L’opposizione che servirebbe all’Italia.
Il pippone del venerdì/139
Anni fa, lo ricordo spesso perché si tratta di una delle poche occasioni in cui mi sono trovato profondamente in disaccordo con D’Alema, attaccai duramente l’idea secondo cui la massima aspirazione della sinistra avrebbe dovuto essere fare dell’Italia un paese normale. Era un’immagine poco “appetitosa” per quella parte politica che, secondo me, doveva e deve ancora puntare a costruire un altro tipo di società, magari anche guardando alle idee socialiste. Eppure quell’obiettivo, me ne sono reso conto negli anni, appare ancora oggi non soltanto lontano, ma addirittura utopico. E’ stata, lo ammetto, una delle mie più grandi cantonate politiche. Continuo a pensare che la sinistra debba avere ideali alti su cui basare la propria iniziativa concreta. Debba mettere insieme “cielo e terra”. Ma la normalità, nel nostro caso, è l’obiettivo concreto più alto a cui si possa tendere.
Ne abbiamo la prova proprio in questi giorni. In tutto il mondo le opposizioni si stringono attorno al governo. Perfino la Le Pen, non proprio una moderata, è scesa dalle barricate e parla di battaglia comune da combattere, senza colori di partito. Succede ovunque, il governo chiama l’opposizione a un rapporto costruttivo, accoglie parte delle proposte che arrivano dalla minoranza, anche con un confronto serrato, e poi si arriva a una linea comune, su cui si lavora compatti.
Da noi succede il contrario. Dall’inizio dell’epidemia Salvini, Meloni e Renzi fanno ogni volta l’esatto contrario di quello che propone l’esecutivo. Partono le prime zone rosse? Bisogna riaprire tutto e subito. Lavorare! Gridava il leader leghista, con l’eco di Zaia e Fontana. Si provano a riaprire subito musei e altre attività? Serve massimo rigore. L’intera Italia diventa zona rossa? Non basta, chiudere tutto ma proprio tutto. Parte la fase più rigida della quarantena? Non va bene, così l’economia muore. Non che Conte non ci provi a venire a patti. Temo che alcuni provvedimenti del Governo nella loro genesi abbiano subìto modifiche profonde nel confronto con le Regioni.
La cosa più grave, infatti, è che non si limitano a enunciazioni teoriche, alla propaganda becera. No, usano le postazioni istituzionali che occupano per remare contro. Il caso della presidente della Calabria è esemplare. La Santelli che fino a ieri l’altro chiedeva l’intervento dell’esercito, adesso, con un atto platealmente illegittimo, concede a bar e ristoranti il servizio al tavolo, che potrebbe sembrare un’inezia, ma è considerato dagli esperti una delle possibili fonti di facile contagio. Non è neanche tanto difficile da capire: se il virus si trasmette con contatti prolungati, una cosa è entrare in un negozio fare rapidamente gli acquisti e uscire, un’altra è starsene seduti un’oretta, sia pur all’aperto. Ovviamente, la presidente, data l’urgenza dettata dalla necessità di mettere in difficoltà il governo, non si preoccupa neanche di stabilire delle regole, protocolli per la pulizia, le distanze da osservare nella disposizione dei tavoli. Nulla di tutto questo. Tanto che è riuscita a far andare su tutte le furie non solo i sindaci di buona parte della Regione, ma anche gli stessi commercianti.
Non la faccio troppo lunga, anche i miei pipponi nei giorni festivi sono in forma ridotta.
Mi limito a far notare che un’opposizione che non si limiti a dire che è tutto sbagliato, che l’unica soluzione è riaprire tutto, che l’antidoto alla burocrazia è l’azzeramento delle regole, che servono subito condoni di tutti i tipi, un’opposizione che si faccia carico del suo ruolo fino in fondo insomma, servirebbe eccome, anche a stimolare il governo.
E invece no, ci si affida a costituzionalisti improvvisati che gridano alla dittatura, si continua la campagna elettorale continua come se non ci fosse alcuna emergenza. C’è chi addirittura si scopre medium e fa parlare i morti.
C’è tutto un lavorio sotterraneo per far cadere il governo e sostituirlo con un esecutivo con tutti dentro, lo chiamano modello Ursula, per non far capire che si tratta della vecchia unità nazionale, magari presieduta da un tecnico presentabile. Con la regia neanche troppo occulta di Confindustria. E poi, questa è la cosa più divertente, si lamentano se la credibilità internazionale dell’Italia continua a essere scarsina.
Non sto qui a elencare meriti ed errori fatti da Conte, proprio perché, secondo me, nelle emergenze bisogna andare al sodo. Non che la democrazia sia sospesa, tutto si può dire meno che in questo Paese manchi la libertà di opinione. Si sono visti perfino parlamentari e dirigenti di partito manifestare in piazza durante la quarantena, che altro si vuole?
Dico però che se la democrazia è pienamente in vigore, sarebbe il caso di sospendere almeno la propaganda. Ma, come dicevo all’inizio, si tratta di un’utopia. La materia prima è quella che è. E continuo a temere che la classe politica rappresenti fedelmente lo stato disastrato del Paese, incattivito, rancoroso, incapace di quello slancio solidale che servirebbe adesso. Non basta cantare l’inno di Mameli da un balcone per essere un popolo.
Il caso delle Rsa, il modello sociale da costruire.
Il pippone del venerdì/138
L’Organizzazione mondiale della sanità ci dice che in Europa la metà dei morti per coronavirus è avvenuta nelle case di cura per anziani. Un dato drammatico che deve porci interrogativi, intanto sul modello socio-assistenziale, ma soprattutto su come provare a cambiare la nostra società, una volta che questo tsunami sarà passato.
Da parte mia mantengo il mio sano pessimismo, già questa prima “riapertura graduale” prevista per il 4 maggio ha prodotto un clima da “liberi tutti” che non fa presagire nulla di buono. Quelli che stavano alla finestra a fotografare runner e proprietari di cani hanno ripreso a circolare liberamente, con la falsa sicurezza generata dalle mascherine e dai guanti. Ho visto con i miei occhi persone tutte bardate che a un certo punto si calano la mascherina per parlare al cellulare o per accendersi una sigaretta. A poco valgono le spiegazioni che ci bombardano ogni giorno: una volta messa la mascherina non va neanche sfiorata e mai toccarsi il viso con i guanti, che da protezioni diventano facilmente uno strumento di contagio. Nulla da fare: l’italiano medio, a quanto si vede in giro, è convinto che la parte da proteggere sia il mento, non la bocca né tanto meno il naso. Insomma, ognuno di noi ha un suo personale concetto di sicurezza ed è convinto che sia il migliore. Se non riparte il campionato di calcio, ma bastano anche gli allenamenti, siamo davvero messi male.
Al di là di queste effimere considerazioni, c’è un dato che dobbiamo provare a interiorizzare: il 4 maggio non avremo sconfitto il virus, avremo – nella migliore delle ipotesi – reso l’epidemia compatibile con il nostro sistema sanitario. I livelli di contagio, insomma, saranno tali da consentire l’individuazione e la cura con risultati meno disastrosi di quelli lombardi, tanto per essere chiari.
Resta intatta l’emergenza e resta intatta la necessità di organizzare la nostra società in maniera, come dice il troppo spesso inascoltato ministro Speranza, da convivere con il virus.
E quindi abbiamo una settimana o poco più per riorganizzare il modello organizzativo di fabbriche e uffici, ma ancor più dei trasporti, se non vogliamo morire imbottigliati in un unico grande ingorgo che non si vedeva dai tempi del celebre film.
E dobbiamo farlo, cosa per noi del tutto inedita, ripensando complessivamente il sistema. Non basta dire che bisogna aprire uffici e negozi in maniera sfalsata se al tempo stesso non aumentiamo la portata dei trasporti pubblici. Né è sufficiente la ricetta della sindaca di Roma (vi regalo una bicicletta) che per fortuna in questo periodo ha parlato poco, anche se nel suo silenzio ha continuato a produrre danni. Vediamo cosa produrranno i famosi esperti.
Apro una parentesi. Siccome siamo un popolo di dissociati, abbiamo prima sparato sul governo perché non aveva un piano, poi quando abbiamo scoperto che fin da gennaio si lavorava a uno studio sui possibili effetti della penetrazione del virus in Italia, abbiamo gridato allo scandalo perché esisteva niente di meno che un “piano segreto” di cui ci hanno tenuto all’oscuro per non generare il panico. Cito testualmente dal Corriere della Sera, il giornale più letto in Italia. Allo stesso modo prima abbiamo invocato una cabina di regia fatta da persone competenti per programmare la riapertura – e in questo caso è Repubblica che ci ha fatto una testa tanta per settimane – e adesso invece si scopre che sarebbero troppi gli esperti al lavoro. Stessa storia per la app, per i vaccini, per tutto. Viene voglia di arrendersi ai cinesi, ma sono troppo tetri e allora propongo di dichiararsi provincia di Cuba.
Chiusa la parentesi, resta tutto intatto il problema che ponevo nell’incipit di questo pippone. In una società in cui la vita media tende, per nostra fortuna, ad allungarsi sempre di più abbiamo costruito un modello di assistenza basato essenzialmente sull’ospedalizzazione, spesso abbiamo fatto la fortuna dei grandi gruppi privati. E i nostri anziani non autosufficienti li abbiamo costretti al deposito nelle cosiddette Residenze sanitarie assistenziali, che poi sono camere ardenti ante mortem. Il coronavirus, scusate il mio realistico cinismo, ha soltanto accelerato il processo: entri in una Rsa, ti danno da mangiare e ti accompagnano solo alla morte.
Ora fanno tutti gli scandalizzati, ma come funzionano quei posti lo sapevano tutti. Non c’era bisogno di ispezioni delle Asl per sapere che l’igiene è assente, l’assistenza è soltanto dichiarata sulla carta. O meglio ce ne sarebbe stato bisogno di quelle ispezioni, ma prima dell’emergenza, non durante. Deposito carissimo, tra l’altro, se è vero che una degenza costa circa 90 euro al giorno, di cui la metà a carico del servizio sanitario e il resto versato dai parenti.
E allora, questo delle Rsa diventa secondo me davvero una specie di simbolo di come va riorganizzato il sistema sanitario che deve essere sempre più territoriale e socioassistenziale. E una parola la vorrei dire anche a tutti quelli che in questi mesi hanno puntato sempre e soltanto sugli ospedali. Riaprite il Forlanini, hanno tuonato all’unisono le destre romane unite in una poi non tanto strana alleanza con quello che resta di Potere al popolo. Facciamo un ospedale alla Fiera, ha deciso il sempre brillo Fontana, finendo per avere bella e pronta una struttura senza più avere pazienti da metterci.
Faccio notare che nel punto massimo della crisi i pazienti in terapia intensiva non hanno mai superato i cinquemila, ovvero il numero di posti disponibili normalmente, che nel frattempo erano diventati novemila. Sarebbe bastato un sistema sanitario su base nazionale e non dato in pasto agli egoismi locali dei cosiddetti governatori per non avere alcuna carenza di posti di letto.
La verità è che, anche nell’emergenza, serviva più assistenza territoriale. Lo ha scritto chiaro il ministero della Salute nelle prime linee guida, chiedendo alle Regioni di creare subito unità speciali per l’assistenza a domicilio. Almeno una per ogni distretto sanitario. Alcune Regioni lo stanno facendo soltanto adesso, in altre si continuano a costruire ospedali destinati a restare vuoti.
E allora, riusciamo a fare tesoro anche di questi errori e ripensare il nostro modello sociale partendo dalle esigenze dei più fragili. Penso agli anziani, all’assistenza, ma anche ai bambini. Possibile che pensiamo a riaprire le fabbriche, uno dei luoghi da dove è partito il contagio, ma delle scuole se ne parla, forse a settembre?
E’ questione di priorità. Di quelle priorità del capitalismo che sarebbe il caso si sovvertire: il profitto viene sempre prima, ma se poi devi stare chiuso in casa perché se esci rischi di crepare a che serve il profitto? A che serve avere la Ferrari, se tuo figlio non può neanche fare una passeggiata liberamente? Ripensare una società per gli anziani e per i bambini, non per i capitani d’industria che tanto quelli i loro capitali li tengono in giro per il mondo e magari chiedono anche i 600 euro del Governo. Perché una società costruita dai capitani di industria fa questa fine qui. In un mondo costruito per gli anziani e i bambini staremmo meglio tutti. Ma magari il problema è proprio questo.
A proposito: buon 25 aprile a tutti, quest’anno più di sempre, domani alle 15 tutti sui balconi a cantare Bella ciao. E chi non lo capisce… lasciamolo in quarantena.
Ripensare il Paese, non solo l’organizzazione.
Il pippone del venerdì/137
Questo periodo di assoluta emergenza ha messo in rilievo due dati: il primo è sicuramente la grande fragilità sociale che anni di politiche neoliberiste hanno generato, il secondo è l’assoluta inadeguatezza del nostro sistema istituzionale e produttivo.
La fragilità sociale è evidente, rivendico di averlo scritto e ripetuto fino alla noia negli anni scorsi. E i consensi alla Lega, che si sono moltiplicati nell’arco di pochi mesi fino a trasformare un movimento tutto sommato marginale nell’attore principale della politica italiana, non sono la causa, sono l’effetto. E’ vero che il periodo di Salvini ministro dell’Interno è stato devastante, ma non ha causato il disagio sociale, lo ha cavalcato e moltiplicato, facendone un metodo scientifico per governare un popolo impaurito. Le radici di tutto questo vanno cercate nelle politiche degli ultimi venti anni che hanno fatto piazza pulita del sistema solidale, il cosiddetto welfare state, ovvero quel complesso di interventi che cercava di rendere meno diseguale l’Italia. Il servizio sanitario universale, in primo luogo, ma anche gli ammortizzatori sociali, la cooperazione, l’associazionismo.
E’ venuto meno, per dirla in termini novecenteschi, quel “fine sociale” dello Stato che aveva rappresentato, dal dopoguerra alla fine del secolo, il vero trait d’union che legava i partiti democratici. Al di là delle differenti posizioni, degli scontri, questo è stato il vero segno distintivo della Repubblica (non dico la prima, perché queste schematizzazioni mi danno l’orticaria). Tant’è che l’ultimo vero piano casa – nel senso di realizzazione di alloggi popolari – porta il nome di un moderato come Fanfani, non di un esponente della sinistra.
Rotto questo vincolo, si è pensato soltanto a come agevolare il mercato. Ad eliminare via via tutte le norme che cercavano di moderare la competizione fra cittadini prima che fra aziende, con il risultato finale di renderla non tanto più libera ma più violenta. Da qui nasce l’odio sociale, la necessità di trovare un nemico, uno che sta peggio di noi, per scaricare la propria frustrazione.
Come si possa uscire da questo crescendo non è un problema di immediata soluzione. Di certo con questa quarantena, confinati ognuno nel proprio egoismo, abbiamo raggiunto un picco finora inesplorato. Si è arrivati ad additare come untori i genitori che fanno fare due passi ai figli intorno a casa. Sui social si trovano discussioni assurde, cariche di una rabbia cieca che aspetta soltanto l’occasione per diventare violenza. Non scoppia soltanto perché siamo confinati dentro casa. Consiglio psicologi obbligatori insieme alle mascherine prima di avviare la famosa fase 2.
Bisogna ricominciare a fare cultura nei quartieri, serve una nuova presenza delle forze democratiche, un lavoro casa per casa. Vanno ripensate le forme di associazionismo e di volontariato. E’ il lavoro di anni, speriamo che almeno si cominci e di fare in tempo.
Il secondo punto da mettere in evidenza, che è un po’ la rappresentazione del primo sul piano istituzionale e produttivo, è che la nostra architettura organizzativa non funziona. Con la riforma della Costituzione che ha, di fatto, creato un sistema istituzionale che ha il suo fulcro nelle Regioni abbiamo posto le basi per un sistema più ingiusto, paradossalmente più lontano dai cittadini. La somma dell’attribuzione di ampi poteri, basta pensare alla Sanità, con un sistema di governo basato sull’elezione diretta del presidente, ha creato dei mostri, fonti di sprechi e non di maggiore efficienza, un moltiplicatore di diseguaglianze. Ogni Regione ha un suo sistema sanitario diverso dall’altro. E i risultati si vedono. Non è un caso, né tanto meno sfortuna, che il disastro nasca in Lombardia dove è stato smantellato il fronte territoriale, i medici di famiglia, per puntare tutto sugli ospedali, per i più privati. Tutti parlano di mancanza di posti di terapia intensiva quando, guardando i dati a livello nazionale, non sono mai stati occupati oltre il 60 per cento del totale. Quello che è mancata è una rete territoriale in grado di diagnosticare per tempo la malattia ed evitare così che sia necessario il ricovero in ospedale.
Oltre a questo va messo in evidenza come l’aver ridotto la presenza dello Stato nell’economia ci porta a essere in balia del mercato e se questo genera squilibri in tempo di pace, in caso di emergenza diventa un disastro. Non si sa chi può produrre cosa. E se l’emergenza è mondiale diventa impossibile perfino garantire l’approvvigionamento di un prodotto elementare come le mascherine o, cosa ancora più grave, i reagenti per avere i risultati degli ormai famosi tamponi, l’unica analisi in grado di rilevare il virus. Avevamo un grandissimo polo chimico di proprietà pubblica, ricordate?
Non si tratta di tornare allo Stato che produce i panettoni, ma di tornare a uno Stato che controlla direttamente i settori strategici dell’economia, strategici per lo sviluppo a cui pensa e per la sua stessa sicurezza.
Avevamo pensato che sicurezza volesse dire produrre cacciabombardieri, abbiamo scoperto che non servono a nulla se non a far vedere i nostri muscoletti in giro, abbiamo scoperto che era più sicuro produrre mascherine perché andarle a comprare in Cina sarà anche global, ma ti fa restare senza quando ne hai bisogno. Perché trovi qualcuno che le può pagare più di te.
Anche qui, come si cambia? Cominciamo con il dire chiaramente che il progetto dell’autonomia differenziata per le Regioni non esiste più. Almeno evitiamo di creare danni ulteriori. Non credo che troveremo un solo cittadino italiano disposto a difendere ancora quel disegno folle. E a chi dovesse protestare basterebbe mostrare una foto di Fontana, il presidente della Lombardia. Tu daresti ancora più poteri a questo qui? Fine della discussione.
O la borsa o la vita: gli auguri di Confindustria.
Il pippone del venerdi/136
Intanto buona pasqua a tutti. Non vi faccio raccomandazioni perché tanto lo sapete: non potete fare grigliate da amici e parenti, non potete fare picnic nei parchi. Non potete e basta. E sarà ancora lunga.
Non parlo neanche dell’accordo raggiunto in Europa, perché di economia capisco poco, è l’unico esame universitario che ho dovuto fare due volte, complice un professore un po’ svitato, ma colpa anche la mia avversità per la materia.
Però una cosa la voglio dire, in questo pippone prefestivo e dunque anche molto breve. Trovo assurdo l’atteggiamento degli industriali che vorrebbero riaprire tutto e subito. E trovo ancora più assurdo che l’appello più pressante venga proprio dalle associazioni padronali delle regioni più colpite. Già in me è molto forte il sospetto che alcuni ritardi nel definire le zone rosse in Lombardia siano dovuti proprio alle loro pressioni, ma che adesso dicano “vabbeh ma le nostre fabbriche sono sicure e quindi si può ripartire, altrimenti fallisce l’intero paese”, mi sembra davvero un’assurdità.
I dati sono semplici da leggere e comprendere: siamo ancora in piena emergenza, il numero dei contagiati continua a crescere senza particolari cali. Al massimo è stabile. Questo vuol dire che la nostra clausura è efficace, ma anche che ci sono ancora tanti malati che non abbiamo ancora individuato. E allora che si fa? Beh, io credo che l’unica cosa da non fare sia proprio tornare a mandarli in giro tranquillamente. Del resto i dispositivi di protezione bastano a malapena per il personale sanitario. Che si fa, si seguono le indicazioni del presidente lombardo e si esce tutti con il foulard? Io tenderei a diffidare, visto che si tratta dello stesso presidente che ha deciso di mettere i malati di covid 19 nelle residenze per anziani, fianco a fianco con la categoria più fragile per eccellenza.
Quello che gli industriali scaricano sul governo è un quesito secco: o la borsa o la vita. E lo fanno con il tipico piglio del padrone ottocentesco. Perdonatemi se ci torno ancora una volta, ma a me sembra una clamorosa dimostrazione di come il capitalismo sia incompatibile con l’esistenza della specie umana su questo pianeta. Se il dilemma è questo, non possiamo che scegliere la vita, a patto di costruire allo stesso tempo un sistema di produzione alternativo a quello esistente.
Qua, diciamoci la verità, la quarantena sarà lunga e non ci sarà un ritorno alla normalità. Perché per avere un vaccino ci vorrà almeno un anno, perché poi dovrà essere prodotto in quantità tale da creare la famosa immunità di gregge.
E allora, se le cose stanno così e se davvero vogliamo provare a uscirne migliori di come ne siamo entrati, cominciamo a pensare che dobbiamo cambiare la nostra organizzazione sociale e questo non basta: dobbiamo pensare a un mondo in cui il profitto di pochi non sia l’unica bussola che orienta le scelte dei governi. Al di là delle teorie su complotti vari e sulle responsabilità degli alieni, una cosa dovrebbe essere ormai chiara a tutti: il nostro modo di stare su questo mondo mette a rischio la nostra esistenza. Questo ci grida il coronavirus. E da questo punto occorre partire. Capisco che fare una rivoluzione in quarantena non sia proprio agevole. Ma dobbiamo trovare il modo per far sentire la nostra voce. E penso al buon vecchio Carletto che da qualche parte se la ride: “Non dite che non ve l’avevo detto che andava a finire così”.
La finisco così con questo pensiero in fondo allegro, alla faccia degli avvoltoi di Confindustria.
Il mondo che viene è peggio di quello che è stato.
Il pippone del venerdì/135
Appunti sparsi in queste settimane di quarantena. Sensazioni e esperienze che si intrecciano nel cervello, il risultato è che uso che questo appuntamento con il pippone per provare a metterci un po’ di ordine.
Intanto, cosa è cambiato davvero nella nostra vita in modalità “chiusi in casa”. Io non credo che sia tanto la mancanza di relazioni sociali, perché già prima, in una città come Roma erano ridotte al minimo. Per uno un po’ sociopatico come me, del resto, questa è decisamente una buona notizia. La scomparsa di alcune convenzioni sociali non può che farmi piacere. Non si stringe più la mano a persone a cui vorresti, invece, dare uno schiaffo, tanto per dirne una. Insomma, abbiamo eliminato dalla nostra vita un po’ della falsità quotidiana a cui eravamo costretti.
No, secondo me, la prima cosa che è cambiata, quella che in realtà tanto ci dà fastidio, è la mancanza di velocità. Eravamo abituati a vivere in un mondo in cui con un click avevi tutto, al massimo aspettavi un giorno per avere la consegna di oggetti di cui non avevamo nessuna urgenza. E anche in questo caso avevamo bisogno di essere rassicurati dal controllo dello stato dell’ordine: è partito, sta arrivando, sta sotto casa, è stato consegnato, fammi sapere se ti è piaciuto. Un ritmo incessante e cadenzato. Adesso al massimo spostiamo i mobili dentro casa.
Ecco, quest’ansia di velocità oggi ci manca. Sopravvive soltanto in chi sta al volante di una smart che si crede ancora di dover per forza stracciare ogni record di velocità, con la sua ridicola scatola di plastica e metallo. Ma quello è un caso clinico a parte. Ora dobbiamo aspettare per fare tutto. Per entrare al supermercato, per comprare qualsiasi oggetto. Dobbiamo aspettare per vedere un parente che si trova a cinquecento metri di distanza, ma fa parte di un’altra cella di reclusione.
Questo è il primo dato: imparare che esiste un tempo dell’attesa e che questo tempo, per di più, non ha una data certa di fine.
La seconda condizione che ci ha imposto il coronavirus è quella dell’incertezza. Gli odiatori di professione stentano perfino a identificare i nuovi obiettivi da colpire. Prima era facile, c’erano gli immigrati, quelli che andavano rispediti a casa loro perché da noi non c’era posto per loro. Adesso che è tutto il mondo a essere isolato, adesso che anche noi abbiamo perso la libertà di circolare senza alcun controllo, forse potremmo imparare a essere meno cattivi.
Invece no. Sarò anche pessimista, ma credo che il mondo che ne uscirà sarà peggiore di quello che abbiamo lasciato. Intanto perché, deve essere chiaro a tutti, non ci sarà un “dopo” immediato, ma ci sarà un tempo indefinito in cui dovremo imparare a convivere con il virus in agguato. La distanza sociale sarà la regola. Per molto tempo ancora. E questo ci imporrà di cambiare radicalmente la nostra stessa organizzazione. Basta pensare alla scuola. Come si fa a stare in una classe distanziati di almeno un metro? Il lavoro non potrà tornare quello di prima, abbiamo scoperto che tutta una serie di attività si possono fare senza spostamenti inutili e senza il bisogno della nostra presenza fisica. Saremo costretti, volenti o nolenti, a continuare a farlo.
Sarà un mondo peggiore, perché ci saranno meno soldi in giro. E perché la concorrenza fra aziende sarà ancora più serrata di quanto accadeva prima. I sognatori positivi credono che si tornerà parzialmente indietro rispetto alla globalizzazione pressoché totale a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni. Che le aziende dovranno necessariamente tornare a pensare più in chiave locale, che torneranno in Italia produzioni a cui avevamo dovuto rinunciare. Secondo me, il mercato lasciato da solo non porterà a questo risultato. Anzi, chi era debole dal punto di vista della concorrenza internazionale lo sarà ancora di più, perché la chiusura forzata di questo periodo lo porterà a perdere quote di mercato che difficilmente recupererà. E saranno tante le attività che se prima riuscivano ancora a garantire qualche stentato profitto, adesso non riapriranno proprio. Cominciamo appena a capire che l’idea di un reddito di cittadinanza non era tanto peregrina.
Sarà un mondo peggiore, perché in queste settimane abbiamo preso coscienza di quanto la stessa presenza umana su questo pianeta sia effimera. Basta ritrarsi un po’ per vedere la natura che si riprende i suoi spazi con una velocità che non potevamo immaginare. Siamo i dominatori della Terra, ma la Terra si è anche un po’ stufata di noi. E quando partiremo alla riconquista saremo ancora più cattivi, più aggressivi. Perché quando invece della pagnotta ti restano le briciole, la lotta per conquistarle diventa crudele. Ce ne fregheremo ancora di più dell’inquinamento, del riscaldamento globale, proprio perché avremo preso coscienza del fatto che potremmo sparire da un momento all’altro. Messi in crisi da una cosa che manco si vede.
Sarà un mondo peggiore perché non riusciamo a capire che la radice di tutti i nostri problemi non è il virus, ma è un sistema di produzione che non funziona, che è inefficiente nel distribuire risorse limitate ed è un pericolo in sé non per i più deboli come abbiamo sempre pensato, ma per la stessa razza umana. Abbiamo preso per matti quelli che ce lo hanno gridato in questi anni, adesso sappiamo che avevano ragione, ma continueremo a fregarcene, nell’illusione che l’uomo debba essere necessariamente lupo.
Ecco, andrebbe ripensato tutto, basta guardare le immagini dei senza tetto che nella opulenta California vengono rinchiusi in un parcheggio. Andrebbe ripensato il ruolo dello Stato, il primato della politica sull’economia, l’organizzazione del sistema sanitario, i rapporti tra nazioni. Invece no, saremo tutti più soli, non perché non ci potremo stringere la mano, ma perché i nuovi nemici da odiare saremo tutti noi.
Concludo con una nota lieta: ho finalmente stabilito il tempo giusto di cottura dei cornetti surgelati: 23 minuti a 180 gradi, forno ventilato, ben caldo. Mai al microonde. Sarà poco, ma ti fa cominciare meglio giornate tutte uguali.
E la sindaca si mise a fomentare l’odio.
Il pippone del venerdì/134
Ora, sono stato a lungo indeciso se fare un lungo pippone sulle contraddizioni della società del profitto che questo virus sta sempre più mettendo a nudo, o, invece, continuare nella disamina iniziata da due settimane sulle nostre reazioni “sociologiche” alla quarantena a cui siamo sottoposti oramai da parecchi giorni e di cui neanche è possibile ipotizzare la fine.
Propendo per la seconda ipotesi, non fosse altro per il fatto che dovrebbe essere ormai del tutto evidente come la società capitalistica, così come è stata costruita negli ultimi decenni, sia incompatibile con la salvaguardia dell’ambiente e con la stessa salute dei cittadini. I governi, la dico brutalmente per non farla lunga, si sono trovati di fronte a un bivio senza terze vie: o pensare alla salute del proprio popolo o cercare di salvare l’economia. Non sempre hanno scelto la prima, salvo drammatici e tardivi dietrofront di cui stanno pagando le conseguenze i loro popoli.
Per quanto riguarda, invece, le nostre reazioni alla quarantena, mi pare che mettano in evidenza ancor di più tutti i nostri difetti e le nostre virtù. Mi sono emozionato fino ad avere le lacrime agli occhi, lo confesso, ascoltando un medico cubano, catapultato dai Caraibi alla gelida Crema, non solo ringraziare gli italiani per l’ospitalità, ma anche rispondere con la massima naturalezza all’intervistatore che gli chiedeva fino a quando si sarebbero fermati, che loro “sarebbero rimasti lì fino a quando il popolo lo avrebbe ritenuto utile”. “Le nostre famiglie – ha spiegato – lo sanno bene, siamo stati in Africa a combattere l’ebola, ora siamo qui”. Parola chiave di tutto il ragionamento; solidarietà. Il loro motto è “non offriamo ciò che ci avanza: condividiamo quello che abbiamo”. E attualmente medici cubani sono presenti in 70 paesi diversi.
Non so se sia l’educazione socialista in salsa cubana, del resto va ricordato che fu un tal Ernesto Guevara a teorizzare il sistema della “medicina sociale”, o proprio una caratteristica di quel popolo, che fa della socialità, del calore umano uno dei suoi tratti distintivi. Non ho visto medici con la bandiera blu dell’Europa, mi sarebbe piaciuto.
Mi sono commosso anche, quando vogliamo anche noi italiani non siamo da meno, nel vedere l’altissimo numero di risposte che ha avuto il bando della protezione civile con il quale si cercavano 300 medici da inviare nelle zone più colpite dal virus. Hanno risposto “presente” in ottomila. Una straordinaria gara di solidarietà.
Mi commuove un po’ meno la “call” lanciata dalla sindaca di Roma, la famigerata Raggi, che chiama i cittadini romani a segnalare eventuali assembramenti (ovvero un minimo di tre persone radunate senza apparente motivo) utilizzando il sito del Comune. Non si rende conto del clima da tutti contro tutti che c’è nella nostra città. Del resto alla sindaca rispondono i vigili che pattugliano le strade ormai con una certa continuità (certo ci sono voluti una decina di giorni dall’inizio della quarantena), ma lo fanno a volte inventandosi di sana pianta norme che non esistono, spesso con arroganza immotivata.
Chiunque di noi, attraverso i social, ha ormai un patrimonio di testimonianze di tutto rispetto. A me, personalmente, hanno segnalato casi di lavoratori ospedalieri che, dopo una notte di lavoro, sono stati fermati da una pattuglia e costretti a tornare in ospedale scortati dagli agenti per dimostrare che non stavano in giro per divertirsi. Per non parlare delle persone prese a parolacce dalle finestre perché stavano in strada. Una di loro, lo racconta lui stesso, stava andando a donare il sangue. Ma poco importa, prima ti tiro il sasso, fra un po’ neanche troppo metaforico, poi verificherò se magari avevi ragione tu.
E’ cronaca l’ondata di odio vero e proprio prima contro gli sportivi, ora contro i proprietari di cani. E’ lo stesso meccanismo che ci portava fino a poche settimane fa a insultare gli immigrati, che poi ci ha fatto concentrare sui cinesi. Abbiamo bisogno di individuare un nemico. Adesso dobbiamo pur sfogare su qualcuno le nostre paure e le nostre frustazioni.
Insomma, stiamo tutti un po’ svalvolando. Lo conferma il tasso di false notizie che, con la complicità perfino di parlamentari e giornalisti, continua a moltiplicarsi con una curva che si impenna più di quella del virus. Per non parlare delle assurde discussioni sulla qualunque. A partire addirittura dai famosi moduli che si usano per certificare le proprie uscite, sui quali ci sono da settimane polemiche surreali sulle frasi usate dal ministero e sul fatto che cambiano ogni volta che variano le restrizioni decise. Ci sono appassionati del genere che passano le loro giornate a discutere sulle virgole e sui punti. Per non parlare degli audio che girano incontrollati nelle chat. C’è una diffidenza crescente per tutto quello che è ufficiale, magari anche generata da una comunicazione non sempre all’altezza della situazione.
E in questa fase la sindaca della Capitale, per tornare al ragionamento iniziale, che fa? Io mi sarei aspettato che organizzasse un servizio di consegna a domicilio della spesa per gli anziani, per chi ha problemi. Mi sarei aspettato che potenziasse i servizi sociali. No, tutte queste cose le sta organizzando la Regione, che non ne avrebbe le competenze, ma si sporca le mani. La sindaca, invece, pensa bene di fomentare l’odio sociale che cresce nelle case in cui siamo sbarrati. E così siamo al controllo partecipato delle strade. Sarebbe bene impiegare le forze dell’ordine e i mezzi che il Campidoglio ha a disposizione per proteggere i luoghi più a rischio, a cominciare dalle case di riposo, ma anche dai campi nomadi, lasciati senza la minima assistenza sperando che tutto vada bene. Potrebbe, la sindaca, pensare ai tanti senza tetto, che rischiano di essere, inconsapevolmente un vettore incontrollabile dell’epidemia. Ci sono centinaia di alberghi vuoti a Roma, non è che si possono requisire?
No, la sindaca è impegnata a controllare i parchi, deserti. Buon lavoro, ai romani non resta che incrociare le dita. Gli sceriffi fai da te ci osservano dall’alto.
Tranquilli: la pizza margherita non è contagiosa.
Il pippone del venerdì/133
Quei pochi che mi seguono sanno che, in questi giorni di semireclusione, ho scelto di usare i miei account social per cercare di contrastare la diffusione di bufale e provare, al contrario, a dare notizie utili e verificate, quelle che arrivano dalle fonti ufficiali. Unica eccezione è il pippone del venerdì, altrimenti si rischia la sommossa. Tornando a parlare seriamente. Dopo una giornata passata praticamente senza interruzioni davanti al cellulare, posso capire quanto sia complicato lavorare a un call center. Per di più a uno dedicato al tema del coronavirus.
Nel mio piccolo ho potuto verificare quanto siano diffuse e quanto siano pericolose le bufale. Servirebbe un inasprimento delle pene e una task force della polizia postale in azione h 24 per individuare e perseguire chi le confeziona. Basta poco e si creano allarmi pericolosi per l’incolumità di tutti.
Piccola collezione di cose che ho trovato in rete e ho provato a contrastare, con alterne fortune. Dico con alterne fortune perché, forse anche più del solito, la facilità con cui si diffonde una falsa notizia è disarmante. Il meccanismo sempre lo stesso, come già ampiamente scritto nei mesi passati, di chi credeva alla magia nel medioevo: se uno ha una determinata convinzione è portato a credere a tutto ciò che la rafforza. In giornate in cui siamo tutti preoccupati e ansiosi questo meccanismo si moltiplica e spezzarlo è un’impresa complicata.
Parto dalla più grave, secondo me. Gira da una decina di giorni questo fantomatico messaggio che prefigura uno scenario apocalittico: in caso di dichiarazione di pandemia, si legge, l’organizzazione mondiale della sanità fermerà il mondo per 21 giorni. E via con particolari assurdi, si parla dell’applicazione di un fantomatico protocollo Bsl-4, si prosegue con l’istituzione di punti di approvvigionamento che saranno gestiti dall’esercito e via dicendo.
Ora se voi digitate su google “protocollo Bsl-4” vi appaiono nel giro di pochi secondi almeno dieci siti specializzati nella verifica delle notizie che vi spiegano come e perché si tratta di una bufala. In realtà basterebbe anche fare mente locale e pensare che l’Oms già da qualche giorno ha dichiarato che ci troviamo in una situazione di pandemia e che non è successo nulla di tutto questo. Niente da fare. La bufala è entrata nella profondità dei social e la diffondono anche persone con una certa cultura, sopra la media direi. Ogni post su questo tema ha decina di condivisioni. Perché, evidentemente, sono tutti convinti che servirebbero misure più radicali di quelle prese dal governo e inconsciamente sperano che si arrivi all’esercito che distribuisce il cibo.
Sempre per parlare di bufale, ieri il capo della protezione civile, nella conferenza stampa quotidiana, ha dovuto smentirne un’altra, forse meno “drammatizzante”, ma anche questa potenzialmente pericolosa: i cani non trasmettono il virus, come, aggiungo io basandomi sulla mia esperienza di questi giorni, non lo trasmettono le strade, né la pizza. Inciso: non fatemi trovare un cane abbandonato per questa assurda panzana perché divento violento.
Ma parliamo della pizza. Ora vi spiego. Una delle richieste che mi sono arrivate ieri suonava più meno così: il governo ha vietato la pizza margherita, è vero che ci si può contagiare mangiandola? Istintivamente ho risposto che il governo non aveva vietato la pizza margherita e che un cibo cotto in forni ad altissima temperatura al massimo ti può scottare le dita. Poi (santo google e usatelo ogni tanto) ho cercato e ho trovato la verità. Perché c’è un fondo di verità: la Raggi (santa donna ma non c’hai proprio un cavolo da fare?) ha vietato ai forni di produrre pizza differente dalle classiche romane: la bianca e la rossa. Per quale motivo non si capisce bene. Da noi prendono una decisione e non te la spiegano, così poi ciascuno si fa film assurdi come la signora che domandava lumi. Pare però che la ragione sia quella di limitare le necessità di approvvigionamento di materiali freschi, il cui arrivo è necessariamente giornaliero e quindi aumenta la circolazione in strada e i contatti fra le persone. Le pizzerie che fanno consegne a domicilio, invece possono fare tutti i tipi che vogliono.
Per cui: tranquilli, la margherita non è contagiosa. Speriamo non lo sia neanche la Raggi. Perché il coronavirus finirà presto, la sindaca ce la dobbiamo tenere per almeno un annetto ancora.
Potrei continuare per pagine e pagine, perché in una sola giornata mi sono arrivate una ventina di richieste, compreso l’orario di apertura del punto di raccolta sangue in una parrocchia.
Ultimo aspetto che volevo mettere in evidenza: quello che sta succedendo in tutto il mondo, con accaparramenti furibondi, lotte per conquistare l’ultimo rotolo di carta igienica, fuga dalle città più a rischio e via dicendo, ci dice che non siamo proprio così caciaroni e indisciplinati come ci dipingono. Siamo forse meno “popolo” di altri. Nel senso che ci mettiamo a cantare l’inno e ci indigniamo delle frontiere chiuse ma poi ci dividiamo anche in queste occasioni. Francamente il comportamento di alcuni governatori e della Lega in Parlamento, questo davvero, fa rimpiangere l’esercito cinese.
Non riusciamo proprio, malgrado le ridondanti e retoriche dichiarazioni di patriottismo, il “siamo italiani” gridato a tutto il mondo con orgoglio, a essere uniti, a essere compatti. A me, che non canto l’inno e continuo a sentirmi cittadino del mondo, tutto questo fa un po’ tristezza. Come un simpatico romano che ha scritto su Facebook che la colpa è dei rom (prima erano i cinesi, poi i milanesi, ora diamo addosso ai rom che tanto non li difende nessuno come al solito).
Come quel cittadino della Magliana (Roma) che dopo l’inno d’Italia, durante la balconata delle 18, ha pensato bene di far sentire a tutti un discorso del suo duce. Negli stessi giorni, un gruppo di tedeschi, in segno di amicizia verso l’Italia, ha cantato “Bella ciao”, ognuno sul suo balcone, che poi, insieme all’inno di Mameli, ci starebbe anche bene, perché parla della lotta contro gli invasori. E il virus, un po’ come i fascisti di allora, è un invasore.
O meglio: i fascisti di un tempo, un po’ come il Covid 19, sono un virus, che non siamo ancora riusciti a debellare. E, allora, l’inno affacciato al balcone proprio no. Mi ascolto Bella ciao e la canto con gli amici tedeschi, spagnoli, cinesi. Perché la nostra patria è il mondo intero.
Coronavirus, dacci oggi la nostra bufala quotidiana.
Il pippone del venerdì/132
State tranquilli, non farò appelli, non darò consigli medici, non vi dico come si fanno mascherine ultrasicure. Non sono un medico, tanto meno un virologo, non sono neanche un tecnico, quindi mi astengo. Non va di moda, ma sono fatto così, cerco di parlare di cose che conosco.
Alcune considerazioni, però, mi viene da farle, in queste giornate in cui ci si litiga perfino il cane per trovare una scusa per uscire di casa qualche minuto (si può fare, è previsto, non spargiamo bufale). Intanto il virus ha messo in evidenza quanto sia fragile il nostro modo di vivere, la nostra società. Qualche lontana reminiscenza dei miei studi di sociologia mi ha fatto venire in mente che si potrebbe rappresentare su un grafico la curva fra il livello di sicurezza di una società e il suo grado di apertura all’esterno.
E’ chiaro che un villaggio su un’isola sperduta non sarà mai soggetto a epidemie causate da agenti patogeni non presenti sull’isola stessa (ma attenti agli uccelli), mentre al contrario una metropoli contemporanea dove circolano milioni di persone che hanno contatti sociali, viaggiano, si spostano di frequente, sarà più soggetta a contagi. Di tutti i tipi.
E non credo sia mera casualità se il corona virus ha colpito più pesantemente l’Italia del Nord rispetto al resto del Paese. Quella centralità, soprattutto economica, vantata da chi negli anni ha perfino chiesto la secessione, espone quella parte del Paese più che altre zone. Fra le regioni meno colpite c’è la Basilicata, tanto per dire.
Ma la fragilità della nostra società ha anche altri aspetti, meno evidenti. Intanto questa emergenza ci segnala quanto siano a rischio le nostre libertà, perfino quella di camminare in un parco (anche questo si può fare). Basta un esserino che manco si vede per mettere a rischio conquiste sociali per le quali ci sono voluti decenni di lotte.
La seconda fragilità è il livello di nervosismo che ha raggiunto la nostra società. Il coronavirus ha fatto da amplificatore a tutte le nostre paure, i nostri tic, le nostre paranoie. Avevo già accennato qualcosa nello scorso pippone, ma queste ultime due settimane ne sono state la riprova certificata.
Avete notato quanto sia aumentata la quantità di bufale che girano? E quanto sia aumentata la credulità della gente? Ne ho lette di tutti i colori e ne ho viste di tutti i colori (pur girando lo stretto indispensabile, ma la cucciola dovrà pure uscire per sgranchirsi le zampe). Mi è capitato perfino di scrivere un post su Facebook indicando alcune bufale clamorose e ho trovato commenti seri in cui si argomentava pro e contro una determinata tesi. Neanche aver scritto esplicitamente che si trattava di bufale ha rassicurato i miei interlocutori.
Si passa da chi lancia petizioni online contro il Governo dittatoriale a chi invita alla delazione per chi infrange le regole senza soluzioni di continuità.
Ho visto gente che gira con le mascherine anche in macchina, ho letto che sono vietati gli ascensori, che si può andare in auto ma soltanto da soli, anzi due al massimo, ma uno deve stare per forza dietro, chi la smart, però, può chiedere l’esenzione. Ho visto gente che si mette al balcone per controllare che nessuno esca e fornisce anche presunti numeri verdi a cui segnalare chi sta in strada. Che poi se mettessimo la metà dell’attenzione a vigilare su chi butta l’immondizia fuori dai cassonetti avremmo risolto il problema dei rifiuti a Roma.
La sospensione del campionato di calcio è stata un po’ la goccia che ha fatto traboccare il vaso: siamo passati da innocue discussioni sulla concessione di un calcio di rigore, alle soluzioni per combattere un virus. Ieri eravamo tutti allenatori, oggi siamo tutti virologi. Non vi sfuggirà l’evidente pericolo insito in questa trasformazione.
E’ evidente, insomma, che, non avendo la maggior parte di noi granché da fare, la comunicazione social subisca un’impennata e con questa il livello di bufale. Sconforta però che anche in una situazione così grave ci sia chi si diverte a diffondere balle. E sconforta ancora di più che trovino un ampio pubblico disposto a credere a qualsiasi cosa. Anche quando basta fare un click andare sulla home page del Governo e si trovano tutte le risposte alle domande più comuni.
I mezzi di comunicazione tradizionali non stanno messi meglio. Ieri ho sentito il giornalista del Tg3 regionale del Lazio affermare che “correre nei parchi non è espressamente vietato ma è caldamente sconsigliato”. Ora, fermo restando che il consiglio generale è nel titolo della campagna di comunicazione, si chiama “io resto a casa”, più chiaro di così si muore, ma, detto questo, c’è un comma specifico del decreto del presidente del Consiglio in cui sta scritto che è consentito svolgere attività motoria e sportiva in aree aperte, rispettando la distanza di sicurezza.
Se i giornalisti, giustamente, rivendicano – da sempre e a maggior ragione in questa fase di emergenza – il ruolo essenziale dell’informazione, farebbero bene a mettere più attenzione a quello che comunicano. Come la storia dell’anticipazione della bozza del decreto, che tanti danni ha fatto, provocando affollamenti nelle stazioni, fughe di massa dalle zone “rosse”. La risposta che tanti colleghi danno sta in un presunto obbligo deontologico nel dare una notizia. Su questo ci sarebbe da discutere, ma il punto è un altro: anticipare un decreto che sarebbe stato reso pubblico poche ore dopo vuol dire veramente dare una notizia? Quale sarebbe la finalità sociale, il valore informativo di questa notizia? Nessuno. Semplicemente si è fatto per guadagnare qualche click, diciamolo con chiarezza. Senza preoccuparsi di cosa quella pubblicazione poteva provocare.
Quando lavoravo in redazione, mi ricordo lunghe discussioni per decidere se pubblicare un nome, una foto. Era sempre una notizia, ma si decideva di volta in volta. Enzo Carra con gli schiavettoni ai polsi (4 marzo del 1993). Quella foto era sicuramente una notizia. Anzi, più di mille parole dava il senso di come un intero sistema di potere stesse crollando. Decidemmo di dare la notizia, ovviamente, ma di non pubblicare quella foto, perché non rispettava la dignità di una persona. Peraltro non condannato, ma soltanto arrestato. E io credo fosse giusta quella scelta, seguita purtroppo da pochi. Così come era giusto mettere sul piatto della bilancia i pro e i contro e rimandare la pubblicazione del decreto (per altro diverso in alcuni punti significativi rispetto alla bozza anticipata) al momento della firma da parte del presidente Conte.
Ma viviamo nella società della velocità e così come non c’è spazio per verificare la veridicità di una informazione che abbiamo avuto, così non c’è tempo per riflessioni di carattere etico.
La conclusione è sconfortante. Batteremo questo virus e anche quelli che verranno, ma saremo sempre più esposti, senza difese. Avendo tempo a disposizione proviamo invece a riflettere su queste nostre fragilità. Chiediamoci ad esempio: ma se basta un virus per mettere in ginocchio un paese cosa potrà succedere quando, non fra mille anni ma nei prossimi decenni, i mutamenti climatici cambieranno il nostro habitat in maniera molto più radicale e definitiva?
Nel frattempo state a casa, misuratevi la febbre e state tranquilli. Il virus alla fine lo batteremo, ma temo che contro gli idioti non ci sia partita.
Il coronavirus ci ha portato oltre la crisi di nervi.
il #pippone del venerdì/131
Ho scelto di aprire questo pippone con l’immagine dei deputati alla Camera (non so chi siano) con le mascherine perché mi sembrano emblematiche di un paese che ormai è andato oltre la crisi di nervi. È il risultato non tanto del coronavirus in sé, ma allo stesso tempo dei guasti provocati da questi anni di diffusione di odio e pregiudizi a pieni mani e di una gestione della crisi che, a essere buoni, lascia perplessi.
Permettetemi, intanto, una nota sarcastica: l’immagine degli italiani respinti alle frontiere fa sorridere. Quella dei vacanzieri rispediti indietro dalle Mauritius anche di più. Fino a poche settimane fa eravamo pronti a bloccare per mesi in mare qualche centinaio di disperati perché “portavano malattie”, ora gli stessi soloni di prima si indignano perché qualche decina di nostri connazionali sono stati fatti risalire in fretta e furia sull’aereo e sono stati rimandati a casa. Perché, appunto “portano malattie”. Ci hanno trattato come pacchi postali, tuonano oggi gli stessi che fino a ieri sostenevano che i porti andavano chiusi.
E’ una specie di legge del contrappasso che dovrebbe farci capire come, soprattutto nell’era della globalizzazione, la solidarietà dovrebbe essere un obbligo. E come chiudere le frontiere sia un’illusione che può andar bene per prendere qualche voto in più, ma alla fine sempre un’illusione resta. Viviamo in un mondo interconnesso, dove se starnutisci in Cina ti prendi il coronavirus a Codogno. Facciamocene una ragione e cerchiamo di essere meno provinciali. Valga come monito per il futuro.
Il coronavirus sfata anche una leggenda: quella dell’Italia che nelle emergenze dà il meglio di sé. In questo caso è avvenuto l’esatto contrario: la drammatizzazione iniziale dell’epidemia ha prodotto un’ondata di panico insensato e dannoso, amplificato ad arte da quei giornali che prima hanno fatto il conteggio in diretta del numero dei contagiati e poi si sono affrettati a dire che in fondo è poco più di un’influenza.
Al corto circuito mediatico ha dato fiato una reazione scomposta da parte di una classe dirigente che si è dimostrata nel suo complesso inadeguata. Chi chiude i musei, chi si rintana in casa, chi chiude le scuole senza avere neanche un caso di contagio, bloccate anche le gite scolastiche all’estero non si capisce bene per quale motivo. La famosa Italia dei mille comuni ha dimostrato la sua fragilità. Si sa, che i sistemi democratici affrontano le crisi con grandi difficoltà rispetto alle dittature. Si studia sui libri di scienza della politica. Ma nelle crisi le grandi democrazie si compattano, lasciano da parte le polemiche e si mettono a lavorare senza guardare alle distinzioni politiche. Da noi ci si divide ancora di più, mostrando tutti i guasti prodotti dal regionalismo di fine secolo. Venti sistemi sanitari non funzionano in tempo di pace, figuriamoci nelle emergenze.
Noi no, insomma. Non si è mai visto un presidente del Consiglio che va a accusare gli operatori sanitari, quelli esposti in prima linea, durante un’emergenza sanitaria. Non si è mai visto un presidente di Regione che prima accetta le misure disposte dal governo e poi fa di testa sua. In piena crisi non abbiamo trovato di meglio che combattere a colpi di ricorsi al Tar.
In tutto questo poco ha potuto un ottimo ministro della Salute come Roberto Speranza, che fin dalla sua presenza fisica si dimostra uno dei pochi ad avere la testa sulle spalle. Ha il fisico del bravo ragazzo, un’aria rassicurante e pacata: due ottimi in gradienti per evitare che si scateni il panico. Ci ha provato, lavorando giorno e notte, ma alla fine, si sa, in questo Paese emerge chi fa la voce grossa, non chi lavora e parla pacatamente.
Ci mancavano gli avvoltoi che si sono avventati sul governo pronti a spartirsene le spoglie. Salvini che si dice pronto a un esecutivo di emergenza nazionale. Renzi che gli dà di spalla, salvo poi andare in tv con la faccia seria (che poi proprio non gli riesce) a dire che adesso si lavora uniti, del futuro della maggioranza si parlerà poi. Poche ore prima si messaggiava con il presidente della Regione Lombardia per esprimergli la sua solidarietà contro Conte.
Nel mezzo del dramma, creato in primo luogo da tutta questa confusione, è arrivato il dietrofront, dicevamo. Qualcuno deve essersi reso conto che un’altra settimana a conteggiare i contagiati e della nostra economia sarebbero rimaste poche briciole. Turismo a Roma a quota meno 90 per cento, solo per dare un dato. I mercati si sono incazzati e allora tutti in televisione a minimizzare, a dire che in fondo si guarisce, muoiono soltanto anziani e persone con altre patologie. Basta lavarsi le mani con il sapone e stare sereni.
Mi è sembrato un po’ come voler rimettere il dentifricio nel tubetto spremuto a fondo. Perché fino a poche ore prima impazzavano i Burioni di turno a dire: tappatevi in casa, disinfettate tutto. E fino a poche ore prima giravano immagini come questa dei due deputati alla Camera con la mascherina.
Contenti di tutto questo solo i produttori di Amuchina e roba del genere. E ora che si fa? Attendiamo l’estate, magari passa da solo. Tanto il campionato di calcio va avanti, prima o poi la gente penserà ad altro. Resto con un forte senso di nausea. Ma non temete, credo sia soltanto una reazione psicosomatica.
Renzi, il nostro mal di testa quotidiano.
Il pippone del venerdì/130
Ho resistito a lungo alla tentazione di parlare dell’attualità politica (se di politica si può parlare), ma alla fine cedo. Anche per rivendicare, ormai alcuni mesi fa, di aver definito l’ex segreterio del Pd un “Bertinotti moderato”. Affermazione che mi ha provocato una marea di critiche dalla presunta sinistra, ma che vedo essere entrata oggi nel lessico quotidiano di molti autorevoli commentatori. Come dire, ogni tanto ci azzecco anche io, fosse pure per sbaglio.
Quello che sta succedendo, torniamo alle cose di oggi, è divertente quanto una sfilza ininterrotta di calci nelle parti basse. E il solo leggere la rassegna stampa ogni mattina – cosa che, purtroppo, mi tocca per doveri d’ufficio – mi provoca un forte giramento delle stesse parti, con conseguente mal di testa che si palesa arrivati a pagina 5 dei principali quotidiani nazionali. Esaurite, cioè, le sfilze infinite di articolesse su retroscena, presunti responsabili che in cambio del mantenimento della poltrona sono disposti a tutto, battute e controbattute.
Ora, tutta questa roba ha l’unico scopo di riempire qualche pagina, tanto, si sa, i quotidiani dopo poche ore sono buoni soltanto a incartare le uova. Se sono online manco per questo nobile utilizzo. Di quello che succede davvero nel Paese, va ribadito, frega poco a quasi tutti. Renzi, in particolare, ha un’unica strategia: Renzi. Cito Bersani, lo confesso, uno che pur con tutte le sue contraddizioni ha una capacità di analisi non comune.
La battuta, di quelle fulminanti, racchiude in sé tutta l’essenza del rignanese, la sua forza e la sua debolezza allo stesso tempo. La sua forza perché all’italiano medio, si sa, il bullo piace. La sua debolezza perché è talmente preso da sé che alla fine si schianta sempre contro un muro che non riesce a vedere.
Entrando nel merito – si fa per dire – Renzi fa due proposte “bomba”, così le hanno definite i giornali: eliminare il reddito di cittadinanza e introdurre il cosiddetto “Sindaco d’Italia”. In pratica propone di sfasciare il governo e di avviare un percorso di revisione costituzionale che a occhio durerebbe un paio di anni. Che le due cose siano in palese contraddizione non gli interessa, vuole soltanto sparigliare le carte. Poco importa che le proposte siano, nel merito, due colossali idiozie.
Intanto, in una situazione di profonda crisi economica – e il coronavirus di certo non aiuterà – tira fuori la brillante idea di togliere qualche miliardo ai disoccupati per darlo ai padroni (si chiamano così, a me tutto sto politically correct dà il voltastomaco). Così si darebbe una forte iniezione di soldi freschi all’economia, sostiene il genio della finanza. Peccato che mancherebbe il mercato a cui rivolgersi, ma mica può risolvere tutto il rignanese, che diamine. Renzi si preoccupa soltanto di infilare un dito nell’occhio, diciamo così, ai grillini che su quel provvedimento hanno battuto da sempre. E che, del resto, segue la strada tracciata dal “Rei”, introdotto proprio dal governo Renzi. Insomma, una cosa di sinistra aveva fatto, ora la vorrebbe togliere soltanto per creare scompiglio. Servirebbe uno dei fratelli Guzzanti in gran forma, ne sentiamo davvero la mancanza.
La seconda ideona, che non c’entra nulla con la prima, è, tradotta in termini comune, l’elezione diretta del premier, al quale si affiderebbe non più un ruolo di primus inter pares all’interno del Consiglio dei ministri, ma diventerebbe un vero e proprio potere a parte. A quali conseguenze porti tutto questo, al lungo lavoro di architettura istituzionale che servirebbe, Renzi non pensa. Lui le riforme le fa in tv. Anche perché anche in questo caso, mica fa sul serio: vuole solo bloccare l’intesa, che i suoi avevano sottoscritto, sulla legge elettorale proporzionale. Perché quello sbarramento al 5 per cento lo taglia automaticamente fuori dal Parlamento. E voi ve lo immaginate un Parlamento senza Renzi? Io francamente sì, lui un po’ meno. L’idea lo terrorizza.
Come andrà a finire? Secondo me male. Perché in tutto ciò il governo resta paralizzato, bloccato da schermaglie parlamentari incomprensibili a tutti, perché il motivo è sempre lo stesso. Logorare l’esecutivo guidato da Conte. Che poi l’abbia fortemente voluto lo stesso Renzi è un particolare irrilevante.
Ma qual è, e mi avvio alla conclusione, non temete, la colpa del povero Conte? E’ semplice: potrebbe occupare lo stesso spazio a cui ambisce l’ex segretario del Pd. Quel centro politico a cui tutti ambiscono, salvo poi ritrovarsi sempre con un pugno di mosche in mano. Terre affollate di gente in cerca di poltrone, meno di elettori, che tendono a polarizzarsi sugli schieramenti maggiori. A Renzi non importa, gli basta di essere al centro dell’attenzione. Alla faccia degli italiani che non arrivano al 15 del mese.
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