La bellezza e il peso della sfida ecosocialista.
Il pippone del venerdì/82
Intanto diciamo una cosa: dopo mesi passati in riunioni inutili e autoreferenziali in cui si parlava di tutto meno che di politica, ho passato un fine settimana ascoltando interventi, molti anche di altissimo livello, nei quali non soltanto si affrontavano temi di carattere teorico, ma si combinavano anche con la vita delle persone in carne e ossa. Se poi da questo fine settimana prenderemo gli spunti per ripartire e imboccare finalmente la strada giusta, questo non lo so. Comunque sia, che ho fatto nel fine settimana scorso? Sabato giornata dedicata ai 20 anni di Italianieuropei, si inizia la mattina e si va avanti fino alle sei di pomeriggio. Punto di partenza il “manifesto dei 120”, ovvero il documento a metà strada fra economia e politica che vorrebbe ridisegnare il sistema politico europeo e la distribuzione dei fondi. Primo firmatario l’economista francese Thomas Piketty. E che c’entra con la vita concreta di ognuno di noi? Beh, più fondi europei destinati all’integrazione, allo sviluppo, una gestione finalmente democratica degli stessi, sono temi che hanno a che fare con il nostro “mettere insieme il pranzo con la cena” o no? Secondo me sì e se fossimo ancora in grado di fare politica saremmo anche impegnati a spiegarlo ai cittadini. Che poi, gli italiani, un tempo, la capivano anche l’importanza dell’integrazione europea. Lo ricordano in pochi, ma l’11 maggio dell’89, ci fu un referendum in cui si chiese agli elettori se volevano trasformare la Comunità economica in una Unione di Stati, con tanto di governo responsabile di fronte al Parlamento. Votanti 80 per cento degli aventi diritto, Sì 88 per cento.
Ricordi a parte, a cominciare dal manifesto per l’Europa si sono sviluppati interventi di buona parte dei cervelli migliori della sinistra italiana. I giornali hanno sintetizzato così: D’Alema rientrerà nel Pd, appoggiando Zingaretti. Qualcuno è arrivato addirittura a dire che sarà lui il presidente del partito in caso di vittoria del governatore del Lazio alle primarie. Dove abbiano preso questa convinzione non si sa, ma D’Alema è stato addirittura costretto a scrivere una lunga lettera a uno dei giornali su cui erano uscite le illazioni, spiegando che lui al Pd non è iscritto né ha intenzione di iscriversi e quindi non si occupa della scelta del segretario di un partito a cui non è iscritto. Altra cosa è, ovviamente, guardare con attenzione – e anche preoccupazione, aggiungerei io – al dibattito di quella che, a torto o a ragione, viene ritenuta dagli elettori una forza di sinistra, l’unica che abbia ancora una certa rilevanza elettorale.
Domenica, invece, dedicata alla manifestazione nazionale organizzata da Articolo Uno dopo il fallimento di Leu. Apro una parentesi: il dibattito fra gli ultras che si contendono la colpa della mancata trasformazione della lista elettorale in partito non mi appassiona. Liberi e Uguali, dei quali sono stato uno dei sostenitori anche post-mortem, non esiste più. Perché i partiti che avevano promosso il progetto hanno preso strade differenti. Sinistra Italiana ha da tempo annunciato che pensa a un listone per le europee insieme a Rifondazione e gli altri cosiddetti antagonisti, progetto alla testa del quale si è posto Luigi de Magistris, Articolo Uno ha a lungo tentennato, atteso non si sa bene quale evento, poi alla fine ha annunciato questa iniziativa dal titolo programmatico “Ricostruzione”.
Ho l’impressione che siamo ancora allo sgombero preventivo delle macerie, ma mi si sono disciplinatamente seduto ad ascoltare per cercare di capire se ne può uscire qualcosa di buono. Francamente alla fine non saprei dirvi. Io la vedo così: nell’attesa di capire se il Pd esisterà ancora, imploderà, scomparirà, è il caso di darsi una svegliata e provare a tenere insieme quel popolo che si è riconosciuto in Liberi e Uguali. Per farlo serve una formazione autonoma della sinistra, io non aggiungerei altri aggettivi perché spesso quelli che si sono definiti radicali erano più accondiscendenti dei riformisti e, a loro volta, i riformisti hanno chinato la testa alle multinazionali. Poi, quando il Pd deciderà cosa fare da grande si porrà il tema del rapporto da costruire. Per quanto mi riguarda sono d’accordo con le parole che ha detto il coordinatore di Mdp, Roberto Speranza, domenica scorsa: “Il Pd è figlio di un tempo che non c’è più, di una stagione politica ormai superata. Non c’è più il bipolarismo nel nostro Paese che aveva oggettivamente favorito l’aggregazione tra socialisti e liberal-democratici, e non siamo più nella fase espansiva della globalizzazione in cui la sinistra, in tutto il mondo, è stata subalterna al neoliberismo. Sono venute a mancare le ragioni storiche per cui è nato il Pd. Non so quali saranno i tempi, ma a me pare chiaro che siamo dentro un processo ormai inarrestabile. E mi pare che la discussione attorno al loro congresso sia un’altra prova molto chiara di ciò che sta avvenendo”.
Se questa è l’analisi, appare evidente come non avrebbe senso pensare di rientrare in un partito che si considera finito. Malgrado il tema sia stato affrontato con chiarezza, gli ultras continuano a dire che è tutta tattica. Passerà anche questa, faccio solo notare che se impiegassimo a fare politica, a parlare di problemi veri metà del tempo che spendiamo a parlar male di noi stessi forse non saremmo arrivati a questo punto così basso. I social avranno anche le loro colpe, ma secondo me non fanno che amplificare quella deleteria attitudine al pettegolezzo che ha afflitto la sinistra italiana negli ultimi decenni.
Prima di chiudere questo pippone prenatalizio torniamo rapidamente al punto: la proposta che avanza Articolo Uno per provare a ricostruire una presenza di sinistra in questo paese è la nascita, partendo da un documento che viene posto come base di discussione e dalla creazione di comitati locali, di una forza che riunisca ecologia e socialismo. Abbiamo delle tesi e i luoghi dove ragionarci su, insomma. La tesi centrale è quella dell’ecosocialismo, come valore fondante della nuova sinistra italiana. Non una novità nel panorama mondiale, parole assolutamente originali, se si escludono alcune esperienze marginali, nel panorama italiano. Originali e impegnative, aggiungo io. Impegnative perché l’ecosocialismo è una corrente di pensiero secondo la quale non basta la classica riconversione ecologica dell’economia per salvare la razza umana dall’estinzione. Secondo gli ecosocialisti è il capitalismo stesso, con il suo smodato bisogno di bruciare risorse, a essere incompatibile con una politica che ci porti fuori dalla minaccia del climate change. E quindi per salvarci da quella che ormai sembra non solo una profezia di sciagura futura ma una realtà che tocchiamo con mano ogni giorno, servirebbe una società diversa, socialista appunto, dove il “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni” diventa la chiave di volta per garantirci il futuro.
Insomma, una roba impegnativa. Una forza politica, dunque, che necessariamente non potrà avere come orizzonte quello di un appuntamento elettorale, ma che avrà bisogno di tempo per mettere radici nuove nella carne della nostra società. Una bella sfida. Di sicuro servirà tanta coerenza, e facce nuove, un gruppo dirigente da selezionare da capo. A me sarebbe piaciuta un’altra solidarietà generazionale fra i vari Civati, Speranza, Fratoianni, Fassina, Laforgia, Muroni. Un gruppo di ragazzi che non ha saputo trovare le ragione della sintesi, peccato. Sono invecchiati anzitempo. Vedremo se questa sinistra disastrata saprà accettare il guanto di sfida che ha lanciato Articolo Uno domenica scorsa. Intanto un consiglio lo voglio dare: trovate un grafico bravo, perché la rosa stilizzata di Ricostruzione faceva piangere.
Ps: buone feste, anche il pippone se ne va in vacanza.
Si parte: forse è la volta buona.
Il pippone del venerdì/60
E in un caldo pomeriggio di metà giugno, all’improvviso, ti arriva una mail da Grasso con scritto “Finalmente!” e poi le date per il percorso costituente del partito. Chi ci sta, ci sta. Permettetemi una polemica preventiva: caro Grasso finalmente lo possiamo dire soltanto noi che lavoriamo da anni per arrivare a un partito nuovo, non chi ha esercitato poco e male la sua funzione di leader. Ora lavoriamo tutti insieme, tutti soldati semplici, nessun generale. Si strappino i gradi frettolosamente appuntanti sulle divise di ufficiali improvvisati e si torni a discutere da pari a pari. Tutti.
Leggo che c’è chi parla di accelerazione, di fretta eccessiva, leggo di moniti a non cristallizzare una classe dirigente che colleziona sconfitte e basta. Non si capisce bene di quale accelerazione si parli. Prima del voto avevamo detto, tutti insieme, dal 5 marzo Liberi e uguali diventerà un partito. Non è che abbiamo detto: dal 5 marzo, se vinciamo le elezioni si fa un partito altrimenti ci si scioglie. Ora siamo in ritardo, altro che accelerazione. Siamo stati fermi troppo a lungo e bisogna ripartire. E non mi sembra che un percorso che prevede un congresso fra sei mesi sia da giudicare frettoloso. Anzi. Fino a ottobre si parlerà solo di idee, senza nominare gruppi dirigenti, senza impelagarsi in oziose riunioni dove ci si scanna su un nome o su un altro. Ed è bene che sia così, magari in questa maniera facciamo emergere chi ha idee nuove e non i soliti noti legati a note cordate.
Di un partito della sinistra poi – sapete come la penso – c’è bisogno. Un partito nuovo, senza dubbio, che riparta dalle radici socialiste e faccia una seria analisi di quanto è successo negli ultimi 25 anni, forse anche 30, un partito che ripensi le forme della partecipazione, che sia promotore di una nuova sinistra anche a livello europeo. Tutto vero. Tutte questioni aperte. Scogli da superare. Non so se riusciremo a trovare una sintesi fra le diverse posizioni di partenza. Di una cosa sono sicuro però: se il dibattito resta chiuso fra i sedicenti gruppi dirigenti di Leu non ne usciamo davvero. Io resto convinto che più si scende dal vertice e più le differenze si sfumano. Tutto sta a costruire occasioni vere di confronto.
Su un punti sono d’accordo con i critici del processo costituente (e su questo argomento, tra l’altro, si assiste a strane convergenze): Liberi e Uguali è insufficiente. Questa affermazione, a dire il vero, è un po’ la scoperta dell’acqua calda. Lo dicono da sinistra quelli che rimpiangono il Brancaccio, lo dicono da destra quelli che auspicano ancora il big-bang del Pd per favorire una nuova articolazione delle forze in campo. Fra un po’ finisce che torna di moda anche Pisapia. Nessuno pensa che sia sufficiente sommare Sinistra italiana e Mdp per riempire il vuoto che c’è nell’offerta politica. Tra l’altro in politica le somme spesso non funzionano, il totale è inferiore agli addendi.
Per me però Liberi e uguali è il nucleo da cui ripartire. Anche per uscire da quel vizio che ha ucciso la sinistra cosiddetta radicale da Bertinotti in poi: tutte le aggregazioni messe in campo alla ricerca di costruire una “massa critica” che riuscisse a incidere nella società italiana si sono sciolte come neve al sole anche quando hanno avuto un certo successo. Una sorta di trasposizione in politica della tecnica della tela di Arianna. Si tesse di giorno e poi si disfa tutto durante la notte. E invece ora è tempo di tessere. Non serve costruire fortini chiusi nei quali asserragliarsi, ma costruire un tetto, una casa con porte e finestre spalancate. Una casa aperta, insomma, anche a chi al momento non se la sente di mettersi in gioco un’altra volta.
E il momento è proprio questo. Intanto perché le prossime scadenze elettorali sono lontane. Alle Europee, tra l’altro, si vota con un sistema proporzionale sostanzialmente puro e potremo mettere in campo la nostra proposta senza il ricatto solito del voto utile. Un risultato positivo in quella occasione, insomma, potrebbe essere un mattone importante, dobbiamo far vedere che il voto a sinistra è di per sé un voto utile. Ma anche perché il patto Salvini – Di Maio sta creando uno spazio importante che non va lasciato vuoto. Le prime settimane di questo governo hanno completamente oscurato i temi cari al Movimento 5 stelle, penso al reddito di cittadinanza, ma anche ai beni comuni. Tutti temi “di sinistra”. E invece si è parlato di condoni, di porti chiusi per i rifugiati, di meno tasse per i ricchi. Un governo il cui asse appare fortemente schiacciato sulla destra estrema, insomma, neanche su quella moderata. E un governo di questo tipo inevitabilmente svelerà l’inganno elettorale che ha attratto tanta parte dell’elettorato storico della sinistra. Un primo effetto lo abbiamo visto con il turno amministrativo di domenica scorsa. Ora, anche scontando una difficoltà dei 5 stelle rispetto a questo tipo di elezioni, nelle quali il loro scarso radicamento sul territorio pesa sempre in maniera negativa, il loro risultato è quanto meno deludente. Un dato è evidente, insomma: poi magari i ballottaggi non andranno tutti a finire bene, la sinistra è ancora troppo “stordita” dalla botta del 4 marzo, ma dove si sono presentate coalizioni di tipo nuovo, con candidati credibili, di natura civica e di sinistra, queste sono pienamente in partita, come si dice in gergo sportivo. Non c’è più la sensazione, come è successo nelle ultime tornate che la contesa sia fra destra e grillini.
Non c’è ancora, come è ovvio, un ritorno dell’elettorato in massa. Difficilmente i voti passano da un partito all’altro: quando hai una delusione e cambi schieramento politico hai bisogno di un periodo di “decantazione”. E quindi cresce l’astensione. A Roma il fenomeno è ancora più evidente, perché a ragioni di politica generale si somma una forte delusione per il disastro dell’amministrazione locale. Ma anche altrove, a macchia di leopardo, vediamo la sinistra tornare a vincere.
Due notazioni rivolte ai distinti sostenitori della “purezza ideologica”. Dove Leu non si presenta unito non esiste. Non è che si hanno risultati deludenti, sono proprio inesistenti. Le liste di Si, di Mdp, di Possibile, difficilmente superano l’1 per cento. Le liste di Liberi e uguali, pur scontando la nostra scomparsa post 4 marzo, non solo esistono, ma arrivano spesso a percentuali decisive per la vittoria e eleggono consiglieri comunali. Io sono mai stato un fans del “partito degli amministratori”, ma un partito nelle istituzioni ci deve pure stare, altrimenti non sei un partito ma una bocciofila. L’altra notazione è che continua il momento disastroso del Pd. Le vittorie per la sinistra arrivano dove più forte è il profilo civico della coalizione e meno si sente la puzza di Renzi. Basta pensare a Trapani. Il tutto il sud le liste dei democratici non arrivano al 10 per cento. Un ulteriore segno che quella proposta politica ormai non attrae più l’elettorato.
C’è un doppio vuoto, insomma. E in politica è bene non lasciare spazi, perché se non li copri tu lo farà qualcun altro. E’ bene che Leu acquisti forza, protagonismo, che sia presente nel dibattito politico. Senza reticenze, dicendo cose chiare e semplici. Certo, tagliando con il metodo veristico utilizzato in campagna elettorale. Certo, mettendo in campo forze nuove, anche ma non solo dal punto di vista anagrafico. Certo, trovando una sintesi fra le posizioni in campo e ponendo basi forti per essere autonoma e non andare a ricasco di altri.
I dubbi e le cautele ci stanno tutti. Ma il tempo è questo, altro che fretta, è tardi.
Manuale pratico per arrivare vivi al 5 marzo.
Il pippone del venerdì/44
Non sono uno abituato a fare polemiche in campagna elettorale. Ma consentitemi un appello a tutti noi: svegliamoci. Ora, è vero che non siamo un partito, che siamo un po’ disorganizzati, che siamo pochi e per di più questa campagna elettorale in pieno inverno è anche difficile dal punto di vista climatico. Tutto vero. Però, ragazzi: di elezioni ne abbiamo viste tante, quello che serve lo sappiamo. E allora facciamolo.
Ripartiamo dall’abc.
- Lasciamo perdere i sondaggi (per fortuna dalle 24 di oggi ne sarà vietata la diffusione). Non è possibile che ogni volta che esce una rilevazione della più sperduta società di statistica andiamo nel panico. Alcuni, penso ad esempio a quelli finti su una presunta competizione sul filo di lana in alcuni collegi di Roma fra la destra estrema e quella moderata, sono fatti ad arte per confondere le acque, per chiamare a raccolta gli elettori dubbiosi. Consideriamo poi che si tratta di rilevazioni che hanno un margine di errore del 2 per cento. Oggi, su tutti i quotidiani, ci danno intorno al 6. Tanto o poco che sia questa è la realtà, proviamo a cambiarla nelle prossime due settimane.
- Basta parlare degli altri e soprattutto di possibili alleanze future. Su una cosa gli analisti più seri sono d’accordo: il prossimo parlamento non avrà una maggioranza. Perfino la grande intesa fra la destra estrema e quella moderata, escludendo la lega, sarebbe lontana da quel 50 per cento dei seggi più uno. Quindi a chi ci chiede con chi ci vogliamo alleare dopo il voto rispondiamo serenamente che la questione non si pone. Non ci sarà una maggioranza possibile fra noi e i cinque stelle, fra noi e il Pd. Non ci saranno i numeri, inutile darsi le martellate sui cosiddetti evocando impossibili scenari futuri.
- Allo stesso modo non funziona puntare sulle disgrazie altrui: prima rimborsopoli dei cinque stelle, ora i nuovi guai giudiziari napoletani del Pd e della destra estrema. Problemi loro. La via giudiziaria al socialismo, come si chiamava ironicamente un tempo, non funziona. In alcuni casi, vedasi la campagna di stampa montata su questa vicenda dei bonifici allegri dei grillini, secondo me potrebbero addirittura produrre un effetto boomerang. Perché poi ognuno ha i suoi scheletrucci nell’armadio e in queste occasioni te li ritirano tutti fuori.
- Altra cosa da evitare: le assemblee in luoghi chiusi. Ora, io capisco che fa freddo, che cominciamo anche a essere stanchi. Le sale magari le riempiamo anche, ma ci ritroviamo sempre fra di noi. Anche un po’ stanchi di sentirci ripetere le stesse cose. E allora stiamo nelle strade. Breve manuale di come si organizza un banchetto: gazebo con almeno due bandiere montate ai lati, materiale elettorale, possibilmente manifesti attaccati, magari anche fatti a mano, attirano di più, l’attenzione, dimostrano vitalità. Inventiamoci cose nuove e antiche: furgoni con le vecchie trombe, mini palchi volanti. Facciamoci vedere. Scusate se sono pedante, ma vedo in giro cose anonime. Infine andiamo a cercare noi gli elettori. Prendiamo i vecchi elenchi che tutti abbiamo e andiamo casa per casa. Non bastano le mail o le chat. Ci sono due fine settimana per farlo. Non perdiamo tempo.
- Non facciamo iniziative di “frazione”. Liberi e Uguali deve essere l’inizio di un progetto. Se facciamo assemblee dove tutti i partecipanti vengono da una delle formazioni politiche di partenza diamo l’idea (secondo me respingente) che sia un’aggregazione momentanea volta a garantire qualche parlamentare.
- I social: non li lasciamo agli avversari, ma su questo campo sono più bravi di noi. I grillini sono maestri. E allora utilizziamoli per quello che valgono. Diffondiamo il materiale, pubblicizziamo gli appuntamenti, non incartiamoci in assurde discussioni con personaggi assurdi che spesso fanno i provocatori di professione. Un vaffanculo, perdonatemi la volgarità, spesso è dovuto e sufficiente. Curiamo le nostre pagine, non le lasciamo vuote o, peggio, in balia dei troll.
- Il nostro slogan è “per i molti, non per i pochi”. E allora cerchiamo di parlare ai molti, non facciamoci assurde masturbazioni mentali sugli indecisi e quello che serve a convincerli o sugli elettori delusi da Renzi o sui grillini pentiti. Parliamo agli italiani. A tutti. Fra questi ci saranno anche le categorie elencate sopra.
Fin qui la “pars destruens”, sostanzialmente le cose da non fare. Ora veniamo alle cose da fare e da dire. Ci sono due settimane, tiriamo fuori due idee forti. Due cazzotti da dare nello stomaco degli italiani.
Lavoro, facciamo una proposta alla tedesca: riduzione dell’orario a 28 ore a parità di salario. Se funziona nelle fabbriche della Merkel perché da noi non dovrebbe andar bene. Del resto con la robotizzazione ormai dilagante qualcosa ci dovremo pur inventare per garantire una ripresa dell’occupazione
Fisco: diciamo chiaramente quale progressività vogliamo, quali sono le aliquote che proponiamo e quali detrazioni (sarà quello il vero mercato delle vacche se vince il centro destra). Proponiamo una super tassa alla francese per i ricchi. Non ci facciamo spaventare.
Secondo me, seguendo queste poche regole, di buon senso, possiamo uscirne vivi. E magari avere anche qualche sorpresa. Ora vi saluto, vado a preparare il materiale per le prossime uscite. Sarà un fine settimana intenso.
Ryanair, l’ala dura del padrone e il nuovo socialismo
Il pippone del venerdì/37
C’era una volta un paese in cui lavoratori erano protetti dall’articolo 18, i dipendenti licenziati ingiustamente avevano la possibilità di essere reintegrati sul posto di lavoro. Ci volevano anni, ma le sentenze prima o poi venivano emesse. Poi arrivò un tale che si definiva di sinistra, il signor Renzi e disse: roba vecchia. Si cambi, bisogna essere smart.
C’erano una volta i sindacati dei lavoratori. Quelli a cui, con un po’ di burocrazia e tutte le loro lentezze, potevi andare a bussare per tutelare la tua dignità. Poi arrivò il signor Renzi e disse: intralciano lo sviluppo, basta, sono roba vecchia.
C’era una volta Ryanair, una roba dove i piloti volano sostanzialmente a ciclo continuo, che disse ai lavoratori che volevano scioperare: siete vecchi e se lo fate scordatevi premi e aumenti. Renzi e i suoi si infuriarono: non si fa così, i diritti dei lavoratori si rispettano. Vista dall’esterno pare una barzelletta, ma fra un po’ si vota e la sagra delle balle è appena iniziata.
Ora, l’ho raccontata un po’ così, velocemente, tagliando le questione con l’accetta, per arrivare a una conclusione, che fa riflettere sul passato, ma ci dà anche qualche indicazione sul futuro. L’articolo 18 non era inutile ciarpame ideologico come vorrebbero farci credere. Mi direte: sì ma che c’entra con la vicenda di Ryanair? Il danno maggiore che ha creato questo governo (ma secondo me le radici degli errori di questi anni stanno tutti nella nostra sbornia liberista di fine secolo) è l’aver lacerato il Paese, creando le condizioni per cui un’azienda mette addirittura nero su bianco, su carta intestata, il suo esplicito “invito” a non scioperare. Altro che i padroni cattivi che ti facevano sussurrare all’orecchio dal caporeparto che era meglio venire a lavorare, che la tessera del sindacato era meglio non prenderla. Qua abbiamo un’azienda internazionale che te lo scrive proprio. E se ne frega dell’indignazione che ha generato. Come può farlo? Semplice: in questo paese per anni il governo ha lanciato un messaggio chiaro agli imprenditori: venite e fate un po’ come vi pare. E quelli lo hanno preso in parola.
L’articolo 18 è il caso emblematico. Si toglie, si dice che serve massima flessibilità e libertà per gli imprenditori. Si mette all’angolo il sindacato, la Cgil in particolare. E gli imprenditori prendono in parola il governo: assumono con il cosiddetto contratto a tutele crescenti (spesso gli stessi lavoratori che prima avevano forme più tutelate), ci guadagnano con gli sgravi fiscali. E appena finisce il periodo di agevolazioni licenziano e riassumono in forme nuovamente precarie. E vai un po’ a dir loro che non si può fare, che non è elegante. Hai dato loro carta bianca, ci mettono sopra le parole che più gli garbano.
Questo è quello che è successo nel mondo del lavoro negli ultimi 20 anni, di cui il jobs act è una sorta di epitaffio. Un progressivo spostamento degli equilibri: si è tolto potere contrattuale ai deboli per garantire i forti. Facevo riferimento alla nostra sbornia liberista perché da lì parte tutto: dall’illusione che il compito della sinistra fosse diventato semplicemente quello di rendere meno brutto il capitalismo. La globalizzazione andava semplicemente “alleviata”, cercando di correggerne gli effetti più violenti. Che questo non funzionava lo avevano capito bene i movimenti di quegli anni, i cosiddetti “no global”, se andate a rileggere le loro elaborazioni più avanzate, i problemi, l’analisi c’era tutta. E perfino la dimensione del movimento, che univa occidente e terzo mondo, era quella necessaria a comprendere lo scenario nuovo in cui si trovava ad agire il capitalismo e in primo luogo la finanza. L’errore della sinistra fu derubricare quel movimento e quelle elaborazioni a fenomeno pittoresco, spesso anche violento. Andava marginalizzato. Noi a Genova non c’eravamo. E permettemmo che la mano violenta dello Stato spegnesse quel grande movimento mondiale. Genova è stata la fine di quell’esperienza. Quel morto, quella violenza cieca sono serviti a mettere una pietra sopra l’unica strada che la sinistra doveva percorrere.
Da lì la strada è stata in discesa: la crisi stessa dei partiti socialisti nasce dal non aver saputo offrire una sponda politica a quei ragazzi. I movimenti per loro natura sono transitori, è la politica che deve fare proprie le istanze avanzate e dargli stabilità, farle diventare patrimonio duraturo. Manca persino una riflessione approfondita su quegli anni. Non basta dire: abbiamo capito di aver sbagliato a seguire la strada indicata da Tony Blair. Bisogna anche capire, per esempio, che bisogna tornare a ragionare in una dimensione globale. Perché solo così si sfida un capitalismo che ha quella stessa dimensione. Ragionando ancora per pezzettini si rischia di fare la parte di quelli che vogliono acchiappare un elefante con il retino per le farfalle.
Noi siamo in campagna elettorale e a quello dobbiamo pensare. A prendere i voti necessari a dare forza al processo di ricostruzione della sinistra che abbiamo iniziato in questi mesi. E dobbiamo farlo sapendo che lo strumento messo in piedi in fretta e furia non sarà sufficiente. Ma queste sono le condizioni date. Se però quello strumento insufficiente, lo riempiamo di contenuti fin da subito, la sfida possiamo superarla. E dunque dobbiamo guardare a un nuovo internazionalismo, bisogna fare rete con quello che si muove in Europa nel nostro campo, anche andando oltre la casa del socialismo che appare un edificio sul punto di crollare. So che sembrano riflessioni campate per aria e inattuali. Ma io credo che vada la pena, per una volta: cerchiamo di essere un po’ meno provinciali e di affrontare i temi complessi che abbiamo di fronte senza banalizzazioni. I tempi sono brevi, ma i pensieri devono essere lunghi. Non basta dire che la Boschi è bugiarda, la legge Fornero va abolita, va rimesso l’articolo 18: dobbiamo dare una prospettiva.
Ecco, torno da dove sono partito. L’alata in faccia ai lavoratori che Ryanair ha dato nei giorni scorsi è un pezzo di questo processo di arretramento complessivo della sinistra in questi decenni. Siccome noi abbiamo sempre l’ansia degli ultimi arrivati, in Italia abbiamo fatto i compiti meglio e abbiamo cercato di smantellare in tre anni le conquiste dell’ultimo secolo. Dalle pensioni, all’articolo 18, alla scuola pubblica, al servizio sanitario. Ce lo chiede l’Europa, ci hanno detto ogni volta. Volevano soltanto farsi belli agli occhi del capitalismo globale. Che adesso, un pezzo alla volta, ci presenta il conto.
Ora, siete presi dai regali di Natale e capisco che parlare di società socialista può apparire un nostalgico richiamo a un tempo passato. Quindi vi lascio ai cenoni, ai pacchi e ai lustrini, sono stato insolitamente breve e capisco che il tema non si esaurisce di certo così. Ma guardate, sintetizzo ancora, che non c’è altra strada: tornare a parlare della necessità di un superamento del capitalismo, tornare a pensare il mondo nuovo. Liberi e Uguali, ci siamo chiamati. Per me non è un caso: partire da questo simbolo per parlare di un nuovo socialismo.
Liberi e Uguali, c’è qualcosa di nuovo.
Il pippone del venerdì/36
Ora, chi vive sui social probabilmente non se ne sarà accorto, perché la vita virtuale in questa settimana è stata dominata dalle polemiche grammaticali sul nome della nuova lista. Liberi e Uguali sarebbe maschile e quindi non va bene. E chi è sopravvissuto alle suddette polemiche è stato steso dalla nuova, ennesima, lettera di Tomaso Montanari che ha stroncato l’assemblea di domenica scorsa. Lui non c’era, ovviamente, ma ha capito benissimo tutto quello che è successo e ce l’ha spiegato – a noi che invece c’eravamo eccome – con righe di fuoco. Al leader mancato della sinistra perfetta verrebbe da rivolgere un accorato appello: “Caro Tomaso, fatti una vita tua, non parlare sempre di quanto sbagliano gli altri”. In realtà lui ci ha anche provato. Alla fine l’hanno rimasto solo.
Insomma: chi, come ormai tanti di noi, segue il dibattito politico solo ed esclusivamente sui social rischia una depressione che neanche il disastro del duo Pisapia-Fassino riuscirà ad alleviare. A me è capitato di passare un paio di giorni così. Incupito dalle notizie che apprendevo via facebook, mi si erano appannate le belle immagini di domenica. Poi ho fatto mente locale, ho partecipato a qualche riunione vera. Ho parlato con persone in carne e ossa e non con icone virtuali. Aiuta, bisognerebbe tornare a farlo con una certa continuità. Si possono perfino guadagnare voti.
Intanto alcune considerazioni: non ho trovato nessuno in giro che si lamenti dell’acclamazione di Grasso come leader. Che poi, siete davvero intossicati da questi anni passati a contarsi nel Partito democratico: ma se siamo tutti d’accordo, se c’è un candidato solo, condiviso da tutti, ma che cosa dovevano votare mai i delegati? La politica, mi riconoscerete di averlo sostenuto in tempi non sospetti, deve tornare ad essere confronto, anche scontro, ma luogo dove si cercano soluzioni condivise e non si cerca la conta a ogni angolo di strada. Perché già nelle aule istituzionali è un dovere cercare sempre punti di mediazione, ma in un partito diventa essenziale, procedere sempre a maggioranza finisce per far venire meno le ragioni per cui si è scelto di stare insieme. Avremo modo di confrontarci già nelle prossime settimane sui programmi e poi sulle liste: la strada della condivisione mi sembra la migliore.
Detto questo, parlando con le persone reali, non le icone sui social, non ne ho trovato uno che mi abbia posto i problemi di cui cianciano i soloni da tastiera dei salotti bene, da Montanari in giù. E questo mi ha francamente sorpreso. Se usciamo un po’ dalla cerchia di chi ha già la tessera di uno dei partiti che hanno fondato Liberi e Uguali (cerchia molto ristretta) i problemi che ci pongono sono altri. Nessuno ti chiede se Grasso è stato votato o come sono stati scelti i delegati.
Faccio un salto logico, ma solo in apparenza. Uscendo dall’Atlantico Live, reduce da un’assemblea complicata da un’organizzazione frammentaria, ho scritto, sinteticamente: ci siamo sentiti tutti a casa. A me non succedeva da tempo, di partecipare a un evento insieme a persone che hanno una storia differente dalla mia e non sentirla questa differenza. Ricordo il primo luglio le facce sconcertate dopo l’intervento di Pisapia, domenica al contrario ho visto facce sorridenti. Certo poi non c’è il simbolo, poi siamo stati in piedi o seduti sulle scale. Ma chi c’era ha percepito un’aria diversa in quell’assemblea.
Io credo che – è questa la novità – gli interventi, la loro qualità e anche intensità emotiva, ci hanno fatto guardare in faccia senza il pensiero rivolto al passato. Non sono stati i soliti interventi di circostanza, i testimonial scelti per dare una verniciata civica a qualcosa di preconfezionati. Io ho ancora i brividi per il discorso del medico di Lampedusa, ho ancora il senso di speranza che mi ha dato la compagna della Melegatti. Ho ancora in testa le questioni sollevate da Legambiente, le questioni non tanto contabili quanto di senso poste dal presidente di Banca Etica. E quella figura, forse un po’ da nonno saggio che tiene a bada tre ragazzini, di Piero Grasso ci ha dato finalmente alcune sicurezze. L’ombra incombente dei cattivi Bersani e D’Alema, i reduci delle sconfitte che ora mettono la figurina a coprirli. Io non ho visto né percepito questo. Bersani e D’Alema erano li in platea, pronti ad abbracciare Grasso dopo il suo intervento. Ho sentito sentimenti fraterni, non calcoli da bassa politica.
Lo dico sottovoce: c’era un’aria nuova in quel brutto capannone della periferia romana. Non c’erano i lustrini e i palloncini colorati delle convention mediatiche. C’era un popolo ansioso. Ceto politico hanno detto. Io ho qualche dubbio. Cinquemila persone in fila al freddo di una mattinata di dicembre. E poi gli applausi, quasi liberatori. Abbiamo capito tutti insieme una cosa, forse la abbiamo addirittura scoperta tutti insieme domenica. Provo a raccontarvi la mia sensazione. Sono partito dubbioso, quel nome ostico, l’assenza della parola sinistra. Sarà l’ennesimo e inadeguato papa straniero, pensavo. Poi quel discorso, quelle facce. Ho cominciato ad avere la sensazione che il “modello Grasso” non parli a noi, a quelli che con disprezzo i giornali nella migliore delle ipotesi definiscono i fuoriusciti. La costituzione, i valori, la lotta alla mafia, la questione sociale. Un discorso semplice e alto allo stesso tempo. La serenità e la fermezza di un uomo che vive sotto scorta da non so quanti anni ma non molla. Dice con fierezza: Io ci sono. Andiamo avanti tutti uniti.
Guardate che Grasso non parla alla sinistra. Non parla neanche solo a quelli che stanno ancora nel bosco. Grasso parla agli italiani. A quelli che non arrivano a fine mese. A quelli che sono stanchi dei furbi e dei favori. A quelli che rivendicano i propri diritti. Abbiamo una figura che non è solo o tanto un leader, è una specie di garante. E’ un programma vivente, ha detto Vendola con una battuta molto efficace. E’ uno serio, non un venditore di pentole, mi permetto di aggiungere.
Attenzione che c’è qualcosa di nuovo. Non siamo alla riedizione della sinistra minoritaria 2017. C’è curiosità e attesa nei nostri confronti. Ho visto facce diverse, nuove. Ho sentito tante persone che ci dicono: attenti a quello che fate, perché ci interessate. Non ci deludete. Ecco, ora tocca a noi. Usciamo dalle discussione social, troviamo un modo intelligente per selezionare i candidati migliori a ogni livello. A me non importa che siano nuovi o vecchi. Devono essere i migliori che possiamo mettere in campo. E allora magari a Lampedusa potrà essere il medico degli immigrati, nel Salento potrà essere D’Alema. Io non la vedo in contrapposizione. Devono esserci tutte e due le cose: dobbiamo portare in parlamento novità ed esperienza allo stesso tempo. E poi, lo so sono ripetitivo. Apriamo sedi, comitati, facciamoci vedere a ogni angolo di strada, nei mercati, nelle scuole, sui luoghi di lavoro. Dentro i luoghi del conflitto. Radicali, ha detto Grasso. Ha ragione. Non è tempi delle sfumature di grigio. Servono proposte da battaglia.
Attenzione che c’è qualcosa di nuovo. E cresce di giorno in giorno. Altro che ridotta di sinistra. Noi stiamo costruendo il futuro della sinistra in Italia. La ridotta (di centro) rischia di essere il partito di Renzi. Quindi, compagne, compagni eccetera: scarpe comode, poche polemiche, al lavoro e alla lotta. Anche questo l’ho già detto, ma ci stava bene.
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