Semplificare va bene, ma con regole chiare e sanzioni certe.
Il pippone del venerdì/143
Dopo i decreti che complessivamente hanno stanziato più di 80 miliardi di euro per sostenere l’economia disastrata da questi mesi di chiusura, il governo pare voler mettere mano con una certa fretta a una lenzuolata di semplificazioni.
E di certo ce n’è davvero bisogno, in un Paese sommerso da leggi, decreti, circolari e via dicendo. Basti pensare al meccanismo usato all’inizio dell’epidemia per accedere alla cassa integrazione: le Regioni esaminano le domande delle imprese, poi le inviano all’Inps, poi vengono girate alle sedi provinciali dell’Inps medesima che danno il via libera definitivo. Se c’è un errore, sia pur minimo, in tutto questo giro di pratiche, si torna alla casella iniziale. Ancor più tortuoso il meccanismo per gli altri aiuti previsti a livello nazionale, che poi si sono intrecciati con gli interventi delle Regioni e dei Comuni in un groviglio di norme che ha generato confusione e ha spesso azzerato l’efficacia degli interventi. Ora, se si fa un provvedimento in emergenza, la principale caratteristica che deve avere è quello di essere rapido. In Italia, molti delle decisioni prese non hanno ancora prodotto alcun effetto.
Ora, uno sano di mente, potrebbe anche sostenere una regola semplice: siccome siamo in emergenza, intanto ti do il contributo, poi faccio i controlli. Sembra facile, ma siccome non siamo in un paese di sani di mente, un principio di questo tipo avrebbe forse scatenato speculazioni di ogni genere.
Se c’è una cosa sicura, però, è che di semplificare una macchina pubblica a dir poco ingessata ne abbiamo davvero bisogno. Fra il dire e il fare, però, non c’è di mezzo un tratto di mare di agevole traversata.
Intanto chiariamoci sul cosa vuol dire semplificare. La destra liberista, da Reagan in poi, ha sempre inteso la semplificazione come eliminazione delle regole pura e semplice. I vecchietti come me ricorderanno, solo per fare un esempio, il disastro prodotto dal presidente-attore con uno dei primi provvedimenti, la famosa deregulation dei cieli. Azzerando, di fatto, il sistema di norme che regolava il settore del trasporto aereo si produsse non tanto un nuovo slancio per le imprese, ma un gran caos e, soprattutto, una drastica riduzione della sicurezza e delle garanzie per i cittadini.
Ecco, allora cominciamo con il dire che semplificare significa l’esatto contrario della deregulation globale che vorrebbe la destra. Vuol dire, al contrario, meno regole, ma chiare e con sanzioni certe.
Semplificare vuol dire, ad esempio, che quel sacrosanto principio che dice “l’amministrazione non può chiederti un documento già in suo possesso” deve diventare effettivo. Faccio un esempio legato alla mia attività professionale. Non so come sia la situazione adesso, ma fino a qualche anno fa registrare una testata al tribunale civile di Roma era impresa da far tremare i polsi. Ricordo che, simpaticamente, chiamavo la dirigente della sezione Nonna Papera, nel senso di una funzionaria che sembra amichevole, ma che quando si intestardisce non ti fa passare neanche una virgola fuori posto o una marca da bollo apposta leggermente al di fuori degli spazi. La dichiarazione antimafia che le aziende devono produrre, ad esempio: dovevi andare in camera di commercio, fare un’autocerficazione e ti davano un pezzo di carta dove risultavi pulito da procedimenti pendenti presso il tribunale sia di carattere penale che amministrativo. Insomma, dovevi presentare al tribunale un documento in cui la Camera di commercio certificava la tua firma su un atto in cui dichiaravi che non avevi problemi con il tribunale. Potrebbe sembrare comico, ma una roba del genere vuol dire almeno una giornata di lavoro persa.
Altro esempio: l’urbanistica. In Italia vuol dire stanzoni pieni di faldoni, leggi che cancellano altre leggi, circolari esplicative che paiono libri di filosofi incomprensibili. Tradotto nella pratica, un esercito di persone che interpreta e studia come fregare la legge. Io non credo, mi limito all’esperienza di Roma, che negli ultimi vent’anni sia stato costruito un solo edificio che rispetti al cento per cento le norme esistenti.
Insomma, ridurre il numero delle leggi è un’altra delle questioni. Meno norme, magari scritte anche in maniera comprensibile e non interpretabile.
La terza riflessione da fare riguarda il personale della pubblica amministrazione. Sempre per esperienza personale, adesso la situazione è più o meno questa. Abbiamo dipendenti con un’età media molto alta, frutto avvelenato degli anni del blocco del famoso turn over, ovvero il mancato ricambio di chi va in pensione. E questo non solo vuol dire una pubblica amministrazione che spesso ha difficoltà persino ad accendere un computer, ma anche dipendenti che sono arrivati alla conclusione della loro carriera, non hanno più ambizioni di miglioramento e il famoso “questo non è di mia competenza” è diventato la regola aurea di tutti gli uffici pubblici. Se all’interno di questo sistema hai un’iniziativa originale diventi una specie di gatto nero da evitare con cura e mettere in quarantena. Non serve meno pubblico, non bisogna ridurre la quantità dei burocrati. Serve che la pubblica amministrazione si apra a una generazione che porti innovazione positiva, una mentalità diversa.
Quarto e ultimo punto: la certezza della pena. Serve un sistema di sanzioni davvero effettivo, che faccia pagare chi froda non fra dieci anni, ma adesso. Da noi succede l’esatto contrario, la frode è certa, la punizione è talmente aleatoria che conviene fare i furbi.
Semplificare, insomma, e la finisco qui, vuol dire rendere la vita più facile ai cittadini, non “fate un po’ come vi pare”. Perché la seconda ipotesi la vita ce la rende più difficile, non migliore.
E se abolissimo del tutto le Regioni?
Il pippone del venerdì/142
Per una volta non faccio la parte del giornalista che si informa da fonti esterne, ma parlo di un argomento che conosco direttamente: le Regioni, le funzioni che hanno acquisito con la riforma del titolo V della Costituzione e come hanno funzionato in questi anni. Ora, visto che dal 2001, in vesti di volta in volta differenti, ho lavorato nel Consiglio regionale del Lazio, posso ben dire di essere testimone diretto di un periodo che va dalla prima applicazione della riforma a oggi. Non vi aspettate ovviamente una disamina approfondita, non può essere questa la sede, mi limito a qualche spunto di riflessione.
Intanto una considerazione di carattere generale: le Regioni sono per lo più costruzioni artificiali, l’Italia è il Paese dei Comuni, al massimo i cittadini riconoscono la loro appartenenza alla Provincia. Basta pensare, per avere un’idea, che lo stemma della Regione Lazio non è altro che la somma dei simboli delle cinque province che la compongono. Del resto, altra notazione a carattere storico-sociologico, anche la formazione stessa dello stato unitario avvenne come somma, avvenuta in vari modi, degli stati locali preesistenti, che quasi mai coincidevano con i confini delle attuali Regioni italiane.
Dunque sono una costruzione artificiale, con confini spesso e volentieri del tutto arbitrari, a volte sono addirittura sbagliati.
Eppure, fin dagli anni ’70, questo ente di governo ha assunto via via più centralità nell’architettura dello Stato, fino a diventare un vero contropotere rispetto a quello centrale. Anche perché, e questa è una notazione di carattere più politico, spesso le Regioni sono usate, da chi si trova all’opposizione a livello nazionale, più come megafono politico contro il governo che per amministrare territori vasti e complessi. Anche durante questa situazione di emergenza abbiamo avuto, ne parlavo giusto qualche settimana fa, casi in cui i presidenti delle Regioni si sono mossi per logiche di propaganda politica invece di dare risposte alle reali esigenze dei loro territori. Certo, poi ci sono differenze rilevanti, ma non ci si può affidare alle capacità dei singoli presidenti se il sistema stesso genera confusione e inefficienza. In più, e passiamo alla seconda considerazione politica, la maggiore assunzione di poteri negli anni è avvenuta più come risposta a mode del momento che per vere esigenze di governo del territorio. La riforma del titolo V della Costituzione, ad esempio, avviene in piena battaglia secessionista della Lega di Bossi.
Il risultato di quegli anni, secondo me, è un pateracchio istituzionale che, come prima conseguenza, rende diversi i cittadini e, in ultima analisi, funziona anche male. Basta guardare ai conflitti che si sono prodotti di fronte alla Corte Costituzionale per avere un’idea della confusione che regna nel nostro sistema di governo.
Le Regioni, infatti, sono una strana via di mezzo fra un ente che produce leggi e un ente che amministra. Dal punto di vista del loro funzionamento interno hanno prodotto una moltiplicazione di apparati, spesso usata soltanto per piazzare ai posti di comando pezzi dei partiti di governo che i partiti stessi non erano più in grado di sostenere. Non è una critica a un’amministrazione in particolare. Qui nel Lazio ha aperto la strada Storace negli anni che vanno dal 2000 al 2005 e poi su quella strada si sono incamminati un po’ tutti, fino ad arrivare agli eccessi della giunta Polverini che tutti conoscete. Non è, a dire il vero, che la situazione sia cambiata di molto: basta pensare che in consiglio regionale a oggi i dipendenti dei gruppi consiliari sono più o meno equivalenti, come numero, ai dipendenti regionali.
Dal punto di vista del funzionamento esterno i guasti si vedono soprattutto nel sistema sanitario. Che funzioni peggio di quello che avveniva all’inizio del nuovo millennio è sotto gli occhi di tutti. Ma anche se funzionasse meglio di adesso, resta alla base una profonda ingiustizia: è sbagliato che cittadini dello stesso Stato abbiano diritti diversi a seconda della Regione in cui nascono, soprattutto se parliamo del diritto alla salute.
E’ profondamente sbagliato che un residente a Napoli abbia diritto a livelli di assistenza differenti da un residente in Trentino. La pandemia ha portato sotto gli occhi di tutti quanto il sistema sia stato devastato da decenni in cui l’unica bussola sono stati i bilanci da tenere in equilibrio tagliando posti letto e servizi territoriali. La rete dei medici di famiglia, un tempo vero e proprio strumento di monitoraggio continuo della salute di una comunità, in pratica non esiste più: i medici di base sono ridotti, vista la quantità di assistiti, a meri scribacchini che firmano ricette di farmaci spesso prescritti da altri, gli specialisti, quasi sempre privati.
A parte che va proprio cambiato il nostro modo di concepire il servizio sanitario che deve essere più diffuso e deve cercare di limitare l’accesso agli ospedali, ma per me è anche evidente che deve tornare a essere competenza esclusiva del governo nazionale. Attualmente, salvo dare linee guida generali, il potere del ministro della Salute è pressoché nullo. Si è visto chiaramente anche durante la pandemia.
E quello della sanità è solo il caso più eclatante. Lo stesso succede per l’urbanistica, per la gestione dei rifiuti, per il trasporto locale.
A complicare il tutto c’è anche l’elezione diretta del presidente della Regione: si è creato un sistema che ha, di fatto, un signore assoluto mentre le assemblee legislative sono ridotte a comparse istituzionali.
Sperando, insomma, che questa emergenza abbia messo una pietra tombale sul concetto stesso di autonomia differenziata che tanto ha fatto discutere negli anni scorsi, va ripensata l’architettura complessiva della nostra organizzazione. Io, da sempre, sono per dare poteri amministrativi veri alle Province, che devono tornare a essere elette dai cittadini. Mi sembra questo l’ente intermedio fra Stato e Comuni che può avere la dimensione giusta per poter essere efficace.
Certo, non è così semplice: bisognerebbe rimettere mano a una vera riforma costituzionale, ripensare profondamente il nostro sistema politico, avendo una visione complessiva e, soprattuto, avendo chiari gli obiettivi da raggiungere. Negli anni si è preferito procedere a pezzi, andando a toccare una volta i poteri delle Regioni, l’altra quelli delle Province, la volta dopo il sistema elettorale. Ne è venuta fuori una specie di guazzabuglio che ha, non solo mandato all’aria il sistema di equilibri pensato nel dopoguerrra, ma anche, in ultima analisi, complicato la vita di tutti noi. Ora, non sarà questo il momento di metterci mano, ma la prossima legislatura deve avere questo obiettivo. Un sistema istituzionale coerente e funzionale è la prima condizione per avere un Paese competitivo, sia dal punto di vista economico che sociale.
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