Cinquantuno sfumature di rosso.
Il pippone del venerdì/78
Un autorevole commentatore alcuni giorni fa ha spiegato che la crisi della sinistra sta tutta nel non aver metabolizzato la trasformazione del sistema dei partiti in sistema dei leader. Ovvero, la società di oggi sarebbe di per sé incompatibile con un sistema politico basato sulla partecipazione, la semplificazione della quale siamo tutti vittime nei campi più disparati richiederebbe la delega totale a un leader. E noi invece, secondo l’autorevole commentatore, ci ostiniamo a pensare di organizzarci in partiti.
A dire il vero, a me pare che la sinistra questo cambiamento lo abbia metabolizzato da tempo, semmai viene da pensare che non si metta d’accordo sul leader. In questi giorni sono in corso almeno quattro processi costituenti di altrettante formazioni politiche che potranno comodamente incoronare altrettanti fascinosi segretari. Tutti e quattro i “cantieri” saranno aperti, unitari, inclusivi, perché “non vogliamo fare il solito partitino del 3 per cento”. Il sindaco di Napoli, in una intervista dei giorni scorsi, ha spiegato addirittura che fare il leader è il suo destino naturale e che si candiderà a tutte le elezioni prossime venture. Abbiamo trovato un nuovo Lenin e non ce ne eravamo accorti. Che culo!
Quelli messi peggio, anche se nessuno ormai si accorge di loro, sono i compagni di Possibile, passati dalla battaglia senza se e senza ma contro Zingaretti a fare da comparsa in una lista (sempre unitaria, aperta, inclusiva e che non sarà un partitino del 3 per cento) capitanata da Boldrini e Smeriglio, sotto l’ala protettiva proprio del presidente della Regione Lazio. L’ala sinistra della futura alleanza immaginata dall’aspirante segretario piddino. Poco più che una lista civetta, insomma. Chissà come mai quelli che sono per la lotta dura senza paura me li ritrovo sempre a fare da giullari a corte.
I moderati, dal canto loro, non stanno messi meglio: il Pd ha addirittura sette candidati segretari. Tutti aspiranti leader. Dei quali si conosce a malapena la faccia, ma non è dato sapere quali siano le ragioni programmatiche e ideali che li hanno spinti al grande passo. Che poi, io non sono un fautore delle quote rosa, ma che diamine: fra costituenti, congressi e convegni, stiamo parlando complessivamente di una quindicina di persone: tutti uomini, salvo l’ex presidente della Camera. Quasi che il concetto di leader, declinato nella forma contemporanea, fosse solo possibile al maschile.
Di sicuro la sinistra è stata protagonista della fine del sistema dei partiti in Italia. Anzi ne siamo stati l’avanguardia. Fin dall’89. Per me la data maledetta è sempre quella in cui Achille Occhetto stabilì che la risposta alla crisi del comunismo mondiale era sciogliere il Pci e trasformarlo in partito qualsiasi. Da lì è venuta meno una comunità, una maniera di stare insieme, di condividere non solo la passione politica ma un pezzo della propria vita. Certo, poi negli ultimi anni il sassolino rotolando lungo il fianco della montagna è diventato valanga e ha travolto tutto. Ma l’origine è sempre quella lì.
E le stesse divisioni, anzi ormai si dovrebbe parlare di moltiplicazioni a ripetizione multipla, avvenute in questi anni, in realtà hanno origine proprio da quel vulnus: se manca una base ideale comune non è possibile neanche rinunciare a un pezzo della propria visibilità e identità personale nel nome del bene collettivo. Anzi, lo stesso concetto di bene collettivo vacilla e viene sostituito sempre più dal mero tornaconto personale. Temo che le discussioni dentro Liberi e Uguali di questi mesi siano proprio la rappresentazione estrema di questo: ci si divide per preservare il proprio pezzettino di potere, che, per quanto sia piccolo, non si è disposti a cedere. Manca una base ideale, manca un figura capace di mettere tutti d’accordo, perché restare insieme? Ognuno a casa propria, poi ci si aggregherà di volta in volta nel tentativo – vano – di superare qualche sbarramento elettorale. La cosa più divertente di tutte è che tutti quelli che si candidano lo fanno sempre dicendo che bisogna superare “l’io e tornare al noi”. Intanto si candidano, però.
Resta da capire se davvero sia proprio impossibile fare un partito-comunità adesso e ci si debba per forza accontentare di battere le mani a qualche polletto allevato in batteria che si crede un gallo di qualità. Io resto convinto che si debba tornare all’antico, sia pur innovando le forme dell’organizzazione, i modi di partecipazione e il meccanismo di selezione della classe dirigente. Per questo credo che valga la pena di continuare a spendersi. Certo, non è una sfida che possiamo vincere oggi. Ormai toccherà farsene una ragione. Sarò al teatro Ghione domani mattina, sabato 24 novembre, per l’appuntamento organizzato dai comitati di Liberi e Uguali. E mi auguro non solo che vada bene, ma anche che gli aspiranti leaderini si rendano conto che insieme si sta meglio, soprattutto se bisogna costruire un argine a quello che ormai sembra un fiume in piena, l’ascesa della nuova destra di Salvini e soci.
Credo però – sarò anche pessimista, a me sembra sano realismo – che sia inutile farsi troppe illusioni. Basta girare un po’ e ci si accorge che ormai sono scattati gli ultras delle varie parti in causa e quanto parte la rissa la cosa migliore da fare è tenersene accuratamente alla larga. Intanto è bene continuare a coltivare i semi, le reti che ognuno di noi ha costruito in questi mesi. Che le diverse sigle non siano scuse per perdersi di vista. Perché guardate che, i leaderini se ne accorgeranno, non sarà facile farci tornare docili docili in casette che non sentiamo più nostre.
Serve una sinistra autonoma e socialista. Facciamola.
Il pippone del venerdì/28
Era il due giugno scorso, ovviamente un venerdì, e scrivevo che Pisapia rappresentava l’ultimo killer mandato a eliminare quel che restava della tradizione dei comunisti italiani. Da allora sono passati quattro mesi e la convinzione si è rafforzata, devo dire che nelle ultime settimane mi è parso di non essere più il solo a pensarla in questa maniera. Con sollievo. Scrivo questo non tanto per un classico “ve l’avevo detto”, quanto per un più incazzato “possibile che non ve ne siete accorti prima?”. Abbiamo buttato sei mesi nel secchio, con tutti i giornali che adesso ci sparano contro a pallettoni: siamo la sinistra residuale, minoritaria, mera testimonianza, litigiosa, un partitino del 3 per cento. Qualcuno parla addirittura di spaccatura in Articolo Uno, visto che un pezzo dei parlamentari iscritti al gruppo erano in realtà legati a Campo progressista. Non se ne può più. Pagine e pagine dedicate alla “scissione degli scissionisti”.
Che poi non si capisce bene: se siamo davvero così residuali da arrivare a malapena al 3 per cento, perché darsi tanta pena, mobilitare tante brillanti penne del nostro giornalismo per demolirci? Viene addirittura richiamato in servizio permanente effettivo quell’Achille Occhetto che di demolizione della tradizione comunista resta l’autorità principe nel nostro paese. Quando si richiamano in campo i pensionati vuol dire che c’è davvero una gran paura in giro.
A me sembra che i salotti che contano abbiano una gran paura di questi quattro cialtroni malmessi che riescono a stento a parlarsi fra loro e portano troppe ferite delle battaglie del passato. Il tiro a pallettoni contro D’Alema è solo l’inizio. Da qui alle elezioni ne vedremo delle belle. Quello che fa paura è l’idea che un gruppo (al momento quasi soltanto di parlamentari) possa anche solo pensare che in Italia debba esistere una sinistra autonoma. Autonoma: è questa parola che turba i sonni di chi decide i nostri destini fin dagli anni ’90. L’idea che nel nostro Paese torni a esistere una qualche forma di soggetto politico che provi a staccarsi dalla deriva liberista che ci ha portati alla situazione di oggi e che ridefinisca se stesso sui valori dell’eguaglianza e della libertà. Una formazione di natura socialista che dice con chiarezza che serve una nuova rivoluzione per ridare forza ai deboli, voce agli ultimi.
Hanno provato a fermarci in tutti i modi, Pisapia e la sua riedizione sbiadita dell’Ulivo, ci hanno portato fuori strada. Si è tentato di dividerci ancora. E continueranno a farlo. Servono nervi saldi perché adesso non si può più sbagliare. E allora un appello a tutti: fermiamoci e cambiamo registro, perché le elezioni sono pericolosamente sempre più vicine, forse anche più di quello che si dice. Insomma, si può tornare a parlare della sinistra. E bisogna farlo subito, bisogna farlo in tutti i quartieri, nei luoghi di lavoro. Perché l’attività di sabotaggio ci ha portato a un minuto dalle elezioni. Non so se la data sarà sul serio il 19 novembre. Poco importa se sarà una settimana dopo, le cose importanti sono le coordinate che dovrà avere quell’appuntamento.
Dovrà essere un appuntamento di massa nel quale dal basso si sceglie un gruppo dirigente provvisorio, un comitato di direzione, chiamatelo come vi pare, e si indicano le coordinate del percorso che dovremo fare insieme. Un percorso che, lo dico senza perifrasi, secondo me non può avere come semplice approdo un’alleanza elettorale. Dobbiamo dire chiaramente che la lista della sinistra è il primo passo, forse quello più difficile per le date ravvicinate e le reciproche diffidenze, verso un nuovo partito. Di questo abbiamo bisogno: di una casa comune nuova, nella quale nessuno si senta ospite, magari anche poco gradito. Magari si può iniziare da una forma di federazione. Ma deve essere chiara la direzione, la “cessione di sovranità” degli aderenti: un investimento verso il futuro, non una coperta di Linus per riportare in Parlamento una pattuglia di dirigenti. Qualsiasi forma partito si scelga, chiari devono essere i processi di formazione delle decisioni. Non la corsa alle tessere che tanti di noi hanno vissuto come un incubo negli ultimi anni, ma la possibilità per chi vuole partecipare di contare e portare il proprio contributo.
In quell’appuntamento dovremo scegliere carta dei valori, nome e simbolo da presentare alle elezioni. Io suggerisco di rivolgersi a un’agenzia di comunicazione diversa. Serve discontinuità anche in questo, perché gli ultimi simboli non erano un granché. E mi trattengo molto. Servono un nome e un simbolo “facili” da riconoscere ma che al tempo stesso guardino al futuro, facciano pensare non a un evento momentaneo ma a qualcosa di stabile. A me non dispiacerebbe la parola socialismo, da troppo tempo caduta in disgrazia, come non dispiacerebbe un riferimento al lavoro. Altrimenti “La Sinistra”. Secco, senza fronzoli. Magari con una stella ad accompagnarlo. Eviterei le rose, perché anche a livello europeo serve una nuova sinistra, il Pse mi sembra sulla strada del declino, neanche troppo lento.
Io non credo a un processo civico. C’è bisogno, al contrario di una formazione politica, dove le esperienze civiche abbiano piena cittadinanza. Un processo esclusivamente civico secondo me è un’illusione. Come è un’illusione quella del campo informe, del movimentismo perpetuo. Dobbiamo fare un partito politico. Senza avere paura di dirlo. La crisi della sinistra è anche la crisi dei partiti così come erano stati pensati nella Costituzione. A quello spirito dobbiamo tornare. Perché senza grandi corpi intermedi, organizzazioni di massa, non c’è democrazia, c’è solo il leaderismo che abbiamo conosciuto in questi decenni.
Queste coordinate (sinistra autonoma, socialista, valori chiari, partecipazione dal basso) dobbiamo farli vivere nei territori. Dobbiamo aprire sedi comuni, accorciare le distanze anche fisiche tra noi. Una sezione (io sono affezionato a questo nome) in ogni comune, in ogni quartiere delle città più grandi. Poi servirà anche la comunicazione via internet, la presenza sui social. Ma se non torniamo a essere presenti con forza e continuità nelle piazze e nei luoghi di lavoro abbiamo perso in partenza.
Ecco, io immagino un percorso così, non un autobus dove c’è chi guida e ci sono i passeggeri. Un percorso in cui tutti si sentano attori protagonisti. Di comparse non ne abbiamo bisogno, come non abbiamo bisogno di personalismi. Abbiamo bisogni di tanti protagonisti che sappiano fare squadra guardando al futuro. E che siano consapevoli che il futuro non sarà domani. Che le elezioni sono solo il primo passo per ricostruire una sinistra di popolo e non di palazzo. Che il tema non è tanto andare al governo, ma creare le condizioni sociali per una nuova stagione di progresso nel nostro paese. Poi ci porremo tutti insieme anche il problema di chi sia il regista. Non tanto il centravanti, ma il mediano. L’uomo solo al comando, francamente, mi ha un po’ stufato. Sono l’unico a pensarla così? Io non credo.
Sarà una traversata nel deserto. Ma non si torna indietro. In tutta Europa la sinistra guadagna consensi e torna a essere decisiva quando dice e fa cose di sinistra. Sembra semplice no? Facciamolo anche noi.
Lettera aperta alla Sinistra
Edizione straordinaria del “pippone”
Scena prima, una strada di Roma, giugno, volantinaggio di Articolo Uno.
Passante: “Ma che è?”
Militante: “E il nuovo movimento della sinistra, con Bersani, Speranza, D’Alema”.
Passante: “Bravi, ce l’hanno fatta a lasciare Renzi. Però mica farete un altro partito. Dovete stare tutti insieme, sennò io me ne rimango a casa”.
Militante: “Hai ragione pure tu, ma insieme con il Pd? Con Renzi?”
Sguardo truce del passante: “Ma de che? Insieme sì, ma la sinistra”.
Scena seconda, sfoglio dell’organo di stampa di un grande gruppo editoriale.
“Pisapia: no alla sinistra rancorosa. Tutti insieme, ma serve il centrosinistra, non un partito di testimonianza, dobbiamo puntare al governo. Con quelli del 18 giugno abbiamo un’altra visione”.
“Il primo luglio nasce Insieme, appuntamento a Roma. Prodi non ci sarà, ma in futuro potrebbe arrivare la sua benedizione. Letta non ci sarà ma si sente vicino. Cuperlo tentato. Sul palco Boldrini, Bersani e Pisapia. Obiettivo: dividere Bersani da D’Alema. Prodi incontra Renzi: farò da collante”.
Scena terza, dibattito sui social.
Militante di Sinistra italiana: “Eh no però, con chi ha votato Sì al referendum non ci voglio stare insieme. E poi D’Alema ha bombardato Belgrado. E Bersani che vuol dire che lui è liberale?”
Militante di uno dei partiti comunisti: “Ah, ma noi siamo comunisti, non ci interessano le istituzioni, siamo per la lotta nel lungo periodo”.
Militante di Articolo Uno: “Ma noi siamo per unire la sinistra, ma contro l’accozzaglia. Vi sento un po’ rancorosi oggi. E poi voi non siete neanche un prefisso telefonico”.
Sostenitore di Pisapia: “Bisogna tornare allo spirito dell’Ulivo, ma mica rivorrete fare l’Unione. E poi con il Pd, ma senza Renzi, bisogna dialogare”.
Insomma, qua non abbiamo capito nulla. Non abbiamo capito il grido del passante, a cui l’idea di un ritorno in campo di una sinistra piace anche, ma che nel guazzabuglio di gruppetti dirigenti, nei giochetti parlamentari non ci si ritrova proprio. Non vi capisce, cari presunti leader della sinistra. Non capisce cosa vi divide. E soprattutto, le elezioni amministrative ne sono l’ennesima riprova: non vi vota. Ritorna in campo solo quando vi presentate insieme e lo fate con un progetto radicato nella città e credibile. Alternativo e autonomo. E allora? Nel mio piccolo ci provo, con questa mia lettera-appello. Copiatela, condividetela, scrivetene una vostra, ma diamoci tutti (tutti tutti) da fare.
Lettera aperta alla Sinistra
Cara Sinistra,
da ragazzo, appeso davanti al mio letto, avevo un grande poster. C’era un Pasolini in bianco e nero, con accanto la sua poesia secondo me più bella: “Alla bandiera rossa”. Parla di una bandiera che era stata la speranza di milioni di persone e si sta sbiadendo, sta diventando un ricordo. Il poeta non era uno di quelli che te la mandava a dire, la conseguenza era drammatica, le parole impietose: “Chi era coperto di croste è coperto di piaghe, il bracciante diventa mendicante, il napoletano calabrese, il calabrese africano, l’analfabeta una bufala o un cane”. Quando guardavo quel poster, quando leggevo quelle parole, mi venivano sempre le lacrime agli occhi. Un po’ perché era un regalo di mia madre. Un po’ per quelle parole, violente, di Pasolini. Ecco, cara Sinistra, tu oggi sei come quella bandiera rossa.
Ti sei sbiadita dietro i giochi in Parlamento, ti sei nascosta nei retroscena dei giornali. Ti perdi ogni giorno di più nelle divisioni, nella frantumazione, nelle votazioni “tattiche” alla Camera e al Senato. E mentre tu ti sei persa, gli altri, le destre, mica stanno a aspettare. Siamo il paese con più diseguaglianze d’Europa. Fra lo stipendio di un manager e quello della sua segretaria passano vite intere. Dodici milioni di cittadini non si curano più. Non hanno i soldi e lo Stato pensa a dare i buoni ai figli dei ricchi. Invece di diminuire le tasse ai poveracci, cara Sinistra, chi governa in tuo nome, le ha diminuite ai padroni, non gli tassa neanche i villoni, quelli con la recinzione alta due metri, messa lì perché non si possa neanche vedere quello che c’è dentro.
Cara Sinistra, ti sei persa fra le righe dei comunicati stampa, dietro al dialogo via tuitte. In quei 140 caratteri maledetti che non ti fanno pensare. In quella gara a chi fa la battuta più fica, non ti abbiamo più ritrovato. Ti sei persa perché ai cancelli delle fabbriche non ti sei fatta più vedere. Ormai ci va soltanto, pensa un po’, Papa Francesco. Sei prigioniera nei gruppi parlamentari. Ti sei persa da quando non solo non vieni più ad ascoltare i compagni e i cittadini, ma pretendi pure di insegnar loro come devono vivere.
Cara Sinistra, io te lo dico con grande affetto: ci hai un po’ rotto le palle a tutti. Noi siamo quelli che ci sono sempre, che stanno alle cucine alle feste, che fanno i rappresentanti di lista estate e inverno, che riempiono le sale quando arriva il deputato. Quelli che votano, cercano le preferenze, si sgolano per strada e si prendono i pesci in faccia per te. Quelli che si incazzano, discutono, Quelli che ci hanno sempre creduto e sono sempre stati iscritti al Partito. Con la P maiuscola.
Ecco, proprio voi, cari militanti ignoti della Sinistra dispersa: qua ci stanno mandando a sbattere, gruppi dirigenti senza popolo, leoni da tastiera che non alzano la faccia dal computer. Serve una ribellione unitaria. E nel mio piccolo ci provo. Con questa lettera-appello, rivolta alla Sinistra ma ancora di più a voi. Ribellatevi, ribelliamoci. Inondiamo di mail i nostri parlamentari, facciamoci sentire ogni volta che convocano un’iniziativa, ma, ancora di più, facciamola da soli, la sinistra. Telefoniamoci, messaggiamoci, fissiamo incontri tra noi, militanti ignoti frantumati per motivi ancor più ignoti. Convochiamo noi assemblee (caseggiato per caseggiato) con un solo slogan: Unità. E invitiamo i parlamentari, i dirigenti, li facciamo sedere in platea e li costringiamo, per una volta, ad ascoltare noi. E se ancora non capiscono prendiamoli e chiudiamoli in una stanza.
Cara Sinistra, insomma, non servono le cose complicate. Nome: La Sinistra. Simbolo: Una stella rossa, una sola mi raccomando. Un bel cerchio, con un altro slogan: Uguaglianza è democrazia. No, cara Sinistra, non è uno sbaglio. Volevo proprio usare il verbo essere. L’accento è giusto. Perché la democrazia, se il tuo padrone guadagna mille volte più di te è una presa in giro. Senza uguaglianza le libertà democratiche sono una chimera. Cara Sinistra, chiama un grafico bravo, fatti fare un simbolo chiaro, di quelli che sulla scheda si vedono bene Il partito unico? Lascia perdere, cara Sinistra: siamo un arcipelago, costruiamo intanto una rete. Non una piramide, hai capito bene: una rete. Fatta da tutti i partiti e i movimenti esistenti, dalle liste civiche, dalle associazioni, dai singoli militanti ignoti.
Cara Sinistra, parla anche con i sindacati e spiegagli che si devono dare una mossa anche loro, perché hanno cominciato con l’articolo 18 e la “Buona scuola”, ma mica hanno finito. Non fate i buoni, neanche voi. Scendete in campo, aiutateci, non pensate che la contesa politica sia altra cosa, che non vi riguardi.
Insomma, cara Sinistra, non perdere altro tempo, torna nelle piazze, torna dalla parte del torto, con i migranti, con i pezzenti, torna a fare la Sinistra.
Come diceva Pasolini, cara Sinistra “ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli”.
Il pippone del venerdì/9.
L’eterna rincorsa dell’unità a sinistra
Finito il tormentone politico primaverile delle primarie del Pd, possiamo tranquillamente ricominciare a farci del male fra di noi, fra quelli che si definiscono di sinistra. Anzi, sarebbe il caso che tutti, mi ci metto anche io, pensassimo di più ai guai di casa nostra, piuttosto che gioire dei guai di casa altrui. Non ci serve.
Parto da questa scena. Corteo del 25 aprile, incrocio un compagno di Sinistra italiana che mi fa: “Che poi, io mica capisco perché io e te stiamo in partiti diversi?”. Bella domanda. Neanche io lo capisco. O meglio: le ragioni le conosco, conosco la storia che ha portato da un lato alla formazione di Rifondazione prima, poi delle altre formazioni della sinistra, alla fine di Sel e di Sinistra Italiana, e dall’altro lato alla fusione del Pds con un pezzo dei socialisti e dei Verdi prima, poi con la Margherita. Se guardiamo gli anni dal 1990 in poi, in pratica quello che si vede è questo: la sinistra cosiddetta radicale si è andata via via sempre più spezzettando alla ricerca della purezza ideologica assoluta. Ormai i grafici sono in crisi a forza di disegnare falci a martello in tutti i modi possibili. La sinistra cosiddetta riformista, al contrario, nel corso degli anni ha annacquato la propria identità a tal punto da non riconoscersi più neanche quando si guarda allo specchio. La radice del problema credo sia la stessa: la crisi di un sistema politico che, la verità è questa, non riesce più a rappresentare i cittadini, a svolgere quella funzione importantissima di corpo intermedio fra il popolo e le istituzioni che gli assegna la Costituzione.
Insomma, fin dagli anni ’90 i partiti perdono man mano la loro funzione, diventano sempre più ceto politico e sempre meno popolo. E che succede? Che questo ceto politico cerca disperatamente di proteggere se stesso, cercando recinti protetti da un lato, allargando il proprio recinto dall’altro. Le due risposte, questi sono i fatti, non funzionano. I prodotti più evidenti della crisi del sistema politico sono i Berlusconi, i Renzi, i Grillo, che avranno anche caratteristiche differenti, ma hanno la stessa radice. Di fronte alla fine dei partiti di massa del ‘900, il popolo cerca il “nuovo” e lo identifica nei vari uomini forti che arrivano sulla scena. Salvo poi pentirsi sempre più rapidamente con il passar degli anni.
Dunque ricapitoliamo: crisi dei partiti, la sinistra si frammenta o si annacqua con il centro, arrivano gli uomini forti. Questo è il quadro. Ma torniamo a noi. Cosa succede nelle due anime della sinistra (la dico rozzamente per grandi linee) così come generate dalla dismissione del Pci? Da una parte, nella miriade di formazioni derivate da Rifondazione si fa a gara a chi è più puro, fino a rinfacciarsi l’emarginazione di Secchia dal gruppo dirigente del Pci: prevale una vocazione talmente minoritaria che quando, quasi costretti dagli eventi, si ritrovano al governo si sentono talmente fuori posto da essere la causa della caduta del governo che hanno contribuito ad eleggere. Caso tipo: prima votano Prodi poi lo accusano di essere troppo moderato. E che vi credevate di aver votato il Che? Dall’altra, si percepisce la crisi, ma invece di dare risposte dal punto di vista delle idee e del rinnovamento delle forme della partecipazione politica, si risponde gettando la palla in avanti: viene fuori così questa ossessione di costruire contenitori sempre più ampi, nell’illusione di risultare comunque egemonici. Finisce che scopri che i contenitori così ampi non sono e che i democristiani le preferenze ce le hanno nel sangue e tu no.
Quando te ne accorgi te ne devi perfino andare da quella che consideri casa tua. Ora, io ho partecipato ormai a varie scissioni, avendo girovagato fra le due anime, e quindi cambiare partito non è che mi traumatizzi più di tanto. A dire il vero, però, questa lenta agonia del Pd fa un po’ impressione: non c’è una scissione, c’è una frammentazione individuale che cresce giorno dopo giorno. Non si vede, ma poi all’improvviso ti ritrovi che nelle Regioni rosse gli iscritti sono la metà di un anno prima e gli elettori non vanno proprio a votare. Guardate che è peggio di una scissione “frontale”. Io ho vissuto quella più dolorosa di tutte, quella del Pci, ma mica è stato così: c’erano energie, passioni, anche scontri durissimi. Qua tutto avviene in un clima ovattato. Ha cominciato Civati, poi Cofferati, poi Fassina, poi D’Attorre, ora il gruppo di Bersani, Speranza, Epifani, Rossi e D’Alema. Bene, anzi meglio ci togliamo la zavorra, rispondono gli ultras. Ma il popolo? I militanti? Guardate che quelli sono tornati a casa da anni. Mica da ieri. Eravamo milioni quando si è costituito il Pd. Ricordate? Le assemblee fondative dei circoli, il Circo Massimo. Sono tornati tutti a casa. Quello che resta è ceto politico e affiliati. Poco altro. La ritirata è avvenuta in silenzio, uno alla volta, senza clamori.
Insomma, la cosa curiosa è che le due strade, quella della sinistra “identitaria”, semplifico così scusatemi la rozzezza, e quella della sinistra “ampliativa”, alla fine producono lo stesso risultato: gruppetti dirigenti che si autoriproducono per gemmazione, i militanti semplici che sono sempre meno e sempre più comparse, marginali e quasi fastidiosi. Si celebrano come “volontari eroici” quando devono montare i gazebo, dare i volantini e cuocere le salsicce, ma poi a decidere sono altri. Loro, i volontari eroici al massimo sono convocati a benedire il loro leader. Già scelto da altri. Poco importa la forma, congresso, primarie, caminetti. Il risultato è quello: i militanti servono soltanto come platea. E la logica conseguenza è che le platee sono sempre più ristrette. Parafrasando uno slogan da stadio si potrebbe dire che se qualche anno fa riempivamo il Circo Massimo, adesso riempiamo al massimo un circo.
In tutto questo, puntualmente, una volta ogni due, tre anni rispunta il gioco dell’unità a sinistra. Sinistra Arcobaleno, Lista Ingroia, Lista Tsipras, un paio di costituenti comuniste, poi ancora le riunioni fra Rifondazione, Possibile, Sel, Altra Europa, Tilt, Act, Futuro a Sinistra. Ci sono stati tavoli dove le sigle erano talmente tante che mi è venuto il sospetto che qualcuno rappresentasse se stesso. A stento. A volte questa specie di risiko politico ha prodotto grandi alleanze elettorali del 3 per cento, altre volte neanche quelle. L’ultimo caso è di scuola: la nascita di Sinistra italiana, che aveva alimentato grandi speranze. Si era partiti da tanti soggetti diversi, con l’idea di cedere ognuno un pezzo della sua identità, si è finito tra veti contrapposti e la fuga di tanti a far nascere un partito più piccolo di quello originario.
Altra cosa curiosa: il percorso italiano è del tutto originale, mentre la crisi del sistema democratico e della sinistra ha una dimensione quanto meno europea. Ma negli altri paesi quando i partiti tradizionali della sinistra socialista hanno cominciato a dar segni di confusione e a perdere consenso sono nati movimenti alternativi che hanno preso rapidamente il centro della scena. Il ceto politico, una volta perso il consenso, non è riuscito a sopravvivere, è stato spazzato via. Altro che la finta rottamazione all’italiana. Spagna, Francia, Grecia, solo per citare i casi più importanti: nuovi movimenti, nuove forme di aggregazione e di partecipazione. In Italia no, non ci si aggrega, ci si continua a frammentare. A chi ti si avvicina si chiedono non solo le analisi del sangue, ma l’intero genoma. Non si accoglie, si respinge.
Altra cosa curiosa (l’ultima): pezzi della sinistra italiana, tradizionalmente europeista (Altiero Spinelli era eletto come indipendente nelle liste del Pci), come risposta al sovranismo delle destre non dicono “ci vuole più europa” come sarebbe logico aspettarsi, ma diventano sovranisti a loro volta e si allineano ai colleghi francesi, che però una tradizione isolazionista ce l’hanno eccome. Insomma, per vent’anni ci siamo fatti dettare l’agenda politica da Berlusconi, ora da Salvini e Storace.
Scusate la disanima che più di un’analisi politica sembra l’autopsia di un cadavere, provo come al solito a proporre qualche idea per andare avanti.
- Scordiamoci del Pd. Se partiamo nella discussione da “ci si allea o no con il Pd” non si va da nessuna parte. Definire il proprio campo nel rapporto con un altro partito è già un segno di subalternità politica. La tua esistenza la giustifichi con un fattore esterno. Invertiamo i termini, definiamo cosa vogliamo fare, quale è il campo di valori da cui ripartiamo. Poche cose: siamo contro il liberismo, per il lavoro, per i diritti, per l’eguaglianza. E su queste confrontiamoci liberamente con tutti.
- Non partiamo dall’alto e dalle formule organizzative. Se cominciamo a discutere se, come e in quali tempi dare vita a una nuova formazione politica, se ci si deve sciogliere e rinunciare alla propria identità (leggi al proprio pezzettino di potere), come ci si deve aggregare, se usiamo questo metodo finiamo direttamente in prigione senza passare neanche dal via.
- Aggreghiamo dal basso: i gruppi dirigenti che hanno interesse a un percorso unitario, si mettano, per una volta a ascoltare prima di parlare. Definiamo chi è interessato e poi, invece, del solito tavolo nazionale, lanciamo i comitati città per città, quartiere per quartiere. E ciascun comitato produca idee, documenti. Si caratterizzi come vuole, per tematiche generali, questioni locali, per la presenza nei luoghi di lavoro. La forma partito facciamola strana: ognuno decide come organizzarsi. Facciamo casino, insomma. Chissà che non venga fuori una cosa ordinata e credibile. E apriamo le porte alle associazioni, quelle vere non i soliti amici, che cercano da anni un interlocutore credibile e puntualmente non lo trovano, apriamo le porte agli intellettuali, quelli veri non quelli dei salotti. Contaminiamoci. Partiamo da quel “mica capisco perché siamo in due partiti diversi” e non dal “tu nel 1898 eri turatiano e io no”. Secondo me se cominciamo a confrontarci noi che siamo stati abituati ad attaccare i manifesti più che a discutere di poltrone, una sintonia la troviamo. Cancelliamo le nostre provenienze, magari proviamo ad aggregare qualcuno che non proviene da nessuna delle nostre storie e confrontiamoci sulle cose. Anche perché, guardate che veniamo tutti da sconfitte. Mica c’è qualcuno che aveva ragione e gli altri che devono “solo” cospargersi il capo di cenere e venire a Canossa. Chi più chi meno, siamo tutti responsabili, dello sfascio attuale. Se da un lato si è preparato il campo a Renzi, dall’altro si è talmente poco credibili che piuttosto che votarti gli elettori se ne restano proprio a casa. Insomma finiamola con la gara a chi ce l’ha più lungo, ce l’abbiamo tutti piccolo piccolo.
- Da lì, da questa contaminazione, costruiamo una rete orizzontale, che si concretizzi in assemblee cittadine, poi regionali, poi in una serie di assemblee generali sui temi. Dobbiamo girare come trottole, perdere l’orientamento se vogliamo ritrovare una bussola. Alla fine di questo percorso, si vedrà quali sono i leader. Io eviterei l’uomo solo al comando, abbiamo già dato e non è andata proprio bene bene. Un gruppo dirigente plurale e collettivo, uscito da questo percorso e non calato dall’alto. In parte avrà i capelli bianchi e verrà dalle istituzioni. In parte avrà magliette e scarpe da ginnastica. Nessuna rottamazione, di nessun tipo. Mescolare il tutto e agitare prima dell’uso.
- Discutiamo subito della nostra collocazione internazionale. Per me la politica, a maggior ragione in questo tempo, non può avere una dimensione nazionale. La sinistra, europeista, questo per me è scontato, non può creare da sola nuove barriere “doganali”, per cui la nostra azione deve avere un respiro sovranazionale. Io, lo dico subito, non vedo più nel Partito socialista europeo una casa comune credibile. Poi sono disposto anche a ricredermi, ma vorrei una discussione seria su questo punto.
- Altra cosa da evitare, e concludo, sono le aggregazioni elettorali: non funzionano, si passa il quorum a stento, ma non si incide. Perché questa è l’ultima caratteristica che deve avere la sinistra che vorrei: quella di incidere sulla società. Possiamo perdere, magari non sempre, ma non possiamo essere pura testimonianza. La sinistra è se cambia il mondo che non le piace. Altrimenti è un salotto. Ma di quelli, credo, ne abbiamo tutti le scatole piene.
Ultimissima notazione: facciamo in fretta, facciamolo subito.
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