E la sindaca si mise a fomentare l’odio.
Il pippone del venerdì/134
Ora, sono stato a lungo indeciso se fare un lungo pippone sulle contraddizioni della società del profitto che questo virus sta sempre più mettendo a nudo, o, invece, continuare nella disamina iniziata da due settimane sulle nostre reazioni “sociologiche” alla quarantena a cui siamo sottoposti oramai da parecchi giorni e di cui neanche è possibile ipotizzare la fine.
Propendo per la seconda ipotesi, non fosse altro per il fatto che dovrebbe essere ormai del tutto evidente come la società capitalistica, così come è stata costruita negli ultimi decenni, sia incompatibile con la salvaguardia dell’ambiente e con la stessa salute dei cittadini. I governi, la dico brutalmente per non farla lunga, si sono trovati di fronte a un bivio senza terze vie: o pensare alla salute del proprio popolo o cercare di salvare l’economia. Non sempre hanno scelto la prima, salvo drammatici e tardivi dietrofront di cui stanno pagando le conseguenze i loro popoli.
Per quanto riguarda, invece, le nostre reazioni alla quarantena, mi pare che mettano in evidenza ancor di più tutti i nostri difetti e le nostre virtù. Mi sono emozionato fino ad avere le lacrime agli occhi, lo confesso, ascoltando un medico cubano, catapultato dai Caraibi alla gelida Crema, non solo ringraziare gli italiani per l’ospitalità, ma anche rispondere con la massima naturalezza all’intervistatore che gli chiedeva fino a quando si sarebbero fermati, che loro “sarebbero rimasti lì fino a quando il popolo lo avrebbe ritenuto utile”. “Le nostre famiglie – ha spiegato – lo sanno bene, siamo stati in Africa a combattere l’ebola, ora siamo qui”. Parola chiave di tutto il ragionamento; solidarietà. Il loro motto è “non offriamo ciò che ci avanza: condividiamo quello che abbiamo”. E attualmente medici cubani sono presenti in 70 paesi diversi.
Non so se sia l’educazione socialista in salsa cubana, del resto va ricordato che fu un tal Ernesto Guevara a teorizzare il sistema della “medicina sociale”, o proprio una caratteristica di quel popolo, che fa della socialità, del calore umano uno dei suoi tratti distintivi. Non ho visto medici con la bandiera blu dell’Europa, mi sarebbe piaciuto.
Mi sono commosso anche, quando vogliamo anche noi italiani non siamo da meno, nel vedere l’altissimo numero di risposte che ha avuto il bando della protezione civile con il quale si cercavano 300 medici da inviare nelle zone più colpite dal virus. Hanno risposto “presente” in ottomila. Una straordinaria gara di solidarietà.
Mi commuove un po’ meno la “call” lanciata dalla sindaca di Roma, la famigerata Raggi, che chiama i cittadini romani a segnalare eventuali assembramenti (ovvero un minimo di tre persone radunate senza apparente motivo) utilizzando il sito del Comune. Non si rende conto del clima da tutti contro tutti che c’è nella nostra città. Del resto alla sindaca rispondono i vigili che pattugliano le strade ormai con una certa continuità (certo ci sono voluti una decina di giorni dall’inizio della quarantena), ma lo fanno a volte inventandosi di sana pianta norme che non esistono, spesso con arroganza immotivata.
Chiunque di noi, attraverso i social, ha ormai un patrimonio di testimonianze di tutto rispetto. A me, personalmente, hanno segnalato casi di lavoratori ospedalieri che, dopo una notte di lavoro, sono stati fermati da una pattuglia e costretti a tornare in ospedale scortati dagli agenti per dimostrare che non stavano in giro per divertirsi. Per non parlare delle persone prese a parolacce dalle finestre perché stavano in strada. Una di loro, lo racconta lui stesso, stava andando a donare il sangue. Ma poco importa, prima ti tiro il sasso, fra un po’ neanche troppo metaforico, poi verificherò se magari avevi ragione tu.
E’ cronaca l’ondata di odio vero e proprio prima contro gli sportivi, ora contro i proprietari di cani. E’ lo stesso meccanismo che ci portava fino a poche settimane fa a insultare gli immigrati, che poi ci ha fatto concentrare sui cinesi. Abbiamo bisogno di individuare un nemico. Adesso dobbiamo pur sfogare su qualcuno le nostre paure e le nostre frustazioni.
Insomma, stiamo tutti un po’ svalvolando. Lo conferma il tasso di false notizie che, con la complicità perfino di parlamentari e giornalisti, continua a moltiplicarsi con una curva che si impenna più di quella del virus. Per non parlare delle assurde discussioni sulla qualunque. A partire addirittura dai famosi moduli che si usano per certificare le proprie uscite, sui quali ci sono da settimane polemiche surreali sulle frasi usate dal ministero e sul fatto che cambiano ogni volta che variano le restrizioni decise. Ci sono appassionati del genere che passano le loro giornate a discutere sulle virgole e sui punti. Per non parlare degli audio che girano incontrollati nelle chat. C’è una diffidenza crescente per tutto quello che è ufficiale, magari anche generata da una comunicazione non sempre all’altezza della situazione.
E in questa fase la sindaca della Capitale, per tornare al ragionamento iniziale, che fa? Io mi sarei aspettato che organizzasse un servizio di consegna a domicilio della spesa per gli anziani, per chi ha problemi. Mi sarei aspettato che potenziasse i servizi sociali. No, tutte queste cose le sta organizzando la Regione, che non ne avrebbe le competenze, ma si sporca le mani. La sindaca, invece, pensa bene di fomentare l’odio sociale che cresce nelle case in cui siamo sbarrati. E così siamo al controllo partecipato delle strade. Sarebbe bene impiegare le forze dell’ordine e i mezzi che il Campidoglio ha a disposizione per proteggere i luoghi più a rischio, a cominciare dalle case di riposo, ma anche dai campi nomadi, lasciati senza la minima assistenza sperando che tutto vada bene. Potrebbe, la sindaca, pensare ai tanti senza tetto, che rischiano di essere, inconsapevolmente un vettore incontrollabile dell’epidemia. Ci sono centinaia di alberghi vuoti a Roma, non è che si possono requisire?
No, la sindaca è impegnata a controllare i parchi, deserti. Buon lavoro, ai romani non resta che incrociare le dita. Gli sceriffi fai da te ci osservano dall’alto.
La politica è capacità di decidere
Il #pippone del venerdì/123
Sarà anche vero che si avvicina il Natale e dovremmo essere tutti più buoni, ma vivendo in questo Paese e in particolare a Roma, il clima delle feste si sente davvero poco. La verità è che ci sono periodi in cui chi, come me, ha la passione per la politica è davvero sconfortato. Dal livello nazionale a quello locale siamo alla desolazione totale.
Certo, qualche buona intenzione questo governo l’aveva pure manifestata. Ma lì siamo rimasti. Fra veti e controveti l’unico risultato che la maggioranza è in grado di rivendicare è l’aver evitato l’aumento dell’Iva. “Abbiamo pagato i conti di Salvini, senza farli pagare agli italiani”, recita lo slogan più efficace che sono stati in grado di tirare fuori. Non è un problema di comunicazione, è che c’è davvero poco. Sarà anche un grande successo, ma qui fra una crisi aziendale e l’altra ci sono decine di migliaia di posti di lavoro a tempo indeterminato che stanno andando in fumo. Dall’Ilva, a Unicredit, all’Alitalia perennemente in crisi. Se si scende di livello e si passa alle imprese medio piccole è una specie di cimitero. Ogni giorno, basta leggere le cronache locali dei giornali, è una via crucis, fra imprenditori che fuggono, fabbriche che licenziano, imprese che delocalizzano, come si usa dire per non turbare troppo gli animi.
Se poi parliamo di Roma, siamo alla catastrofe. Per altro manco tanto imprevista. Il livello di incuria è tale che ormai per passeggiare nelle strade si fa lo slalom tra i rifiuti. E se hai la ventura di girare in moto devi avere un paio di occhi supplementari per evitare le buche che si aprono quasi a sorpresa. Ogni santo giorno ne trovi una nuova. E che fa la politica? Stanno ancora litigando fra Regione e Comune per individuare una benedetta discarica dove mandare i rifiuti. Per la sindaca Raggi non serve. La Regione fa un’ordinanza con cui le intima, fra le altre cose, di indicare un luogo idoneo e lei traccheggia, poi pensa addirittura di ricorrere al Tar, dopo aver mandato la dirigente del settore, una sorta di agnello sacrificale, a trattare al tavolo con i tecnici delle altre istituzioni coinvolte. Scaduti i termini dell’ordinanza avrebbe dovuto decidere Zingaretti, fra l’altro anche presidente della Regione. E invece si traccheggia. Perché decidere fa diventare impopolari.
Ora, almeno in questo caso avrà anche ragione il segretario del Pd e presidente del Lazio. A norma di legge la Regione decide le strategie per smaltire i rifiuti, indica gli obiettivi da raggiungere, mentre i Comuni sono responsabili della raccolta, del trattamento e dello smaltimento delle tonnellate di immondizia che produciamo ogni giorno. Ma l’immagine che ne esce è quella dell’ennesimo scaricabarile fra politici che non vogliono assumersi la responsabilità di scelte necessariamente impopolari. E non è storia di oggi. Era il gennaio del 2014, quando l’allora sindaco Ignazio Marino dichiarò che a Roma non serviva una discarica. Da allora i nostri rifiuti hanno cominciato a fare il giro del mondo. Che questo abbia costi ambientali e finanziari esorbitanti poco importa. Quello che davvero conta è togliere i rifiuti di mezzo, portarli lontani dai propri elettori e soprattutto dal loro naso.
Ecco, io credo che, ai vari livelli, l’Italia paghi la pavidità della sua classe politica. Non è un’accusa a questo o quel partito. E’ il sistema che, unicamente proiettato alla ricerca del consenso, produce questo disastrato Paese. Servirebbero scelte forti per far ripartire la nostra economia. Si vuole una svolta ecologica? Si investa in questo senso. E si facciano scelte conseguenti. E invece prima ci si inventa la plastic tax, poi si riduce rendendola un buffetto per le multinazionali della plastica, infine si rinvia addirittura. Prima si parla di riconversione ecologica dell’Ilva, poi la si affida agli indiani. Ma non è che un’azienda del genere non può proprio stare in mezzo a una grande città come Taranto?
Di Roma abbiamo già detto, ci torno soltanto per ribadire un concetto: è giusto che chi produce rifiuti pensi anche a come smaltirli in loco, senza inquinare mezzo mondo. E una discarica, sia pur ridotta, sarà sempre necessaria anche se si raggiungessero tutti gli obiettivi previsti dal Piano rifiuti sulla raccolta differenziata. Arriveremo, forse, un giorno lotano al 70, 80 per cento. Ma anche in quel caso resterà una parte di immondizia che da qualche parte andrà pur sistemata. E a Roma siamo bloccati intorno al 40 per cento. Tremila tonnellate al giorno di rifiuti vagano per l’Italia e l’Europa perché non sappiamo bene dove metterli. Colpa anche di uno sviluppo urbano insensato, a macchia di leopardo, che ha seguito sempre gli interessi dei costruttori, per decenni unico motore economico della Capitale, e mai quello che dei cittadini.
Secondo me, questa è una delle chiavi per riconquistare i consensi persi: darsi una linea politica e decidere. Nello stagno si affoga e si dà sempre più spazio alle destre, bravissime a denunciare l’incapacità altrui, ma sempre disastrose quando hanno avuto l’onere del governo.
Io credo che il messaggio che lanciano le piazze delle sardine sia anche questo: sveglia ragazzi che a litigare fra voi ci ritroviamo Salvini per vent’anni. Sul fatto che il messaggio sia recepito permettetemi di conservare intatto tutto il mio scetticismo.
I veri giochi olimpici dei cittadini romani.
Il pippone del venerdì/107
Assegnate le olimpiadi invernali del 2026 alla strana accoppiata Milano-Cortina, resta per alcuni il rammarico per la rinuncia della sindaca Raggi alla candidatura romana per quelle estive del 2024. In molti hanno parlato dei posti di lavoro persi, dell’occasione mancata per la Capitale, in termini di investimenti e di turismo. A me, a dire il vero, pare una delle poche scelte sagge che ha fatto da quando è stata eletta. Noi le olimpiadi le facciamo tutti i giorni, altro che storie. Le facciamo quando dobbiamo cercare un varco per passare lungo i marciapiede invasi da cumuli di rifiuti puzzolenti, le facciamo quando dobbiamo incrociare le dita per prendere un autobus, quando dobbiamo risalire a piedi dai treni della metro perché le scale mobili, nella migliore delle ipotesi, non funzionano.
Le immagini simbolo del disastro di Roma potrebbero essere tante, ma io credo che quella davvero emblematica sia la foto della fermata Repubblica della metro A: chiusa per 8 mesi dopo il guasto drammatico alla scala mobile che nell’ottobre scorso causò decine di feriti, è stata riaperta nei giorni scorsi. Prima c’è stato un lungo periodo di sequestro da parte della magistratura per chiarire la dinamica dell’incidente, poi è stata cambiata la ditta responsabile della manutenzione. Morale della favola per 8 mesi una delle stazioni più centrali della principale linea di metropolitana di Roma è rimasta chiusa. E quando viene riaperta si scopre che la scala mobile incriminata continua a non funzionare. A che saranno serviti questi mesi di chiusura non si capisce bene.
Altro che olimpiadi, i cittadini romani avranno sicuramente le loro colpe perché se una città è così sporca la responsabilità è anche della mancanza diffusa di senso civico. Ma ormai meriterebbero di entrare nel guinnes dei primati per la loro pazienza. Roma non vive neanche più situazioni di emergenza, il caos è l’abitudine. La regola sono i cumuli di rifiuti, tanto che ci si commuove quando si incontra una pattuglia di eroici netturbini che raccolgono l’immondizia da terra sostanzialmente a mani nude. La regola sono le strade piene di buche, che uno in moto non riesce manco ad andare dritto e un pezzo di asfalto integro viene visto come la terra promessa. La regola sono gli autobus noleggiati in Israele dopo dieci anni di servizio (e già questo sarebbe curioso) e rimandati al mittente perché solo quando arrivano in Italia si scopre che non possono essere omologati perché non rispettano le regole dell’Ue sulle emissioni. Viene da chiedersi, a proposito, cosa aspettano all’Atac a chiedere i danni ai dirigenti responsabili di questa genialata. Io sarei per un bel calcio nel sedere e una causa civile per il risarcimento. La regola sono i giardini ormai impraticabili perché l’erba è diventata savana e gli alberi invece di fare ombra rischiano di caderti in testa. Le uniche aree verdi praticabili in sicurezza, ormai sono quelle affidate al buon cuore di associazioni e volontari vari. Cosa aspettiamo a uscire dall’indolenza e ribellarci?
Sia chiaro, non è che sia tutta colpa della Raggi. Questa città aveva vissuto già una stagione devastante negli anni ’80, poi era tornata Capitale vera, orgogliosa, con Rutelli e Veltroni. Con tutti i difetti di quella esperienza, pare un altro mondo. Ma da Alemanno in poi la discesa è ripresa. La Raggi, diciamo così, ha solo dato una spinta verso il baratro. Adesso i rifiuti non sono più una presenza sgradevole, ma sono diventati emergenza sanitaria. Con Marino sindaco, a dire il vero, qualche idea era stata messa in campo. La realizzazione degli eco distretti, ad esempio, veri e propri impianti a carattere industriale che non fossero dedicati al trattamento dei rifiuti ma al loro recupero. Quello che si fa in tutto il mondo, ovvero trasformare un fardello ingombrante in una risorsa per la città e che a Roma sembra ancora un sogno.
Ma anche con Marino qualche errore che ha accelerato la rincorsa verso il baratro ci fu. Per restare ai rifiuti penso all’introduzione di nuovi cassonetti aggiuntivi (quelli per l’umido e per il vetro) che sostituirono il vecchio multimateriale. Ora, che senso aveva raccogliere i rifiuti organici senza avere gli impianti per trattarli? E soprattutto che senso aveva aumentare la quantità dei cassonetti in strada e quindi aumentare anche i giri che i mezzi devono fare, quando tutti sostenevano che l’unico sistema che funziona è la raccolta porta a porta? Che non si dica che non si può fare in una grande città perché lo fanno ovunque. Berlino credo sia un esempio splendido: ogni palazzo ha dovuto realizzare il suo spazio rifiuti e se lo tiene bello pulito.
Detto questo non c’è dubbio che le mancate scelte della Raggi, che in questi anni ha solo prodotto una impressionante quantità di manager cambiati e assessori dimissionati, abbiano peggiorato ulteriormente una situazione che già prima era sul filo. Roma, da quando non si buttano più i rifiuti direttamente in discarica senza alcun trattamento, è sempre a rischio. Gli impianti esistenti, già all’epoca di Marino, erano appena sufficienti. Bastava un guasto a un nastro trasportatore per assistere all’accumulo di rifiuti in strada. Adesso che gli impianti, per incidenti e interventi di manutenzione, sono più che dimezzati, l’immondizia è diventata la vera padrona di Roma. I gabbiani, da noi, non sono più presenze poetiche che si vedono in lontananza sul mare, ma stormi inquietanti che volteggiano in stile avvoltoio sulle nostre teste alla ricerca di cibo tra i rifiuti. Ama, l’azienda che si occupa di rifiuti, si limita a raccogliere (male) i rifiuti, quando dovrebbe essere – va ribadito – una vera e propria industria del riciclo. L’unica cosa che arriva puntuale è la bolletta delle tasse.
Come si esce da questa situazione? Intanto cambiando sindaco e amministrazione, questo mi pare ovvio. Questi proprio non ce la fanno. Ma anche dando alla capitale d’Italia un sistema amministrativo che permetta di governare con efficacia una città che, senza contare la sua provincia, è grande quattro volte Londra, come estensione territoriale. E allora: senza inventarci formule strane che servono soltanto a rinviare alle calende greche qualsiasi decisione, si proceda con il completamento della Città metropolitana, con l’elezione diretta del sindaco, si attribuiscano a questa sorta di super Comune tutti i poteri necessari (dall’urbanistica al governo del sistema dei trasporti e della mobilità, ai rifiuti), ma soprattutto si trasformino gli inutili Municipi in altrettanti (almeno) Comuni metropolitani, con un bilancio proprio e tutti i poteri necessari all’amministrazione del territorio.
Sembra semplice, ma ci giriamo intorno da trent’anni e, riforma dopo riforma, non ci siamo mai riusciti. Eppure la chiave per cambiare questa città è questa, dotarla di uno strumento di governo adeguato alle sue dimensioni. Poi serve anche una classe dirigente adeguata e dei cittadini meno cialtroni. Ma per questo ci vorrà tempo. E un mezzo miracolo. Cominciamo, magari, con robuste iniezioni di educazione civica in tutte le scuole. Vanno presi da piccoli, dopo è tutto inutile.
Mi raccomando fate i moderati.
Il pippone del venerdì/76
Non è uno scherzo, leggo l’ennesima intervista di Romano Prodi, come sempre con il rispetto che si deve a una persona di una certa età, e scopro che ha la testa ancora ferma lì: per vincere servono candidati moderati, anzi un fronte che comprenda tutti i cosiddetti anti populisti per avere la maggioranza nel prossimo parlamento europeo: l’alleanza con Macron è servita. Ora, io che sono un ingenuo, mi sarei aspettato che dopo quanto sta succedendo ormai da un paio di anni a questa parte in tutto il mondo, anche i tifosi più accaniti dell’ulivismo se ne fossero fatti una ragione. E invece no, non sono bastate neanche le elezioni americane. Nulla, hanno la testa tarata sul “centro”. E poi ho l’impressione che si confonda il concetto di populismo con quello di popolare. Una generazione di dirigenti troppo abituata ai salotti della politica non sa più neanche dove sta di casa il popolo. Non lo trovano manco se lo cercano su google.
Ma torniamo alle cose serie. Un compagno, giusto ieri, mi ha detto che “sono intelligente, ma anche mezzo matto”. Io, a dire il vero, essendo da sempre seguace di Steve Jobs, ambirei a essere tutto matto, anche perché sono i folli che cambiano il mondo, che fanno andare avanti la società, non i sostenitori dello status quo. Ma anche senza essere del tutto fuori di testa, andrebbe portata avanti una qualche forma di riflessione sul ritorno del radicalismo in politica in rapporto alle evoluzioni della nostra società. Non sono davvero in grado, servirebbero sociologi, esperti di new media, fini analisti politici. Io da umile osservatore, mi limito a considerare che perfino nel paese più moderato del mondo occidentale ormai la sfida è fra la destra e la sinistra radicale. Negli Stati Uniti si contrappongono Trump e Sanders, non Cruz e Clinton, tanto per semplificare il ragionamento. E quando la dirigenza democratica prova a inventarsi in provetta un candidato, malgrado una campagna faraonica, prende sonore mazzate. Beto insegna. E’ solo un fenomeno momentaneo? Io non credo. Anzi, penso che la contrapposizione politica sempre più netta sia una caratteristica di fondo di questo modello di società.
Provo ad articolare un pensiero logico. Viviamo in un mondo sincopato, in cui il tempo è fattore essenziale e l’attenzione è sempre più labile. Ormai ognuno di noi fa sempre due cose contemporaneamente. E basta guardare i ragazzi per capire come la tendenza sia sempre più marcata. Si guarda la tv e si sta con lo smartphone comunque in mano. Ci sono paesi dove hanno addirittura pensato di rafforzare la segnaletica orizzontale per le strade perché oramai tutti camminano a testa bassa, meglio scrivere a terra le indicazioni adatte a evitare frontali fra pedoni. Mettiamoci anche un altro concetto: la comunicazione tende a essere sempre meno scritta e sempre più basata su immagini chiave. Il pippone resiste, ma nasce appunto con l’idea stessa di essere orgogliosamente controcorrente. Tant’è vero che il social emergente è Instagram, ovvero un luogo dove non ci sono sostanzialmente testi scritti ma solo immagini.
E anche la politica non può che seguire la tendenza: sempre più messaggi video, a fare i volantini anni ’50 c’è solo qualche sindacalista in pensione. Insomma una comunicazione sempre più secca. Succede in tutto il mondo, in Italia ne abbiamo avuto la prova sul campo alle ultime elezioni, nelle quali hanno pagato i messaggi asciutti di Lega e 5 Stelle, non la vaghezza di Leu o il finto giovanilismo di Renzi.
Insomma, la nuova parola d’ordine di tutti noi dovrebbe essere radicalità. Teniamone conto. Emerge chi si fa capire in 15 secondi. Come farlo, invece, richiede decisamente più tempo: bisognerebbe partire da un solido ancoraggio ideale. Una volta definite le coordinate, declinare il messaggio in maniera efficace è lavoro da comunicatori. Ma se non si parte dalle fondamenta anche il messaggio non può colpire. A me hanno sempre dato fastidio quelli che dicono: “Non siamo stati capiti, non abbiamo saputo comunicare”. A titolo di mero esempio: se vuoi i voti dei lavoratori e hai appena votato la riduzione sistematica dei loro diritti puoi essere bravo come ti pare, ma alla fine la verità viene fuori.
Quindi radicalità, dicevamo. E direi anche volti credibili. Gli Usa, come accennavo prima, insegnano. La società attuale non ti permette più il candidato creato in provetta, il falso dura lo spazio di un click. Serve gente vera da mettere in campo, nuova e non consumata, avvezza alla lotta, pronta alla clava più che al fioretto. Questo richiedono i tempi. Chiarezza e credibilità sono la chiave (data la premessa di una necessaria robustezza ideologica) per costruire un movimento politico in grado di attrarre consenso.
Chiudo, infine, il pippone di oggi con un appello ai romani per un voto “accorto”. Domenica i cittadini della capitale sono chiamati ad esprimersi su alcuni quesiti referendari promossi dai Radicali con la complicità del Pd. Si tratta di un referendum consultivo, quindi potrebbe anche essere ritenuto secondario, ma in realtà rappresenta il tentativo della destra liberista di rialzare la testa dopo la mazzata della sconfitta sull’acqua. Si torna a pensare che privato è bello, pubblico è per forza brutto. Ora, come sapete ritengo la tutela dei beni comuni una delle chiavi su cui una sinistra che si vuole definire contemporanea deve necessariamente cimentarsi. L’acqua era un tema forse più facile. Ma sono beni comuni anche le reti di comunicazione, i trasporti, le grandi infrastrutture. E a maggior ragione è un bene comune anche il trasporto pubblico. I promotori dicono che non si tratta di privatizzare ma di liberalizzare. Balle. Il trasporto è per sua natura un monopolio. Può essere gestito dal pubblico o dal privato. La sola differenza è il profitto. E siccome i soldi sono gli stessi, se qualcuno ci deve guadagnare lo farà deprimendo ancora di più la qualità del servizio. Non è questione di opinioni. E’ matematica.
Quindi domenica si vota no. Si potrebbe anche pensare di boicottare semplicemente il referendum non facendo arrivare la partecipazione al quorum previsto (33 per cento). Lascio a voi la scelta: occhio alla percentuale dei votanti e pronti a scattare se si alza troppo. Ma anche se resta molto basso, una dose di no di sicuro non faranno male. Nel dubbio facciamoci una croce sopra.
La manovra che certifica il declino.
Il pippone del venerdì/75
Io credo che questa manovra economica del governo sia una sorta di bollino blu che certifica in maniera inequivocabile il declino del nostro Paese. Il cosiddetto governo del cambiamento ha messo insieme qualche norma raccogliticcia su una specie di sussidio di disoccupazione, una mezza truffa sulle pensioni, un condono davvero paradossale che riguarda il terremoto a Ischia, l’aumento di imposte varie (un must quella sulle sigarette) e poco altro. Anzi, dimenticavo, c’è la norma sulla terra in omaggio a chi fa il terzo figlio. Ora, allo stato attuale delle cose, siamo sempre la secondo potenza manifatturiera d’Europa. E vi pare che questi possano essere i provvedimenti che ci portano fuori dalla crisi economica? Anche il Pil alla fine ha certificato che la stentata crescita tanto sbandierata dai governi degli ultimi anni era mera illusione. Siamo tornati alla stagnazione. Allo zero per cento. Gli osservatori più avvertiti, a dire il vero, lo avevano già spiegato, che i dati con un pallido segno più che ci avevano illuso erano un mero riflesso della ripresa avvenuta a livello mondiale. Il nostro declino, invece, è continuato imperterrito, al di là del Pil che si conferma indice insufficiente a valutare lo stato di salute dell’economia, tanto meno di un Paese intero.
Al di là dei numeri: l’Italia è un paese che frana alle prime piogge, che ha paura delle diversità, dove la povertà che si sta diffondendo invece che protesta sociale diventa rabbia nei confronti dei più deboli. Questa è la fotografia che abbiamo di fronte. Dal punto di vista industriale abbiamo regalato in giro per il mondo i pezzi pregiati della nostra industria, perché i famosi capitalisti nostrani si sono rivelati capaci di andare avanti soltanto con i contributi dello Stato. Una volta finiti quelli hanno fatto cassa e sono scappati con il malloppo. Tutti intenti a speculare sui titoli, guai a investire nel Paese. E per convincerne qualcuno i governi non hanno trovato di meglio che regalare a quelli più amici i resti del fu sistema delle partecipazioni statali: abbiamo cominciato con Telecom, proseguito con Alitalia e concluso le autostrade. Io capisco che lo Stato non deve fare i panettoni, non deve produrre auto, non deve occuparsi del latte. In realtà capisco poco anche questo, ma non è la sede per aprire un dibattito sull’economia socialista. Qualcuno mi deve però ancora spiegare come può un governo rinunciare ad avere sotto il controllo pubblico settori strategici come la mobilità, i collegamenti, le comunicazioni. Il che non significa che necessariamente debbano essere pubblici i provider di internet, ma la rete sì. Lo dicevo quando un governo di centro-sinistra svendette Telecom, figuriamoci adesso: le grandi reti infrastrutturali sono la chiave per la crescita di un territorio. Non si può lasciarli in mano privata, magari neanche italiana.
Addirittura a Roma fra una settimana voteremo sulla privatizzazione del trasporto pubblico locale. Atac fa schifo, mettiamo tutta a gara, basta con il monopolio pubblico dicono i promotori, Partito radicale e Partito democratico. Ora, il ragionamento potrebbe anche essere sensato se il trasporto pubblico, per la sua stessa natura, non fosse un monopolio. Che facciamo mettiamo diversi gestori su una stessa linea? Ovviamente no. E allora, va detto con chiarezza, mettere a gara il servizio di trasporto pubblico vorrebbe dire far diventare monopolista un imprenditore privato, o magari una società pubblica di altri paesi, visto che in tutta Europa le grandi capitali hanno gestione interamente pubblica di questo essenziale servizio. Unica eccezione di rilievo è Londra dove si sono amaramente pentiti. Altro tema sarebbe quella di creare una vera Agenzia della mobilità con il compito di programmare e monitorare il servizio. Quando ancora c’erano forze di sinistra di questo parlavamo.
Questa fissazione del privato che funziona meglio del pubblico è sbagliata nel suo stesso presupposto. Funziona meglio (forse) dove c’è concorrenza, nei settori dove invece la concorrenza non è possibile, al contrario, il privato punta a massimizzare i suoi profitti, senza dover offrire un servizio in grado di reggere il confronto con altri operatori dello stesso settore. Di prove, anche tragiche, ne abbiamo sotto gli occhi a dozzine. In realtà, poi, il pubblico negli altri paesi europei funziona bene e si espande anche: basta pensare a Parigi, dove Ratp, la società che gestisce i trasporti locali, è talmente forte che può permettersi di andare a gestire servizi anche fuori dai confini francesi. Chissà che non ci provino anche a Roma. Del resto, proprio nella capitale, un esempio di ente comunale che non solo funzionava, ma garantiva profitti costanti all’amministrazione lo avevamo: Acea. Poi, pur con un ruolo di minoranza, sono stati fatti entrare soci privati. I profitti sono diminuiti e il servizio è peggiorato. Certo, lo sfacelo complessivo di Roma ci mette del suo, ma anche la fornitura di elettricità e – soprattutto – acqua non è più ai livelli che aveva prima della quotazione in borsa.
Ovviamente di tutto questo la sinistra non parla. Mi sarei aspettato una campagna casa per casa sulla manovre economica. Alla vecchia maniera: gazebo in tutte le piazze, manifesti e volantini. Magari anche un minimo di campagna sul referendum romano. Nulla di tutto questo. Facciamo girare un po’ di materiale sul web, spesso confuso e pieno di errori. Senza capire che sui social ci parliamo e ci convinciamo fra di noi. Non si va oltre che rinforzare le tifoserie.
Siamo però tutti impegnati a capire in quale forma ci si dovrà presentare alle prossime elezioni europee. Perfino il timido Speranza alla fine si è accorto che il tempo stringe. Al coordinatore nazionale di Mdp verrebbe da dire: caro Roberto, bastava una telefonata a un qualsiasi elettore di Liberi e Uguali, te lo avrebbe detto mesi fa che il tempo stringe. Adesso, io credo invece che il tempo sia proprio scaduto. Non abbiamo alcuna credibilità, alcun progetto di lunga portata. A che serve l’ennesimo autobus per portare qualche parlamentare in Europa? Lo dico subito, io su quell’autobus non ci salgo.
Riempiamo di colori i covi fascisti. Il pippone del venerdì/63
Mi ha colpito molto la notizia dell’aggressione subìta da alcuni giovani a Subaugusta, nel settimo municipio di Roma. Nella notte fra il 30 giugno e il primo luglio alcuni fascisti hanno riempito i muri della locale sezione del Pd e dei locali adiacenti di Rifondazione di scritte e simboli, nello stabile c’erano tre ragazzi che stavano studiando e si sono presi la loro dose di insulti. Intanto un applauso al loro sangue freddo: se fosse successo a me sarei uscito prendendo tutti gli oggetti contundenti che trovavo in sezione. E sicuramente sarebbe finita peggio.
L’episodio in sé non è neanche straordinario. A Roma, ormai, casi di questo tipo succedono da anni. Di solito ci si arma di vernice e pennello e si ripuliscono le pareti. La novità è la sfrontatezza dei fascisti, che colpiscono un locale con dei ragazzi dentro. Non si nascondono più ormai, sono sempre più arroganti, certi dell’impunità. E’ una questione di clima politico che si respira. I nemici sono i migranti, i nomadi, i deboli. I fascisti no, quelli vanno perfino coccolati. Succede ad esempio che, proprio nella giornata di ieri, sia stato sgomberato uno stabile dove dormivano un centinaio di rifugiati del Sudan al Tiburtino. Stessa sorte che hanno subìto per cavilli burocratici sedi dei partiti della sinistra ed esperienze sociali. Ci hanno provato addirittura con la Casa internazionale delle donne. Ma le tante occupazioni abusive di Casapound e Forza Nuova sono quanto meno tollerate. I locali Ater di via Taranto, ad esempio, occupati da più di un anno per realizzare una mensa per gli indigenti, dove possono accedere solo gli italiani.
Si respira una brutta aria, insomma, a Roma. L’amministrazione a Cinque stelle, in diverse zone della città appare contigua a Fratelli d’Italia. Il nuovo governo non ha di certo fatto dell’antifascismo la sua bandiera. E le conseguenze sono queste. Il problema più grande è la mancanza di capacità di reazione delle forze democratiche. Continuo con l’esempio di Subaugusta perché lo trovo emblematico. Arriva subito qualche inutile comunicato di solidarietà, buono solo a farsi belli sui social, i giornali di solito li ignorano. Si programma una riunione del coordinamento antifascista di zona, ma nel frattempo nella sezione irrompe il presidente del partito, Matteo Orfini e lancia una solitaria manifestazione del Pd. Quasi a voler mettere il cappello – anzi il simbolo – su un tema, quello della difesa della democrazia che dovrebbe essere al contrario patrimonio di tutti.
Una iniziativa sbagliata e controproducente. Malgrado questa improvvida presa di posizione, del resto stiamo parlando di Orfini non si può pretendere di più, il giorno dopo si riunisce il coordinamento. Una riunione molto affollata, mi raccontano, con tutte le forze sociali e politiche. Che si chiude programmando addirittura un festival dell’antifascismo. Da fare a settembre. Nell’immediato si pensa a un volantino. E’ chiaro a tutti che serve una reazione immediata e continua allo stesso tempo e che parlare di settembre vuol dire rinviare tutto a dopo le ferie. Nel migliore dei casi.
Ecco, io credo che quest’episodio la dica tutto sullo stato della democrazia nel nostro Paese. Domani andrò in giro con la mia maglietta rossa, rispondendo alla bella iniziativa lanciata da don Luigi Ciotti. Ma non credo davvero che basti “una maglietta rossa per fermare l’emorragia di umanità”. Quel rosso addosso dobbiamo portarlo tutti i giorni, dobbiamo farlo vivere nei comportamenti quotidiani. Io credo che il razzismo e il fascismo si combattano con robuste iniezioni di cultura, sconfiggendo la paura che è stata instillata in dosi massicce nel nostro Paese. Hanno vinto le elezioni puntando sulle divisioni, così continuano a governare. Non basta dire, come fa ottimamente il presidente dell’Inps Boeri, che i migranti servono alla nostra economia, alle nostre pensioni. Dobbiamo cambiare il sentimento popolare contrario ai migranti che, sia pur del tutto immotivatamente, è presente e radicato. E allora la ricostruzione di una sensibilità diversa in questo Paese passa per azioni uguali e contrarie.
Mi spiego meglio: loro imbrattano i muri con svastiche, manifesti lugubri e scritte assurde? Rispondiamo con murales allegri, pieni di colori. Invece di manifestazioni solitarie del Pd, chiamiamo tutte le forze democratiche, l’Anpi, l’Arci, i sindacati, i partiti, le associazioni dei migranti E vediamoci a via Taranto. Prendiamo le serrande di Forza Nuova, che adesso hanno una lugubre rivisitazione del tricolore, e riempiamole di immagini allegre, magari dei grandi fiori con i colori dell’arcobaleno. E poi ripetiamo l’iniziativa negli altri covi fascisti. Mi immagino una grande manifestazione pacifica e allegra, itinerante per la città. Facciamo tornare Roma a essere capitale della solidarietà, ricordiamo ai romani che hanno impressa nel loro dna la fusione delle razze e l’accoglienza.
Ecco, e la finisco qui, perché d’estate meglio non esagerare, questa ovviamente è soltanto un’idea pazza, uno spunto. La sinistra che torna a vincere, secondo me, non passa da alchimie elettorali o da fantomatiche “coalizioni del fare” (fare cosa?). Parte dall’unità costruita su questioni concrete e su grandi battaglie comuni. Chi ci sta, ci sta.
Il pippone del venerdì/10.
Roma, la città che non c’è più
La montagna di immondizia che sommerge Roma e i romani per me è una sorta di metafora di una città che non c’è più. Mi piace dirla così, secca, senza eufemismi. Ora, sia chiaro, non è colpa della Raggi, lei è soltanto l’ultimo anello della decadenza di una classe politica che non ha gli “skill”, come dicono quelli bravi, per governare una città. A maggior ragione una città complessa, con strumenti amministrativi non adatti. Non c’è la competenza, non c’è l’esperienza politica, non c’è quella capacità di entrare in sintonia con la città e le sue necessità che hanno avuto i grandi sindaci di Roma. Solo per rimanere all’epoca recente Petroselli, Rutelli e Veltroni. Gente che questa città la sapeva leggere, la sapeva coccolare e amare. Non si governa questa città se non la si ama, diceva Petroselli. E aveva ragione.
Già, dicono, però la Raggi è onesta, mica come quei delinquenti che l’hanno preceduta. Ora – premesso che ha alcuni procedimenti giudiziari avviati e, quanto meno, il giudizio andrebbe sospeso – dico una cosa forte: meglio ladri, ma bravi. Perché se sei un ladro, ma bravo, ruberai anche, ma qualcosina per la città resta. Se sei onesto – pare – ma del tutto incapace, alla città non resta nulla. E il danno è peggiore del furto. Ovviamente è un’iperbole. Per me l’onestà, dirò di più una certa intransigenza morale, resta condizione necessaria per qualsiasi incarico pubblico. Condizione necessaria, ma, appunto, del tutto non sufficiente.
Il degrado di una città, dicevamo, non avviene in un giorno. E’ un processo lento. Che è iniziato quando abbiamo perso l’ambizione di pensare un futuro importante per questa città. Roma si amministra con grandi progetti e una cura maniacale per la minuta amministrazione. Si deve guardare al mondo e al marciapiede sotto casa insieme. Le grandi stagioni della sinistra, l’ho scritto tante volte, sono state caratterizzate da un grande progetto complessivo: era la ricucitura fra centro e periferia con Petroselli, era la vocazione di grande Capitale mondiale con Rutelli e ancora più con Veltroni. Poi il nulla.
In passato, era il tempo della campagna elettorale di Marino, ho anche provato a cimentarmi, nel mio piccolo, su questi argomenti, indicando un’altra idea forte: quella della costruzione di una “città per vivere”. Deve essere sembrata poca cosa, perché non ho mai trovato una sede politica dove poterne ragionare. Eppure resta una prospettiva, nella sua semplicità, rivoluzionaria: orientare tutta l’amministrazione su queste coordinate vuol dire rigenerazione urbana, trasporti pensati per gli utenti, valorizzare le risorse turistiche. Vuol dire un modello di città, dalle applicazioni “smart” che oggi vanno tanto di moda, a una nuova cultura civica che metta in rete le tante esperienze di volontariato e ne moltiplichi le potenzialità. Insomma, significa dare un orientamento all’azione di governo. Non il giorno per giorno, ma un vero e proprio progetto complessivo per la città. Provai anche a buttare giù qualche idea, dalla “circle line” per i trasporti, all’archeotreno (già c’è, basterebbe una stazione) per collegare il centro con la grande bellezza del parco dell’Appia Antica e i suoi acquedotti. Ma la sinistra preferì mascherare le sue debolezze dietro Marino. Poi arrivò la bolla mediatica di Mafia capitale, utilizzata nel Pd per spazzare via quel che restava dei circoli, l’amministrazione fece finta di interessarsi e nulla più. Andammo, io e gli altri sostenitori di questi progetti, a qualche dibattito, in qualche radio. Ricevemmo tanti applausi da Soprintendenze a dirigenti dei parchi. Pacche sulle spalle.
Perché riporto questa esperienza, se volete marginale? Non per dire quanto sono bravo, questo lo so (se non me lo dico io). Ma per raccontare come questa città, nel suo complesso, abbia rinunciato a essere comunità che discute, si appassiona. Non è che non ci sono le intelligenze, Roma resta una grande capitale della cultura. Ha tre università, grandi istituzioni di ricerca. Non ci sono i luoghi dove mettere in rete le competenze.
Vedete il tema non è che un sindaco, o un ministro, debba essere per forza laureato o esperto di tutte. Il politico può anche venire dai campi di pomodori del sud. Deve avere un’altra capacità però: quella di ascoltare le persone competenti nella materia di cui si occupa. E questo è essenziale per un amministratore. Non deve dare lui le soluzioni, deve indicare la strada da seguire. Faccio un esempio pratico: come politico penso che debba essere privilegiato il trasporto pubblico. Bene, devo trovare le persone capaci di progettarmi un sistema efficace. Non posso mettermi io a dire quale tracciato debba avere una linea. Devo indicare la strada, che poi deve essere seguita da chi ha le competenze tecniche.
Insomma, la classe dirigente di una grande metropoli non si improvvisa. E questo è successo a Roma per troppi anni. A partire, secondo me, dal secondo mandato di Veltroni. Quando l’evidente interesse del sindaco per un suo impegno politico a livello nazionale ha creato le condizioni per una frattura fra l’amministrazione e la città. Il livello è crollato con Alemanno, ma qui io credo che la sinistra abbia perso un’occasione storica per rifondare se stessa. Serviva un grande movimento di idee, bisognava chiamare tutta la città a raccolta per prepararsi alla rivincita. Si è fatta, grazie a un gruppo dirigente “da battaglia” nella federazione romana del Pd, un’opposizione senza sconti, dopo qualche tentennamento da parte del gruppo consiliare, che all’inizio dimostrò un forte rischio di deriva consociativa. E’ mancata la fase due, quella del progetto. Si è preferito affidarsi alle logiche delle correnti, quel gruppo dirigente si è immerso nella battaglia elettorale, in tanti si sono candidati, dalla Regione, al Parlamento, al Comune. E si è mascherata la propria povertà dietro un sindaco che ha fatto una bandiera della sua estraneità a Roma.
Marino non era “il marziano” perché pulito e differente rispetto alla bassa politichetta romana. Era marziano rispetto a una città che lo ha amato ma che lui non ha mai capito. Da qui le difficoltà dei suoi anni in Campidoglio. Con una squadra di governo improvvisata, dove anche quelli bravi furono messi a recitare un ruolo non loro. Eppure, malgrado tutto, qualche cosa si muoveva. Poi, lo ripeto, arrivò la bolla mediatica di Mafia Capitale. Non che non fosse grave, per carità, anzi: io sono convinto che sia venuta fuori un percentuale minima della verità. Parlo di bolla mediatica perché il Pd ne approfittò per uccidere se stesso. Non rifaccio la storia, non parlo dei silenzi dei tanti che non si opposero. I risultati li conosciamo: invece di mettere in campo le risorse migliori che il partito aveva e affiancare un sindaco in difficoltà, ha preferito affossarlo.
Non contenti, perché le cose non vanno fatte a metà, candidano un impresentabile in tanti sensi: vecchia volte della politica romana, famoso per i suoi digiuni e per gli insulti quotidiani alla sinistra del suo stesso partito. Giachetti. Te lo buttano in campo e poi quando gli dici ”io non lo voto” diventi pure un traditore. E vince, tanto a poco, questa Raggi. Oggetto misterioso all’inizio, molto condizionata da vecchi ambienti della destra, attorniata da inquietanti dirigenti comunali e da una sorta di corte dei miracoli che raccoglie spazzatura varia. Con qualche eccezione, come Paolo Berdini, assessore all’Urbanistica, un tecnico conosciuto per le sue posizioni radicali. Lo fanno fuori con il solito fuorionda malandrino che spunta quando serve, nel bel mezzo della trattativa sullo stadio della Roma, guarda tu le coincidenze.
Morale della favola: Roma non ha grandi progetti in cantiere, la manutenzione urbana non esiste, è diventata una città caratterizzata dai cumuli di rifiuti sparsi ovunque. Una città dove, lo dico sempre, ormai la natura ha vinto sull’uomo. L’antropizzazione del territorio, in mezza città, è ormai a rischio. Sempre che sia un male. Non ci sono più le erbacce, in mezzo alle nostre strade crescono gli alberi. Per non parlare delle reti arancioni che ci invadono: vera e propria coscienza sporca della città. Non riesco a riparare neanche un buca, ma mi salvo l’anima con questi inguardabili cerotti.
E poi, ancora peggio, c’è il degrado morale di questa città. Che non è più la Capitale bonacciona, accogliente e tollerante. E’ una città cattiva. Dove si muore bruciati vivi in un camper. E non mi importa se sia stato razzismo o faida fra clan. Il tema è che in un tredici in un camper non ci dovresti proprio vivere. Petroselli prese tutte le case popolari e le riempì con gli abitanti dei cosiddetti borghetti, i ghetti di baracche di lamiere e pochi mattoni che costellavano la città. Portò le fogne e la luce in quelle borgate talmente abusive che le strade girano intorno alle case e non il contrario. Una grande operazione di recupero della città. Con tanti limiti, dovuti all’emergenza. Primo fra tutti quello di aver creato dei quartieri ghetto, penso a Laurentino 38. Le emarginazioni furono trasferite dalle baracche alle case. Che non è poco, ma non basta. E le amministrazioni che sono arrivate dopo non hanno saputo proseguire quel lavoro di integrazione che sarebbe stato necessario.
Ma, comunque sia, Petroselli cambiò per sempre il volto di questa città. E poi, perché il progetto era quello di ricucire il centro con le borgate, lanciò quell’estate romana che fu, credo, la più grande campagna culturale che questa città ricordi. C’è adesso una classe dirigente che sia capace anche solo di dire con coraggio che non vogliamo più campi ghetto per i nomadi? Che vanno chiusi? Che servono solo piccoli campi sosta per chi davvero è nomade e che agli altri va data una casa e un lavoro?
No, ci si cosparge il capo di cenere, si lancia l’allarme quando c’è una protesta in qualche sperduta periferia che nessuno conosceva fino a un minuto prima. La stessa cosa che succede per i barconi in mare. Quando di inquadrano i cadaveri dei bambini tutti contriti. Ma quando qualche “pazzo” dice: apriamo i corridoi umanitari per i profughi, portiamoli noi via da lì, ecco che il dolore finisce e torniamo serenamente ai nostri razzismi.
Un “pippone” pessimista? Forse sì, diciamo malinconico, ma quando vedi una discarica davanti al Parco dell’Appia Antica, a un patrimonio vero dell’umanità, ti viene lo sconforto. Quando di tre sorelle rimane solo una macchia scura sull’asfalto, ti viene da dire che questa città non c’è più. Non è più “comunità”, non è più quella Roma sorniona ma ribelle del secolo scorso. Si piega, si fa irretire da chi strilla più forte, ma non si rivolta, non alza la voce. Se il principale partito di opposizione è convinto di farsi sentire ramazzando per una domenica la città – telecamere al seguito – come non farsi prendere dallo sconforto? Io credo, al contrario, che si debba per prima cosa ascoltare Roma, per davvero, non per far finta di avviare un processo partecipativo. Perché Roma sono anche le centinaia di associazioni di volontario, le esperienze culturali di autogestione di spazi, i cittadini che si organizzano e lavorano contro il degrado non per una domenica, ma giorno per giorno. Senza telecamere. Ecco: facciamole spengere le telecamere sui vip in maglietta gialla, il tema non è come apparire o quanto strillare, il tema è ricominciamo a fare rete, a costruire spazi di discussione, di confronto, di iniziativa concreta. Torniamo a essere punto di riferimento per quel pezzo di città che non si è arreso. Accendiamole dopo le telecamere, per raccontare quale grande progetto di rinascita vogliamo mettere in campo. Roma non c’è più, insomma. Ma la storia non è finita.
Emergenza rifiuti a Roma
Facciamo chiarezza
Sono giorni che assistiamo a un rimpallo di responsabilità fra Regione e Comune sull’emergenza rifiuti a Roma. Permettetemi una battuta: è colpa di Renzi. Il caso, infatti, scoppia quando il neo segretario del Pd annuncia che pulirà lui la città da cima a fondo. Fino ad allora avevamo convissuto tranquillamente con l’immondizia che sta per strada fin da quando c’era Alemanno sindaco. Con periodiche crisi dovute alla rottura degli impianti e ai ponti da festività. I sindaci che si sono succeduti al massimo hanno avanzato proposte su come risolvere la situazione. Marino ha aumentato i cassonetti in strada invece di puntare all’estensione del porta a porta, peggiorando la situazione. Per il resto è tutto uguale a prima. La città fa schifo e i topi, è proprio il caso di dirlo, ballano. Ma come se ne esce? E di chi sono le responsabilità, scherzi a parte?
Di seguito pubblico la lettera dell’associazione “Zero Waste Lazio” rivolta al sindaco Raggi. Mi occupo di queste materia da alcuni anni per lavoro e credo di poter dire che fanno un quadro molto puntuale e onesto. E’ un po’ lunga, ma secondo me molto chiara. Diffondetela, se volete. Credo sia utile
LETTERA APERTA AL SINDACO VIRGINIA RAGGI :
ALCUNE VERITA’ SULLA GESTIONE DEI RIFIUTI A ROMA
La situazione di emergenza in atto a Roma non è una opinione ma un fatto, basato di certo su un sistema impiantistico di AMA inadeguato, obsoleto o del tutto assente e che è un fatto noto a tutti da tempo, per cui servivano già da un anno azioni concrete aldilà della ostinata negazione del disastro oggi in atto da parte del suo assessore all’ambiente, che continua purtroppo a non produrre fatti ma solo altra “documentazione” cartacea.
Le ricordiamo che è passato quasi un anno dall’insediamento della sua giunta e che, nonostante il cambio di due assessori all’ambiente, la sua maggioranza ha di fatto ignorato per motivi diversi sino a febbraio 2017 i continui solleciti al confronto per l’attuazione della delibera capitolina già approvata n. 129/2014 “Roma verso rifiuti zero”, data da cui aspettiamo un atto di giunta annunciato dal suo assessore all’ambiente tre mesi fa!! La citata delibera capitolina “quadro” tuttora vigente, in quanto delibera di iniziativa popolare ha visto il riconoscimento del suo indiscusso valore sia dalla giunta precedente che recentemente dalla sua giunta, in termini di criteri per la pianificazione di – azioni – programmi ed obiettivi al 2020. Ma oltre la condivisione teorica del percorso “verso rifiuti zero” serve ora che lei metta a disposizione di AMA le risorse economiche e di personale per attuare i citati programmi descritti in modo puntuale, in primis per un “programma straordinario” mirato alla riconversione generale dai cassonetti alla raccolta generalizzata “porta a porta” e la costruzione degli impianti di compostaggio e di riciclo necessari.
Le ricordiamo che su questo aspetto il rimpallo di responsabilità tra lei e Zingaretti non produrrà alcun effetto, dato che la progettazione e realizzazione degli impianti per i rifiuti urbani è in capo ad AMA, mentre la loro autorizzazione resta in capo alla Regione Lazio per gli impianti di TMB e per la eventuale discarica di servizio per i rifiuti indifferenziati salvo la competenza di ubicazione del sito da parte di Roma Capitale. Ma lei forse dimentica che ciò che manca del tutto a Roma sono gli impianti per le frazioni differenziate, in particolare quelli di compostaggio per la frazione organica (che continuiamo ad inviare a costi pesantissimi a Pordenone !!) e gli impianti di riciclo per la frazione secca (la cui selezione è da anni data in subappalto oneroso a piattaforme private a Pomezia ed altrove). A differenza della disinformazione presente sui social la informiamo che questi strategici impianti di “recupero”, per il compostaggio ed il riciclo di rifiuti differenziati, sulla base di una sub-delega della Regione Lazio, sono da anni autorizzati per competenza direttamente dal Dipartimento Tutela Ambiente della ex Provincia di Roma oggi Città Metropolitana di Roma Capitale, cioè l’istituzione che lei stessa presiede!!!
Per cui non le sarà difficile capire che IL NODO PRINCIPALE DA SCIOGLIERE PER RISOLVERE DAVVERO LA “RICORRENTE EMERGENZA” RIFIUTI ROMANA E’ TUTTO NELLE SUE MANI, e consiste nell’abbattere la produzione di “rifiuti indifferenziati” raccolti con i cassonetti stradali e puntare tutte le risorse finanziarie ed umane sulla “filiera differenziata” che va dalla estensione generale della raccolta “porta a porta” sino alla realizzazione ed autorizzazione degli impianti di compostaggio e di riciclo. Le specifichiamo che la gestione dei rifiuti sarà “sostenibile” a patto che la sua giunta sarà in grado di attuare il principio vigente di “autosufficienza territoriale”, contenuto anche nella delibera capitolina n. 129/2014, facendo realizzare gli impianti citati di riciclo e compostaggio all’interno del territorio di Roma Capitale.
Le sottolineiamo inoltre che l’aspetto più innovativo e di certo necessario alla riuscita del percorso “verso rifiuti zero” è costituito dalla istituzione di una vera e strutturata “partecipazione popolare” su base paritaria e con i poteri propositivi previsti dalla delibera n. 129/2014, attraverso il sistema degli Osservatori municipali e comunale, ora in fase di prima sperimentazione in due Municipi, in cui serve che lei dia un fortissimo impulso alla stesura del necessario “Regolamento comunale”, visto che la commissione capitolina ambiente solo dopo nove mesi ci ha convocati in prima audizione ma senza assumere alcun impegno concreto calendarizzato. Roma Capitale può essere l’apripista di un nuovo metodo di condivisione delle criticità e delle soluzioni tra gli amministratori ed i cittadini attivi, oggi rappresentati da centinaia di associazioni di volontariato e da comitati di quartiere eletti regolarmente dal territorio, e di un primo vero passo verso la costituzione dei Municipi in Comuni Metropolitani sulla base della capacità di gestire un processo democratico “dal basso”. Dato che lei ha lanciato ultimamente il concetto di “democrazia diretta” crediamo che sia suo preciso interesse favorire forme avanzate di condivisione per una concreta “partecipazione popolare” che possano essere preliminari al concetto da voi stessi proclamato.
Roma 9 maggio 2017 Associazione Zero Waste Lazio
Ora per vincere serve il Pd. In campo per davvero
Finita la giostra delle primarie, bisogna dire che mediamente gli elettori del centrosinistra sono migliori di noi. Il quadro dei candidati in campo, dal Comune ai Municipi mi sembra complessivamente credibile, rinnovato, con alcune punte di eccellenza. Poi non tutto va come uno vorrebbe, ma la perfezione si sa…
Parto dal candidato Sindaco. Ripeto quanto ho detto in tutta la campagna per le primarie e provo ad andare oltre. Secondo me Marino da solo non basta per vincere Roma. Sicuramente ha il merito di averci evitato Sassoli – e non è poco – ma da oggi gli avversari si chiamano Berlusconi e Grillo. Sperando che il livello nazionale non ci sommerga, avremo i due leader schierati a Roma per un mese.
Sicuramente Marino è un candidato che ci garantisce su un fronte importante: moralità e trasparenza. Quell’aria da bravo ragazzo, la sua pacatezza nel rispondere, il modo di sorridere, sono gli elementi che ne fanno un candidato che buca nell’opinione pubblica. In primarie tutte concentrate sui municipi (una sorta di guardarsi l’ombelico e pensare che sia l’universo) c’è stato meno voto organizzato sul livello comunale. Il leit-motiv era: vota tizio per il municipio, per il Comune fai quello che credi. E se si confrontano seggio per seggio i risultati dei candidati municipali “sassolini” con il risultato al Comune di Marino, il tema è evidente. Marino capovolge i rapporti di forza delineati nei municipi.
La sua storia, il suo modo di fare politica, un po’ da esterno senza mai però alzare troppo i toni, ne fanno un candidato credibile per l’elettorato di centro sinistra. Si può ipotizzare un recupero di quel voto che alle politiche è andato a Grillo ma che, a distanza di pochi secondi, si era già indirizzato su Zingaretti.
Si dice: vabbeh ma Roma è la capitale del cattolicesimo. Faccio notare che alle Regionali del 2010 Emma Bonino, ovvero una sorta di Satana in gonnella, a Roma portò via il 54 per cento dei voti. Quindi non mi sembra questo il tema vero.
Il dato delle primarie ci dice Marino sfonda nelle periferie, proprio lì dove Grillo alle politiche è stato primo partito ovunque. E sfonda in quelle periferie che spesso sono state accusate di essere la patria del voto di scambio. Devo dire, è solo un inciso, che a me sono sembrate primarie generalmente corrette. Molto più che in passato. Abbiamo imparato a limitare ed emarginare i fenomeni clientelari che pur esistono. Si può ancora migliorare, ma siamo sulla strada giusta.
Il punto, secondo me, è che Marino, per vincere non deve essere solo e deve essere capace di allargare il campo. Bene, insomma, il suo essere personaggio civico più che politico. Ma adesso servono le idee, le persone, una squadra che, tutelando queste caratteristiche preziose, lo accompagnino in una sfida complessa, lunga. Roma è una città difficile. Che ti ama e ti odia. Ti coccola e ti prende a calci nel sedere. Non basta dire di amarla, devi imparare a sentirne il respiro, a capire in anticipo quale sarà l’emergenza di domani. Credo che Veltroni in questo fosse straordinario. Serve un campo di forze ampio, non tanto in senso politico, ma sociale. Serve un blocco che senta Marino come il proprio candidato. E questo si fa mettendo in campo, da subito una squadra larga, rappresentativa di questa città. Si fa uscendo dall’etichetta di candidato della sinistra e basta, mettendo le mani nei problemi quotidiani di questa città. Per fare il sindaco dei romani devi andare oltre. Altrimenti c’è il rischio di andare lindi e puliti contro un muro. A posto con la coscienza ma irrimediabilmente perdenti.
Marino deve dire cosa vuole fare sui grandi temi, dall’urbanistica, alla mobilità. Ricordandosi sempre, però, che questa è una città che ha fame. Che manca il lavoro. Che la disoccupazione giovanile è un livello intollerabile. Deve saper parlare al cuore della sinistra, deve far tornare in campo anche alle elezioni “vere” quel voto di opinione senza il quale si perde. Sempre. Ma deve dare anche risposte alle ansie quotidiane dei cittadini, dalle buche, ai rifiuti, agli autobus scalcinati. Al lavoro, lo dico ancora una volta.
Io credo che per fare questo serva l’unione fra forze sociali e partiti della coalizione. E serva innanzitutto il Pd. Che non si deleghi, ancora una volta, la campagna elettorale ai soli candidati al consiglio comunale. Mettiamo al servizio del candidato sindaco le nostre idee alle quali abbiamo lavorato in questi anni e le nostre persone migliori. Scelga lui. In assoluta libertà chi crede sia più utile a costruire un progetto per Roma. Ce la facciamo a fare questo? Questo, malgrado sia un po’ scassato, resta un partito grande, forte e generoso. Ricco di intelligenze. Mettiamole in campo.
I Municipi
Quello del voto municipale è l’aspetto che, diciamo la verità, ci ha occupato di più in tutta la campagna per le primarie. I risultati mi sembrano positivi, con una squadra di candidati, nel complesso, giovane, rinnovata e soprattutto all’altezza della sfida che ci attende.
Alfonsi, Torquati, Santoro, Veloccia, Marchionne. Cito solo quelli che conosco un po’, nessuno si offenda. Mi soffermo, in conclusione sul risultato del VII Municipio (ex IX e X) dove le cose sono state complicate dall’accorpamento “a freddo” deciso dalla destra proprio alla vigilia delle primarie. Io credo che possa rappresentare un modello di cosa il Pd non deve fare. Nessuna selezione delle candidature, troppi candidati competitivi. Non è un giudizio di valore. Ma faccio notare che, soltanto limitandosi ai due candidati ex Ds, Franco Morgia e Fabrizio Patriarca, la somma dei loro voti doppia il risultato della candidata vincente, Susanna Fantino di Sel. Che ha avuto una buona affermazione, ma che sarebbe rimasta lontana dal primo posto se fossimo riusciti a fare sintesi. Mi ci metto anche io, anche se ho provato fino all’ultimo a trovare una soluzione più unitaria. Non ci sono riuscito e quindi sono parimenti responsabile rispetto agli altri.
In sintesi e per non annoiarvi oltre, Io credo che di quella squadra larga i primi attori debbano essere proprio i candidati presidenti. Sono loro che sentono il respiro della città più da vicino. Mettiamoli in condizione di lavorare da subito per il nostro Bene Comune, Roma.
Con Bersani e Zingaretti.
E con Flavia alla Regione
Brutta o bella che sia stata, ormai la campagna elettorale è agli sgoccioli. Due sole notazioni su questo. A Roma è stata l’ennesima campagna elettorale dove il partito è stato quasi del tutto assente. La campagna elettorale è stata come di consueto subappaltata ai candidati alla Regione. Come si sono comportati? Un po’ meglio rispetto al solito. Ma neanche tanto. Invasioni di manifesti, mega cene. Il tutto in calo rispetto al passato, ma c’è stato. Andava eliminato alla radice, secondo me, perché quando si spendono centinaia di migliaia di euro per essere eletti alla Regione, oltre ad essere fuorilegge, si dovrà anche rispondere ai finanziatori. E quindi, almeno questa volta, si potevano evitare le cene da duemila persone, le centinaia di migliaia di manifesti affissi in tutta Roma e Provincia, le pubblicità ossessive sulle fiancate degli autobus. Si poteva e si doveva evitare perché se magari porterà qualche preferenza in più all’aspirante consigliere, al tempo stesso ce ne fa perdere fra le tante persone che sono stanche di una politica dai costi milionari. Qualche commissione di garanzia prima o poi dovrà capire quanto si spende in una campagna per le regionali. Magari prima che lo faccia qualche procura.
Serviva il partito, serviva una regia romana e regionale che, come avviene ormai da anni, è mancata.
I dirigenti si sono limitati a partecipare alle iniziative dei candidati. Non può bastare. Soprattutto con lo sguardo rivolto agli appuntamenti che ci aspettano nei prossimi mesi. Riuscirà il Pd di Roma a mettere in piedi un ragionamento collettivo, una campagna di comunicazione comune, oppure si limiterà a tirare la volata a qualcuno? Riuscirà a porsi alla testa di un movimento di popolo per liberare la città da questo sindaco deprimente?
Detto questo, ci siamo. Fra poche ore si vota. E, con tutte le nostre pecche abbiamo la concreta possibilità di cambiare, sia in regione che a livello nazionale. Da ragazzino mi emozionavo quando Pajetta finiva i comizi del venerdì dicendo: Ricontattate gli incerti, telefonate a tutti i vostri amici e parenti. Ricordate che bisogna continuare a lavorare fino alla fine, perché anche un voto può essere decisivo.
Nessun messaggio può essere più efficace in queste ore.
Cosa votare e come votare: Senato e Camera solo una croce sul simbolo del Pd. Alla Regione una croce sul simbolo vale anche come voto a Nicola Zingaretti. E poi si può esprimere una preferenza, badate una sola, altrimenti si rischi di annullare la scheda.
A chi dare questa benedetta preferenza?
Francamente non mi permetto di dirvi chi votare, chi sarebbero i presunti migliori. Ognuno di noi ha la testa per scegliere. Vorrei, più umilmente, dire chi ho scelto e perché.
Fin dall’inizio di questa avventura ho lavorato e sostenuto Flavia Leuci. Per tre ragioni.
La prima è che di Flavia mi fido. La conosco da anni, siamo stati spesso dalla stessa parte della barricata, ma anche quando non siamo stati d’accordo è sempre stata leale e trasparente. E in Regione di lealtà e trasparenza ne abbiamo davvero bisogno.
La seconda è che la l’esperienza necessaria per poterci rappresentare in Regione. E quando dico rappresentare intendo un rapporto continuo con militanti e cittadini che riporti questo ente così distante a una dimensione umana. Dico l’esperienza perché chi vi propone il rinnovamento e basta in un ente complesso come questo vi racconta una emerita baggianata. Il rinnovamento si fa nei municipi, nei comuni. Lì ci si deve fare le ossa, lì va selezionata la classe dirigente che poi verrà candidata a livelli più alti. Arrivare in Regione senza aver fatto “la gavetta” significa fallire il proprio compito, quello principale di un partito: mettere i migliori candidati possibili a ogni livello. Flavia ha fatto la consigliera in circoscrizione, poi è stata dieci anni in Provincia. E’ una che conosce, approfondisce i problemi e quando non capisce chiede consiglio. Ha l’esperienza e l’umiltà necessaria per essere una buona consigliera.
La terza è che è una donna. Ora, come è noto io sono un maschilista doc, del resto diffidate dai maschi che vi dicono di avere la cultura delle donne. Vi stanno per fregare. Ma anche da maschilista mi rendo conto che in una società in cui le donne sono più del 50 per cento è ridicolo pensare con nel gruppo del Pd non ci sia neanche una donna. E guardate che il rischio c’è tutto. Basta leggere la liste provinciali per capire come siano state costruite così, per avere tutti uomini. Io credo che Flavia sia l’unica donna che ha la concreta possibilità di essere eletta.
Le altre candidate saranno anche rispettabili e brave ma non ce n’è una che abbia la militanza e le capacità di Flavia Leuci. Anche la storia di partito. E io che sono vecchio voglio una consigliera che risponda al suo partito e ai suoi elettori, non che vada a fare la battitrice libera.
Ce la possiamo fare, dicevo. Sarebbe una vergogna, dopo il successo delle donne nelle primarie un gruppo Pd fatto di soli maschi. Ce la possiamo fare, basta ricordarselo domenica e lunedì. E ricordarlo a tutti i nostri contatti. Prendere le agendine, le rubriche sul palmare, sull’ipod, sull’ipad, su quello che vi pare, ma attaccatevi al telefono. C’è tempo fino a lunedì. Per far vincere Bersani e Zingaretti. E anche, se vi avanza tempo, per far eleggere una donna, una compagna vera, nel consiglio regionale del Lazio.
Buone elezioni a tutti.
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