C’è ancora vita fuori dal centrosinistra?
Il pippone del venerdì/92
Sapete tutti come la penso: per me parlare ancora di centrosinistra come unica possibilità per battere le destre è pari allo sbattere ostinatamente la testa contro il muro. I risultati di tutte le elezioni amministrative da un paio di anni a questa parte e delle elezioni politiche dell’anno scorso hanno un segno costante e ormai definito con chiarezza: non si va da nessuna parte con la vecchia formula della sinistra che si annacqua e finisce per sposare le tesi neoliberiste dandogli una pennellata di diritti civili. I cittadini alla fine fanno i conti con le proprie tasche. E se gli togli l’articolo 18, gli togli la sanità pubblica, gli fai a pezzetti il sistema scolastico, alla fine non ti sopportano più. Certo tutti contenti per i diritti garantiti alle coppie di fatto, ma votano per chi gli promette di invertire la rotta.
Non per fare quello che dice “te l’avevo detto”, ma fin dal 2015, quando sono tardivamente uscito dal Pd, cerco di far passare la tesi che per battere la destra serva innanzitutto una forza di sinistra forte, autonoma e autorevole. Che torni a essere riferimento per le masse popolari. Una forza socialista, femminista ed ecologista. Questo per me doveva essere Liberi e Uguali e ancora mi chiedo perché non abbiamo avuto la forza di imporlo a gruppi dirigenti riottosi e miopi. Una forza così poi non può definirsi alternativa a tutto il resto, ma potrebbe avere la forza per creare alleanze di tipo nuovo, che rovescino le politiche che hanno caratterizzato gli ultimi 20 anni di governo. Di destra e di centrosinistra.
Leggendo l’intervista di Fratoianni sul Manifesto di ieri ho capito perché questo progetto sia sostanzialmente fallito. Il segretario di Sinistra italiana, in realtà, parte anche benino, si vede che ha studiato, si impegna, ma poi sbaglia clamorosamente la soluzione del problema: una bella lista della sinistra radicale alle Europee. Una roba che solo a pensarci uno sbadiglia di noia. La solita lista con Rifondazione, prova a obiettare l’arguta intervistatrice. Mal gliene colse. Il prode Fratoianni si inalbera: “Saremo molti di più”, dice. E fa un elenco impressionante. Da Diem 25, a L’Altra europa, agli autoconvocati di Leu (senza Grasso), a Possibile. E non pago parla anche di personalità di spicco citando ad esempio Elly Schlein. E poi, ormai senza freni, punta dritto verso il sol dell’avvenire ormai a un passo e si scatena: serve una lista che “stringa una relazione positiva con le coalizioni civiche delle città”. E poi il tocco davvero rivoluzionario: basta con le nomenclature, le donne siano protagoniste. Tutte capoliste.
Immagino che sia bastato questo annuncio per scatenare manifestazioni di giubilo in tutte le città italiane. Che le masse siano già in marcia per conquistare i palazzi del potere con il ragazzo pisano alla testa della rivoluzione. Se così non fosse, però, ci sarebbe da chiedersi cosa non va in tutto questo ragionamento. Aggiungiamoci anche che i Verdi hanno deciso di andare da soli con i civici di Pizzarotti e che anche Possibile (pare stiano decidendo tutti gli iscritti in queste ore a casa di qualcuno) potrebbe aggregarsi.
Intanto, la dico così, en passant, mi pare chiaro perché non siamo riusciti a fare Leu. Uno dei leader che avevano firmato il patto elettorale già pensava ad altro. Le sirene incantatrici di Rifondazione lo hanno costretto a un ritorno repentino all’antico. Perché di antico, senza manco una ripitturata, si tratta, non prendiamoci in giro. Ora, io resto convinto che servisse un partito della sinistra, come già detto e ribadito. Posto che non ci siamo riusciti, mi convinceva molto l’idea lanciata da Speranza alla scorsa assemblea nazionale: una lista delle forze socialiste e ambientaliste. Speranza ci includeva anche il Pd, presenza secondo me troppo ingombrante e al tempo stesso ancora in fase calante malgrado Zingaretti. Ma la proposta aveva una sua grammatica e una sua sintassi. Non l’accozzaglia di Calenda, non l’accozzaglia opposta di Fratoianni e De Magistris, ma una lista che avesse cardini programmatici ben precisi, quanto meno una comune visione sull’Europa e sull’economia. Al momento Zingaretti pare più affascinato da Calenda e Pisapia, recuperato in extremis in qualche giardinetto milanese. Leggo che il coordinatore di Articolo Uno la ripropone dopo un incontro con il socialista Nencini e il radicale ortodosso Turco. Bene, meglio così che presentarsi come indipendenti nelle liste democratiche. Ma mi sembra che ormai siamo al piano C. Ovvero a un tentativo disperato di dimostrare almeno la propria esistenza in vita in vista delle future elezioni politiche. Fatto non disprezzabile in assoluto, ma solo se lo consideriamo un passaggio verso la costruzione di un partito.
E qui torno alla domanda del titolo. A me pare che arrivati a pochi giorni dalla elezioni europee, allo stato delle cose l’unico soggetto non di destra che avrà una sua significativa presenza dopo le elezioni sarà il Pd. C’è ancora vita fuori dal Pd? A forza di veti e controveti, di contese a chi fa il segretario, a forza di calcoli su come si elegge chi, ci hanno portato davvero all’inconsistenza. Faccio un facile pronostico: le due o tre liste (tutte unitarie e tutte di sinistra) che saranno presenti sulla scheda faticheranno ad arrivare al due per cento. Se ne faranno una ragione i parlamentari europei uscenti, le mogli escluse, i trombati della scorsa tornata che ritenteranno la sorte. Soltanto i militanti con lo stomaco ormai roso dai litri di digestivo ingoiati negli anni riusciranno a farci una croce sopra.
Siamo ancora in tempo per fare una cosa diversa? Che serva davvero a costruire una visione diversa sull’Europa? A me presentare una lista per racimolare qualche voto per poi sedersi al tavolo dove si spartiscono i posti per Montecitorio francamente non interessa molto. Vedremo se avremo la forza di mettere le basi per un partito che guardi avanti. Al momento i segnali di vita nell’elettroencefalogramma della sinistra sono davvero flebili. In ultimo ripropongo la domanda che ormai da settimane agita le mie notti insonni: ma Grasso che fine ha fatto?
Una partita a scacchi lunga due mesi.
Il pippone del venerdì/38
La costruzione di Liberi e Uguali, dopo i sussulti iniziali, procede spedita. Il 7 gennaio ci sarà una nuova assemblea nazionale, chiusa la legge di stabilità alla Camera è arrivato anche il giorno dell’adesione di Laura Boldrini. Con lei il listone della sinistra si arricchisce di un profilo di peso, si ricompone la frattura provocata dalle bizze di Pisapia. Insomma possiamo mangiare il panettone, se non proprio del tutto sereni almeno con un tasso di fiducia in crescita.
Credo che l’appuntamento del 7 gennaio non sarà un semplice passaggio di routine. Come non saranno per nulla scontati i giorni successivi, nei quali si definiranno con precisione le liste dei candidati alle elezioni. Politiche e regionali, nelle zone dove si votano anche le assemblee locali. Dico questo perché, visto che non siamo ancora riusciti a fare un partito, dotarsi di un programma radicale, con punti qualificanti e innovativi su lavoro, diritti, stato sociale, scuola e formazione diventa essenziale. A fronte di un centrodestra sempre più aggressivo e sicuro della vittoria e di un Pd isolato e avviato sulla strada della deflagrazione post elettorale, occorre mettere un argine serio. Piantare non qualche bandierina isolata, ma un accampamento consistente. E per farlo servono due cose: le idee chiare e una squadra all’altezza per rappresentarle. Non so quale sarà il metodo scelto per selezionare i candidati. Le proposte nasceranno nelle assemblee locali e poi verranno vagliate da un comitato nazionale presieduto da Grasso. Non so quanto sarà ristretto questo gruppo. A me piacerebbe che fosse una sorta di gruppo dirigente provvisorio a cui affidare non soltanto la selezione delle candidature ma anche la definizione del percorso post elettorale. Indietro non si torna, l’ho detto e ripetuto in tutte le occasioni in cui mi è stato possibile. Perché i nostri militanti e, credo, ancor di più i nostri elettori, ci chiedono di costruire una casa.
Non ci siamo riusciti in questi anni. Io sono uscito dal Pd nel 2015, era luglio, e da allora ho sempre cercato, nel mio piccolo, di mettere insieme le forze sparpagliate della sinistra. Secondo me siamo ancora in una fase intermedia. E’ bene tenere le menti e le porte aperte. Perché il processo di scomposizione e ricomposizione della sinistra italiana non è finito. E purtroppo affrontiamo queste elezioni mentre ci troviamo in mezzo al guado. Un pezzo di strada l’abbiamo fatto, anche grazie alle accelerazioni degli ultimi mesi, tanta strada resta da fare e le acque in cui ci muoviamo sono tumultuose, le correnti forti, il nostro equilibrio precario. Per questo quei giorni, dal 7 gennaio alla presentazione delle liste, saranno essenziali.
Io dico – e dopo qualche tempo vorrei provare a scrivere due cose anche sul livello locale – che anche dalle alleanze e dalle candidature che sapremo mettere in campo nelle Regioni si capirà la cifra del nostro progetto politico. Si fa un gran dibattere in questi giorni sulla natura che deve avere il nostro progetto, radicale, di governo, di lotta. Io credo che la dimensione del governo sia talmente naturale che non si debba ripetere ogni due passi. Altrimenti sembra che lo diciamo quasi per farci forza. Mi spiego meglio. Intanto l’obiettivo di andare al governo dovrebbe essere naturale. Che senso ha presentarsi alle elezioni se non si ha in testa, nel breve o ne medio periodo, di entrare nella stanza dei bottoni e provare a guidare l’Italia? Se non si ha in testa questo si potrebbe direttamente aderire al club del bridge e si fa anche meno fatica. In secondo luogo io credo che i profili e la storia dei “soci fondatori” di Liberi e Uguali siano una garanzia. Non solo per il pezzo che viene dai Ds, ma anche per quello che arriva dall’esperienza di Sel, che si è sempre messa a disposizione – direi anche troppo – nell’ambito di un progetto di centro sinistra.
Se è vero questo, allora, il problema non si dovrebbe neanche porre: dove ci sono le condizioni per costruire un’alleanza per vincere le elezioni si fa. Non è ovviamente così banale. Intanto perché la rottura avvenuta nel Pd per molti di noi è ancora fresca. Le separazioni hanno bisogno di tempo per sedimentarsi, le polveri devono posarsi atterra dopo un’esplosione per tornare ad avere una visione chiara. E poi perché si vota lo stesso giorno. Dunque non sarebbe facile spiegare agli elettori perché su una scheda il Pd è brutto e cattivo e sull’altra un alleato affidabile. D’altro canto, scendo a livello del Lazio, non sarebbe facile neanche spiegare – se la prospettiva comune a tutti noi – è quella di costruire in futuro un’alleanza per tornare al governo nazionale, per quale motivo si lavora per dare una botta in testa a quel Nicola Zingaretti che, pur con tutti i suoi limiti, per me rappresenta comunque una delle risorse migliori per il “post Pd”.
Non dico altro perché scrivere parole definitive su questa vicenda non è possibile. Le variabili in campo sono ancora molte e non tutte, secondo me, sono ancora conosciute a pieno. Credo che però l’assemblea del 7 gennaio qualche parola chiara di “indirizzo politico generale” debba essere chiamata a dirla. Non essere un partito avrà anche i vantaggi di potersi muovere con agilità, ma se non si mette in campo una proposta politica definita non si richiamano i famosi elettori che stanno nel bosco. E questa secondo me è una discriminante seria: crediamo ancora che la prospettiva per governare questo paese sia un nuovo centrosinistra, in forme del tutto differenti rispetto al passato, oppure pensiamo a qualcosa di differente?
Resto convinto che l’incontro delle differenti culture politiche che abbiamo chiamato centrosinistra sia l’unica strada possibile. Magari evitando di ripetere l’errore di voler racchiudere prospettive differenti in un contenitore unico. Magari costruendo una sinistra che non abbia paura di essere davvero radicale. Guardate che in questa società in continua evoluzione le timidezze anni ’90 ti portano alla situazione di oggi. E ripetere lo stesso errore un’altra volta non mi pare davvero intelligente. Ma detto questo, ricostruito il nostro campo, fatto un partito forte, strutturato, pesante nelle idee non tanto nella burocrazia. Fatto questo, dicevo, bisogna farla contare la propria proposta politica. A tutti i livelli. Mi piacerebbe che nelle proposte programmatiche che i nostri delegati andranno a discutere a gennaio queste riflessioni potessero trovare cittadinanza piena.
Intanto buone feste a tutti. Per qualche settimana anche il pippone se ne va in vacanza.
La melma mediocre che ci avvolge.
Il pippone del venerdì/35
Lo so che siete tutti impegnati nell’attesa spasmodica di scoprire il nome della sinistra prossima ventura. Lo so che vi sareste aspettati una severa condanna dei nazi di Como. Lo so che volevate l’ennesima presa in giro di Pisapia, questo novello sor Tentenna che non riesce a decidere neanche da quale parte del letto dormire. Ma per una volta permettetemi di estraniarmi dalla quotidianità per fare una riflessione slegata dai fatti del giorno. Che poi, cari ragazzi, tirate fuori qualcosa di meglio che qui gli argomenti scarseggiano sempre più. La politica sembra un remake degli anni ’90. I social sono sempre più piatti. Le prime avvisaglie della campagna elettorale del resto non fanno presagire niente di buono. Altro che sonniferi, bastano i talk show.
E allora, in tutto questo piattume, afflitto da un raffreddore latente che se ne sta lì in agguato, pronto a prendere il sopravvento al minimo segno di cedimento, pensavo a un dato davvero epocale: avete mai notato che in Italia, caso unico al mondo, abbiamo l’abitudine di cambiare il nome alle cose? So che può sembrare una cazzata, ma seguitemi perché è un dato essenziale per il pippone di oggi.
Cambiamo nome alle società: Teti, Sip, Telecom, Tim. Fanno sempre la stessa cosa. Cambiamo nome alle tasse, Tarsu, Tari, Tasi, Imu, sigle che si susseguono vorticosamente. Cambiamo nome perfino alle leggi: la Finanziaria, per fare un esempio, è diventata la legge di stabilità. In Regione l’assestamento di bilancio è diventato il collegato. Quando non cambiamo il nome, si rinnova almeno il logo, si fa un bel restyling grafico. Se fate mente locale questo fatto succede solo da noi. ln America non è che pensano di chiamare diversamente la Cocacola e neanche di cambiargli il logo. La General electric, per fare un altro esempio, si chiama così dal 1892.
La verità è che noi siamo il paese più immobile al mondo e allora, in una sorta di gattopardismo generale, siamo costretti a cambiare almeno l’apparenza. Cambiare il logo mi pare la versione 2.0 del “facimme ammuina”. Cosa è cambiato per gli inquilini delle case popolari di Roma con il passaggio della gestione dall’Iacp all’Ater. Nulla, vengono gestite sempre male. Però per almeno qualche mese hanno avuto la speranza che si trattasse di una vera riforma. Il campione del gusto italico per il finto cambiamento è stato sicuramente quel fenomeno che risponde al nome di Achille Occhetto, che non si pose il problema della ridefinizione delle basi culturali di un moderno partito socialista in un periodo in cui tutto il mondo stava cambiando a velocità vorticosa. No, il prode Occhetto pensò di cavarsela cambiando il nome al Pci. Partito comunista era troppo complesso da sostenere e allora ebbe la grande trovata: proviamo a chiamarci Partito democratico della sinistra, che non significa un tubo, magari gli elettori ci cascano. Sappiamo come andò a finire, oggi – in pieno renzismo – lo possiamo dire con assoluta certezza: male.
Ma perché questo paese è così dannatamente mediocre? Non mi venite a dire che siamo la terra di Dante, di Leonardo, di Cavour, di Gramsci, solo per citarne alcuni. Le eccezioni non contano. Non siamo un paese di santi, poeti, navigatori. Gente nata per sbaglio da noi. Siamo un paese dove il 99,9 per cento della popolazione non solo si adagia nella melma mediocre che ci avvolge, ma odia anche chi prova a scrollarsi di dosso tale pesante retaggio. Succede in politica, basta vedere i personaggi che vanno per la maggiore. Da Renzi a Salvini. Se non siete proprio convinti cercate l’immagine di Gasparri. Ecco, appunto.
Succede nella società cosiddetta civile (prima o poi scoprirò chi per primo ha inneggiato alle qualità della società civile: non è una promessa, è una minaccia), nelle attività lavorative – per fare un altro esempio – il modo per emergere è dimostrarsi fedeli al potente di turno che a sua volta è diventato qualcuno facendosi strada a forza di sissignore. Quale qualità ne potrà venir fuori?
Siamo l’unico paese – vado a memoria, ma non credo di sbagliare di tanto – che non ha mai vissuto una rivoluzione, un fatto davvero traumatico. Basta pensare alla Francia dell’89, o alla rivoluzione industriale. Tutti eventi di cui siamo stati spettatori. Da noi i moti carbonari sono stati una cosa riservata a ristrettissime élite che, peraltro, il popolo manco amava. Tutt’altro. Da noi i Mazzini, i Garibaldi non hanno guidato le masse popolari ma esigue minoranze.
Per farla breve, io la vedo così: il progresso, non solo in politica, ma un po’ in tutti i campi, nasce da una discontinuità, da un momento di frattura. Non sono i “signorsì” che fanno la storia, sono i folli, quelli che saltano dalle barricate della storia e fanno a cazzotti con lo status quo.
Nella nostra di storia ne abbiamo avuti troppo pochi. L’unico grande moto popolare che ha davvero cambiato qualcosa è stata la Resistenza. Ma, anche in questo caso, tutto nacque da una ristretta élite (si chiamavano fra di loro “rivoluzionari di professione”), per diventare moto popolare si dovette aspettare la disfatta bellica dell’asse nazifascista e comunque non si trattò di un fenomeno esteso a tutto il territorio. Basta guardare i risultati delle elezioni e si capisce l’effetto.
Subito, tra l’altro, si pose fine al conflitto civile, permettendo a larga parte della classe dirigente, penso a tutta la burocrazia statale, di riciclarsi da un giorno all’altro. Un cervello di primissimo ordine come Togliatti avvertì il rischio dell’ennesimo ciclo gattopardesco, ma capì anche che la stragrande parte della popolazione fino a due anni prima era fascista. Non poteva epurare un popolo. Anche la Resistenza, dunque, fu un fenomeno limitato e parziale. Eppure gli effetti si sono visti per decenni. Intanto quella classe dirigente, uscita dalla guerra, si era forgiata in 20 anni di fascismo e di lotta clandestina. La lotta politica si faceva con l’Ovra che ti bussava alle porte. Ci sono stati Togliatti, Pertini, Nenni. E Sturzo, De Gasperi, Andreotti. Solo per citarne alcuni. Insomma, la frattura violenta, la lotta al fascismo, ci ha regalato 20, forse 30 anni di una classe dirigente di livello superiore. Non voglio fare un trattato storico, ma il fatto che adesso ci si contenda un Pisapia qualsiasi per vincere le elezioni la dice lunga. Siamo ripiombati nella mediocrità. A tutti i livelli. E lo stato di assoluto sfacelo in cui si trova il nostro sistema scolastico non fa ben sperare per il futuro. Addirittura promuoviamo la mediocrità, la formiamo. Non la subiamo solamente.
E lo paghiamo a maggior ragione nel mondo globale dove la mancanza di qualità la paghi duramente. Siamo come in un gara di Formula Uno dove la differenza la fanno i particolari. Basta una ruota montata in ritardo di pochi decimi di secondo e la gara è perduta. Ecco, noi la ruota ce la siamo persa per strada. Sarà anche disperante, ma secondo me bisogna avere ben chiaro il problema per provare a trovare la via d’uscita. Escluderei di dichiarare guerra a qualcuno, mi sembra una soluzione troppo estrema. Ma un qualcosa dovremo pur inventarcelo, una sorta di selezione sociale che ci porti davvero a un modello in cui ciascuno sia messo nelle condizioni di dare davvero un contributo a seconda delle sue capacità. Non è una questione di promuovere il merito. Da noi si parla di merito quando si vuole mascherare la promozione dell’amico dell’amico. Da comunista sono per l’eguaglianza delle possibilità, poi potremo anche parlare di come premiare il merito.
Io credo che questo sia il nodo vero che l’Italia deve affrontare: come si esce dalla mediocrità, come si premiamo le intelligenze rispetto ai servilismi. Come, in una frase sola, si riesce a cambiare la cultura di un popolo. Questo, per me, è il lavoro che dovrebbe fare, innanzitutto, la nuova sinistra. Creare una società in cui le individualità sono coltivate, le intelligenze sono incoraggiate e stimolate. Ecco io la farei una discussione su questi temi, non sarà la realizzazione del socialismo, ma francamente sentire soltanto parlare di come si eleggono delegati al nulla mi ha un po’ stufato.
La sinistra c’è. Ora facciamo la sinistra.
Il pippone del venerdì/32
Diciamolo chiaramente: quando, era il 7 novembre, a raffica, sono apparsi il documento unitario per la lista di sinistra, le date delle assemblee delle forze politiche che hanno elaborato la bozza che andrà discussa e approvata, fino al nome (importante) di quello che potrebbe essere il futuro “presidente” di questa aggregazione, diciamolo chiaramente, molti di noi hanno aperto la bottiglia buona. Quella che tieni da parte per le grandi occasioni. Senza neanche leggere le dieci scarne paginette prodotte dal comitato dei “saggi”. E anche questa “laconicità” è una positiva novità.
Non saranno i 140 caratteri che vanno di moda oggi, ma rispetto ai programmi dell’Ulivo è una rivoluzione. Abbiamo brindato senza neanche leggere, dicevo, perché dopo mesi e mesi di messaggini criptici, di mezzi passi in avanti seguiti da ampie retromarce, di silenzi imbarazzanti sui temi fondamentali dell’agenda politica, siamo stremati. Siamo come quei naufraghi che dopo mesi di navigazione senza meta vedono uno sperduto isolotto in mezzo al mare, con un’unica palma, e gli sembra il paradiso. Poi, magari, bisognerà anche ragionare su questi mesi che ci separano dalle elezioni e soprattutto su quello che dovrà succedere dopo. Datemi tempo che ci arrivo. Ma, intanto, per una volta non facciamo i rompiscatole e prendiamoci cinque minuti di gioia pura.
Sì, gioia pura. La sinistra manca in Italia da anni. Questo lo hanno capito anche le pietre ormai. Ma oggi siamo di fronte al fatto nuovo della possibile scomparsa di qualsiasi tipo di rappresentanza degli ultimi. Non solo in parlamento, ma anche nella società. Questo è il rischio che abbiamo di fronte. Perché la prossima legislatura senza una forza di sinistra in parlamento e nella società sarà quella del colpo definitivo ai sindacati, all’associazionismo, ai corpi intermedi che sono la vera garanzia per le libertà democratiche. Sarà quella in cui famoso “piano di rinascita nazionale” di Licio Gelli troverà la sua definitiva attuazione grazie all’asse Berlusconi-Renzi. Inutile che vi incazzate. Basta leggerlo e confrontarlo con le leggi approvate negli ultimi cinque anni, compresa la riforma della Costituzione. Salta agli occhi la perfetta convergenza di intenti: passare dalla democrazia avanzata descritta dai padri costituenti a una moderna forma di Stato autoritario dove gli spazi di partecipazione si esauriscono nell’acclamazione del leader.
Ecco perché abbiamo brindato. Con la bottiglia delle grandi occasioni. Non è che quel documento e quel percorso frettolosamente delineato risolvano d’incanto tutti i problemi. Ce ne accorgeremo nelle prossime settimane. I guastatori professionisti non mancano, sono già cominciati i distinguo, le accuse di verticismo e via dicendo. Sono gli stessi che denunciavano la mancanza di iniziativa politica di questi mesi. Non ce ne curiamo troppo. Come non ci curiamo troppo dei mal di pancia di Pisapia e soci. Che restano ancora sospesi tra un’alleanza con il Pd e una convergenza nella lista di sinistra. Decideranno. Siamo gente paziente. Ci piace, però, la determinazione e la nettezza delle posizioni e delle dichiarazioni dei dirigenti delle varie formazioni politiche di queste ore. Si respingono le tardive sirene che arrivano, più per strategia della disperazione che per convinzione politica, dal Pd. Compresi gli accordi tecnici lanciati da quel Parisi che tanti danni ha prodotti negli anni passati. Si affermano con ritrovata convinzione i valori della sinistra. Scopriamo la forza e la determinazione di Pietro Grasso, sempre meno presidente del Senato e sempre più in campo con noi. La sua spigolosità, le sassate che lancia, i suoi toni sempre decisi. Niente più timidi pigolii.
Insieme, questa volta si può dire davvero. Attendiamo con ansia non tanto le assemblee del fine settimana 18-19 novembre, quando arriverà il via libera al documento dai “costituenti”, quanto l’assemblea del 2 dicembre. Perché ci siamo stancati di riunirci divisi, ognuno nella sua casetta. E poco importa se qualche maître à penser della borghesia cosiddetta illuminata parla di ritorno ai riti burocratici dei vecchi comunisti. Congressi locali, regionali, nazionali, comitati centrali, commissioni, discussioni infinite. Poco importa perché, gli editorialisti pensosi non lo sanno, quei riti sono il sale della democrazia. La partecipazione è questo: non pagare due euro e imbucare il nome di un leader scelto da altri. Democrazia è discutere faticosamente per ore in sale sempre fredde e troppo piccole. Trovare una sintesi, legittimare dal basso una linea politica e in base a quella indicare una classe dirigente. Magari fosse.
E proprio questo, esauriti i brindisi voglio provare a dire. I passi fatti in queste settimane sono soltanto l’inizio della soluzione del problema. La condizione necessaria, come dicono quelli bravi. Ora bisogna non solo arrivare alla condizione sufficiente, ma anche andare oltre la sufficienza. La dico chiara: in questo periodo ho avuto modo di contattare tanti compagni, molti dei quali tornano ad affacciarsi dopo anni di disimpegno. Il messaggio è chiaro: siccome ci siamo stancati di votare il meno peggio come ci succede da tempo, diamoci da fare. Siamo anche disposti a rimboccarci le maniche in prima persona, ma sappiate che se il risultato è il meno peggio, ce ne restiamo a casa. E allora, secondo me, abbiamo poco tempo per fare due cose.
La prima, essenziale: avviare un vero processo dal basso. Non bastano le assemblee provinciali di Mdp, di Sinistra italiana, dei “civici” del Brancaccio. Non bastano perché siamo sempre gli stessi. E non siamo sufficienti. Bisogna lanciare appuntamenti unitari in tutte le città, in tutti i quartieri. Tornare nei luoghi del conflitto, dall’Ilva occupata a Ostia Nuova regno dei clan mafiosi e della destra fascista. Tornare per restarci. Aprire sedi, luoghi di confronto, luoghi utili anche a “mettere insieme il pranzo con la cena”, come si dice a Roma. Troviamo le forme moderne delle pratiche antiche della mutua assistenza. Sporchiamoci le mani senza paura. I comitati per la sinistra unita (il primo nome che mi viene in mente) devono piantare bandierine ovunque.
La seconda: scriviamolo chiaramente, non si torna più indietro nelle nostre casette. Del resto, lo abbiamo visto, se ci si arma di buona volontà, ci si siede a un tavolo, si discute e si arriva a una posizione comune. La voglia di unità, il bisogno di ritrovarsi insieme prevale sulle ragioni che ci hanno diviso negli anni. Quello della lista deve essere il punto di partenza, non di arrivo. Non illudiamoci di chissà quale risultato mirabolante. Saranno tempi grami. Riportiamo una pattuglia agguerrita della sinistra in Parlamento e nelle Regioni dove si vota. Che siano le nostre punte avanzate, non il fine della nostra iniziativa politica, ma lo strumento che ci permetta di costruire un futuro meno gramo. Queste forche caudine delle elezioni possiamo superarle con un risultato dignitoso. Date le condizioni io sarei più che contento di un 6 per cento a livello nazionale. Ma stiamo bene attenti, che se lo scopo è solo quello di garantire qualche poltrona a un pezzo di ceto politico stanco e consumato, non solo non arriveremo al 6 per cento, ma manco al 3. Per questo dico: scriviamolo subito che indietro non torneremo. Poi troveremo le forme per arrivare gradualmente a un nuovo partito. Una federazione, forme di adesione collettiva, tematiche. Inventiamo senza paura, tanto peggio di così non si può fare? Ma l’obiettivo deve essere un partito. Si, partito. Di quelli con le sezioni, i congressi, e tutto il rito della democrazia. Saremo anche noiosi. ma per tornare a incidere nella società serve una forza organizzata, di massa, in grado di contrastare il ritorno della destra. Della destra fascista, non dei moderati.
Buona sinistra, buon vento a tutti (il riferimento velistico non è casuale, diciamo).
Serve una sinistra autonoma e socialista. Facciamola.
Il pippone del venerdì/28
Era il due giugno scorso, ovviamente un venerdì, e scrivevo che Pisapia rappresentava l’ultimo killer mandato a eliminare quel che restava della tradizione dei comunisti italiani. Da allora sono passati quattro mesi e la convinzione si è rafforzata, devo dire che nelle ultime settimane mi è parso di non essere più il solo a pensarla in questa maniera. Con sollievo. Scrivo questo non tanto per un classico “ve l’avevo detto”, quanto per un più incazzato “possibile che non ve ne siete accorti prima?”. Abbiamo buttato sei mesi nel secchio, con tutti i giornali che adesso ci sparano contro a pallettoni: siamo la sinistra residuale, minoritaria, mera testimonianza, litigiosa, un partitino del 3 per cento. Qualcuno parla addirittura di spaccatura in Articolo Uno, visto che un pezzo dei parlamentari iscritti al gruppo erano in realtà legati a Campo progressista. Non se ne può più. Pagine e pagine dedicate alla “scissione degli scissionisti”.
Che poi non si capisce bene: se siamo davvero così residuali da arrivare a malapena al 3 per cento, perché darsi tanta pena, mobilitare tante brillanti penne del nostro giornalismo per demolirci? Viene addirittura richiamato in servizio permanente effettivo quell’Achille Occhetto che di demolizione della tradizione comunista resta l’autorità principe nel nostro paese. Quando si richiamano in campo i pensionati vuol dire che c’è davvero una gran paura in giro.
A me sembra che i salotti che contano abbiano una gran paura di questi quattro cialtroni malmessi che riescono a stento a parlarsi fra loro e portano troppe ferite delle battaglie del passato. Il tiro a pallettoni contro D’Alema è solo l’inizio. Da qui alle elezioni ne vedremo delle belle. Quello che fa paura è l’idea che un gruppo (al momento quasi soltanto di parlamentari) possa anche solo pensare che in Italia debba esistere una sinistra autonoma. Autonoma: è questa parola che turba i sonni di chi decide i nostri destini fin dagli anni ’90. L’idea che nel nostro Paese torni a esistere una qualche forma di soggetto politico che provi a staccarsi dalla deriva liberista che ci ha portati alla situazione di oggi e che ridefinisca se stesso sui valori dell’eguaglianza e della libertà. Una formazione di natura socialista che dice con chiarezza che serve una nuova rivoluzione per ridare forza ai deboli, voce agli ultimi.
Hanno provato a fermarci in tutti i modi, Pisapia e la sua riedizione sbiadita dell’Ulivo, ci hanno portato fuori strada. Si è tentato di dividerci ancora. E continueranno a farlo. Servono nervi saldi perché adesso non si può più sbagliare. E allora un appello a tutti: fermiamoci e cambiamo registro, perché le elezioni sono pericolosamente sempre più vicine, forse anche più di quello che si dice. Insomma, si può tornare a parlare della sinistra. E bisogna farlo subito, bisogna farlo in tutti i quartieri, nei luoghi di lavoro. Perché l’attività di sabotaggio ci ha portato a un minuto dalle elezioni. Non so se la data sarà sul serio il 19 novembre. Poco importa se sarà una settimana dopo, le cose importanti sono le coordinate che dovrà avere quell’appuntamento.
Dovrà essere un appuntamento di massa nel quale dal basso si sceglie un gruppo dirigente provvisorio, un comitato di direzione, chiamatelo come vi pare, e si indicano le coordinate del percorso che dovremo fare insieme. Un percorso che, lo dico senza perifrasi, secondo me non può avere come semplice approdo un’alleanza elettorale. Dobbiamo dire chiaramente che la lista della sinistra è il primo passo, forse quello più difficile per le date ravvicinate e le reciproche diffidenze, verso un nuovo partito. Di questo abbiamo bisogno: di una casa comune nuova, nella quale nessuno si senta ospite, magari anche poco gradito. Magari si può iniziare da una forma di federazione. Ma deve essere chiara la direzione, la “cessione di sovranità” degli aderenti: un investimento verso il futuro, non una coperta di Linus per riportare in Parlamento una pattuglia di dirigenti. Qualsiasi forma partito si scelga, chiari devono essere i processi di formazione delle decisioni. Non la corsa alle tessere che tanti di noi hanno vissuto come un incubo negli ultimi anni, ma la possibilità per chi vuole partecipare di contare e portare il proprio contributo.
In quell’appuntamento dovremo scegliere carta dei valori, nome e simbolo da presentare alle elezioni. Io suggerisco di rivolgersi a un’agenzia di comunicazione diversa. Serve discontinuità anche in questo, perché gli ultimi simboli non erano un granché. E mi trattengo molto. Servono un nome e un simbolo “facili” da riconoscere ma che al tempo stesso guardino al futuro, facciano pensare non a un evento momentaneo ma a qualcosa di stabile. A me non dispiacerebbe la parola socialismo, da troppo tempo caduta in disgrazia, come non dispiacerebbe un riferimento al lavoro. Altrimenti “La Sinistra”. Secco, senza fronzoli. Magari con una stella ad accompagnarlo. Eviterei le rose, perché anche a livello europeo serve una nuova sinistra, il Pse mi sembra sulla strada del declino, neanche troppo lento.
Io non credo a un processo civico. C’è bisogno, al contrario di una formazione politica, dove le esperienze civiche abbiano piena cittadinanza. Un processo esclusivamente civico secondo me è un’illusione. Come è un’illusione quella del campo informe, del movimentismo perpetuo. Dobbiamo fare un partito politico. Senza avere paura di dirlo. La crisi della sinistra è anche la crisi dei partiti così come erano stati pensati nella Costituzione. A quello spirito dobbiamo tornare. Perché senza grandi corpi intermedi, organizzazioni di massa, non c’è democrazia, c’è solo il leaderismo che abbiamo conosciuto in questi decenni.
Queste coordinate (sinistra autonoma, socialista, valori chiari, partecipazione dal basso) dobbiamo farli vivere nei territori. Dobbiamo aprire sedi comuni, accorciare le distanze anche fisiche tra noi. Una sezione (io sono affezionato a questo nome) in ogni comune, in ogni quartiere delle città più grandi. Poi servirà anche la comunicazione via internet, la presenza sui social. Ma se non torniamo a essere presenti con forza e continuità nelle piazze e nei luoghi di lavoro abbiamo perso in partenza.
Ecco, io immagino un percorso così, non un autobus dove c’è chi guida e ci sono i passeggeri. Un percorso in cui tutti si sentano attori protagonisti. Di comparse non ne abbiamo bisogno, come non abbiamo bisogno di personalismi. Abbiamo bisogni di tanti protagonisti che sappiano fare squadra guardando al futuro. E che siano consapevoli che il futuro non sarà domani. Che le elezioni sono solo il primo passo per ricostruire una sinistra di popolo e non di palazzo. Che il tema non è tanto andare al governo, ma creare le condizioni sociali per una nuova stagione di progresso nel nostro paese. Poi ci porremo tutti insieme anche il problema di chi sia il regista. Non tanto il centravanti, ma il mediano. L’uomo solo al comando, francamente, mi ha un po’ stufato. Sono l’unico a pensarla così? Io non credo.
Sarà una traversata nel deserto. Ma non si torna indietro. In tutta Europa la sinistra guadagna consensi e torna a essere decisiva quando dice e fa cose di sinistra. Sembra semplice no? Facciamolo anche noi.
M5s: la fabbrica dell’irrealtà.
Il pippone del venerdì/26
Ora, vi aspettate tutti una lunga tirata riprendendo le argomentazioni di D’Alema, elogiando Montanari che parla di sinistra, bacchettando Pisapia e i pisapini che si sono offesi, applaudendo il presidente Grasso… Sono stato molto tentato, ma ieri l’ineffabile avvocato milanese ha affermato chiaramente che lavora a un soggetto politico non alternativo al Pd, ma sfidante, con questa legge elettorale. Come dire, se cambiate la legge ci alleiamo subito, basta mettersi d’accordo. Per me la partita è chiusa. Parliamo d’altro.
Voglio tornare, dunque, sul carattere profondamente antidemocratico dei Cinque stelle. Ne avevo già ampiamente parlato in questo articolo addirittura nel 2014, devo dire che ne sono sempre più convinto: dovrei cambiare il mio nome in “Cassandro”.
E’ cronaca di questi giorni la richiesta di rinvio a giudizio per il sindaco di Roma, Virginia Raggi, colpevole, secondo la procura, di falso. Era indagata per due ipotesi di reato: falso e abuso di ufficio. Per la seconda è stata chiesta l’archiviazione. Ora la notizia principale, da giornalista, è che il sindaco della Capitale d’Italia rischia il processo per falso. E, invece, ovunque vedi scene di giubilo. Non degli altri partiti, sia chiaro. Sono proprio i pentastellati a esultare. Dice il capo: “Ora la stampa deve chiedere scusa, la Raggi è stata scagionata”. Sì, viene scagionata per l’abuso di ufficio, un reato nel quale, come ben sanno tutti gli amministratori, è facile incappare, vuol dire semplicemente che si adottato un atto che non rientrava nei propri poteri. E visto il groviglio di leggi con cui un sindaco si trova a dover combattere quotidianamente può anche capitare. E poi, secondo la procura, la nomina di Marra (sempre di questo galantuomo stiamo parlando) resta illegittima, manca l’elemento del dolo e quindi decade anche il reato.
Ma resta in piedi l’accusa di falso. Il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pubblico ministero Francesco Dall’Olio le contestano la falsa dichiarazione inviata alla responsabile Anticorruzione del Comune in cui attestata che la scelta di nominare Marra era stata solo sua. Insomma, per farla semplice. Il sindaco della Capitale d’Italia avrebbe mentito all’autorità anticorruzione. Ecco, per i grillini, a partire dal capo, si tratta di un episodio minore. A tal punto che Raggi si aspetta addirittura le scuse della stampa.
Quanto siamo poco anglosassoni. Alcuni eccessi che arrivano talvolta da oltreoceano fanno inorridire. Ma faccio notare che per molto meno sono saltate addirittura candidature alla presidenza degli Stati Uniti. Per una banale menzogna in una storia di corna ha rischiato addirittura l’impeachment un grande presidente come Bill Clinton. Loro non votano un politico che mente esplicitamente e viene scoperto. Come fidarsi? E dunque, se venisse condannata, come fidarsi di un sindaco che mente all’autorità anticorruzione per giustificare la nomina di un galantuomo come Marra?
Se fosse stato un politico di un altro partito, i grillini sarebbero già partiti con la lapidazione. Non alla richiesta di rinvio a giudizio, già dall’avviso di garanzia. Politici come Errani, Del Turco, Penati, gente eletta, votata dal popolo, si sono dimessi e hanno atteso pazientemente il processo. Poi sono stati assolti senza che nessuno gli chiedesse scusa. Loro no, i pentastellati sono diversi. Perché al M5s aderiscono soltanto persone oneste. Per definizione. Non è proprio possibile che un sindaco dei cinque stelle sia un delinquente. Non è previsto dalla loro religione. E dunque se vengono accusati è un complotto. Se la loro amministrazione fa acqua da tutte le parti è sabotaggio o è colpa di chi ha amministrato prima. Questa è la verità indiscutibile.
Gli adepti della setta non ammettono tentennamenti. Secondo il famoso principio uno vale uno, ma Grillo (Casaleggio) decide per tutti, l’unica sentenza che conta non è quella della magistratura ma quella di Grillo stesso. Basta guardare la loro presenza sui social. Compatti come una falange macedone. Tutti in linea. E che non si scomodino paragoni con il centralismo democratico del Pci. In quel partito si discuteva eccome. Una volta assunta una linea, poi, ci si atteneva a quella. Nel M5s no, non esiste discussione, ma solo catena di comando gerarchica. L’autonomia scende man mano fino ad arrivare alla base, ai militanti che sono semplici “megafoni” del vertice. Altro che democrazia e partecipazione.
Affermare questo e dire che a quel popolo bisogna comunque rivolgersi è una contraddizione? Assolutamente no. Anzi, una volta assunta come certezza la pericolosità di una setta che si fa partito politico per la democrazia, diventa un’urgenza assoluta quella del dialogo con gli elettori che, in buona fede, gli hanno dato fiducia. C’è un bel pezzo della sinistra in quei voti. C’è un bel pezzo del nostro popolo che abbiamo costretto noi a rivolgersi altrove e che è stato attratto dal messaggio di Grillo. Dalle critiche alla partitocrazia (come avrebbe detto Pannella), dalla lotta alla casta, dal messaggio contro le multinazionali e per la protezione dell’ambiente. Bisogna sfidare Grillo e i suoi proprio su quel terreno.
Certo, per farlo – e per oggi meglio che la finisco qui – bisognerebbe finirla di parlare di noi e fra noi e dare un messaggio concreto, tornare a parlare del lavoro che non c’è, della scuola, di una società nuova. Se proprio non siamo in grado di farlo, proviamo a copiare Corbyn. Basta google traduttore.
Il tormentone infinito della legge elettorale.
Il pippone del venerdì/25
Non rimaneteci male, ho deciso, intanto per una settimana ma chissà per quanto tempo: lasciamo la sinistra alle sue contorsioni e Pisapia ai suoi pigolii tentennanti. Forse se li ignoriamo i nostri (autonominati) dirigenti e leader si accorgeranno di quanto siano inutili, se non dannosi, per la causa che dicono di voler perseguire e si daranno una svegliata.
Vorrei, invece, in questo mio sproloquio settimanale, fare qualche rapida considerazione sulla legge elettorale e sull’ultimo cilindro tirato fuori dal capello del Pd. Capisco che di argomenti meno appassionanti ce ne sono pochi, ma mi pare un tema fondamentale per il futuro di tutti noi. E il fatto che si vorrebbe liquidare in poche settimane una partita così delicata ci dovrebbe far scattare subito in piedi. Non parlerò di inciucio, lo dico a beneficio dei grillini: le regole si fanno tutti insieme o almeno con una maggioranza più larga possibile, dunque parlare di inciucio è un vero e proprio ossimoro. Vorrei entrare più nel merito della proposta.
Intanto, diciamolo, viene da chiedersi chi siano i tecnici (chiamarli costituzionalisti o anche esperti di diritto pare un insulto a chi lo è davvero) che si inventano a rotta di collo sistemi elettorali da manicomio. Siamo almeno alla quinta proposta differente in pochi mesi che arriva da parte dei democratici e tutte hanno in comune due punti: per capirle ci vuole uno studio complicato e quando arrivi alla fine ti rendi conto che non sono sistemi elettorali pensati per garantire governo e rappresentanza, ma per far fuori il nemico di turno.
Il punto non è neanche tanto che con l’ultima trovata di Renzi e soci il numero dei nominati direttamente dai partiti arriva alla cifra record del 64 per cento, senza contare i collegi uninominali sicuri, altro rifugio tranquillo. Non è uno scandalo in sé, dicevo, perché se in questo paese ci fossero dei partiti, con una democrazia interna regolata da norme precise e uguali per tutti, verrebbe quasi naturale che fossero loro a selezionare la classe dirigente. E’ proprio questa, del resto, la funzione principale delle formazioni politiche. I partiti sono la democrazia che si organizza, come diceva Togliatti. E dunque nulla di strano. Peccato che ormai in Italia di partiti non ce ne siano più e dunque l’indicazione della classe dirigente spetterebbe nella sostanza a quattro leader. E visti i leader non c’è da stare allegri.
Ma a parte questo, sono altri gli aspetti inquietanti del cosiddetto “Rosatellum bis” (in altra sede ci sarebbe da disquisire sugli improbabili nomi latineggianti che cercano di coprire imbrogli degni di un magliaro di basso livello). Provo a raccontarvi come funziona questa idea su cui ci sarebbe l’accordo di Pd, Lega, Forza Italia e cespugli vari. I due terzi dei parlamentari viene eletto su base proporzionale con liste bloccate, gli altri in collegi uninominali a turno unico, chi prende un voto in più entra in parlamento. Nella parte proporzionale ci sono le liste dei partiti (devono superare il 3 per cento per concorrere alla ripartizione dei seggi) che possono unirsi e presentare un comune candidato nel collegio uninominale. Lo sbarramento per le coalizioni è del 10 per cento, ma non è previsto un programma comune e neanche un leader, ciascuna lista ha il suo “capo”. Se una lista che fa parte di una coalizione non raggiunge il 3 per cento ma ha superato l’1, quei voti vengono spartiti fra gli alleati. Una norma strana, ma che potrebbe favorire la nascita di una serie di liste civetta in grado di spingere i candidati nell’uninominale. Il voto è unico: votando la lista nel proporzionale si attribuisce automaticamente la propria preferenza anche al candidato collegato nella parte uninominale. Se si vota solo il candidato all’uninominale, il voto va (in proporzione) anche alle liste collegate.
La prima cosa che balza agli occhi è che questa legge non garantisce minimamente la stabilità del governo, perché non aiuta a formare una maggioranza e neanche farà immediata chiarezza su chi ha vinto e chi formerà il governo. Anzi, è facile prevedere che da una legge così, visto il nostro attuale sistema, non nascerà alcun governo se non una “grande coalizione dei moderati”, a patto che ci siano i numeri. Sottolineo che questi due punti (stabilità e certezza sui vincitori) sono stati per anni il tormentone che ci ha propinato mattina e sera il segretario del Pd. Ora sono improvvisamente spariti dall’agenda politica.
Il secondo aspetto che vorrei mettere in evidenza è questa bufala delle coalizioni elettorali. Il fatto che solo in Italia esistano dovrebbe accendere un campanello d’allarme. Nel resto del mondo, infatti, i partiti che hanno un programma comune non fanno coalizioni, presentano la stessa lista. Se hanno programmi differenti, invece, presentano liste concorrenti. Dopo le elezioni, questo sì, quando nessun partito raggiunge la maggioranza si formano delle coalizioni per governare fra i soggetti politici più vicini. In pratica: ci si pesa, le idee di ciascuno vengono giudicate dagli elettori e poi, solo dopo il voto, proprio in base al peso elettorale che i programmi hanno avuto, si indirizza l’azione politica del governo. L’invenzione italica delle coalizioni, invece, fa sì che partiti differenti e quindi con programmi altrettanto differenti, facciano una mediazione preventiva senza pesarsi prima. Gli elettori vengono di fatto, privati di un loro diritto fondamentale: scegliere il partito più vicino al loro modo di pensare. Nel caso di quest’ultima pensata dei democratici, non c’è manco il programma comune e dunque non si capisce per quale motivo si dovrebbero presentare insieme.
Raccontata così, è evidente come questa legge debba avere altri scopi, di certo non quello di creare un sistema politico rappresentativo del paese. Del resto, se le ultime due leggi elettorali, approvate da schieramenti opposti, sono state bocciate dalla Corte costituzionale, una ragione ci deve pur essere. Il motivo, secondo me, è evidente: non si pensa a una legge per rafforzare il sistema politico (e quindi che garantisca rappresentanza e aiuti la formazione di maggioranze), ma a una legge che favorisca alcune forze politiche rispetto ad altre. Il porcellum fu studiato da Berlusconi e soci per dimezzare la prevedibile vittoria di Prodi nel 2006, l’Italicum, secondo Renzi gasato dal 42 per cento delle Europee, doveva garantire al Pd una maggioranza solitaria. Non a caso fra le raccomandazioni del Consiglio d’Europa c’è quella di non fare leggi elettorali nell’ultimo anno del mandato delle Camere, proprio per evitare norme confezionate in base ai sondaggi del momento.
Ora, io non sono né un esperto né tantomeno un tecnico, solo un appassionato. Ma Lo scopo mi pare evidente, in questo caso: in primo luogo rendere marginale la forza del Movimento 5 stelle, che per la sua stessa natura non è disposto a partecipare a coalizioni, in secondo luogo ostacolare la formazione di una forza di sinistra che vedrebbe i suoi consensi potenziali messi a rischio dal consueto appello al cosiddetto voto utile. Supposto che la maggioranza potenziale regga alla prova del Parlamento e questa legge passi, a me sembra che Renzi, ancora una volta, abbia fatto male i suoi conti. Perché una legge con queste caratteristiche gli garantirebbe sicuramente di poter fare e disfare a suo piacimento il Pd. Ma il vero favorito sarebbe Berlusconi, che ottiene due vantaggi insieme: si può coalizzare con la Lega di Salvini ma non deve scegliere un leader, può infarcire le liste dei fedelissimi. Senza contare che già da tempo sta pensando a una serie di listarelle parallele a quelle principali cosa che, come abbiamo visto, questa proposta tende a premiare. Insomma, se lo scopo è quello di tornare a Palazzo Chigi anche come capo di un governo di grande coalizione, lo strumento non sembra essere adatto.
Ultima notazione e poi vi libero dal pippone settimanale: il voto utile. E’ un concetto che proprio non capisco. Utile a chi? Io dovrei votare un partito che di cui non condivido molto per evitare che ne vinca un altro di cui condivido ancora meno. Che poi sentire Renzi che evoca il rischio del populismo è anche divertente. Torniamo seri: l’equivoco sta nel concepire il governo come fine unico di una formazione politica. Io credo che non sia così. Sono convinto che un partito debba rappresentare interessi, organizzare un blocco sociale si sarebbe detto una volta. Arrivare al governo è uno dei modi per farlo, ma non l’unico. Continuo a pensare, ad esempio, che abbia influito di più il Pci stando sempre all’opposizione che i partiti suoi (indegni) eredi che nelle loro ragioni costitutive hanno sempre avuto scritta una vera e propria ossessione per il governo. Ecco, fossi nella testa degli (autonominati) dirigenti della sinistra sparsa, mi porrei questo come compito da svolgere per l’autunno: studiare come si fa a incidere nel paese senza per forza doversi alleare con Alfano e soci. Buon lavoro.
Il nodo gordiano delle elezioni siciliane.
Il pippone del venerdì/24
Insomma il vertice degli autonominati dirigenti di Articolo Uno e Campo progressista c’è stato, hanno faticato a trovare un tavolo tanto grande così da poter permettere a tutti di sedersi, ma alla fine ce l’hanno fatta. Su una cosa si sono trovati tutti d’accordo: non si può rompere per non fare brutta figura. Tutto sta a capire come andare avanti. Cosa, a dire il vero, non proprio chiarissima. La sensazione è che la decisione vera sia quella di prendere tempo.
Ci sarà un grande momento di coinvolgimento popolare in autunno (leggasi dopo le elezioni siciliane del 5 novembre), si legge nel comunicato finale. Per fare cosa non è dato saperlo. Si eleggerà un leader? Si voterà un programma? Chi voterà? Sarà un appuntamento limitato solo agli aderenti di Articolo Uno (Campo progressista non esiste, è una finzione giornalistica) oppure si proverà ad allargarlo agli altri soggetti della sinistra italiana? Si sceglierà il nome? Su tutto questo dai partecipanti al vertice arrivano versioni contrastanti se non opposte.
Secondo punto di ambiguità. Il comunicato parla della “costruzione di un centrosinistra alternativo capace di battere le destre e i populismi e alternativo alle politiche sbagliate del Pd di Renzi”. E questo è il secondo punto di ambiguità. Alternativo al Pd non si può dire, ma almeno alternativo al Pd di Renzi si poteva osare? E invece no, alternativo “alle politiche sbagliate”. E ci mancherebbe altro. Ci siete usciti da quel partito, se manco si prova a criticarne la linea politica… altro che psichiatra. Non è una questione terminologica, ma di fondo. Io resto convinto che il Pd di Renzi sia diventato un partito fondamentalmente di destra, con forti connotati populisti che a tratti diventano addirittura razzisti. Per cui credo che una sinistra che ambisca a recuperare uno spazio importante nel panorama politico italiano non possa che definirsi alternativa. Ma la formulazione scelta va addirittura oltre, fino a spingersi a ipotizzare un’alleanza con Renzi stesso. Ora, sempre secondo me, Renzi è solo la conseguenza ultima dell’errore iniziale (fare il Pd appunto), ma anche a voler essere benevoli, almeno evitare di pensare ad alleanza con quel partito fin quando sarà guidato dal fiorentino si può scrivere? Evidentemente no. L’alleanza con il Pd diventa addirittura imprescindibile nell’interpretazione dei fedelissimi dell’ineffabile avvocato milanese.
Terzo punto di ambiguità. Il rapporto con il governo Gentiloni. Qua la divaricazione appare persino più netta. Da un lato la linea di D’Alema che dice da mesi che bisogna togliere la fiducia, dall’altra Pisapia e Tabacci che di rottura non ne vogliono proprio sentir parlare e parlano di “senso di responsabilità”. Espressione che dovrebbe quanto meno mettere in allarme anche Bersani che ha, diciamo, una certa esperienza di come si perdono le elezioni per eccesso di senso di responsabilità.
Sul rapporto con il governo Gentiloni, insomma, abbiamo raggiunto il massimo del politicismo incomprensibile, quello che allontana gli elettori sani di mente. In pratica: noi vorremmo costruire un centrosinistra alternativo alle politiche messe in campo in questi anni e poi votiamo un governo che di quelle politiche è l’erede e il prosecutore instancabile.
E non basta, facciamo di più: vogliamo “aprire un confronto, senza veti o pregiudizi, con tutti i soggetti politici e civici che condividono” la necessità di un’alternativa. Oggi, in una bella intervista sul Manifesto, il segretario di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, dice, in sintesi: carissimi, va bene tutto, non stiamo a discutere sui termini, centrosinistra, sinistra, parliamo di contenuti, ma almeno un voto per prendere le distanze da Gentiloni… un segnale datelo. Difficile dargli torto.
Anche perché in questi mesi, mediamente, i parlamentari di Articolo Uno hanno sempre votato la fiducia, tranne quelli che fanno riferimento a Pisapia che spesso hanno votato contro. Insomma, verrebbe da dire parafrasando un noto e volgarissimo detto romano, parlano di senso di responsabilità, ma con i voti degli altri.
Che poi, lo voglio dire chiaramente, io tutta questa santificazione dell’Ulivo e delle esperienza passate del centrosinistra mica la capisco. A leggere le dichiarazioni di molti sembra che quando c’era l’Ulivo nei fiumi scorresse latte e dagli alberi nascessero pomi di oro massiccio. Io continuo a pensare che in quel periodo abbiamo costruito i presupposti del deserto di oggi. Dal punto di vista sociale. Cedendo all’ideologia berlusconiana della società dell’immagine. Dal punto di vista del lavoro, costruendo le basi per l’attuale sistema precario. Dal punto di vista economico, rinunciando all’intervento pubblico e arrendendoci all’ideologia del libero mercato. Dal punto di vista politico, smantellando il partito di massa per arrivare al vuoto attuale. Ma anche prescindendo dagli aspetti concreti, da quello che davvero si è realizzato in quel periodo, è proprio questa l’unica strada percorribile per costruire una forza alternativa? Segnalo, anche ribadisco, che il risultato ultimo di quel processo è stata la distruzione di una cultura politica nel nostro paese. Quella dei comunisti italiani. Si vuole continuare su quella strada per eliminare anche il poco che resta?
Nel resto d’Europa, dove più o meno si sono fatti errori simili a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, la sinistra ha preso atto della cantonata ed è tornata a fare la sinistra. Rinnovando i partiti tradizionali, come nel caso del Labour in Gran Bretagna, costruendo forme originali e radicalmente alternative come in Spagna, in Grecia o in Francia. Si è tornati a pronunciare la parola socialismo, la usa perfino Sanders negli Stati Uniti. Ma da noi resta una parola proibita.
Si è preferito, per farla breve, un comunicatino stitico per dire che tutto va bene e poi tornare a parlare lingue diverse. Basta leggere le interviste sui giornali. Alternativi al Pd, dice Bersani. Il centrosinistra si fa con il Pd, risponde Luigi Manconi che parla a nome di Campo progressista, ma resta saldamente nel Partito democratico e lo rivendica pure.
Il nodo vero sono le elezioni siciliane. Lì, alla prima prova sul campo, l’alleanza fra Orlando-Tabacci (i due luogotenenti di Pisapia nell’isola) e la sinistra non ha retto. La sinistra, unita, presenta la candidatura di Claudio Fava, Il duo di Campo progressista, malgrado ufficialmente non si schieri, avrà la sua lista a sostegno del candidato di Renzi e Alfano, che del resto è stato indicato dallo stesso sindaco di Palermo. Ora,non sto a cavillare sulle qualità di Fava, sul valore delle elezioni siciliane. Certo, prenderle come test nazionale, viste le specificità dell’isola, potrebbe quanto meno apparire azzardato. Ma al momento rappresentano il vero nodo sulla strada delle elezioni nazionali e degli schieramenti che si presenteranno ai blocchi di partenza. Per due ragioni: intanto è evidente che un risultato positivo di Fava aiuterebbe la creazione di un’alleanza di sinistra, magari anche un qualcosa di più che una semplice lista elettorale. Al tempo stesso, però, una netta sconfitta di Renzi e Alfano potrebbe dare fiato a quanti, nel Partito democratico, vedono nel fiorentino l’incarnazione della sconfitta permanente. Già adesso, a mezza bocca, non sono pochi i dirigenti democratici che evocano la possibilità di una figura meno divisiva come candidato premier. Queste voci diventeranno più forti e riapriranno la partita dopo il 5 novembre? Ho i miei dubbi, ma l’idea di una sconfitta a livello nazionale, nel Lazio e in Lombardia, potrebbe non essere digeribile a chi da sempre dà le carte fra i democratici, Franceschini in primo luogo. E Renzi avrebbe la forza di resistere?
Basta aspettare per capire. Per queste due ragioni, al di là delle schermaglie quotidiane, si muoverà poco nel prossimo mese e mezzo. Io credo, però, che sia sbagliato attendere inerti. Perché c’è il rischio che le elezioni politiche arrivino prima del previsto e perché credo sia un errore grave lasciare che a decidere il nostro futuro sia un appuntamento elettorale parziale, seppur importante. Noi, anche questo l’ho già scritto, abbiamo il dovere di mettere in campo un progetto per il futuro, non lontanissimo magari, ma neanche immediato. Un progetto che si deve confrontare con le urne, non c’è dubbio, ma che non può avere quello come unico traguardo. La sopravvivenza di un piccolo ceto politico non ci interessa.
Ci interessa che una cultura politica importante ritrovi la propria casa e il proprio spazio. Attendere inerti dunque? Io credo che i processi vadano aiutati, magari dal basso. Proviamoci. Proviamo in questo mese a fare dei passi in avanti, a costruire esperienze unitarie nei quartieri, nelle città, nei luoghi di lavoro. E anche in Parlamento con un’iniziativa comune. Sul lavoro. Articolo Uno è nato con questa funzione, quella di fare da cerniera. Nello schema attuale, al contrario, rischia di rimanere in mezzo fra Pisapia e il resto della sinistra. E chi sta in mezzo, si sa, prende schiaffi da una parte e dall’altra. Usciamo dalle ambiguità e andiamo avanti.
E mo basta.
Il pippone del venerdì/23
Ma insomma, possibile che, tornato da un meritato mese di vacanze, vi ritrovo al punto di prima? Pisapia che tentenna fra Renzi e la sinistra (è di queste ore una sua articolata intervista al Corriere nella quale non dice assolutamente nulla se non paventare un suo ritiro), la sinistra che tentenna fra Pisapia e se stessa. Se c’è Alfano non veniamo noi, ma se non c’è Alfano possiamo sederci a tavola. E se ci dai l’articolo 17 e mezzo votiamo la finanziaria. E perché non ci invitate alla Festa de L’Unità?
Ma che siamo all’asilo nido? Mi sembra di essere prigioniero di un incubo collettivo dal quale non ci si riesce a svegliare. Tutta pura tattica, politicismi bizantini che non interessano a nessuno. Provo a fare un rapido quadro, senza approfondire. Resto sulle generali, ma dopo un mese di assenza credo sia il modo migliore per riordinare le idee
Ma che il problema è Alfano adesso? Che senza Alfano si può costruire un’alleanza elettorale con il Pd di Renzi? E allora perché siete usciti dal medesimo Pd? Che senso hanno avuto questi mesi in cui abbiamo detto: “Dobbiamo costruire uno schieramento alternativo”? Il problema per me, lo dico da sempre, non è definirsi in contrapposizione. E’ dire chi siamo e cosa vogliamo. Dire cose di sinistra e su queste aprire un confronto. Si vada alle elezioni con una linea politica chiara, una lista unitaria e si offra un impegno agli elettori e ai militanti: il giorno dopo il voto proseguiremo insieme.
Si sarebbe già dovuto fare. Era così difficile, per gente di provata esperienza come Bersani, Speranza, Epifani, Errani, capire che, seppur in vista di un progetto più ampio, Articolo Uno doveva da subito strutturarsi nei territori? Legittimare il suo gruppo dirigente con un rapidissimo appuntamento di natura congressuale, approvare una linea politica chiara e condivisa, e andare avanti con quella. E invece si continua con le riunioni dei gruppi parlamentari (nominati e non eletti) che si sono auto attribuiti la qualifica di dirigenti. Di loro stessi, forse.
Si continua con gli incontri al vertice fra Speranza, uno dei soci costituenti di Articolo Uno, e Pisapia, un altro che si è autoproclamato leader, lanciato da 270 presunte officine per il programma. Tutta roba di ceto politico, che non attrae nessuno. L’Hanno capito D’Alema e Rossi che da mesi si sgolano in giro per l’Italia a parlare dei partecipazione, di idee, di un percorso democratico per definire i leader e i candidati. Nulla di tutto questo è avvenuto. Ora si parla di un’assemblea costituente della sinistra, ma dopo le elezioni siciliane. Si parla di un nuovo vertice fra Pisapia e Articolo Uno che si dovrebbe tenere martedì 12 settembre. Sarà risolutivo dicono. E invece, ci scommetto, se ne uscirà con l’ennesima dichiarazione di buoni propositi.
E, intanto, fuori dai palazzi, che succede? Dal mio piccolo osservatorio personale noto un grande senso di scoramento. Le tante energie che si erano rivitalizzate rischiano di essere disperse, le tante persone che guardavano a noi con interesse tornano a essere distaccate. I sondaggi non possono che essere lo specchio di questa situazione. C’è bisogno di sinistra proprio quando manca la sinistra.
E’ il primo pippone dopo la pausa estiva, non la voglio neanche fare troppo lunga. Ma è impellente un cambio di rotta. Provo a dire qualche punto essenziale, secondo me.
- Dire chiaramente che si vuole costruire una forza di sinistra alternativa al Pd di Renzi. Dico forza di sinistra e non di centrosinistra, perché considero questo equivoco la tara che ha minato da sempre i democratici. Un partito deve essere di sinistra, di destra, di centro. Ci si può alleare, ma unire culture politiche differenti e distanti porta ad accrocchi indigeribili.
- Capire chi ci sta, senza pregiudiziali. Chiudersi in una stanza e dettare un percorso costituente rapido e dal basso: comitati locali, assemblee regionali, una grande assemblea costituente prima dell’inverno.
- Elaborare un comune Manifesto dei valori. Ci serve questo più che un programma dettagliato che poi non legge nessuno. Quali sono le nostre idee forza sulle quali vogliamo puntare? Diciamole chiaramente, senza tentennamenti, senza metafore. La comunicazione deve essere decisa.
- Abolire la parola governo dai nostri ragionamenti. Il governo è un mezzo, non il fine. Faccio umilmente presente che ha inciso di più il Pci dall’opposizione che la sinistra nei vari governi a cui ha partecipato. Quello che ci si deve porre come obiettivo è il cambiamento in senso socialista della nostra società, non mettere una pezza alle politiche liberiste.
Ovviamente le cose da fare sono molte di più, ho solo sintetizzato, in maniera grezza le emergenze che la quasi defunta sinistra italiana ha di fronte a sé. Si parla di giorni come scadenza temporale per partire davvero, non di mesi.
La Sicilia, da questo punto di vista, mostra qualche sussulto. Malgrado incomprensioni e personalismi che restano sullo sfondo, tutti i movimenti della sinistra si riconoscono nella candidatura di Claudio Fava. Un nome importante in quelle terne, per quello che ha rappresentato, per il suo impegno in prima persona. Si è usciti dallo schema proposto da Leoluca Orlando, proconsole di Pisapia nell’isola insieme a Tabacci. Si è affermata a voce alta l’esigenza di una coalizione alternativa a quella proposta dal Pd. Per fortuna, a toglierci dagli impicci, ha pensato come al solito Renzi che ha concluso un accordo con Alfano e ci ha dato la scusa per levare le tende.
E ora? Si alzano le sirene del voto utile? Si chiama a raccolta contro le destre? E che appello è se un pezzo della destra è già alleato con voi? La partita del governo siciliano, va detto chiaramente, è una partita a due. Se la giocano Berlusconi e Grillo. Mischiarsi in un’accozzaglia (questa sì, lo è davvero) insieme a pezzi del sistema di potere siciliano (con tutto quello che comporta), a pezzi della destra e al Pd di Renzi avrebbe contribuito a far restare a casa i nostri elettori. Vedremo se quest’alleanza, seppur tardiva, basterà a riportarli alle urne. Forse non tutti, ma dobbiamo essere fiduciosi e portare nell’assemblea regionale siciliana un punto di vista davvero alternativo e radicale.
Non che si tratti di un test con valore nazionale, ma un risultato positivo, che testimoni quanto meno l’esistenza di un’area di sinistra, sarebbe anche una spinta forte all’unità a livello nazionale. E se Pisapia non ci sta? Se attua la sua minaccia e se ne torna al suo studio di avvocato? Non ci strapperemo di certo le vesti. Avanti, non è più l’ora dei rinvii.
Le ferie sono finite.
Me ne vado in vacanza, non fate danni.
Il pippone del venerdì/22
Arrivati ai primi di agosto, nella calura dell’estate più calda del secolo, tutto procede per il meglio.
Invece di combattere i moderni trafficanti di schiavi il governo italiano combatte le Ong che salvano i migranti dal mare, tanto fra un po’ non serviranno più, visto che ci prepariamo a pattugliare le coste libiche per ricacciarli all’inferno.
L’occupazione cresce come un soufflé, mai avuto così tante donne al lavoro. Peccato che poi se vai a leggere sono tutti posti precari. E mi piacerebbe anche capire quanti di questi sono lavori a tempo indeterminato a cui sono scaduti i benefici fiscali previsti dal jobs act.
Negli Stati uniti Trump ha licenziato tutto il suo staff e ne ha assunto uno nuovo. Anche quelli sono posti di lavoro in più, con il metodo di calcolo dell’Istat. E aiuta anche la Raggi che, finiti a quanto pare i posti nelle segreterie degli assessorati, pensa di assumere direttamente due nuovi assessori. Due donne, si legge sui giornali, una delle quali crede anche a Babbo Natale e quindi va benissimo per gestire i lavori pubblici a Roma. Argomento che rientra nella letturatura fantasy. Se questi sono gli assessori immagino i loro staff.
La sindaca, in un sussulto di efficientismo estremo, ha perfino varato il piano antincendi per la pineta di Castelfusano. La pattuglierà addirittura l’esercito. Peccato che nel frattempo sia ridotta a una landa desolata di tizzoni ardenti, ma non si può avere tutto.
Il presidente della Regione, Nicola Zingaretti, per non essere da meno, ha risolto l’emergenza idrica che rischiava di assetare i cittadini romani. E’ bastato ritirare l’ordinanza che aveva fatto due settimane prima e tutto è tornato a posto.
Nelle zone devastate dal terremoto di un anno fa i lavori fervono. Ad Amatrice è stata perfino aperta la prima zona commerciale, con tanto di ristoranti. Torneranno i turisti, si dice. A guardare la distesa di macerie.
Per quanto riguarda la politica, Renzi ha superato tutti i record di vendite con il suo nuovo libro. E visto che le elezioni le perde tutte, almeno ha un futuro come scrittore. Pisapia ha fatto pace con Speranza. L’ex sindaco di Milano si è fatto un paio di settimane di ferie, non ha fatto interviste, non ha abbracciato nessuno. Gli italiani sono vissuti benissimo lo stesso. A ottobre nascerà “Insieme”. Insieme a chi non è ancora dato saperlo. Grillo nel frattempo si è rifatto la piattaforma web, subito preda degli hacker. Sul fronte della destra, infine, Berlusconi si è fatto l’ennesimo lifting. Ora tutto è pronto per le elezioni.
La Camera ha perfino approvato una serissima norma che ridimensiona i vitalizi degli ex parlamentari. E che diamine basta con i privilegi della casta. Poi ci sono amministratori delegati che se ne vanno con liquidazione che sono più cospicue del bilancio del Molise, ma quelli producono mica sono parassiti come deputati e senatori. Certo lo Jus soli è stato rinviato a tempi migliori, ma non si può avere tutto. Certo la legge sul fine vita è scomparsa dal radar, ma tanto non sono annunciati altri suicidi assistiti di personaggi famosi. Non sarebbe carino in campagna elettorale.
Insomma, in questa Italia che si prepara a chiudere per ferie, va tutto bene. Non fate i gufi come al solito. Il calcio mercato procede, tra colpi da centinaia di milioni e onesti pedatori che cercano un contratto per allungarsi la carriera di un anno. Non avremo più a quanto pare la tessera del tifoso, si farà lo stadio della Roma, sarà tre volte natale e festa tutto l’anno.
E allora, sapete che c’è? Me ne vado anche io. Verso il mare, verso le pinete della Versilia, verso gli ombrelloni schierati in parata militare. Non fate danni, tra un mese torno e vorrei ritrovare qualcosa.
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