La sinistra sono io e voi non siete un…
Il pippone del venerdì/79
Girando e curiosando fra le varie fasi costituenti di questi giorni mi sono reso conto di alcuni elementi che potrebbero sembrare particolari irrilevanti, ma con cui, in realtà, secondo me dovremmo fare bene i conti. In primo luogo abbiamo un po’ tutti la tendenza a ritenerci depositari della verità assoluta. Un po’ come quando esisteva il Pci e dicevamo che non poteva esistere nulla a sinistra del Partito. Che non a caso aveva la P maiuscola. Solo che allora, il fatto non è da poco, c’era – appunto – il Pci. Ovvero un partito che aveva quasi due milioni di iscritti e arrivava a dodici milioni di voti. Anche all’epoca, in realtà, l’affermazione era almeno presuntuosa, però aveva un suo fondamento: nel momento in cui c’era una casa comune dei comunisti italiani, da Amendola a Ingrao, era lecito guardare con sospetto a chi si chiamava fuori. Adesso, nel suo complesso, il campo della sinistra italiana non arriva al 10 per cento dei voti. Gli iscritti ai vari micro partiti sono meno, sempre nel complesso, di 100mila. Non a caso, di anno in anno, le costituenti, i cantieri che si aprono, i campi larghi da esplorare, sono sempre di più ma si svolgono in sale sempre più intime. E ultimamente neanche troppo piene.
Il secondo dato è che, anche all’interno della stessa formazione politica siamo come monadi separate, dove non solo tutti parlano male di tutti. Al chiacchiericcio che ha sostituito la sana battaglia politica ormai ci siamo abituati. Il dramma vero è che nessuno ascolta più gli altri, né si sente rappresentato da altri. Assistito a riunioni dove se i presenti sono venti intervengono tutti e venti, con ragionamenti completamente slegati fra loro. Una specie di seduta di autocoscienza continua. Il bisogno di apparire, di affermarsi personalmente, ha ormai sostituito il riconoscimento delle capacità dell’altro. Sarò anche questo un frutto avvelenato della nostra società sempre più individualista?
Il terzo dato è la scomparsa del “popolo”. A parlare, sempre più spesso, sono sedicenti intellettuali, esperti di non si sa bene cosa, portatori di non si capisce bene quale messaggio superiore. E pretendono sempre di insegnarti qualcosa, di spiegare al muratore come si fa un muro, all’idraulico come si monta un rubinetto, allo sfruttato come bisogna lottare per i propri diritti. E’ qualcosa che va oltre la spocchia, è una superiorità aristocratica conclamata. Non ci si interroga, non si ascolta. Si proclama. Noi siamo, noi spieghiamo, noi vogliamo. Ora, in Italia la sinistra funzionava quando era fusione di popolo e intellettuali, quando i lavoratori parlavano del lavoro, gli intellettuali si confrontavano con loro e da lì nasceva la “linea”. Quando abbiamo cominciato a imporre le riforme dall’alto, quando abbiamo perso le nostre radici, non ne abbiamo più azzeccata una. La lezione, almeno questa, dovremmo averla imparata. E invece no. L’operaio, il precario, sono soltanto figurine che si mettono sui palchi perché fa tanto fico. Un po’ come avere l’amico gay qualche anno fa. Ma ci si ferma lì. E così andiamo a salvare naufraghi nel mediterraneo – cosa sacrosanta per carità – ma siamo lontani mille miglia dai tanti naufraghi che abbiamo nelle metropoli cattive che abbiamo costruito. Il popolo non ci vota perché non siamo popolo.
E allora di cosa avremmo bisogno? Io continuo a sostenere che servirebbe un grande sforzo culturale di analisi riprendendo nel cassetto i “vecchi” arnesi marxiani che sarebbero tanto utili nella società di oggi. Non solo dovremmo essere alternativi al neoliberismo che di danni ne ha fatti anche dalle nostre parti, ma tornare ad essere alternativi al modello di sviluppo capitalistico, perché è il capitalismo stesso a generare quel mondo dispari che ci ritroviamo nelle mani.
Non pretendo tanto. Se dici certe cose ti dicono che sei un comunista e se gli rispondi “certo” si sconvolgono. In una situazione come la nostra anche erigere una barricata sufficientemente alta per ripararci dall’onda nera che ci sta travolgendo sarebbe un miracolo. Cosa hanno fatto da altre parti? Perché in altri paesi la sinistra resiste, in alcuni casi torna addirittura a essere egemone? In Italia l’ultima esperienza di sinistra con una certa consistenza è stata Rifondazione Comunista, tutti gli attuali partitini nascono da lì, da un soggetto politico che aveva una discreta consistenza, una buona organizzazione, una attività militante diffusa. Poi più nulla. Altrove, penso alla Francia, alla Spagna, ma anche agli inglesi, la sinistra resiste se: 1) riesce a rinnovarsi radicalmente, 2) trova un leader convincente in grado accompagnare il rinnovamento, 3) trova delle forme organizzative che garantiscano un po’ di continuità. Non fanno, insomma, una fase costituente al giorno.
Noi un leader convincente non ce lo abbiamo. Facciamocene una ragione. E anche l’idea del “papa straniero”, al decimo fallimento consecutivo, dovrebbe essere rapidamente accantonata. Se facciamo l’elenco, da Prodi fino ad arrivare a Grasso, dovremmo capire che forse è proprio sbagliata l’idea in sé, che la sinistra dovrebbe formare la sua classe dirigente nella lotta politica e poi proporla e sperimentarla, non creare leader in laboratorio, incoronarli con un applauso con l’illusione di riuscire poi a controllarli. Poi questi si montano la testa e finisce male. Sempre.
Quanto al rinnovamento, faccio notare che ormai alle riunioni ci si conosce un po’ tutti. Perfino i ragazzi, pochi, che ogni tanto compaiono sembrano meri cloni dei più anziani. Con tutti i loro difetti, con tutte le loro debolezze. E poi c’è questa cosa che a me mi fa impazzire: il rinnovamento va bene, ma mai per se stessi. Sono sempre gli altri, nel segno della rottamazione continua a doversi fare da parte. E così ci ritroviamo ultrasessantenni con un onesto passato nelle retrovie della prima repubblica che ti diventano all’improvviso i paladini acerrimi del rinnovamento. Altrui.
L’altra cosa che trovo insopportabile è la società civile. Serve la società civile, basta con i partiti, le energie presenti nella società da valorizzare. Ma che noia questa stanca ripetizione di ricette fallite. Ora, le energie ci sono davvero, lo vediamo nel movimento delle donne, degli studenti, nelle manifestazioni contro il razzismo. Ma ai movimenti serve una sponda politica, un luogo dove le istanze che rappresentano diventano stabili, diventano patrimonio comune. Altrimenti, è la natura stessa dei movimenti a dircelo, si accendono, divampano e poi si spengono senza lasciare sedimenti significativi.
E allora che fare? Costruire una casa stabile, che non cambiamo ogni tre mesi, che non abbia come orizzonte soltanto le prossime elezioni, ma nella quale trovare riparo. Io resto convinto che almeno questo si possa realizzare in tempi brevi: dare alla sinistra un luogo di confronto di elaborazione, di selezione della classe dirigente. Come? Non dal basso, o almeno non soltanto. I partiti non nascono mai solo dal basso o solo dall’alto. Nascono seguendo esigenze storiche, fondendo militanza e classe dirigente. Sono processi più complessi. Ma per essere credibile e stabile il partito che ho in mente deve valorizzare la partecipazione e il metodo democratico. Non è che abbia la pretesa di essere maggioranza, tra l’altro mi succede di rado, ho però la pretesa di poter discutere le proposte, di poter contribuire a eleggere la classe dirigente. Dove non ci possono essere più “nominati”, quelli che ci sono sempre “di diritto”.
Insomma, continuerò a partecipare, per quanto mi sarà possibile, a tutti gli appuntamenti in cui si parlerà di questi temi. Secondo me ci sono ancora le condizioni per costruire un percorso che non rappresenti un ritorno al passato, che aggreghi e non divida ulteriormente. Un po’ meno spocchia e più umiltà da parte di tutti non guasterebbe. Ma è merce rara.
Da Roma all’Italia, come si blocca un Paese.
Il pippone del venerdì/67
Chi mi segue sa come la penso su Roma e sulla sindaca Raggi, sull’immobilismo che sta riportando questa città agli anni ’80, quelli della stagione finale delle giunte di pentapartito, in cui tutta la città era come avvolta da una cappa grigia. Una delle città più famose del mondo, con una ricchezza storica senza paragoni, era ridotta a una cittadina di provincia. Zero vita culturale, zero progetti di lungo respiro, zero manutenzione. Poi arrivò il ’93, la vittoria di Rutelli, una giunta comunale che fece ripartire la capitale. Con il nuovo sindaco e poi ancora di più con la vittoria di Veltroni, Roma tornò ad essere una metropoli di livello internazionale. Per i progetti in campo, per gli eventi che riempivano tutto l’anno. Siamo andati avanti fino a l’altro ieri con i progetti pensati in quella stagione. Serviva la fase due, realizzare una città più amica di chi ci abita e di chi la visita. Per qualità dei servizi, dei trasporti innanzitutto. Con Alemanno, al contrario, siamo tornati al grigiore, poi è arrivata la stagione di Marino e pur nel caos qualche timido segnale in questo senso c’era stato. Oggi la Raggi e l’ottuso senso della legalità di facciata a cui fanno appello i cinque stelle ha letteralmente paralizzato la città.
Faccio solo l’esempio della cacciata (per ora fortunatamente soltanto minacciata) della Casa internazionale delle donne. Una esperienza unica (e non solo in Italia), uno spazio che il Comune dovrebbe usare come fiore all’occhiello, rischia invece lo sfratto per una questione di canoni arretrati contestati dall’associazione e non pagati. Hanno provato a trovare una soluzione ma si sono scontrati con la legalità dei cinque stelle. La legge dice che dovete pagare, non avete pagato ve ne dovete andare. Poco importa quello che fai, il ruolo che hai nella città. Paradossalmente non viene sfrattata invece Casapound che occupa prestigiosi stabili nel centro di Roma. Evidentemente non avendo una convezione con il Campidoglio la sindaca non se ne occupa. Diciamo così.
Questo, ovviamente è soltanto un esempio. L’Estate romana, la straordinaria intuizione di Renato Nicolini, poi riportata agli antichi fasti da Gianni Borgna, non esiste più. Solo qualche bancarella piazzata qua e là. La stessa esperienza del cinema in piazza ha subìto un forte ridimensionamento. Anche qui la vicenda dei “ragazzi del cinema America” è esemplare di come agisca questa amministrazione. L’associazione si inventa una formula vincente, con le proiezioni in piazza San Cosimato. Tutto gratis, partecipazione di attori e registi per commentare insieme i film. Un gran successo, fino a quando l’assessore alla cultura non decide di mettere a bando l’iniziativa. Insomma, per realizzare una mia idea devo partecipare a una gara con altri. Se ci pensate bene è una follia. Anche perché di piazze ce ne sono tante, se altri soggetti avevano in mente di realizzare arene estive potevano farlo altrove. Nulla da fare, la legalità impone di mettere tutto a bando. Alla fine il bando è andato deserto e il prode assessore è dovuto andare dai ragazzi del cinema America a testa bassa e tutto si è risolto. Ma anche questo è sintomatico di quanti danni produca una pedissequa applicazione delle regole disgiunta dal buon senso.
Di progetti di lungo periodo non se ha traccia, della manutenzione della città non ne parliamo proprio.
Scusate se sono stato un po’ lungo, ma – lo dico soprattutto ai non romani – serviva per far capire quello che adesso rischiamo in Italia. In aggiunta al razzismo di Salvini, all’incompetenza di qualche ragazzotto messo a guardia di ministeri importanti, c’è anche questo. Il governo Salvini-Di Maio sta bloccando tutto. Che si sia d’accordo o meno sulla Tav, sull’Ilva, sul Tap, una decisione si dovrà pur prendere. E invece no. Stanno studiando i dossier. Calcolando che viviamo nel Paese più complicato del mondo, dove le leggi si sovrappongono e si smentiscono l’una con l’altra, con grande gioia di avvocati e tecnici vari, siamo messi male. Siamo sopravvissuti a tangentopoli e agli squali famelici della prima Repubblica, moriremo per la legalità di facciata dei Cinque stelle.
Sarà il caldo, sarà che ormai alle vacanze mancano ore e non più giorni, ma il senso di impotenza ormai prevale. L’unico provvedimento vero portato alle Camere in questi mesi è il cosiddetto decreto dignità. Un provvedimento messo in piedi da Di Maio per mettere un freno alla costante presenza mediatica di Salvini. Un decreto che contiene norme positive, come l’aumento degli indennizzi in caso di licenziamenti ingiusti o le norme che rendono meno convenienti i contratti a termine, ma alla fine sarà usato per reintrodurre i voucher. Insomma una roba né carne né pesce che non servirà a nulla. Senza dimenticare che quando si è trattato di votare la reintroduzione dell’articolo 18, sia pure limitato, i Cinque stelle hanno votato contro, alla faccia delle promesse della campagna elettorale. Su tutto il resto siamo, lo so mi ripeto, alla paralisi totale. Il tutto coperto dalle strillate di Salvini e soci con cui solerti colleghi riempiono giornali e Tg.
Ora, quanto durerà questo Governo non è dato saperlo. Di certo c’è che in queste condizioni rischiamo di arrivarci con un Paese più incattivito e ancora più stremato di quanto sia attualmente. Non ci possiamo permettere la paralisi con i nostri conti e con l’economia che corre tutto intorno a noi. Ho sinceramente timore di cosa possano combinare questi cialtroni quando dovranno mettere mano alla legge di stabilità. Perché lì bisogna fare i conti con i numeri, non basterà l’oratoria volgare ma efficace dei leghisti a coprire il vuoto. Sarebbe allora il caso di attrezzarsi, di cominciare a fare opposizione, a costruire pezzi di alternativa. Anche questo l’ho già detto e scritto. Non che pretendo che qualcuno risponda. Ma il silenzio continua a essere totale. Si fanno polemiche sul nulla, non si mette in campo una pur minima iniziativa alternativa. Non è che basta presentare qualche emendamento scritto bene in parlamento. Stanno ancora giocando agli statisti, ballano sull’orlo del burrone senza accorgersene. A settembre, solo per dirne una, ci saranno le feste nazionali di Articolo Uno e di Sinistra Italiana. Farne una sola di Liberi e uguali? Eppure mica ci vuole un genio secondo me.
E insomma, non la faccio lunga e vi lascio con questo messaggio angoscioso. Non riesco a essere ottimista: servirebbe una sorta di calcio-mercato nella politica. Potremmo prenderci un Corbyn, uno Tsipras, un Sanders. L’unico problema sarebbe piazzare i nostri. Me li immagino ai giardinetti a dare da mangiare ai piccioni. Ma purtroppo rimarrà un sogno. Intanto, cari ragazzi, io me ne vado al mare. Ci vediamo a settembre.
Il pippone del venerdì/9.
L’eterna rincorsa dell’unità a sinistra
Finito il tormentone politico primaverile delle primarie del Pd, possiamo tranquillamente ricominciare a farci del male fra di noi, fra quelli che si definiscono di sinistra. Anzi, sarebbe il caso che tutti, mi ci metto anche io, pensassimo di più ai guai di casa nostra, piuttosto che gioire dei guai di casa altrui. Non ci serve.
Parto da questa scena. Corteo del 25 aprile, incrocio un compagno di Sinistra italiana che mi fa: “Che poi, io mica capisco perché io e te stiamo in partiti diversi?”. Bella domanda. Neanche io lo capisco. O meglio: le ragioni le conosco, conosco la storia che ha portato da un lato alla formazione di Rifondazione prima, poi delle altre formazioni della sinistra, alla fine di Sel e di Sinistra Italiana, e dall’altro lato alla fusione del Pds con un pezzo dei socialisti e dei Verdi prima, poi con la Margherita. Se guardiamo gli anni dal 1990 in poi, in pratica quello che si vede è questo: la sinistra cosiddetta radicale si è andata via via sempre più spezzettando alla ricerca della purezza ideologica assoluta. Ormai i grafici sono in crisi a forza di disegnare falci a martello in tutti i modi possibili. La sinistra cosiddetta riformista, al contrario, nel corso degli anni ha annacquato la propria identità a tal punto da non riconoscersi più neanche quando si guarda allo specchio. La radice del problema credo sia la stessa: la crisi di un sistema politico che, la verità è questa, non riesce più a rappresentare i cittadini, a svolgere quella funzione importantissima di corpo intermedio fra il popolo e le istituzioni che gli assegna la Costituzione.
Insomma, fin dagli anni ’90 i partiti perdono man mano la loro funzione, diventano sempre più ceto politico e sempre meno popolo. E che succede? Che questo ceto politico cerca disperatamente di proteggere se stesso, cercando recinti protetti da un lato, allargando il proprio recinto dall’altro. Le due risposte, questi sono i fatti, non funzionano. I prodotti più evidenti della crisi del sistema politico sono i Berlusconi, i Renzi, i Grillo, che avranno anche caratteristiche differenti, ma hanno la stessa radice. Di fronte alla fine dei partiti di massa del ‘900, il popolo cerca il “nuovo” e lo identifica nei vari uomini forti che arrivano sulla scena. Salvo poi pentirsi sempre più rapidamente con il passar degli anni.
Dunque ricapitoliamo: crisi dei partiti, la sinistra si frammenta o si annacqua con il centro, arrivano gli uomini forti. Questo è il quadro. Ma torniamo a noi. Cosa succede nelle due anime della sinistra (la dico rozzamente per grandi linee) così come generate dalla dismissione del Pci? Da una parte, nella miriade di formazioni derivate da Rifondazione si fa a gara a chi è più puro, fino a rinfacciarsi l’emarginazione di Secchia dal gruppo dirigente del Pci: prevale una vocazione talmente minoritaria che quando, quasi costretti dagli eventi, si ritrovano al governo si sentono talmente fuori posto da essere la causa della caduta del governo che hanno contribuito ad eleggere. Caso tipo: prima votano Prodi poi lo accusano di essere troppo moderato. E che vi credevate di aver votato il Che? Dall’altra, si percepisce la crisi, ma invece di dare risposte dal punto di vista delle idee e del rinnovamento delle forme della partecipazione politica, si risponde gettando la palla in avanti: viene fuori così questa ossessione di costruire contenitori sempre più ampi, nell’illusione di risultare comunque egemonici. Finisce che scopri che i contenitori così ampi non sono e che i democristiani le preferenze ce le hanno nel sangue e tu no.
Quando te ne accorgi te ne devi perfino andare da quella che consideri casa tua. Ora, io ho partecipato ormai a varie scissioni, avendo girovagato fra le due anime, e quindi cambiare partito non è che mi traumatizzi più di tanto. A dire il vero, però, questa lenta agonia del Pd fa un po’ impressione: non c’è una scissione, c’è una frammentazione individuale che cresce giorno dopo giorno. Non si vede, ma poi all’improvviso ti ritrovi che nelle Regioni rosse gli iscritti sono la metà di un anno prima e gli elettori non vanno proprio a votare. Guardate che è peggio di una scissione “frontale”. Io ho vissuto quella più dolorosa di tutte, quella del Pci, ma mica è stato così: c’erano energie, passioni, anche scontri durissimi. Qua tutto avviene in un clima ovattato. Ha cominciato Civati, poi Cofferati, poi Fassina, poi D’Attorre, ora il gruppo di Bersani, Speranza, Epifani, Rossi e D’Alema. Bene, anzi meglio ci togliamo la zavorra, rispondono gli ultras. Ma il popolo? I militanti? Guardate che quelli sono tornati a casa da anni. Mica da ieri. Eravamo milioni quando si è costituito il Pd. Ricordate? Le assemblee fondative dei circoli, il Circo Massimo. Sono tornati tutti a casa. Quello che resta è ceto politico e affiliati. Poco altro. La ritirata è avvenuta in silenzio, uno alla volta, senza clamori.
Insomma, la cosa curiosa è che le due strade, quella della sinistra “identitaria”, semplifico così scusatemi la rozzezza, e quella della sinistra “ampliativa”, alla fine producono lo stesso risultato: gruppetti dirigenti che si autoriproducono per gemmazione, i militanti semplici che sono sempre meno e sempre più comparse, marginali e quasi fastidiosi. Si celebrano come “volontari eroici” quando devono montare i gazebo, dare i volantini e cuocere le salsicce, ma poi a decidere sono altri. Loro, i volontari eroici al massimo sono convocati a benedire il loro leader. Già scelto da altri. Poco importa la forma, congresso, primarie, caminetti. Il risultato è quello: i militanti servono soltanto come platea. E la logica conseguenza è che le platee sono sempre più ristrette. Parafrasando uno slogan da stadio si potrebbe dire che se qualche anno fa riempivamo il Circo Massimo, adesso riempiamo al massimo un circo.
In tutto questo, puntualmente, una volta ogni due, tre anni rispunta il gioco dell’unità a sinistra. Sinistra Arcobaleno, Lista Ingroia, Lista Tsipras, un paio di costituenti comuniste, poi ancora le riunioni fra Rifondazione, Possibile, Sel, Altra Europa, Tilt, Act, Futuro a Sinistra. Ci sono stati tavoli dove le sigle erano talmente tante che mi è venuto il sospetto che qualcuno rappresentasse se stesso. A stento. A volte questa specie di risiko politico ha prodotto grandi alleanze elettorali del 3 per cento, altre volte neanche quelle. L’ultimo caso è di scuola: la nascita di Sinistra italiana, che aveva alimentato grandi speranze. Si era partiti da tanti soggetti diversi, con l’idea di cedere ognuno un pezzo della sua identità, si è finito tra veti contrapposti e la fuga di tanti a far nascere un partito più piccolo di quello originario.
Altra cosa curiosa: il percorso italiano è del tutto originale, mentre la crisi del sistema democratico e della sinistra ha una dimensione quanto meno europea. Ma negli altri paesi quando i partiti tradizionali della sinistra socialista hanno cominciato a dar segni di confusione e a perdere consenso sono nati movimenti alternativi che hanno preso rapidamente il centro della scena. Il ceto politico, una volta perso il consenso, non è riuscito a sopravvivere, è stato spazzato via. Altro che la finta rottamazione all’italiana. Spagna, Francia, Grecia, solo per citare i casi più importanti: nuovi movimenti, nuove forme di aggregazione e di partecipazione. In Italia no, non ci si aggrega, ci si continua a frammentare. A chi ti si avvicina si chiedono non solo le analisi del sangue, ma l’intero genoma. Non si accoglie, si respinge.
Altra cosa curiosa (l’ultima): pezzi della sinistra italiana, tradizionalmente europeista (Altiero Spinelli era eletto come indipendente nelle liste del Pci), come risposta al sovranismo delle destre non dicono “ci vuole più europa” come sarebbe logico aspettarsi, ma diventano sovranisti a loro volta e si allineano ai colleghi francesi, che però una tradizione isolazionista ce l’hanno eccome. Insomma, per vent’anni ci siamo fatti dettare l’agenda politica da Berlusconi, ora da Salvini e Storace.
Scusate la disanima che più di un’analisi politica sembra l’autopsia di un cadavere, provo come al solito a proporre qualche idea per andare avanti.
- Scordiamoci del Pd. Se partiamo nella discussione da “ci si allea o no con il Pd” non si va da nessuna parte. Definire il proprio campo nel rapporto con un altro partito è già un segno di subalternità politica. La tua esistenza la giustifichi con un fattore esterno. Invertiamo i termini, definiamo cosa vogliamo fare, quale è il campo di valori da cui ripartiamo. Poche cose: siamo contro il liberismo, per il lavoro, per i diritti, per l’eguaglianza. E su queste confrontiamoci liberamente con tutti.
- Non partiamo dall’alto e dalle formule organizzative. Se cominciamo a discutere se, come e in quali tempi dare vita a una nuova formazione politica, se ci si deve sciogliere e rinunciare alla propria identità (leggi al proprio pezzettino di potere), come ci si deve aggregare, se usiamo questo metodo finiamo direttamente in prigione senza passare neanche dal via.
- Aggreghiamo dal basso: i gruppi dirigenti che hanno interesse a un percorso unitario, si mettano, per una volta a ascoltare prima di parlare. Definiamo chi è interessato e poi, invece, del solito tavolo nazionale, lanciamo i comitati città per città, quartiere per quartiere. E ciascun comitato produca idee, documenti. Si caratterizzi come vuole, per tematiche generali, questioni locali, per la presenza nei luoghi di lavoro. La forma partito facciamola strana: ognuno decide come organizzarsi. Facciamo casino, insomma. Chissà che non venga fuori una cosa ordinata e credibile. E apriamo le porte alle associazioni, quelle vere non i soliti amici, che cercano da anni un interlocutore credibile e puntualmente non lo trovano, apriamo le porte agli intellettuali, quelli veri non quelli dei salotti. Contaminiamoci. Partiamo da quel “mica capisco perché siamo in due partiti diversi” e non dal “tu nel 1898 eri turatiano e io no”. Secondo me se cominciamo a confrontarci noi che siamo stati abituati ad attaccare i manifesti più che a discutere di poltrone, una sintonia la troviamo. Cancelliamo le nostre provenienze, magari proviamo ad aggregare qualcuno che non proviene da nessuna delle nostre storie e confrontiamoci sulle cose. Anche perché, guardate che veniamo tutti da sconfitte. Mica c’è qualcuno che aveva ragione e gli altri che devono “solo” cospargersi il capo di cenere e venire a Canossa. Chi più chi meno, siamo tutti responsabili, dello sfascio attuale. Se da un lato si è preparato il campo a Renzi, dall’altro si è talmente poco credibili che piuttosto che votarti gli elettori se ne restano proprio a casa. Insomma finiamola con la gara a chi ce l’ha più lungo, ce l’abbiamo tutti piccolo piccolo.
- Da lì, da questa contaminazione, costruiamo una rete orizzontale, che si concretizzi in assemblee cittadine, poi regionali, poi in una serie di assemblee generali sui temi. Dobbiamo girare come trottole, perdere l’orientamento se vogliamo ritrovare una bussola. Alla fine di questo percorso, si vedrà quali sono i leader. Io eviterei l’uomo solo al comando, abbiamo già dato e non è andata proprio bene bene. Un gruppo dirigente plurale e collettivo, uscito da questo percorso e non calato dall’alto. In parte avrà i capelli bianchi e verrà dalle istituzioni. In parte avrà magliette e scarpe da ginnastica. Nessuna rottamazione, di nessun tipo. Mescolare il tutto e agitare prima dell’uso.
- Discutiamo subito della nostra collocazione internazionale. Per me la politica, a maggior ragione in questo tempo, non può avere una dimensione nazionale. La sinistra, europeista, questo per me è scontato, non può creare da sola nuove barriere “doganali”, per cui la nostra azione deve avere un respiro sovranazionale. Io, lo dico subito, non vedo più nel Partito socialista europeo una casa comune credibile. Poi sono disposto anche a ricredermi, ma vorrei una discussione seria su questo punto.
- Altra cosa da evitare, e concludo, sono le aggregazioni elettorali: non funzionano, si passa il quorum a stento, ma non si incide. Perché questa è l’ultima caratteristica che deve avere la sinistra che vorrei: quella di incidere sulla società. Possiamo perdere, magari non sempre, ma non possiamo essere pura testimonianza. La sinistra è se cambia il mondo che non le piace. Altrimenti è un salotto. Ma di quelli, credo, ne abbiamo tutti le scatole piene.
Ultimissima notazione: facciamo in fretta, facciamolo subito.
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