Grazie presidente Mattarella, ci ha reso orgogliosi.
Il pippone del venerdì/128
Un gesto semplice, con lo staff che avverte la preside appena un’ora e mezzo prima. Ma un gesto che ci riconcilia con l’essere italiani. Mattarella, in piena emergenza coronavirus, prende la macchina e va in una scuola multietnica per eccellenza, all’Esquilino, il quartiere che i giornali della destra definiscono con disprezzo la Chinatown romana. E ci sono anche le parole semplici della dirigente scolastica, Manuela Maferlotti: “Noi facciamo da anni il nostro lavoro senza pensare a dove sono nati gli studenti”. E anche queste sono parole che fanno bene. E ci sono anche le facce dei bambini, mischiati senza pensare al colore, ci danno qualche speranza in più.
Già anni fa ero rimasto colpito da un gesto di mio figlio: allora era alle elementari (sob) e per farmi capire chi fosse un suo compagno di classe con cui voleva andare a giocare al parco mi aveva detto “quello con la giacca marrone”. Quel bambino era di origine africana, ma loro non lo indicavano con il colore della pelle, perché non solo non era un problema, ma neanche una cosa a cui facevano caso.
Il gesto di Mattarella, insomma, parla agli adulti, perché i bambini non ne hanno bisogno. Non nascono razzisti, ce li facciamo diventare noi. Noi che evitiamo i negozi e ristoranti cinesi, che ci tiriamo su il maglione sulla bocca se qualcuno di origine asiatica tossisce. Che poi, a naso, la maggior parte di loro, soprattutto i bambini, la Cina l’ha vista soltanto sulla carta geografica: come fa ad avere il coronavirus? Mica si prendono le malattie in base al colore della pelle.
Mi ha ricordato, nella sua semplicità, quello che fece un grande sindaco di Roma, Luigi Petroselli: dopo un attentato che aveva gettato nel panico i pendolari che prendevano la metro, non fece dichiarazioni rassicuranti, comunicati stampa, uscì di casa, abitava sull’Appia, e salì sulla linea A. Senza troppo clamore, non era abituato a essere seguito dalle fanfare, quello che usava il trasporto pubblico era un cittadino comune non il sindaco.
Sono cose piccole, che non costano nulla, ma che ci riportano all’essenza stessa dell’agire politico che tanti presunti leader dimenticano o forse non hanno mai conosciuto: fare politica, avere un ruolo istituzionale in particolare, non vuol dire leggere i sondaggi e cercare di girarli a proprio favore, vuol dire in primo luogo essere di esempio per i cittadini e risolvere i problemi anche attraverso il proprio agire. Un tempo ce lo insegnavano da piccoli nelle sezioni del Pci. Non soltanto dovevamo dare i volantini, ma essere irreprensibili in tutti i comportamenti, sia pubblici che privati, perché i comunisti dovevano essere di esempio. Cose che si sono perse.
Ecco, gesti come quello di Mattarella non risolvono i problemi dei cittadini, ma sicuramente aiutano a creare un clima differente, in un momento difficile. E riconciliano il Paese con la sua classe dirigente che non guida il popolo, ma si mischia con il popolo e capisce le paure, le attutisce non le alimenta.
Io credo che un cambiamento vero nel nostro Paese non sia una cosa di un giorno, ci vorranno anni per riparare ai guasti di una stagione gridata e basata sull’odio e tornare al confronto civile, a tutti i livelli. Perché il nostro è un Paese ferito, incattivito, lo scrivevo giusto la settimana scorsa. Ed è spesso difficile cercare di guardare oltre la nebbia che ci avvolge e vedere qualche luce nitida.
Il presidente Mattarella ci ha dimostrato, con un piccolo gesto lo ripeto, che ci può essere qualcosa di diverso. Che c’è un’Italia differente, solidale e accogliente. Dobbiamo darle forza e visibilità, far crescere i sentimenti positivi. Magari raccontando le realtà come questa scuola “di frontiera” invece che dare sempre e soltanto spazio agli episodi negativi. C’è anche la responsabilità nostra, dei giornalisti, che invece di mettere in pagina le cose più “facili”, che fanno vendere il prodotto, dovremmo tornare a fare il nostro lavoro e andare a cercare le storie più difficili, quelle che si vedono meno, ma rappresentano una ricchezza da proteggere e promuovere. Mattarella ci ha regalato un sorriso e a me un po’ di sincera commozione. Va trasformata nel nostro agire quotidiano. Di tutti noi.
Una sinistra votata al suicidio.
Il pippone del venerdì/58
A raccontare questa settimana c’è da farsi venire il mal di testa. A raccontare questa settimana da sinistra c’è da diventare scemi. Il balletto di presidenti incaricati, governi che saltano in dirittura d’arrivo, veti da Berlino e via dicendo, ha di per sé del surreale. Abbiamo assistito, per la prima volta nella storia della Repubblica, a un capo dello Stato che interviene in diretta per spiegare che ha detto no a un ministro proposto dal presidente del Consiglio incaricato. E ha detto no per ragioni di divergenza politica, non di inadeguatezza acclarata come avvenuto in passato.
Complice anche la fine del campionato tutto questo è diventato chiacchiera da bar, con schiere di costituzionalisti del fine settimana schierati sull’uno o sull’altro fronte, pronti a brandire come armi gli articoli della costituzione. Ci è mancato soltanto il Var. In pochi hanno notato il precedente creato da Mattarella, secondo me parecchio scivoloso, perché da adesso i futuri presidenti della Repubblica potranno citarlo per rifiutare un ministro sgradito per divergenze politiche. E non provate a citare situazioni del passato che non hanno nulla a che vedere con il caso in questione. Quando Berlusconi propose Previti come ministro della Giustizia, non c’era un problema di linea politica, c’era l’assurdità di un presidente del Consiglio che voleva mettere in quella posizione il suo avvocato. Insomma, il presidente Mattarella, diciamola così, ha usato i suoi poteri fino al limite estremo. Sul fatto che l’abbia o meno superato i pareri dei costituzionalisti, quelli veri, non sono concordi.
Comunque sia, alla fine il governo lo abbiamo. Manca la fiducia del Parlamento, ma, vista anche l’astensione della Meloni, pare un passaggio abbastanza scontato. Diciamo pare perché ormai le sorprese sono quotidiane. Mattarella ha ingoiato Savona, Salvini ha ingoiato il fatto che non sia ministro dell’Economia, ma abbia una posizione di minor rilievo. Pari e patta, avanti tutta. Altro record della settimana: abbiamo avuto un presidente del Consiglio che viene incaricato, rimette l’incarico e alla fine ne riceve un secondo nel giro di tre giorni. Con il povero Cottarelli che prima viene messo in campo per portare il Paese alle elezioni cercando di evitare traumi ulteriori, poi viene di colpo rimesso in panchina. Con Palazzo Chigi, insomma, l’uomo dei tagli che passò un anno a studiare i conti e poi venne esautorato di colpo da Matteo Renzi, continua ad avere un rapporto difficile. Se fossimo su Facebook si troverebbe in una “relazione complicata”.
Cosa farà davvero questo governo, al di là delle parole del famoso contratto, non è dato sapere. L’asse appare molto spostato a destra, fatto salvo il reddito di cittadinanza che è il vero asso nella manica dei 5 Stelle. Hanno ingoiato di tutto pur di inserirlo nel programma. Resta da capire cosa faranno i vertici europei che in questa settimana hanno guidato la partita a colpi di spread. Al fatto che le fluttuazioni fossero opera del libero mercato non ci credono neanche i bambini. Si è trattato di una vera propria direzione operata dalla Banca centrale europea a colpi di acquisti (e soprattutto di mancati acquisti) di titoli italiani. A occhio, per dirla sinceramente, da questa commistione di diversi populismi, non arriverà nulla di buono per questo martoriato Paese. Azzardo comunque una previsione: vista la gestazione che, usando un eufemismo, si può dire travagliata, secondo me questo esecutivo durerà a lungo. Scordiamoci di avere occasioni di rivincita (si fa per dire) a stretto giro di posta.
Sia pur in estrema sintesi, è stata una settimana molto agitata, dal punto di vista istituzionale. Dal punto della sinistra, invece, è stata l’ennesima dimostrazione della nostra accentuata vocazione al suicidio. Abbiamo assistito a una bella e partecipata assemblea nazionale di Liberi e uguali, nella quale Grasso con il plauso della quasi totalità dei presenti, ha rilanciato il progetto. Con tre caratteristiche: una forza autonoma, che metta al bando i verticismi, con un forte rinnovamento – anche generazionale – nel gruppo dirigente. Sono passate 24 ore e ci siamo ritrovati in televisione e sui giornali Bersani e D’Alema a spiegare la linea (per altro non esattamente la stessa linea), i parlamentari chiusi per tre giorni in riunioni segrete per decidere il da farsi, la maggioranza di loro pronta a votare la fiducia a Cottarelli (sarebbero stati gli unici o quasi), un sostanzioso gruppo pronto ad accettare qualsiasi tipo di alleanza con il Pd, fino al listone unico del “fronte repubblicano” proposto da Calenda. Ultima assurdità: dopo tre giorni di silenzio ufficiale, rotto soltanto da improvvide iniziative di singoli, arriva il grande rilancio politico. Una lettera in cui si invitano le forza progressiste a costruire l’unità in caso di elezioni. Avranno posto precisi paletti, immagino: sui punti qualificanti del programma, sul leader. Manco per niente. Vaghi richiami alla discontinuità. Tra l’altro un appello arrivato fuori tempo massimo, quando ormai era certo il ritorno al governo cosiddetto gialloverde, e ovviamente ignorato del tutto dalla stragrande maggioranza dei media. Poche ore prima sugli stessi media era addirittura circolato lo schema che aveva in mente il Pd: una lista di centro capitanata da Calenda, una di sinistra guidata dalla Boldrini, i democratici al timone di questo nuovo campo progressista, con Gentiloni, quello degli otto voti di fiducia sulla legge elettorale, a fare da sintesi. Insomma, lo schema che voleva Pisapia un anno dopo. In tutto ciò Renzi irride all’irrilevanza del nostro 3 per cento.
Taglio corto e me ne vado al mare. Con questi non andremo mai da nessuna parte. E’ evidente come la loro strategia non abbia nulla di politico ma sia orientata soltanto alla mera conservazione del loro posto “di lavoro”. Neanche è possibile parlare di posto di potere, perché di potere non ne hanno alcuno. Mirano soltanto a conservare lo scranno in parlamento. E questa volta, nel diabolico piano dei nostri, non sarebbe servita neanche la base. Bastava essere piazzati in qualche collegio sicuro, del voto al proporzionale non si preoccupava nessuno. Tanto a superare lo sbarramento del 3 per cento non sarebbero mai arrivati. Poi si sarebbero coperti parlando di emergenza democratica, di difesa delle istituzioni, di fase cambiata. Balle.
Scampato il pericolo a breve termine, verrebbe da chiedersi cosa fare adesso, non tanto per costruire una forza politica saldamente autonoma e ancorata a sinistra, ma almeno per liberarsi da questi quattro straccioni. Io resto convinto che l’unica strada sia costruire Liberi e Uguali, fare rete, mettere radici nei territori e poi sbattere fuori l’intero gruppo dirigente che da 30 anni non ne azzecca una, io direi a calcioni ma va bene tutto, anche un cordiale “prego, accomodatevi in strada”.
Non costringeteci a votare 5 stelle.
Il pippone del venerdì/54
Dopo la direzione del Pd, come di consueto, la Meli sul Corriere della Sera ci riporta il pensiero di Renzi e i relativi retroscena. E viene istantaneamente voglia di cambiare paese. Ora, al di là dello sproloquio quotidiano della giornalista di fiducia, alcuni dati, in questo marasma, sono certi. Il primo è l’assoluto controllo che l’ex segretario ha sul Pd. E’ bastata una comparsata da Fazio per smantellare il cambio di rotta faticosamente appena abbozzato dall’ala cosiddetta “dialogante” del partito e tornare su quell’insensato Aventino su cui i democratici si sono ritirati dal 5 marzo. Martina, che si era fatto interprete del disagio interno, ha svolto una relazione con il timbro del giglio fiorentino ben in evidenza. Si è rimesso in linea nel giro di un paio di giorni, dopo aver minacciato tuoni e fulmini. La sua relazione, questa è la seconda certezza, è stata approvata all’unanimità. Si sono allineati tutti, dunque, come da copione. Con buona pace del povero Roberto Speranza che ancora due giorni fa auspicava che la sinistra tutta, anche quella rimasta nel Pd, dopo l’ennesimo disastro elettorale si rendesse conto della necessità di un big-bang, di un reset, per usare un linguaggio informatico. La terza certezza, dunque, è che una sinistra interna al Pd non esiste più.
Finiti i dati di fatto, restano aperti gli scenari per il futuro, prossimo e meno prossimo, ovviamente siamo nel campo delle ipotesi. Dunque, le carte in tavola sono queste: Matteo Salvini chiede un incarico per portare alle camere un governo di minoranza. A cosa serve lo spiega bene la collega Meloni. O si ottiene la fiducia o si va alle elezioni, ma con un esecutivo a guida centrodestra insediato, sia pur per l’ordinaria amministrazione, a Palazzo Chigi. Mattarella dice no. I grillini chiedono a gran voce le elezioni. Del resto, in questi due mesi, il forno l’hanno diretto loro, adesso rischiano di veder tornare in campo i vecchi fornai e di ritrovarsi a scaricare la farina. Il Pd dice che non parteciperà a nessun esecutivo con la destra e con i 5 stelle, ma si dice pronto a rispondere a un’eventuale chiamata di Mattarella. E qui arriviamo al punto vero.
Come è noto Renzi avrebbe voluto un “governo della nazione”, una sorta di larghe intese all’italiana che tagliassero fuori le ali estreme dei due schieramenti e che garantissero un periodo di decantazione nel quale provare a rimescolare le carte e rendere ininfluenti Grillo e soci. Il sistema elettorale demenziale con cui abbiamo eletto il Parlamento puntava chiaramente a realizzare questo obiettivo. La grande – e imprevista – forza elettorale di 5 stelle e Lega lo ha reso materialmente impossibile. E allora, come se ne esce? Con un governo del presidente. Ovvero un esecutivo sostenuto dalla destra e dal Pd, mascherato dalla presidenza affidata a un tecnico, la classica riserva della Repubblica. Pensano di prendere in giro gli italiani. Dubito che ci riescano, ma questa è un’altra storia. Il tentativo è già in atto. Era solo questione di tempo. Il tempo necessario a far cadere tutte le ipotesi di alleanze politiche.
Sono già partiti gli allarmi europei sullo stato della nostra economia, gli ultimatum e tutto l’armamentario che si usa in questi casi per convincere i bambini bizzosi. Un governo serve – si dice – perché altrimenti perdiamo il treno della ripresa, non potremo partecipare a pieno titolo alla definizione del prossimo bilancio europeo. E poi c’è la questione dell’aumento automatico dell’Iva se non si interviene nella legge di stabilità. Insomma serve responsabilità, dicono quelli che ci hanno ridotto praticamente in miseria.
Se questo non fosse possibile, visto che anche Salvini non sembra particolarmente portato a questa soluzione, che succederebbe? Si tornerebbe a votare, presumibilmente a ottobre a meno che non si voglia fare la campagna elettorale sulle spiagge d’agosto. E qui viene fuori il coniglio che la Meli attribuisce a Renzi. Quale sarebbe il grande piano che l’ex segreterio del Pd avrebbe in mente? Un centro-sinistra largo, a guida Gentiloni, che vada da una lista centrista (in stile Scelta Civica di montiana memoria) a Liberi e uguali. Magari benedetto da primarie di coalizione. Qua finisce che ritirano fuori anche Pisapia, parcheggiato da tempo nell’armadio delle scope.
Ovviamente, verrebbe da dire, vista la situazione i dirigenti di Leu si saranno già riuniti, avranno detto, cari compagni la faccenda è grave, prendiamo atto del disastro del 4 marzo, delle sconfitte in Molise e in Friuli, abbiamo sbagliato, ma abbiamo capito la lezione. Serve un partito autonomo, forte, che non solo stia nella società, ma che “faccia” società. Ci mettiamo al lavoro da subito per questo. Già ci si immagina un brulicare di iniziative, unitarie, compresi anche quelli di Potere al popolo che hanno capito l’errore di isolarsi. Ci saranno centinaia di assemblee, con i centri sociali, con i compagni che sono tornati dal bosco. Questo dovrebbe accadere, insomma, se non fossimo diretti, da una congrega di pippe. In realtà, ognuno si fa la sua assembleina, il suo congressino bonsai, il tesseramento in proprio, talmente in proprio che ormai siamo a livelli di bocciofila. Pronti a costruire il nuovo centro-sinistra con il Pd, che al di là della facciata è rimasto quello di alcuni mesi fa. Ora, qualcuno dirà che sono troppo pessimista. Che vedo tutto nero. Io credo di essere perfino ottimista.
Dico soltanto, non costringeteci a votare 5 stelle a ottobre. C’era l’occasione di spostare i grillini verso sinistra e farli diventare a pieno attori nel sistema democratico. Renzi e chi lo segue, per mero calcolo personale, li hanno ricacciati nel loro sterile strillonaggio continuo. Pensano, i dirigenti del Pd, di dimostrare così l’inutilità di quel movimento. Succederà l’esatto contrario. L’ultimo sondaggio di Piepoli dà la destra vicina al 40 per cento e i 5 stelle al 32. La partita sarà questa se si andrà a votare nei prossimi mesi. Non prendiamoci in giro. E allora il famoso voto utile a cui ci avete educato da anni, il voto per arginare la destra razzista e fascista, sarà soltanto uno, non ci sarà spazio per terzi o quarti poli.
Siccome sono ottimista, dico anche che siamo ancora in tempo. Lasciamo perdere le tessere, i congressi farsa, le assemblee nazionali palcoscenico per il nulla che avanza. Costruiamo davvero una sinistra autonoma, forte, con valori e programma davvero alternativo. Senza più balbettare. Senza più leader di plastica che sorridono e parlano a vuoto. Facciamola democratica e partecipata. E andiamo alle elezioni così. Non con una lista, ma con una forza politica vera, che non si scoglie alla prima burrasca. Il tema delle alleanze per governare non ce lo poniamo adesso. Non avrebbe senso. Il centrosinistra è morto, quel modello di alleanza ha voluto dire accettare le idee liberiste, ha voluto dire la precarizzazione del mondo del lavoro, la resa alle forze del capitalismo finanziario mondiale. E’ ora di nuova proposta. Poi, da pari, andremo a trattare eventuali alleanze. Trovando una sintesi fra i programmi. Prima misuriamo il nostro consenso. Lo faremo? Ci riusciremo? Non so davvero.
Ma siccome sono ottimista, ma non incosciente, dico – e la finisco – che il tempo è adesso. Non domani. Oggi.
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