La sinistra sono io e voi non siete un…
Il pippone del venerdì/79
Girando e curiosando fra le varie fasi costituenti di questi giorni mi sono reso conto di alcuni elementi che potrebbero sembrare particolari irrilevanti, ma con cui, in realtà, secondo me dovremmo fare bene i conti. In primo luogo abbiamo un po’ tutti la tendenza a ritenerci depositari della verità assoluta. Un po’ come quando esisteva il Pci e dicevamo che non poteva esistere nulla a sinistra del Partito. Che non a caso aveva la P maiuscola. Solo che allora, il fatto non è da poco, c’era – appunto – il Pci. Ovvero un partito che aveva quasi due milioni di iscritti e arrivava a dodici milioni di voti. Anche all’epoca, in realtà, l’affermazione era almeno presuntuosa, però aveva un suo fondamento: nel momento in cui c’era una casa comune dei comunisti italiani, da Amendola a Ingrao, era lecito guardare con sospetto a chi si chiamava fuori. Adesso, nel suo complesso, il campo della sinistra italiana non arriva al 10 per cento dei voti. Gli iscritti ai vari micro partiti sono meno, sempre nel complesso, di 100mila. Non a caso, di anno in anno, le costituenti, i cantieri che si aprono, i campi larghi da esplorare, sono sempre di più ma si svolgono in sale sempre più intime. E ultimamente neanche troppo piene.
Il secondo dato è che, anche all’interno della stessa formazione politica siamo come monadi separate, dove non solo tutti parlano male di tutti. Al chiacchiericcio che ha sostituito la sana battaglia politica ormai ci siamo abituati. Il dramma vero è che nessuno ascolta più gli altri, né si sente rappresentato da altri. Assistito a riunioni dove se i presenti sono venti intervengono tutti e venti, con ragionamenti completamente slegati fra loro. Una specie di seduta di autocoscienza continua. Il bisogno di apparire, di affermarsi personalmente, ha ormai sostituito il riconoscimento delle capacità dell’altro. Sarò anche questo un frutto avvelenato della nostra società sempre più individualista?
Il terzo dato è la scomparsa del “popolo”. A parlare, sempre più spesso, sono sedicenti intellettuali, esperti di non si sa bene cosa, portatori di non si capisce bene quale messaggio superiore. E pretendono sempre di insegnarti qualcosa, di spiegare al muratore come si fa un muro, all’idraulico come si monta un rubinetto, allo sfruttato come bisogna lottare per i propri diritti. E’ qualcosa che va oltre la spocchia, è una superiorità aristocratica conclamata. Non ci si interroga, non si ascolta. Si proclama. Noi siamo, noi spieghiamo, noi vogliamo. Ora, in Italia la sinistra funzionava quando era fusione di popolo e intellettuali, quando i lavoratori parlavano del lavoro, gli intellettuali si confrontavano con loro e da lì nasceva la “linea”. Quando abbiamo cominciato a imporre le riforme dall’alto, quando abbiamo perso le nostre radici, non ne abbiamo più azzeccata una. La lezione, almeno questa, dovremmo averla imparata. E invece no. L’operaio, il precario, sono soltanto figurine che si mettono sui palchi perché fa tanto fico. Un po’ come avere l’amico gay qualche anno fa. Ma ci si ferma lì. E così andiamo a salvare naufraghi nel mediterraneo – cosa sacrosanta per carità – ma siamo lontani mille miglia dai tanti naufraghi che abbiamo nelle metropoli cattive che abbiamo costruito. Il popolo non ci vota perché non siamo popolo.
E allora di cosa avremmo bisogno? Io continuo a sostenere che servirebbe un grande sforzo culturale di analisi riprendendo nel cassetto i “vecchi” arnesi marxiani che sarebbero tanto utili nella società di oggi. Non solo dovremmo essere alternativi al neoliberismo che di danni ne ha fatti anche dalle nostre parti, ma tornare ad essere alternativi al modello di sviluppo capitalistico, perché è il capitalismo stesso a generare quel mondo dispari che ci ritroviamo nelle mani.
Non pretendo tanto. Se dici certe cose ti dicono che sei un comunista e se gli rispondi “certo” si sconvolgono. In una situazione come la nostra anche erigere una barricata sufficientemente alta per ripararci dall’onda nera che ci sta travolgendo sarebbe un miracolo. Cosa hanno fatto da altre parti? Perché in altri paesi la sinistra resiste, in alcuni casi torna addirittura a essere egemone? In Italia l’ultima esperienza di sinistra con una certa consistenza è stata Rifondazione Comunista, tutti gli attuali partitini nascono da lì, da un soggetto politico che aveva una discreta consistenza, una buona organizzazione, una attività militante diffusa. Poi più nulla. Altrove, penso alla Francia, alla Spagna, ma anche agli inglesi, la sinistra resiste se: 1) riesce a rinnovarsi radicalmente, 2) trova un leader convincente in grado accompagnare il rinnovamento, 3) trova delle forme organizzative che garantiscano un po’ di continuità. Non fanno, insomma, una fase costituente al giorno.
Noi un leader convincente non ce lo abbiamo. Facciamocene una ragione. E anche l’idea del “papa straniero”, al decimo fallimento consecutivo, dovrebbe essere rapidamente accantonata. Se facciamo l’elenco, da Prodi fino ad arrivare a Grasso, dovremmo capire che forse è proprio sbagliata l’idea in sé, che la sinistra dovrebbe formare la sua classe dirigente nella lotta politica e poi proporla e sperimentarla, non creare leader in laboratorio, incoronarli con un applauso con l’illusione di riuscire poi a controllarli. Poi questi si montano la testa e finisce male. Sempre.
Quanto al rinnovamento, faccio notare che ormai alle riunioni ci si conosce un po’ tutti. Perfino i ragazzi, pochi, che ogni tanto compaiono sembrano meri cloni dei più anziani. Con tutti i loro difetti, con tutte le loro debolezze. E poi c’è questa cosa che a me mi fa impazzire: il rinnovamento va bene, ma mai per se stessi. Sono sempre gli altri, nel segno della rottamazione continua a doversi fare da parte. E così ci ritroviamo ultrasessantenni con un onesto passato nelle retrovie della prima repubblica che ti diventano all’improvviso i paladini acerrimi del rinnovamento. Altrui.
L’altra cosa che trovo insopportabile è la società civile. Serve la società civile, basta con i partiti, le energie presenti nella società da valorizzare. Ma che noia questa stanca ripetizione di ricette fallite. Ora, le energie ci sono davvero, lo vediamo nel movimento delle donne, degli studenti, nelle manifestazioni contro il razzismo. Ma ai movimenti serve una sponda politica, un luogo dove le istanze che rappresentano diventano stabili, diventano patrimonio comune. Altrimenti, è la natura stessa dei movimenti a dircelo, si accendono, divampano e poi si spengono senza lasciare sedimenti significativi.
E allora che fare? Costruire una casa stabile, che non cambiamo ogni tre mesi, che non abbia come orizzonte soltanto le prossime elezioni, ma nella quale trovare riparo. Io resto convinto che almeno questo si possa realizzare in tempi brevi: dare alla sinistra un luogo di confronto di elaborazione, di selezione della classe dirigente. Come? Non dal basso, o almeno non soltanto. I partiti non nascono mai solo dal basso o solo dall’alto. Nascono seguendo esigenze storiche, fondendo militanza e classe dirigente. Sono processi più complessi. Ma per essere credibile e stabile il partito che ho in mente deve valorizzare la partecipazione e il metodo democratico. Non è che abbia la pretesa di essere maggioranza, tra l’altro mi succede di rado, ho però la pretesa di poter discutere le proposte, di poter contribuire a eleggere la classe dirigente. Dove non ci possono essere più “nominati”, quelli che ci sono sempre “di diritto”.
Insomma, continuerò a partecipare, per quanto mi sarà possibile, a tutti gli appuntamenti in cui si parlerà di questi temi. Secondo me ci sono ancora le condizioni per costruire un percorso che non rappresenti un ritorno al passato, che aggreghi e non divida ulteriormente. Un po’ meno spocchia e più umiltà da parte di tutti non guasterebbe. Ma è merce rara.
Un voto senza turarsi il naso. Come sempre.
Il pippone del venerdì/45
Ho sempre trovato di cattivo gusto l’invito ad andare a votare turandosi il naso. La considero una mancanza di rispetto verso la libertà democratica per eccellenza, quella di scegliere i propri rappresentanti nelle istituzioni. Cosa vuol dire turarsi il naso? Che il voto ha un odore nauseabondo? Che la lista sulla quale fare la croce puzza?
Ora, io sono uno che ha il naso molto sensibile ai cattivi odori, per cui mi dà fastidio anche la semplice idea. Detto però dal segretario di un partito a proposito della sua stessa lista, come è avvenuto nei giorni scorsi, sembra addirittura un paradosso. Soprattutto se si pensa che il segretario in questione, Matteo Renzi, quel partito lo ha modellato a sua immagine e somiglianza, con una vera e propria pulizia etnica delle minoranze. E’ come se uno dicesse: mi faccio schifo anche da solo, ma votatemi. L’invito a scegliere il meno peggio fatto addirittura dall’attore protagonista della commedia. Io non ci ho mai creduto, figuriamoci adesso. Certo, a volte il partito che ho votato, il candidato che ho scelto nel caso di elezione diretta del sindaco o del presidente della Regione, non coincideva alla perfezione con le mie idee. Ci mancherebbe altro.
Però, nella mia ormai considerevole esperienza da elettore, ha sempre votato con convinzione, scegliendo un progetto al quale affidare quella che, lo ripeto, è una delle mie facoltà a cui tengo di più. Il voto. Per me la mattina delle elezioni ha sempre un sapore particolare. Mi preparo la tessera elettorale dalla sera prima, sveglia presto. E sono nervoso fino a quando non sono dentro il seggio con la scheda in mano. I comunisti votano la mattina all’alba, si diceva un tempo, perché poi non si sa mai cosa può succedere. E ancora adesso che i comunisti non ci sono più (o almeno non ci sono sulla scheda), basta andare in qualsiasi seggio durante lo spoglio per confermare che i voti della sinistra stanno sempre sotto, sul fondo dell’urna, perché i nostri elettori sono i primi ad arrivare. E questo gesto di andare a votare la mattina presto è un po’ la rappresentazione concreta dell’importanza che noi diamo al voto alle elezioni. Di quanto teniamo all’esercizio di questo diritto democratico.
Ecco perché quella pronunciata da Renzi non è solo una delle tante frasi infelici che ho sentito in questa campagna elettorale, rappresenta una rottura (l’ennesima) con il sentire comune di quello che dovrebbe essere, lo era almeno fino a cinque anni fa, il suo popolo, il popolo del Pd. Mi chiedo se nelle urne, quando i presidenti dei seggi apriranno gli scatoloni, le schede democratiche saranno ancora in fondo oppure questa volta galleggeranno in cima, ultima testimonianza dell’avvenuta mutazione di quel progetto fallito.
Ma bando alle malinconie da fine impero e veniamo a noi. Arrivati ormai a dieci giorni dal voto la nostra campagna elettorale procede. Fra alti e bassi, ignorati dai giornali, con pochissimi mezzi a disposizione. Siamo molto social, stiamo nelle piazze, nelle città. Con pazienza, casa per casa, lentamente e in ritardo, Ma ci siamo. Avverto molto, in questi giorni, quello che ritengo il punto più debole della nostra proposta politica, il non essere un partito. Strutturato, pesante direi, usando un termine a cui si è attribuita una ingiusta valenza negativa. Avverto la difficoltà del fare politica senza sedi, con le case dei compagni adibite a magazzini provvisori di volantini e manifesti. Con gli appuntamenti dati al bar, le bandiere passate di mano in mano. Dalla sezione alla chat di whatsapp, per dirla in poche parole. Non so se il modello organizzativo funziona meglio. Di certo non si riesce a costruire quel senso di comunità che caratterizzava i partiti di un tempo.
Perdonatemi la nostalgia, ma in questi momenti, noi ormai sulla strada della vecchiaia tendiamo a essere nostalgici. E io ricordo gli anni del liceo e dell’università, il mio circolo della Fgci, la sezione di Garbatella, Ia mitica Villetta. I compagni più grandi (non ci saremmo mai permessi di chiamarli anziani) che ci proteggevano come fossimo il loro bene più prezioso. E forse lo eravamo davvero, rappresentavamo il loro futuro. E allora qualsiasi cosa ti servisse c’era il compagno che ti dava una mano. Serviva un dottore, si andava dal compagno medico. Perdita nel tubo? C’era il compagno idraulico. C’era un compagno per tutto. Magari non è che risparmiavi, ma era una garanzia di serietà. E rappresentava quell’essere comunità che è la cosa più grave che abbiamo perso.
Per cui, ridotti un po’ alla stregua di barboni della politica, in strada dalla mattina alla sera senza avere più una “casa” a cui fare riferimento, ripensare a tutto il patrimonio, materiale e di passione, che abbiamo dissipato in questi anni fa davvero rabbia. E questo è solo l’aspetto più evidente delle nostre difficoltà in questa campagna elettorale. Quello più sottile, ma anche più preoccupante, è la mancanza di credibilità politica che deriva dal nostro essere una simpatica accozzaglia, uso il termine in senso scaramantico. I cittadini sono meno disposti a darti fiducia se non sei chiaro sulle prospettive che gli offri. E il nostro essere una coalizione e non un partito non fa chiarezza proprio sulle prospettive. Per di più ci rivolgiamo a un popolo che aveva riposto grandissime speranze nel progetto del Partito democratico e adesso è profondamente scottato dal suo fallimento ormai conclamato. Quando ti bruci prima di rimettere la mano vicino al fuoco ci pensi bene.
Questo è un nostro elemento di debolezza, l’ho sempre detto fin dall’inizio. Per questo fa benissimo Pietro Grasso a ripetere tutti i giorni che Liberi e Uguali non finisce il 5 marzo, che siamo il nucleo di quello che dopo le elezioni diventerà il partito della sinistra. Fa bene perché indichiamo, ammettendo i nostri ritardi accumulati in questi anni, una prospettiva precisa facendo intravedere quell’unità, quella solidità che i nostri elettori ci chiedono. Lasciamo la porta aperta, perché non possiamo arrenderci a perdere sia i compagni che ancora stanno nel Pd, sia quelli con cui il filo di una discussione comune si è momentaneamente interrotto e hanno scelto di dare vita a Potere al popolo. Ma diciamo chiaramente che dal 5 marzo, possibilmente fin dal mattino, lavoreremo per aprire il cantiere del nuovo partito. E poco male allora se prenderemo più o meno voti di quello che ci aspettiamo. Queste elezioni sono soltanto l’inizio della storia.
E bene fa anche il capogruppo Laforgia a andare ancora oltre: indichiamo fin d’ora la data del congresso costituente. Un gesto simbolico, senza dubbio. Ma in campagna elettorale servono anche i gesti simbolici, oltre ai programmi. Non capisco la reazione fredda di alcuni. Sui giornali leggo della “paura di essere fagocitati dagli ex Pd”. Questa rappresentazione degli ex Pd (sempre che si possano definire come una categoria politica) come degli orchi pronti a succhiare le ossa dei bravi compagni della sinistra cosiddetta radicale un po’ mi irrita. Ma poi si va avanti. Io sono uno sicuro del fatto che questa sia la strada giusta. E quindi credo che sia giusto rispettare i tempi di tutti. Senza forzature. Ma sono queste proposte, sono le idee di Grasso e Laforgia che mi fanno andare verso le urne, non solo senza turarmi il naso, ma con fiducia e convinzione. Il 4 marzo, farò tre croci sul simbolo rosso di Liberi e Uguali, una per scheda non vi preoccupate non sono impazzito. E le faccio belle robuste e visibili. Non si sa mai, magari un presidente di seggio miope…
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