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Questa volta non mancano le risorse.
Il pippone del venerdì/149

Lug 24, 2020 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Quante volte abbiamo sentito dire “mancano le risorse” quando si tratta di finanziare un progetto o un’opera? Ho perso il conto. Ora, mediamente si tratta di una balla, viviamo in uno dei paesi più ricchi del mondo e le risorse le abbiamo, si tratta sempre di decidere a cosa destinarle, quali sono le priorità. E negli ultimi 20 anni almeno, non si sono mai trovati soldi per la sanità, per la scuola, per la ricerca. Ma anche facendo finta di credere a chi ti ha sempre risposto che “mancano i soldi”, adesso le risorse ci sono. Con l’accordo sul fondo europeo per la ripartenza l’Italia avrà a disposizione oltre 200 miliardi, escludendo il Mes sul quale il dibattito pare ancora lontano dall’arrivare a una conclusione. In parte, come è noto, si tratta di un contributo a fondo perduto, il resto è un prestito a tasso molto conveniente per un Paese come il nostro che ha scarsa credibilità sui mercati finanziari e che quindi quando emette titoli paga il denaro molto caro.

E 200 miliardi sono una bella dotazione. A patto che non vengano dispersi in mille rivoli, con le solite mance all’italiana.

Nelle settimane scorse il governo ha presentato alle parti sociali il suo piano per rilanciare il Paese. Un piano che contiene molti spunti condivisibili, altri meno (penso al sempre verde ponte sullo stretto di Messina).

Io credo che serviranno investimenti mirati, non ad esempio una generale riduzione delle tasse, che non portebbe a un automatico aumento dei consumi, ma al massimo del risparmio. Provo a dire alcuni ambiti di possibile investimento.

Intanto le opere pubbliche. Che sono da sempre il più grande moltiplicatore di investimenti. Lo diceva Keynes, un liberale, non un pericoloso comunista. Non credo che servano grandi opere in senso classico, ma investimenti mirati sul trasporto pubblico su ferro, sulla manutenzione del territorio, sulla digitalizzazione del Paese. Opere che servono a renderci più competitivi.

Poi ci sono istruzione, sanità e ambiente. Su questi tre filoni credo che debba andare la massima attenzione del governo. In sostanza, per essere breve, sono le chiavi per garantire un futuro all’Italia senza doversi sempre affidare al classico stellone nostrano.

Da non dimenticare tutto il capitolo delle riforme. Ora, dopo la stagione che va da Monti a Renzi fino al primo governo Conte, gli italiani quando sentono parlare di riforme tendono a blindare il didietro. Sarebbe il caso di farli ricredere. Di dimostrare che una seria riforma del mercato del lavoro può essere fatta a partire dai diritti, che vanno attualizzati ed estesi a tutti, non contro i lavoratori, che una seria riforma della pubblica amministrazione non deve per forza generare norme cervellotiche che vanno ad arricchire le agenzie di servizi e che causano nella miglior delle ipotesi un gran mal di testa al cittadino comune.

Per non parlare della giustizia. L’indeterminatezza del diritto in Italia è uno degli aspetti che più allontana gli investitori stranieri insieme all’instabilità del sistema politico. Perché chi investe ha bisogno di avere certezze, di sapere cosa è consentito e cosa è vietato. E soprattutto ha bisogno di sapere che in caso di contenzioso l’esito arriverà in un tempo compatibile con la sua aspettativa di vita. Quindi norme semplici, che, lo ripeto, non vuol dire assenza di regole, ma l’esatto contrario e applicazione rigorosa delle stesse norme.

Sono soltanto alcuni titoli, mi rendo conto. Ma faccio il giornalista e posso soltanto indicare i temi. Serve un lavoro collettivo per passare dai titoli ai contenuti. Un lavoro che coinvolga le forze sociali, alle quali non si può semplicemente presentare un documento finito, devono partecipare all’elaborazione del piano.

E serve sopratutto il coinvolgimento di tutte le forze politiche. I Paesi seri, nei momenti di emergenza fanno così. Lavorano tutti insieme. Non credo basti un semplice vertice fra maggioranza e opposizione. Il confronto deve essere pubblico e ampio. Un luogo dove possa aver luogo c’è, è quello naturale, il Parlamento. A patto che il passaggio dall’esecutivo all’assemblea non rappresenti il classico assalto alla diligenza a cui si assiste da sempre in occasione delle manovre economiche. Al contrario deve essere un’assunzione collettiva di responsabilità. E un passaggio parlamentare non soltanto è necessario per ridare centralità alla democrazia dopo il lungo stop imposto dall’emergenza. E’ necessario anche per rafforzare la posizione italiana nei confronti dei partner europei.

Al di là della eccessiva consuetidine con la polemichetta quotidiana che affligge la nostra classe politica, va ammesso che Conte ha portato a casa un risultato che in pochi avrebbero pronosticato. Averla spuntata sugli eurobond, ovvero sulla ripartizione fra tutti i paesi delle spese necessarie alla ripresa, è una svolta epocale, perché mette chi è più debole dal punto di vista dei mercati al riparo dagli affamati speculatori che già pregustavano di fare man bassa dei pezzi pregiati della nostra economia. Vuol dire in sostanza che il debito italiano, almeno in parte, diventa un debito europeo.

Non è poco, ma adesso dobbiamo dimostrare che questa apertura di credito non è un salto nel buio. E questo si fa a partire da un piano solido sostenuto da un ampio consenso, sociale e politico.

La finisco qui. Questo dovrebbe essere l’ultimo pippone prima delle vacanze, scritto con gli occhi stanchi di chi ha bisogno di staccare la spina dalle preoccupazioni di ogni giorno. E quindi dovrei dirvi: ci vediamo a settembre, ricaricatevi. Ma lascio la questione in sospeso, c’è una storiella di voucher e di rimborsi che solletica il mio istinto predatorio. Non disperate.

I magnifici anni ’80 del capitano smemorato.
Il pippone del venerdì/145

Giu 12, 2020 by     1 Comment     Posted under: Il pippone del venerdì

Nei giorni scorsi, aspettando che intervenisse un dirigente politico di cui mi interessava ascoltare il parere e le proposte, mi è capitato di imbattrmi nelle dichiarazioni di Matteo Salvini, detto il capitano, anno di nascita 1973. Ora, sintetizzo e quindi brutalizzo un po’ le sue parole, ma il senso è più o meno questo: l’Italia deve tornare a essere la grande nazione degli anni ’80 del secolo scorso, periodo in cui contava eccome a livello internazionale, cresceva impetuosamente, mica come adesso. Dei giornalisti presenti soltanto il direttore della Stampa, Massimo Giannini, ha provato, in maniera forse po’ blanda, a spiegargli due o tre cosette su quel periodo. Ma il capitano aveva la faccia un po’ scocciata di quelli che hanno già capito tutto e non sopportano le lezioncine.

Permettetemi una considerazione che non c’entra nulla su questo modello di talk show, che va di moda da qualche tempo, in cui i politici e gli imbonitori alla Salvini fanno una sorta di staffetta e non si confrontano mai. A parte che a me piace il confronto diretto e non a distanza. Perché non è attrattiva una trasmissione in cui quello che viene dopo ribatte all’ospite precedente che non ha la possibilità di alcuna replica, non c’è ritmo. Ma il format potrebbe anche essere interessante, perché dà, forse, più la possibilità di argomentare con calma. Solo a una condizione però: che in studio ci siano giornalisti in grado di incalzare l’ospite e non gente accondiscendente. Altrimenti non sono interviste, ma comizi. Suggerirei ai conduttori di studiare le tribune politiche condotte da Jader Jacobelli, a cui, mediamente partecipavano i direttori dei giornali schierati contro il protagonista della trasmissione e non amici indicati dallo stesso con cui, a volte viene anche questo “sospetto”, magari si concordano anche le domande.

Veniamo alla questione anni ’80. Ora Salvini aveva 7 anni nel 1980, io cinque in più, ma al contrario del capitano qualche libro l’ho frequentato e lo aggiungo ai ricordi personali. Quelli sono stati gli anni dell’inflazione in doppia cifra, del referendum sulla scala mobile, che abolì definitivamente il meccanismo di adeguamento automatico dei salari al costo della vita. Sono stati gli anni dei mutui con tassi che spesso sfioravano il 20 per cento. Salvini magari ricorda i cartoni animati di Mila e Shiro, le prime cotte adolescenziali, la disco-music, il periodo del ginnasio trascorso evidentemente con scarso profitto. Quelli con qualche anno in più sulle spalle ricordano la svalutazione continua della lira, che ci ha portato non soltanto a dover pagare i debiti di quel periodo in cui abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, ma anche a una bolletta energetica che di giorno in giorno saliva alle stelle. Si faceva il pieno di benzina alla macchina perché dopo qualche ora il prezzo dell’oro nero sarebbe salito ancora di più. Ricordano i mutui in Ecu (per i più giovani: una sorta di predecessore virtuale dell’euro) che proprio grazie alla svalutazione continua della lira portarono sul lastrico centinaia di migliaia di famiglie. Ricordano anche la svendita del patrimonio pubblico, le aziende di proprietà dello Stato regalate ai capitalisti “d’assalto” nostrani, l’Alfa Romeo che passa alla Fiat per un tozzo di pane, solo per fare uno degli esempi più clamorosi. Ora, forse in quegli anni lo Stato metteva anche troppo le mani sull’economia, ma controllava i settori strategici, si poteva fare una politica industriale: il polo siderurgico, quello chimico, le telecomunicazioni. Gioielli svenduti ben al di sotto del loro valore per aiutare le solite potenti famiglie italiane. Tutto svanito grazie alla sbornia liberista che proprio negli anni ’80 del nostro capitano nostalgico cominciava a gettare le basi del futuro disastro. Che poi, va ricordato, le famose grandi famiglie italiane quel capitale immenso lo hanno usato per fare cassa. Il risultato è che adesso quei settori strategici sono controllati da grandi multinazionali.

Sì, dice Salvini, ma l’Italia era forte e aveva un grande prestigio internazionale. Su una cosa concordo con lui: di sicuro la classe politica di allora aveva un’altra autorevolezza, lui al massimo avrebbe fatto il segretario di una sezione locale di un partito della destra. Ma fu anche una classe politica miope, che ha caricato di debiti i nostri nipoti. Saranno stati anche autorevoli ma hanno sbagliato quasi tutto. Del 1985, tanto per fare un altro esempio, è stato il primo condono edilizio, con talmente tante domande che gli uffici comunali le stanno ancora esaminando. Certo, venivamo dagli anni del cosiddetto abusivismo di necessità. Quelli in cui i poveracci si tiravano su da soli la casetta in borgata. Ma c’era anche la grande speculazione. E comunque la soluzione non era certo quella di monetizzare gli abusi, legalizzando cementificazioni assurde. Paghiamo ancora anche il prezzo di quelle scelte, in termini di dissesto idrogeologico, di quartieri senza logica né servizi, dove le strade girano intorno alle case messe qua e là a caso e le fogne sono arrivate, non sempre, decenni dopo.

Sarebbe il caso, insomma, che tutti parlassimo di cose che conosciamo, ma mi rendo conto che anche questo è davvero un obiettivo troppo ambizioso. Certo, l’operazione che prova il capitano, in grande difficoltà in questo periodo, è chiara: punta sulla nostalgia di un tempo in cui, un po’ ciecamente, molti si illudevano che il progresso ci avrebbe, alla fine, fatto stare tutti meglio. Quell’illusione, però, l’abbiamo caricata sulle spalle delle generazioni future. Fa comodo contrapporre la nostalgia della lira all’euro cattivo. I bei tempi in cui giravamo con le banconotone fieramente italiche nel portafoglio. I bei tempi in cui alle brutte si stampavano più soldi. Peccato che quei soldi valevano ogni giorno di meno. E dopo gli anni ’80 è partito lo smantellamento del sistema pensionistico, dello stato sociale, del servizio sanitario pubblico. Insomma una sbornia che alla fine ha pesato sulle condizioni di vita dei più deboli. Peccato che a Salvini gli effetti di quella o di altre ubriacature non sembrano ancora passati.

L’opposizione che servirebbe all’Italia.
Il pippone del venerdì/139

Mag 1, 2020 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Anni fa, lo ricordo spesso perché si tratta di una delle poche occasioni in cui mi sono trovato profondamente in disaccordo con D’Alema, attaccai duramente l’idea secondo cui la massima aspirazione della sinistra avrebbe dovuto essere fare dell’Italia un paese normale. Era un’immagine poco “appetitosa” per quella parte politica che, secondo me, doveva e deve ancora puntare a costruire un altro tipo di società, magari anche guardando alle idee socialiste. Eppure quell’obiettivo, me ne sono reso conto negli anni, appare ancora oggi non soltanto lontano, ma addirittura utopico. E’ stata, lo ammetto, una delle mie più grandi cantonate politiche. Continuo a pensare che la sinistra debba avere ideali alti su cui basare la propria iniziativa concreta. Debba mettere insieme “cielo e terra”. Ma la normalità, nel nostro caso, è l’obiettivo concreto più alto a cui si possa tendere.

Ne abbiamo la prova proprio in questi giorni. In tutto il mondo le opposizioni si stringono attorno al governo. Perfino la Le Pen, non proprio una moderata, è scesa dalle barricate e parla di battaglia comune da combattere, senza colori di partito. Succede ovunque, il governo chiama l’opposizione a un rapporto costruttivo, accoglie parte delle proposte che arrivano dalla minoranza, anche con un confronto serrato, e poi si arriva a una linea comune, su cui si lavora compatti.

Da noi succede il contrario. Dall’inizio dell’epidemia Salvini, Meloni e Renzi fanno ogni volta l’esatto contrario di quello che propone l’esecutivo. Partono le prime zone rosse? Bisogna riaprire tutto e subito. Lavorare! Gridava il leader leghista, con l’eco di Zaia e Fontana. Si provano a riaprire subito musei e altre attività? Serve massimo rigore. L’intera Italia diventa zona rossa? Non basta, chiudere tutto ma proprio tutto. Parte la fase più rigida della quarantena? Non va bene, così l’economia muore. Non che Conte non ci provi a venire a patti. Temo che alcuni provvedimenti del Governo nella loro genesi abbiano subìto modifiche profonde nel confronto con le Regioni.

La cosa più grave, infatti, è che non si limitano a enunciazioni teoriche, alla propaganda becera. No, usano le postazioni istituzionali che occupano per remare contro. Il caso della presidente della Calabria è esemplare. La Santelli che fino a ieri l’altro chiedeva l’intervento dell’esercito, adesso, con un atto platealmente illegittimo, concede a bar e ristoranti il servizio al tavolo, che potrebbe sembrare un’inezia, ma è considerato dagli esperti una delle possibili fonti di facile contagio. Non è neanche tanto difficile da capire: se il virus si trasmette con contatti prolungati, una cosa è entrare in un negozio fare rapidamente gli acquisti e uscire, un’altra è starsene seduti un’oretta, sia pur all’aperto. Ovviamente, la presidente, data l’urgenza dettata dalla necessità di mettere in difficoltà il governo, non si preoccupa neanche di stabilire delle regole, protocolli per la pulizia, le distanze da osservare nella disposizione dei tavoli. Nulla di tutto questo. Tanto che è riuscita a far andare su tutte le furie non solo i sindaci di buona parte della Regione, ma anche gli stessi commercianti.

Non la faccio troppo lunga, anche i miei pipponi nei giorni festivi sono in forma ridotta.

Mi limito a far notare che un’opposizione che non si limiti a dire che è tutto sbagliato, che l’unica soluzione è riaprire tutto, che l’antidoto alla burocrazia è l’azzeramento delle regole, che servono subito condoni di tutti i tipi, un’opposizione che si faccia carico del suo ruolo fino in fondo insomma, servirebbe eccome, anche a stimolare il governo.

E invece no, ci si affida a costituzionalisti improvvisati che gridano alla dittatura, si continua la campagna elettorale continua come se non ci fosse alcuna emergenza. C’è chi addirittura si scopre medium e fa parlare i morti.

C’è tutto un lavorio sotterraneo per far cadere il governo e sostituirlo con un esecutivo con tutti dentro, lo chiamano modello Ursula, per non far capire che si tratta della vecchia unità nazionale, magari presieduta da un tecnico presentabile. Con la regia neanche troppo occulta di Confindustria. E poi, questa è la cosa più divertente, si lamentano se la credibilità internazionale dell’Italia continua a essere scarsina.

Non sto qui a elencare meriti ed errori fatti da Conte, proprio perché, secondo me, nelle emergenze bisogna andare al sodo. Non che la democrazia sia sospesa, tutto si può dire meno che in questo Paese manchi la libertà di opinione. Si sono visti perfino parlamentari e dirigenti di partito manifestare in piazza durante la quarantena, che altro si vuole?

Dico però che se la democrazia è pienamente in vigore, sarebbe il caso di sospendere almeno la propaganda. Ma, come dicevo all’inizio, si tratta di un’utopia. La materia prima è quella che è. E continuo a temere che la classe politica rappresenti fedelmente lo stato disastrato del Paese, incattivito, rancoroso, incapace di quello slancio solidale che servirebbe adesso. Non basta cantare l’inno di Mameli da un balcone per essere un popolo.

Il coronavirus ci ha portato oltre la crisi di nervi.
il #pippone del venerdì/131

Feb 28, 2020 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Ho scelto di aprire questo pippone con l’immagine dei deputati alla Camera (non so chi siano) con le mascherine perché mi sembrano emblematiche di un paese che ormai è andato oltre la crisi di nervi. È il risultato non tanto del coronavirus in sé, ma allo stesso tempo dei guasti provocati da questi anni di diffusione di odio e pregiudizi a pieni mani e di una gestione della crisi che, a essere buoni, lascia perplessi.

Permettetemi, intanto, una nota sarcastica: l’immagine degli italiani respinti alle frontiere fa sorridere. Quella dei vacanzieri rispediti indietro dalle Mauritius anche di più. Fino a poche settimane fa eravamo pronti a bloccare per mesi in mare qualche centinaio di disperati perché “portavano malattie”, ora gli stessi soloni di prima si indignano perché qualche decina di nostri connazionali sono stati fatti risalire in fretta e furia sull’aereo e sono stati rimandati a casa. Perché, appunto “portano malattie”. Ci hanno trattato come pacchi postali, tuonano oggi gli stessi che fino a ieri sostenevano che i porti andavano chiusi.

E’ una specie di legge del contrappasso che dovrebbe farci capire come, soprattutto nell’era della globalizzazione, la solidarietà dovrebbe essere un obbligo. E come chiudere le frontiere sia un’illusione che può andar bene per prendere qualche voto in più, ma alla fine sempre un’illusione resta. Viviamo in un mondo interconnesso, dove se starnutisci in Cina ti prendi il coronavirus a Codogno. Facciamocene una ragione e cerchiamo di essere meno provinciali. Valga come monito per il futuro.

Il coronavirus sfata anche una leggenda: quella dell’Italia che nelle emergenze dà il meglio di sé. In questo caso è avvenuto l’esatto contrario: la drammatizzazione iniziale dell’epidemia ha prodotto un’ondata di panico insensato e dannoso, amplificato ad arte da quei giornali che prima hanno fatto il conteggio in diretta del numero dei contagiati e poi si sono affrettati a dire che in fondo è poco più di un’influenza.

Al corto circuito mediatico ha dato fiato una reazione scomposta da parte di una classe dirigente che si è dimostrata nel suo complesso inadeguata. Chi chiude i musei, chi si rintana in casa, chi chiude le scuole senza avere neanche un caso di contagio, bloccate anche le gite scolastiche all’estero non si capisce bene per quale motivo. La famosa Italia dei mille comuni ha dimostrato la sua fragilità. Si sa, che i sistemi democratici affrontano le crisi con grandi difficoltà rispetto alle dittature. Si studia sui libri di scienza della politica. Ma nelle crisi le grandi democrazie si compattano, lasciano da parte le polemiche e si mettono a lavorare senza guardare alle distinzioni politiche. Da noi ci si divide ancora di più, mostrando tutti i guasti prodotti dal regionalismo di fine secolo. Venti sistemi sanitari non funzionano in tempo di pace, figuriamoci nelle emergenze.

Noi no, insomma. Non si è mai visto un presidente del Consiglio che va a accusare gli operatori sanitari, quelli esposti in prima linea, durante un’emergenza sanitaria. Non si è mai visto un presidente di Regione che prima accetta le misure disposte dal governo e poi fa di testa sua. In piena crisi non abbiamo trovato di meglio che combattere a colpi di ricorsi al Tar.

In tutto questo poco ha potuto un ottimo ministro della Salute come Roberto Speranza, che fin dalla sua presenza fisica si dimostra uno dei pochi ad avere la testa sulle spalle. Ha il fisico del bravo ragazzo, un’aria rassicurante e pacata: due ottimi in gradienti per evitare che si scateni il panico. Ci ha provato, lavorando giorno e notte, ma alla fine, si sa, in questo Paese emerge chi fa la voce grossa, non chi lavora e parla pacatamente.

Ci mancavano gli avvoltoi che si sono avventati sul governo pronti a spartirsene le spoglie. Salvini che si dice pronto a un esecutivo di emergenza nazionale. Renzi che gli dà di spalla, salvo poi andare in tv con la faccia seria (che poi proprio non gli riesce) a dire che adesso si lavora uniti, del futuro della maggioranza si parlerà poi. Poche ore prima si messaggiava con il presidente della Regione Lombardia per esprimergli la sua solidarietà contro Conte.

Nel mezzo del dramma, creato in primo luogo da tutta questa confusione, è arrivato il dietrofront, dicevamo. Qualcuno deve essersi reso conto che un’altra settimana a conteggiare i contagiati e della nostra economia sarebbero rimaste poche briciole. Turismo a Roma a quota meno 90 per cento, solo per dare un dato. I mercati si sono incazzati e allora tutti in televisione a minimizzare, a dire che in fondo si guarisce, muoiono soltanto anziani e persone con altre patologie. Basta lavarsi le mani con il sapone e stare sereni.

Mi è sembrato un po’ come voler rimettere il dentifricio nel tubetto spremuto a fondo. Perché fino a poche ore prima impazzavano i Burioni di turno a dire: tappatevi in casa, disinfettate tutto. E fino a poche ore prima giravano immagini come questa dei due deputati alla Camera con la mascherina.

Contenti di tutto questo solo i produttori di Amuchina e roba del genere. E ora che si fa? Attendiamo l’estate, magari passa da solo. Tanto il campionato di calcio va avanti, prima o poi la gente penserà ad altro.  Resto con un forte senso di nausea. Ma non temete, credo sia soltanto una reazione psicosomatica.

Anche le sardine, nel loro piccolo, si incazzano.
il #pippone del venerdì/121

Nov 22, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

La dico subito, a me questa cosa delle “sardine” in piazza piace parecchio. Ha ragione Bersani, danno due messaggi molto chiari: a Salvini mandano a dire che non sarà una passeggiata, a partire dalle elezioni emiliane, a noi sinistra dicono chiaramente che è il momento di finirla con le pippe mentali. E’ una sorta di appello collettivo.

L’ho scritto subito, perché in queste due settimane in cui il movimento spontaneo si è allargato in tutta Italia ne ho lette di tutti i colori. C’è chi dice che devono avanzare proposte, che non si può dire soltanto no a Salvini. Chi chiede addirittura un programma delle sardine. Siete fuori dal mondo.

Riassumiamo: quattro ragazzi bolognesi, all’avvio della campagna elettorale per le elezioni regionali, decidono che non ci stanno ad assistere al solito tran tran, fatto delle solite facce che si incontrano nelle solite sale. E quando Salvini organizza un comizio al PalaDozza, lanciano uno slogan “Bologna non si lega” e chiamano in piazza Maggiore “6000 sardine”. Insomma: facciamo vedere che ci siamo anche noi, tutti stretti come il noto pesce che ama compensare la sua debolezza con la creazione di grandi banchi compatti. Le sardine saranno molte di più. E colpiscono le segno, le reazioni scomposte di Salvini ne sono la riprova evidente. Da quel giorno si moltiplicano appuntamenti, gruppi facebook, manifestazioni in tutta Italia. I quattro ragazzotti bolognesi diventano subito star di un mondo dei media sempre più stanco e alla ricerca di un guizzo per destare un po’ di interesse.

Tanto basta per generare una vera e propria esplosione. I gruppi facebook aumentano iscritti a ritmi vertiginosi, soprattutto pensando alla stanchezza attuale del gigante dei social. Quello principale è arrivato alle 7,40 di oggi a quota 114mila. Erano 105mila prima di andare a letto ieri sera. E sono gruppi attivi, dove i post si accavallano, gli appuntamenti si sovrappongono. Poi ci sono anche i polemici e i soliti troll. Ma la maggioranza è fatta da persone comuni, senza una precisa appartenenza politica, vagamente di sinistra potremmo dire, che vogliono semplicemente riaffermare alcuni valori: intanto la solidarietà contrapposta all’odio che Salvini in questi anni ha sparso a piene mani. E c’è anche una positiva voglia di essere protagonisti, di provare a fermare la deriva italiana che fino a pochi giorni fa sembrava inesorabile.

Insomma, le sardine sono una scossa salutare. Ci fanno capire che c’è vita oltre le stanche forze politiche attuali e che una strada per uscire da questo pantano esiste. E’ folle, invece pretendere che, da un giorno all’altro, quattro ragazzi organizzino un partito, con manifesti ideali, programmi, strutture e tutto il resto.

Come spiega Bersani, sempre fra i più lucidi quando si tratta di fare analisi politica, le sardine pongono un problema a tutta la sinistra, che dovrebbe essere il loro alveo naturale (se non altro per contrarietà, come direbbe Guccini) ma che non riesce a esserlo. Le ragioni, o almeno quelle che secondo me sono le ragioni, le ho scritte cento volte e non voglio ripetermi ancora.

Ma adesso c’è un fatto nuovo: la sinistra riscopre che un suo popolo esiste. Almeno potenziale. Ed è lontano da quelle rappresentazioni che girano da anni sui media. Ci raccontano sempre che alle varie assemblee “ufficiali” ci sono più vecchi, c’è solo quello che un tempo si sarebbe definito il ceto medio riflessivo, gente di una certa cultura, anche un po’ radical chic.

Ecco, invece, le sardine ci raccontano che non è il popolo della sinistra a essere così, è la sinistra a essersi rinchiusa in quel recinto con le sue paranoie, le sue parole d’ordine incomprensibili e lontane dal sentire comune.  Nelle piazze emiliane, ma adesso un po’ in tutta Italia, si rivedono tanti ragazzi che in un partito (forse per loro fortuna) non ci hanno messo mai piede. C’è gente di tutti i ceti sociali, di tutte le età. E stanno insieme senza chiedersi a che corrente appartieni, chi ti manda.

Non sarà certo la panacea di tutti i mali. Quella delle sardine è un’ondata. Che toccherà rapidamente un suo picco e poi tenderà inevitabilmente a calare. Non è una novità: è successo, per restare agli anni scorsi, prima con i girotondi, poi con l’ancora più effimero popolo viola. Sta alla sinistra provare a rivoluzionare se stessa e offrire un mare sicuro a questo popolo. Se ci fosse una classe dirigente in questo Paese non proverebbe a cavalcare l’onda, ma proverebbe a fornire risposte: la prima che mi viene in mente è: ragazzi, avete ragione voi, ci mettiamo a disposizione per costruire insieme un futuro differente per questo Paese.   Postare le foto delle manifestazioni con commenti entusiastici serve davvero a poco. Diamoci una scossa, perché le sardine sono piccole, ma si incazzano. Anzi sono già belle incazzate.

Bologna, Emilia: dateci un bel segno.
Il #pippone del venerdì/120

Nov 15, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Dopo la divagazione “personale” della settimana scorsa, mi pare il caso di tornare a occuparsi della politichetta italiana. Fra il disastro di Venezia e la paventata chiusura dell’Ilva questa è sicuramente la settimana di Bologna. Si concentra tutto lì, dalla manifestazione di apertura della campagna elettorale di Salvini al PalaDozza (sigh) alla tre giorni che dovrebbe dare il via alla rifondazione del Pd (sob). Con in mezzo la piacevole sorpresa dei quindicimila bolognesi che hanno riempito come altrettante sardine piazza Maggiore per far vedere che sono più dei leghisti, che hanno dovuto cammellare truppe dalla Lombardia per riempire lo storico palazzo dello sport.  In piazza, altra piacevole sorpresa, anche il padre della candidata leghista alla presidenza della Regione.

L’Emilia-Romagna, diciamolo subito, non è una Regione qualunque. Insieme alla Toscana ha sempre rappresentato un baluardo insormontabile dal dopoguerra a oggi. Più della Toscana rappresenta l’epicentro di un sistema non solo politico, ma anche economico, che ha sempre rappresentato un’alternativa possibile. Una sorta di palestra in cui le idee della sinistra hanno avuto modo di innervare profondamente il tessuto sociale. E quindi si è spesso parlato negli anni di modello emiliano in economia, con la crescita dei grandi colossi cooperativi, dalle mense, alle assicurazioni, alle costruzioni, di modello emiliano nella sanità e nell’istruzione. Gli asili nido emiliani, andrebbe risposto a chi straparla del caso di Bibbiano, li venivano a studiare da tutto il mondo fin dal secolo scorso.

Certo, il vento nazionale resta contrario. Le difficoltà del governo, acuite dall’egocentrismo di un Renzi che si considera un novello Macron, sono sotto gli occhi di tutti. E’ difficile andare avanti sulla normale attività, si va in tilt appena c’è una crisi. In più il sempre più rapido declino dei 5 stelle li porta a dei guizzi disperati, come il pesce preso all’amo che tenta l’ultimo vacuo tentativo di sottrarsi alla lenza.

Andiamo con ordine. Il fiorentino dice ormai apertamente quello che qualcuno “sospettava” già da anni. La sua lettura della famosa “vocazione maggioritaria”, che tanti danni ha portato alla sinistra italiana, era già evidente, bastava avere la capacità di guardare con occhi distaccati le sue azioni: trasformare il Pd in una novella Dc, capace di aggregare voti un po’ da tutte le parti, ma puntando decisamente a quel centro moderato che il declino di Berlusconi ha via via liberato. Che in tanti se ne se siano accorti a cose fatte è uno dei sintomi più evidenti della pochezza della nostra classe dirigente. E di fatti con c’è riuscito più per la sua incapacità strategica che per meriti altrui. E adesso ci riprova con la sua nuova creazione. Lo ha dichiarato apertamente: vuole fare come Macron, (che a casa sua sta riscuotendo evidenti successi!) ovvero svuotare il campo socialista come è successo, a suo dire, in Francia. Peccato che dimentichi come la crisi irreversibile del Psf ha portato sì consensi a Macron, ma parallelamente è cresciuta fino a raggiungere il 20 per cento l’esperienza della sinistra della France Insoumise. Devo ancora ripetere che in Italia manca, a oggi, una risposta da sinistra?

Di certo, comunque, il protagonismo renziano, sia sulla manovra economica, che sui temi più politici delle alleanze per battere la destra, alza il livello di conflittualità nella coalizione che sostiene il governo Conte e questo non fa bene. Sia per il blocco dell’azione del governo stesso che deriva dai veti contrapposti fra Italia Viva e i 5 stelle, sia perché tutto questo, come risultato finale, porta a un grande disorientamento fra gli elettori. La politica, mi prendo una riga per ricordarlo, è una cosa in fondo semplice: i voti si conquistano lanciando messaggi chairi al blocco sociale che si vuole  rappresentare. La confusione, o il voler rappresentare tutti che in fondo è un po’ la stessa cosa, ti porta automaticamente a perdere.

Dall’altro lato il Movimento 5 stelle appare incapace di tornare alle origini, dopo la sbornia dei 14 mesi leghisti. Per cui quella che dovrebbe essere, almeno a guardare le rispettive carte di identità, la parte più vivace del governo, quella capace di lanciare proposte innovative, di dare risposte originali ai problemi che dobbiamo affrontare, si ritrova al contrario a guardare soltanto al proprio ombelico. Il centralismo poco democratico di Di Maio ha avuto come prima conseguenza l’imborghesimento di tutto il Movimento che è diventato nel giro di pochi anni un partito normale, con le sue correnti, le sue poltrone da difendere, senza però avere la struttura e le regole democratiche di un partito normale. E’ evidente, soprattutto, la distanza con le aspettative del suo corpo elettorale.

E allora cambiano linea due volte al giorno, vagano alla ricerca della purezza perduta, senza capire che la strada giusta sarebbe quella indicata da Zingaretti. Il M5s, sulla carta, potrebbe essere davvero la gamba indispensabile per provare a costruire un’alleanza in grado non solo di battere la destra, ma di governare il nostro Paese con la necessaria discontinuità rispetto al passato. Ma deve tornare a essere quello che difendeva l’acqua pubblica e predicava trasparenza in tutte le scelte. Servirebbe, forse, una presenza rinnovata di Beppe Grillo, che sarà anche un pazzo, ma è forse l’unica ancora di salvezza alla quale possono aggrapparsi.

Tutto questo per dire che a gennaio sarà dura anche in Emilia. Anche in una Regione da sempre governata bene dalla sinistra, che rischia però di piegarsi a un vento nazionale contrario che sembra sempre più forte. Per questo piazza Maggiore è un bel segnale. Un segnale che c’è ancora un tessuto sociale forte che non vuole “legarsi”, come dicono i ragazzi che hanno organizzato la manifestazione di ieri. Dobbiamo avere la capacità di partire da quella piazza e non dalle convention che si annunciano storiche e finiscono per essere un vetrina mediatica di basso profilo.

Emilia, a gennaio dacci un bel segno.

Siamo stati a un passo dai pieni poteri. Ricordiamolo.
Il pippone del venerdì/112

Set 13, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Finita la sbornia del totoministri, del totoviceministri e del totosottosegretari, una roba che al confronto il calciomercato sembra un film avvincente, sarà il caso di prendersi un attimo di pausa, riaccendere il cervello e capire la fase drammatica che abbiamo vissuto e quello che serve per lasciarsela alle spalle.

Lo diceva benissimo in un editoriale su Repubblica Ezio Mauro giusto ieri. Anche se va considerato una voce isolata in un gruppo editoriale che, giorno dopo giorno, non manca di manifestare tutta la sua contrarietà al patto fra Democratici e Cinque stelle. Lo stesso Mauro, del resto, avverte fino in fondo la fragilità di un accordo che fatica a diventare alleanza stabile. Ci vorrà del tempo per capire quale delle due strade prenderanno: accordo occasionale o strutturale? Ci vorrebbe la palla di vetro. Le regionali in Umbria, Emilia e Calabria, ma anche un possibile allargamento della maggioranza nel Lazio, saranno il primo vero banco di prova.

La cosa certa è che il Conte 2 nasce per reciproche convenienze occasionali. I 5 stelle, pur avendo provato da vicino quanto sia scomodo il Salvini di governo, hanno baciato il rospo Pd solo per paura di vedersi più che dimezzati da uno scontro elettorale ravvicinato. I renziani idem. Zingaretti, al contrario, ha dovuto cedere alla maggioranza del suo partito che, malgrado i proclami del segretario, di affrontare le urne in questa situazione non ne voleva proprio sapere.

Il punto fermo da cui partire deve quindi essere chiarito: non abbiamo solo rinviato le elezioni facendo nascere questo governo un po’ rabberciato e fatto da presunti alleati che si insultavano fino a due minuti prima. Abbiamo bloccato o quanto meno messo una zeppa nelle ruote di un meccanismo che Salvini ha evocato benissimo parlando di “pieni poteri”. Ovvero lo svuotamento di quel sistema liberale sancito dalla Costituzione con la sua architettura di pesi e contrappesi fra i poteri, per arrivare a una democrazia apparente, dove il Parlamento sia soltanto un orpello da convocare quando serve per ratificare decisioni prese altrove. E dove gli altri poteri siano assoggettati all’esecutivo. Quanto è successo in quest’anno nei rapporti fra il ministro dell’Interno e la magistratura dovrebbe insegnare qualcosa. Fino all’elezione diretta del Capo dello Stato che, senza una architettura costituzionale appositamente costruita, vorrebbe dire una roba tipo la Russia di Putin, dove alle elezioni si eliminano direttamente i candidati delle opposizioni.

Quello che Mauro non dice, ma credo lo abbia ben chiaro, è che Salvini non è un incidente di percorso della storia, una specie di guappo che furbescamente ha cercato di capovolgere un sistema solido e in salute. Al contrario, il Capitano è la faccia ultima, forse la peggiore, di un lungo percorso. Si parte da Tangentopoli che, è evidente al di là del giudizio di merito, travolse una intera classe dirigente. Non si tratta di dire se fu giusto o no. I processi si fanno nelle aule dei tribunali e si sono conclusi da tempo. Ma il risultato fu un che un Paese ingessato dal dopoguerra agli anni ’90 del secolo scorso, si scoprì all’improvviso bisognoso di un cambiamento totale.

Al di là del fatto che la sinistra sia arrivata più o meno al governo per lunghi anni nella fase successiva, il vero protagonista di quella fase è stato Berlusconi. Non tanto e non solo il personaggio, ma per quello che ha rappresentato e che ha finito anche per sconvolgere il sistema di valori a cui la sinistra aveva affidato le sue speranze. Il berlusconismo ha rappresentato in Italia una vera e proprio rivoluzione culturale caratterizzata dalla repulsione per i riti della democrazia e per i corpi intermedi. Siamo come tornati indietro agli anni 20, quelli della confusione e del miraggio dell’uomo forte come risposta ai problemi. “Ci vuole ordine”, dicevano i capitalisti di inizio ‘900 rispondendo alle istanze che arrivavano dal proletariato (parliamo di un secolo fa, il termine è più che legittimo, non datemi del vecchio comunista).

Questa rivoluzione culturale, dicevamo, ha profondamente cambiato la nostra società: alla fine del percorso i partiti sostanzialmente non ci sono più, i sindacati sono in gran parte ridotti a patronati per l’assistenza fiscale, tutto quel mondo ricco dell’associazionismo che tanta linfa aveva dato al rinnovamento della nostra democrazia, si è rinchiuso nella asfittica dimensione del volontariato. Siamo una società più povera, più divisa, fatta di “isolati” spesso anche rancorosi.

Mettiamoci anche che, allo stesso tempo, paghiamo anche il prezzo di una globalizzazione che non abbiamo saputo né comprendere, né, tanto meno, governare e arriviamo alla  conclusione che Salvini è la prosecuzione in forme differenti di questo processo, non la sua negazione. Solo partendo da questo ragionamento e quindi dalla consapevolezza di quanto sia complicato il compito che abbiamo davanti (abbiamo in senso lato), si può provare a ragionare su come si esce da questo “loop” e come si torna a pensare di costruire un modello sociale differente, io direi anche  socialista. Ma di questo parliamo le prossime settimane. Per il momento fermiamoci qui, sperando che nei partiti della nuova maggioranza (mi rifiuto di chiamarla giallorossa, anche perché, sportivamente parlando, porta anche un po’ male) si diffonda questa consapevolezza sul delicato momento storico che stiamo vivendo e ci si attrezzi di conseguenza. Nutro qualche speranza residua sul Pd, un po’ meno sui 5 Stelle che, negli anni passati, sono stati anzi acceleratori della deriva autoritaria. Ma, avendola subita sulla loro pelle per un tratto di strada, magari anche loro potranno avere qualche sussulto democratico.

Salvini va, i 5 stelle arrancano, sinistra non pervenuta.
Il pippone del venerdì/110

Lug 26, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Lo dicevo la settimana scorsa: fa caldo, meglio prendersi un mesetto abbondante di vacanze e lasciar perdere la politica. Basta leggere le cronache di questi giorni. Doveva essere la settimana in cui mettere Salvini sulla graticola per il cosiddetto russia gate. E invece, in un sol giorno il leader leghista incassa: una sostanziale assoluzione da parte del presidente del Consiglio in Senato, con qualche punta polemica ma nulla di più, il via libera dello stesso alla Tav, la fiducia della Camera sul decreto sicurezza bis, nel quale si inasprisce la battaglia contro le Ong, impegnate nel soccorso ai migranti. I cinque stelle sembrano un po’ un pugile suonato: prima hanno incassato a stento la botta sulla Tav, chiedendo a gran voce un voto in parlamento ben sapendo che lì c’è una solida maggioranza a favore dell’alta velocità. Fossi nell’opposizione – per inciso – diserterei il voto per protesta lasciando alle truppe di Di Maio la responsabilità della scelta. Poi hanno addirittura abbandonato il Senato durante l’intervento di Conte sul caso Russia. Non hanno capito bene neanche loro il motivo, tanto che poi hanno avuto bisogno di una lunga seduta di autocoscienza collettiva per sfogarsi un po’. Nel frattempo, il capo politico, sempre Di Maio, ha annunciato che i mandati a disposizione dei penta stellati eletti nelle istituzioni non saranno più due, ma tre. Ora la scelta è pienamente legittima, anche perché non si capisce bene come può reggere un partito in cui si cambia classe dirigente al di là dei meriti e del lavoro svolto. Ma il capo politico, per argomentare il tutto, si è inventato la supercazzola del “mandato zero”, ovvero il primo mandato svolto non conta, si comincia a contare dal secondo. Roba che manco la satira più cattiva poteva arrivare a concepire.

Ratificheranno comunque il pacchetto di proposte (che comprende anche l’alleanza con liste civiche alle amministrative) tramite la piattaforma Rousseau. Ormai decaduta a luogo della ratifica. Varrebbe la pena di riflettere su come un partito in cui il rapporto sia impostato unicamente sulla dialettica base-leader sia sostanzialmente una dittatura. E su come l’apporto degli strumenti digitali alla democrazia non possa limitarsi a un click di ratifica. Ma questa è un’altra storia, fa troppo caldo per ragionamenti di “sistema”.

In tutto questo i sindacati, con uno sciopero (infrasettimanale) dei trasporti che ha avuto adesioni altissime, denunciano il blocco totale delle infrastrutture praticato dal governo e dal ministro Toninelli in particolare. L’economia non cresce, tutti i dati confermano che alla fine dell’anno il segno positivo sarà forse di un paio di decimali. Ben lontani, comunque, dalla previsioni del governo di inizio anno. Alla fine della settimana, dopo fulmini e saette, è arrivata, come da copione, anche la attesissima tregua fra i due vicepremier, che fino al giorno prima si erano presi a sassate.

Insomma, a occhio doveva essere una bella settimana per chi si oppone. I 5 stelle in forte crisi, Salvini comunque alle prese per il suo presunto scandalo, Conte che appare sempre più come un presidente del Consiglio senza una maggioranza che lo segue. Pare una di quelle palle facili sotto porta dove c’è scritto “basta spingere”- Nulla di tutto questo. La sinistra nelle sue svariate forme tace. Il Pd, nel giorno in cui doveva mettere sulla graticola Salvini, non ha trovato di meglio che mettersi a litigare su chi doveva intervenire al Senato. Al di là del merito della lite (in realtà non si capisce bene perche a nome del Partito democratico doveva intervenire uno che il giorno prima aveva dichiarato che di quel partito non si occupa) la scenetta pare surreale.

Posto che, a quanto si legge nei sondaggi, del presunto scandalo dei rubli russi agli italiani non interessa più di tanto, viene da chiedersi da cosa derivi mai questa vena autolesionista. Anche in questo caso, a persone sane di mente, verrebbe da chiedersi se non ci sia una ragione di fondo quando un partito nel giro di pochi anni ha bruciato e prepensionato tutti i leader malgrado fossero tutti eletti con un robusto consenso popolare. Da Veltroni, a Bersani, a Renzi. Non se ne è salvato uno. Zingaretti, mi dispiace davvero per lui, al momento sembra più un amministratore di condominio che non riesce a far quadrare i bilanci di fine anno che un leader politico. Il prode Calenda, nel frattempo, incurante del pericolo si candida a essere il prossimo segretario. Quando si dice una missione suicida. Ma anche questa riflessione (su cui sapete come la penso), sarà bene rimandarla a fine estate.

Come bisognerà che qualcuno si interroghi sul motivo per il quale mentre, come detto, gli italiani se ne fregano dei rubli, paiono molto più sensibili al caso Bibbiano. Una questione senza dubbio molto grave, ma di stretta rilevanza locale è diventata un caso nazionale, fino a toccare i già non brillanti piazzamenti del Pd nei sondaggi. Sarà mica perché in fondo questo Paese ragione ormai soltanto alla “pancia”? Non sarà che in fondo se tocchi i bambini l’Italia insorge sempre, mentre su qualche presunto finanziamento estero siamo da sempre pronti a chiudere un occhio, quasi fosse un peccato veniale?

In tutto questo va segnalata la brillante campagna social lanciata dal presidente dell’Emilia-Romagna, territorio in cui tutto si è svolto:  “Una Regione vicina alle famiglie”. Non è uno scherzo. Poi non facciamo pensose riunioni per analizzare i motivi delle sconfitte elettorali.

Sarebbe bene, almeno nel mese di agosto non fare danni. Qua fa caldo, gli animi diventano infuocati in un istante. Meglio un tè freddo sotto l’ombrellone. Oggi, in realtà c’è la direzione del Pd. Gli italiani sono in fremente attesa, immagino. Intanto, come tutti gli anni, almeno il pippone va in vacanza, ci vediamo a settembre.

Primo: imparare di nuovo a fare l’opposizione.
Il pippone del venerdì/109

Lug 19, 2019 by     1 Comment     Posted under: Il pippone del venerdì

Da più parti, nelle svariate formazioni che si definiscono di sinistra, sento levarsi appelli a “costruire l’alternativa”. E sicuramente questa esigenza c’è. Sarebbe interessante discutere su questi temi con chi sta al 20 per cento e parla di vocazione maggioritaria, ma su questo abbiamo scritto e dibattuto a lungo. Sapete come la penso: per me la partita per governare questo Paese si può riaprire soltanto ridefinendo il campo della sinistra e disgregando l’alleanza di governo: se non si scioglie l’abbraccio Salvini-Di Maio siamo condannati a lottare per il secondo posto. E un campionato dove si sa già chi vince non è interessante, soprattutto se non sei la Juventus.

L’alternativa dunque per me si costruisce così. Un segnale interessante, in questo senso, è arrivato dall’Europa, dove i 5 stelle hanno votato insieme a popolari, socialisti e macroniani contro i sovranisti. Sarebbe bene mettere un cuneo dentro questa crepa e amplificare ogni giorno le contraddizioni nella maggioranza di governo, ma mi pare che siamo ancora ai pop corn di Renzi che, non a caso, interviene subito per spegnere ogni flebile fiammella: l’ipotesi di un’alleanza Pd-5 Stelle che torna a farsi strada sulle pagine dei giornali, per lo statista di Rignano “non è un colpo di genio, ma un colpo di sole”. Linea del resto subito sposata da Zingaretti e soci che hanno paura di fare la parte di quelli troppo intraprendenti. Restano possibilisti i vecchi democristiani alla Franceschini, altra scuola va riconosciuto.

Ma, dicevo, per me questo discorso è archiviato. Molto più banalmente in questo pippone di metà luglio, volevo parlare della necessità di imparare di nuovo a fare l’opposizione. Perché per poter essere percepiti come alternativa credibile a qualcosa, bisogna prima essere in grado di dare battaglia anche da posizioni di minoranza. Fare squadra, innanzitutto. Mettere insieme un po’ di parole d’ordine credibili, individuare il blocco sociale a cui ci si vuole rivolgere. Aprire un dialogo. Cosette semplici, in apparenza.

In realtà a me sembra che i gruppi dirigenti della sinistra dispersa siano un po’ come i pugili suonati, quelli che non riescono a riprendere lucidità tra un cazzotto e l’altro e si possono salvare soltanto se suona la campana per tempo. Peccato che qui i pugni arrivano senza soluzione di continuità e i Ko, malgrado ogni volta si trovi qualche motivo per esultare, si susseguono, elezione dopo elezione, regione dopo regione, comune dopo comune. Forse sono soltanto io che li vedo così, ma mi sembra che non ne azzecchiamo una manco per sbaglio. Intanto scegliamo sempre il campo che l’avversario preferisce: immigrazione, difesa dei diritti civili. Tutti temi che non possiamo lasciare alla propaganda leghista, ci mancherebbe, ma non possiamo parlare e fare manifestazioni solo sugli sbarchi dei clandestini o scandalizzarci per gli sgomberi delle case occupate (sempre dai nostri salotti, ci mancherebbe).

Un esempio lampante della nostra incapacità ormai conclamata di fare opposizione è stato l’incontro fra Salvini e le forze sociali. A me sembra evidente che quando ti convoca il vicepresidente del Consiglio tu ci vai, ascolti e poi ovviamente dici la tua. Non sta al sindacato stare a sindacare sulla qualifica che ha Salvini e sulla legittimità della convocazione. Per te è il numero due del governo e il leader del primo partito in Italia, non puoi sfuggire al confronto. Poi devi avere la schiena dritta, ma questo non mi pare possa essere contestabile a Landini. A sembra evidente anche che si trattava di una occasione ottima per sparare a pallettoni su un governo dove manco si capiscono più i ruoli e il ministro dell’Interno fa anche le parti di quelli del Lavoro e dell’Economia. Un’opposizione attenta avrebbe colto la palla al balzo per aprire ancora di più quelle crepe di cui parlavo sopra. E invece no: tutti a sparare su Landini che non doveva andare all’incontro. Pura follia. Se non ci fosse andato gli stessi avrebbero sentenziato su quanto era vecchio e barricadiero questo sindacato che rifiuta il confronto. Accetto scommesse.

Io capisco che non sia facile perché l’alleanza Lega-5 Stelle mi sembra una specie di tutto compreso: fanno benissimo sia la parte del governo che quella dell’opposizione, a giorni alterni. Si scannano pubblicamente e intanto trattano fra di loro. Alla fine, dopo aver magari trovato qualche tema su cui sviare l’attenzione, si accordano e vanno oltre. E noi abbocchiamo. Oppure rinviano il tema a tempi migliori. Intanto l’Italia continua il suo declino inesorabile e le tensioni sociali non scoppiano. O meglio: non c’è un’opposizione in grado di incanalare le tensioni che pur esistono e trasformarle in un movimento di protesta vero. Questa sarebbe la fase due, dopo aver ripreso a fare l’opposizione. Noi siamo ancora al punto zero. Quello del meglio stare zitti.

Altro esempio: la vicenda Alitalia. Ora, a parte l’inversione a U alla quale è stato costretto Di Maio per il quale una quindicina di giorni fa era impensabile la partecipazione dei Benetton perché Atlantia era un’azienda decotta che avrebbe trascinato verso il baratro anche Alitalia e adesso, invece, è diventato un partner industriale essenziale nella cordata guidata da Fs, a parte questo dicevo, ma qualcuno sta provando a capire cosa succede davvero, ad esempio dal punto di vista dell’occupazione? Di quale piano industriale si parla? I lavoratori non dovrebbero essere una componente essenziale del nostro blocco sociale? Stessa cosa succede all’Ilva, dove salvo sporadiche eccezioni i leader della sinistra non mettono più piede.

Basterebbe tutto questo? Come accennato l’opposizione andrebbe fatta vivere nelle tensioni sociali, usata come propellente per ricostruire quella base di consenso che adesso ci manca. Si preferiscono sparute assemblee nei teatri romani. Che poi, essendo metà luglio passata, anche la scelta delle location è significativa della nostra collettiva capacità di farci del male. Ecco, in questo non ci batte nessuno davvero.

L’arroganza del potere e l’impotenza di Zingaretti.
Il pippone del venerdì/108

Lug 5, 2019 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Torno rapidamente sulla questione morale, perché due notizie di questi giorni mi hanno convinto ancor di più che il tema del rapporto fra partiti e istituzioni resti quello centrale.

Primo fattarello, le intercettazioni del’ex ministro dello Sport Luca Lotti. Una sorta di miniera inesauribile dalla quale, giorno dopo giorno, si potrebbe trarre una specie di manuale di quello che non deve fare la politica. L’ultima è forse la più irritante. Perché l’interferenza sulle nomine, la volontà di sostituire un procuratore scomodo con uno amico, sono fatti gravissimi, forse al limite del codice penale, ma fanno comunque parte di un certo modo di intendere la politica. Che non condivido e contro cui lotto, ma fa parte comunque dell’agire politico. Che un ex ministro dello Sport, invece, dica candidamente che spera di guadagnare 200mila euro trattando non si capisce bene per conto di chi, i diritti tv del calcio, mi sembra davvero assurdo. Si tratta della stessa persona che ha lavorato sulle regole per attribuire quei diritti. Ora, a sentire quanto dice a cena con gli amici, a tempo perso farebbe il lobbista, sempre in ambito sportivo.

Il secondo fatto sono le dichiarazioni del ministro dell’Interno Matteo Salvini sul giudice di Agrigento che ha scarcerato la capitana Carola: “Togliti la toga e candidati con la sinistra”, le scrive senza mezzi termini su facebook. Si sa, io sono uno all’antica, per cui il linguaggio di cui il leader leghista continua a far sfoggio malgrado il ruolo di ministro mi urta pesantemente i nervi. Ma che il responsabile della polizia (scusate la semplificazione) passi all’intimidazione nei confronti di un magistrato mi sembra intollerabile.

Sono due episodi che apparentemente non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro. E invece, secondo me, rappresentano perfettamente quello che provavo a spiegare alcune settimane fa con il pippone sulla questione morale applicata alla politica, che non è questione di rispetto della legalità, ma di rispetto nei confronti delle istituzioni. E quindi eccolo il legame: l’esercizio del potere sempre più arrogante, sempre più lontano dal quel rispetto quasi religioso che aveva Berlinguer nei confronti dello Stato e che esprimeva con tanta forza nella famosa intervista con Scalfari. Sono noioso ma lo ripeto: o ripartiamo da qui, stabilendo la giusta distanza fra partiti e Stato, oppure tutto il resto sono soltanto parole vuote. Forse anche una parola del presidente Mattarella, in questi giorni, non sarebbe inopportuna.

Lego questi avvenimenti con l’ennesima sconcertante intervista che il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, rilascia oggi sul Foglio. Nel consueto vuoto delle parole del leader democratico, ribadisce alcuni tratti distintivi del suo partito. Il primo è la vocazione maggioritaria. Certo, en passant parla della necessità di costruire una coalizione ampia, ma è una dichiarazione di maniera, di quelle che si fanno per non irritare chi ti gira intorno. Il Pd viene visto come unico elemento di alternativa a questo governo e anche a quello – probabile – che verrà dopo le prossime elezioni. Ci si compiace della propria sopravvivenza, arrendendosi quasi all’ineluttabilità della sconfitta.

Per il resto, come d’abitudine, Zingaretti riesce a dire tutto e il contrario di tutto. Sul jobs act lima le parole – quelle erano state chiare – di Peppe Provenzano, responsabile lavoro della sua segreteria, quasi trasformandole in un apprezzamento nei confronti del lavoro di Renzi. Sull’immigrazione dice che ha ragione Minniti, ma che oggi è stato giusto votare contro la prosecuzione dell’assistenza alle motovedette libiche. Sulle prospettive politiche si limita a spiegare che ritiene che il consenso, di cui almeno riconosce l’entità, riportato da Salvini negli ultimi appuntamenti elettorali, non sia stabile. Quasi una specie di atto di fede.

Non una parola sui temi di fondo, su come la sinistra possa ricostruire una sua credibilità, una sua presenza fra le classi sociali più deboli. A meno che non ci si illuda che sia sufficiente riaprire qualche circolo del Pd nella periferia romana o che serva a qualcosa il giro nelle fabbriche programmato da Zingaretti. Siamo al vuoto assoluto. Anche uno come me convinto che un leader bravo non sia sufficiente da solo, resta basito di fronte all’abilità del segretario dem di non entrare mai nelle questioni importanti, di tenersi alla larga dai temi su cui, al contrario, servirebbe una parola chiara. Quelle parole di cui, azzardo, il popolo di quelli che come sta stanno nel bosco ma hanno orecchie attente, avrebbe un gran bisogno.

Zingaretti, insomma, non è un segretario di partito. Almeno non quello che servirebbe in tempi straordinari. Può essere un bravo amministratore, forse. Può essere uno in grado di mediare fra le correnti, tenendo in piedi quella federazione di diversi che si trova a dirigere, quasi controvoglia. Non è il timoniere in grado di portare la sinistra italiana fuori dalle secche in cui Renzi (e non solo lui) ci hanno cacciato. Ne è talmente consapevole lui stesso che alla prossima assemblea nazionale proverà a eliminare dallo statuto l’identità fra segretario e candidato premier. Tocca solo capire su chi potremo puntare. Il panorama mi sembra scarsino.

Sarebbe ora che tutti se ne facessero una ragione, anche le vedove bianche che non riescono a pensare se stessi se non in funzione del Pd. Per il resto, cari ragazzi, fa caldo: se anche la politica andasse in vacanza, forse faremmo meno danni. Temo che, al contrario, sarà una lunga estate.

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