamo costruito. Il popolo non ci vota perché non siamo popolo.

E allora di cosa avremmo bisogno? Io continuo a sostenere che servirebbe un grande sforzo culturale di analisi riprendendo nel cassetto i “vecchi” arnesi marxiani che sarebbero tanto utili nella società di oggi. Non solo dovremmo essere alternativi al neoliberismo che di danni ne ha fatti anche dalle nostre parti, ma tornare ad essere alternativi al modello di sviluppo capitalistico, perché è il capitalismo stesso a generare quel mondo dispari che ci ritroviamo nelle mani.

Non pretendo tanto. Se dici certe cose ti dicono che sei un comunista e se gli rispondi “certo” si sconvolgono.  In una situazione come la nostra anche erigere una barricata sufficientemente alta per ripararci dall’onda nera che ci sta travolgendo sarebbe un miracolo. Cosa hanno fatto da altre parti? Perché in altri paesi la sinistra resiste, in alcuni casi torna addirittura a essere egemone? In Italia l’ultima esperienza di sinistra con una certa consistenza è stata Rifondazione Comunista, tutti gli attuali partitini nascono da lì, da un soggetto politico che aveva una discreta consistenza, una buona organizzazione, una attività militante diffusa. Poi più nulla. Altrove, penso alla Francia, alla Spagna, ma anche agli inglesi, la sinistra resiste se: 1) riesce a rinnovarsi radicalmente, 2) trova un leader convincente in grado accompagnare il rinnovamento, 3) trova delle forme organizzative che garantiscano un po’ di continuità. Non fanno, insomma, una fase costituente al giorno.

Noi un leader convincente non ce lo abbiamo. Facciamocene una ragione. E anche l’idea del “papa straniero”, al decimo fallimento consecutivo, dovrebbe essere rapidamente accantonata.  Se facciamo l’elenco, da Prodi fino ad arrivare a Grasso, dovremmo capire che forse è proprio sbagliata l’idea in sé, che la sinistra dovrebbe formare la sua classe dirigente nella lotta politica e poi proporla e sperimentarla, non creare leader in laboratorio, incoronarli con un applauso con l’illusione di riuscire poi a controllarli. Poi questi si montano la testa e finisce male. Sempre.

Quanto al rinnovamento, faccio notare che ormai alle riunioni ci si conosce un po’ tutti. Perfino i ragazzi, pochi, che ogni tanto compaiono sembrano meri cloni dei più anziani. Con tutti i loro difetti, con tutte le loro debolezze. E poi c’è questa cosa che a me mi fa impazzire: il rinnovamento va bene, ma mai per se stessi. Sono sempre gli altri, nel segno della rottamazione continua a doversi fare da parte. E così ci ritroviamo ultrasessantenni con un onesto passato nelle retrovie della prima repubblica che ti diventano all’improvviso i paladini acerrimi del rinnovamento. Altrui.

L’altra cosa che trovo insopportabile è la società civile. Serve la società civile, basta con i partiti, le energie presenti nella società da valorizzare. Ma che noia questa stanca ripetizione di ricette fallite. Ora, le energie ci sono davvero, lo vediamo nel movimento delle donne, degli studenti, nelle manifestazioni contro il razzismo. Ma ai movimenti serve una sponda politica, un luogo dove le istanze che rappresentano diventano stabili, diventano patrimonio comune. Altrimenti, è la natura stessa dei movimenti a dircelo, si accendono, divampano e poi si spengono senza lasciare sedimenti significativi.

E allora che fare? Costruire una casa stabile, che non cambiamo ogni tre mesi, che non abbia come orizzonte soltanto le prossime elezioni, ma nella quale trovare riparo. Io resto convinto che almeno questo si possa realizzare in tempi brevi: dare alla sinistra un luogo di confronto di elaborazione, di selezione della classe dirigente. Come? Non dal basso, o almeno non soltanto. I partiti non nascono mai solo dal basso o solo dall’alto. Nascono seguendo esigenze storiche, fondendo militanza e classe dirigente. Sono processi più complessi. Ma per essere credibile e stabile il partito che ho in mente deve valorizzare la partecipazione e il metodo democratico. Non è che abbia la pretesa di essere maggioranza, tra l’altro mi succede di rado, ho però la pretesa di poter discutere le proposte, di poter contribuire a eleggere la classe dirigente. Dove non ci possono essere più “nominati”, quelli che ci sono sempre “di diritto”.

Insomma, continuerò a partecipare, per quanto mi sarà possibile, a tutti gli appuntamenti in cui si parlerà di questi temi. Secondo me ci sono ancora le condizioni per costruire un percorso che non rappresenti un ritorno al passato, che aggreghi e non divida ulteriormente. Un po’ meno spocchia e più umiltà da parte di tutti non guasterebbe. Ma è merce rara.

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