Stati generali dell’editoria, una farsa in salsa Crimi.
Il pippone del venerdì/105
Sto seguendo, sia pur distrattamente e con il dovuto distacco, questa storia degli Stati generali dell’editoria convocati con tanto di grancassa dal sottosegretario Vito Crimi. Uno si aspetterebbe, visti gli argomenti in campo e visti gli interlocutori del governo, un dibattito a più voci, con l’esecutivo pronto ad ascoltare e, almeno in parte, recepire le proposte che arrivano dagli attori del sistema. Niente di tutto questo. Più o meno lo schema è: parlano tutti, fanno proposte, Crimi lascia ad ascoltare qualcuno del suo staff e poi spiega le sue strampalate teorie, sulle quali non è ammessa replica. E’ così e basta.
Sull’informazione propriamente detta parleremo dopo, ma prima giusto un accenno ai cosiddetti “over the top”, ovvero Facebook, Google e Amazon. Ora, i dati forniti da Agcom sono questi: il mercato degli investimenti pubblicitari in Italia vale 7,3 miliardi di euro, la metà o poco meno va verso le tv e un terzo verso internet (2,2 miliardi). Di questa fetta però, sempre secondo l’Autorità garante per le comunicazioni, oltre il 60 per cento sono andati alle piattaforme web. A Facebook e Google, per parlare chiaro. A quotidiani, riviste e radio arrivano infine, complessivamente 1.9 miliardi. Da più parti si chiedeva un intervento del governo in una situazione così squilibrata, ma l’ineffabile Crimi ha risposto picche: il mercato, sostiene il sottosegretario, è troppo ricco e si riequilibrerà da solo con l’ingresso di nuovi competitori. C’è voluto un blitz dell’opposizione che ha convinto la Lega per far passare un emendamento che, speriamo, salverà Radio Radicale. Ora serve altrettanto a favore dei giornali editi da cooperative.
A parte che le mie poche cognizioni di economia, mi suggeriscono l’esatto contrario, ovvero che gli oligopoli semmai tendono al monopolio se lasciati senza regole, perché la forza degli operatori già presenti nel settore tende a stritolare eventuali nuovi soggetti. A parte questo, dicevo, anche partendo, per assurdo, dal presupposto che Crimi abbia ragione non si capisce bene perché, al contrario, il governo abbia pensato bene di intervenire con un taglio deciso al fondo per il pluralismo nell’informazione per, sostiene lo stesso paladino del libero mercato, “dare uno shock al sistema e segnalare il cambiamento”. C’è voluto un blitz dell’opposizione che ha convinto la Lega per far passare un emendamento che, speriamo, salverà Radio Radicale. Ora serve altrettanto a favore dei giornali editi da cooperative. Crimi se ne farà una ragione.
Il governo, la sintetizzo così, interviene a seconda dei casi. Le grandi multinazionali si regolano da sole, sul pluralismo, invece, meglio mettere pesantemente mano. Viene quasi il sospetto che non sia semplicemente incapacità totale, ma ci sia un disegno preciso. E arriva in aiuto un altro intervento, sempre nel corso degli Stati generali, quello dell’Upa, l’associazione degli inserzionisti, che candidamente ammette come a loro del pluralismo non interessa proprio nulla, semmai sono interessati al profilo dei consumatori e i big data si attagliano perfettamente a queste esigenze. Quando si dice una perfetta convergenza di interessi.
Che i pubblicitari la pensino così ci sta anche. Mica è compito loro pensare al pluralismo dell’informazione. E’ quanto meno inquietante che il governo, in sostanza, sia dello stesso avviso. Ovvero uno dei soggetti deputati all’attuazione e alla difesa del dettato costituzionale che sostiene l’esatto contrario. Insomma, per dirla breve e confermare quanto accennavo qualche tempo fa parlando dei 5 stelle come di una sorta di setta, si ha il sospetto che non solo al sottosegretario Crimi sfugga il fatto che il mercato da solo è l’esatto contrario del pluralismo, ma che proprio su questo punti.
Del resto non sono soltanto gli editori dei giornali editi da cooperative (in pratica gli unici che ricevono ancora contributi dal governo) a lanciare un grido di allarme, ma anche altri importanti soggetti imprenditoriali che candidamente ammettono che senza qualche forma di intervento pubblico “l’informazione di qualità ve la dimenticate, perché il giornalismo è troppo costoso da mantenere”. Badate bene, gli editori non dicono “chiudiamo bottega”, come fanno le cooperative o Radio Radicale, dicono vi scordate la qualità. Insomma, giornali fatti con il copia e incolla dai comunicati stampa. Riempiti di cinguettii e messaggini arrivati dai comunicatori di riferimento.
Ovvero la narrazione al posto dell’informazione. L’editore di cui sopra lo vede come rischio potenziale. Viene da chiedersi se, al contrario, una buona parte del sistema politico non lo veda come una opportunità da cogliere. E dunque si eliminano scientificamente le voci libere e professionalmente qualificate, si dà mano libera alla rete e alle piattaforme digitali che ben funzionano come megafono da usare per diffondere la “religione” ufficiale. Narrazione vuol dire l’esatto contrario di informazione, vuol dire che un bravo comunicatore fa passare per verità assoluta il punto di vista del suo committente. Ci aveva provato anche Renzi, con la stessa tecnica dei grillini, usando fan (in parte veri, ma anche e soprattutto a pagamento) per provare a conquistare la necessaria supremazia sul web. Come si sa ne è uscito spesso con le ossa rotte.
Della tecnica della narrazione fanno uso a piene mani sia Salvini che i 5 stelle, con grande spregiudicatezza. La storia è vecchia: eliminare l’intermediazione del giornalista fra politico e cittadino. Basta leggere le teorie sulla comunicazione nei regimi totalitari, mica si sono inventati nulla di nuovo, usano soltanto mezzi diversi, ma la tecnica è la stessa dei Cinegiornali Luce di mussoliniana memoria. Da parte delle forze di opposizione, su questo tema come anche su molti altri, mi pare ci sia ancora una grande sottovalutazione. Ora, a meno che non pensino che in fondo una situazione senza troppi giornalisti scomodi potrebbe far comodo anche a loro, secondo me servirebbe una grande mobilitazione a difesa dell’informazione. Non è un orpello bello ma di cui si può fare a meno.
Il nostro sistema attuale è già fin troppo debole e spesso troppo appiattito sul potente di turno e non è un orpello qualsiasi. La democrazia stessa viene meno se non viene garantito il diritto dei cittadini a essere informati. Informati, non “narrati”.
Mi raccomando fate i moderati.
Il pippone del venerdì/76
Non è uno scherzo, leggo l’ennesima intervista di Romano Prodi, come sempre con il rispetto che si deve a una persona di una certa età, e scopro che ha la testa ancora ferma lì: per vincere servono candidati moderati, anzi un fronte che comprenda tutti i cosiddetti anti populisti per avere la maggioranza nel prossimo parlamento europeo: l’alleanza con Macron è servita. Ora, io che sono un ingenuo, mi sarei aspettato che dopo quanto sta succedendo ormai da un paio di anni a questa parte in tutto il mondo, anche i tifosi più accaniti dell’ulivismo se ne fossero fatti una ragione. E invece no, non sono bastate neanche le elezioni americane. Nulla, hanno la testa tarata sul “centro”. E poi ho l’impressione che si confonda il concetto di populismo con quello di popolare. Una generazione di dirigenti troppo abituata ai salotti della politica non sa più neanche dove sta di casa il popolo. Non lo trovano manco se lo cercano su google.
Ma torniamo alle cose serie. Un compagno, giusto ieri, mi ha detto che “sono intelligente, ma anche mezzo matto”. Io, a dire il vero, essendo da sempre seguace di Steve Jobs, ambirei a essere tutto matto, anche perché sono i folli che cambiano il mondo, che fanno andare avanti la società, non i sostenitori dello status quo. Ma anche senza essere del tutto fuori di testa, andrebbe portata avanti una qualche forma di riflessione sul ritorno del radicalismo in politica in rapporto alle evoluzioni della nostra società. Non sono davvero in grado, servirebbero sociologi, esperti di new media, fini analisti politici. Io da umile osservatore, mi limito a considerare che perfino nel paese più moderato del mondo occidentale ormai la sfida è fra la destra e la sinistra radicale. Negli Stati Uniti si contrappongono Trump e Sanders, non Cruz e Clinton, tanto per semplificare il ragionamento. E quando la dirigenza democratica prova a inventarsi in provetta un candidato, malgrado una campagna faraonica, prende sonore mazzate. Beto insegna. E’ solo un fenomeno momentaneo? Io non credo. Anzi, penso che la contrapposizione politica sempre più netta sia una caratteristica di fondo di questo modello di società.
Provo ad articolare un pensiero logico. Viviamo in un mondo sincopato, in cui il tempo è fattore essenziale e l’attenzione è sempre più labile. Ormai ognuno di noi fa sempre due cose contemporaneamente. E basta guardare i ragazzi per capire come la tendenza sia sempre più marcata. Si guarda la tv e si sta con lo smartphone comunque in mano. Ci sono paesi dove hanno addirittura pensato di rafforzare la segnaletica orizzontale per le strade perché oramai tutti camminano a testa bassa, meglio scrivere a terra le indicazioni adatte a evitare frontali fra pedoni. Mettiamoci anche un altro concetto: la comunicazione tende a essere sempre meno scritta e sempre più basata su immagini chiave. Il pippone resiste, ma nasce appunto con l’idea stessa di essere orgogliosamente controcorrente. Tant’è vero che il social emergente è Instagram, ovvero un luogo dove non ci sono sostanzialmente testi scritti ma solo immagini.
E anche la politica non può che seguire la tendenza: sempre più messaggi video, a fare i volantini anni ’50 c’è solo qualche sindacalista in pensione. Insomma una comunicazione sempre più secca. Succede in tutto il mondo, in Italia ne abbiamo avuto la prova sul campo alle ultime elezioni, nelle quali hanno pagato i messaggi asciutti di Lega e 5 Stelle, non la vaghezza di Leu o il finto giovanilismo di Renzi.
Insomma, la nuova parola d’ordine di tutti noi dovrebbe essere radicalità. Teniamone conto. Emerge chi si fa capire in 15 secondi. Come farlo, invece, richiede decisamente più tempo: bisognerebbe partire da un solido ancoraggio ideale. Una volta definite le coordinate, declinare il messaggio in maniera efficace è lavoro da comunicatori. Ma se non si parte dalle fondamenta anche il messaggio non può colpire. A me hanno sempre dato fastidio quelli che dicono: “Non siamo stati capiti, non abbiamo saputo comunicare”. A titolo di mero esempio: se vuoi i voti dei lavoratori e hai appena votato la riduzione sistematica dei loro diritti puoi essere bravo come ti pare, ma alla fine la verità viene fuori.
Quindi radicalità, dicevamo. E direi anche volti credibili. Gli Usa, come accennavo prima, insegnano. La società attuale non ti permette più il candidato creato in provetta, il falso dura lo spazio di un click. Serve gente vera da mettere in campo, nuova e non consumata, avvezza alla lotta, pronta alla clava più che al fioretto. Questo richiedono i tempi. Chiarezza e credibilità sono la chiave (data la premessa di una necessaria robustezza ideologica) per costruire un movimento politico in grado di attrarre consenso.
Chiudo, infine, il pippone di oggi con un appello ai romani per un voto “accorto”. Domenica i cittadini della capitale sono chiamati ad esprimersi su alcuni quesiti referendari promossi dai Radicali con la complicità del Pd. Si tratta di un referendum consultivo, quindi potrebbe anche essere ritenuto secondario, ma in realtà rappresenta il tentativo della destra liberista di rialzare la testa dopo la mazzata della sconfitta sull’acqua. Si torna a pensare che privato è bello, pubblico è per forza brutto. Ora, come sapete ritengo la tutela dei beni comuni una delle chiavi su cui una sinistra che si vuole definire contemporanea deve necessariamente cimentarsi. L’acqua era un tema forse più facile. Ma sono beni comuni anche le reti di comunicazione, i trasporti, le grandi infrastrutture. E a maggior ragione è un bene comune anche il trasporto pubblico. I promotori dicono che non si tratta di privatizzare ma di liberalizzare. Balle. Il trasporto è per sua natura un monopolio. Può essere gestito dal pubblico o dal privato. La sola differenza è il profitto. E siccome i soldi sono gli stessi, se qualcuno ci deve guadagnare lo farà deprimendo ancora di più la qualità del servizio. Non è questione di opinioni. E’ matematica.
Quindi domenica si vota no. Si potrebbe anche pensare di boicottare semplicemente il referendum non facendo arrivare la partecipazione al quorum previsto (33 per cento). Lascio a voi la scelta: occhio alla percentuale dei votanti e pronti a scattare se si alza troppo. Ma anche se resta molto basso, una dose di no di sicuro non faranno male. Nel dubbio facciamoci una croce sopra.
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