Il pippone del venerdì/3
Una nuova questione morale
La dico subito tutta, senza perifrasi: io credo che le nomine nelle società di stato approvate dal Consiglio dei ministri lo scorso fine settimana siano la spia di un salto di qualità in quella sempre più evidente e strabordante occupazione delle istituzioni da parte della politica.
Berlinguer denunciò con straordinaria nettezza e lucidità la degenerazione dei partiti nell’intervista a Repubblica del 1981. Parlava di partiti che hanno occupato lo Stato. Un’immagine molto forte. I partiti, in sostanza, avevano esaurito la loro funzione di tramite, di “organizzatori del popolo”ed erano diventati una macchina autoreferenziale in cui blocchi di potere autoriproducevano se stessi. Rispetto a oggi, però, sono cambiati due elementi.
Il primo: allora c’era ancora la diversità comunista. Ovvero c’era una grande organizzazione che rappresentava un terzo dell’elettorato che denunciava e combatteva questa situazione, in chiave non populista ma di prospettiva. Lottava per realizzare una società più giusta, senza diseguaglianze. Diceva Berlinguer: “Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata”. Una società socialista con una forte connotazione democratica verrebbe da dire. Insomma, in quel guazzabuglio anni ’80, gli anni della Milano da bere, degli yuppies, dell’orologio sopra al polsino come l’avvocato, c’era una grande forza che non aveva paura di perdere consenso denunciando la corruzione profonda e la stessa perdita di senso del sistema politico.
Il secondo punto, non meno importante. In quel sistema politico, sia pur degenerato, esistevano comunque i partiti. Che via via avevano smarrito la funzione costituzionale, questo è vero. Ma restavano partiti. Rappresentavano, sia pur con tutte le distorsioni che denunciava Berlinguer, blocchi sociali, interessi economici, interessi di classe. Non a caso, malgrado la corruzione, l’occupazione sistematica del potere, quella che i Radicali di Pannella chiamavano la partitocrazia, l’economia cresceva con cifre che adesso manco ci sognamo. Certo, c’era il deficit pubblico alle stelle, eravamo un paese che viveva al di sopra delle proprie possibilità, ma le strade le rifacevamo, fra una mazzetta e l’altra. Banalizzo volutamente, sia chiaro. Altrimenti potremmo parlare anche di un’Italia punto di riferimento per la sua politica nel mediterraneo, della nostra credibilità internazionale. Era un altro mondo, insomma.
Non che voglia fare l’elogio postumo degli anni ’80. Ci mancherebbe altro.
Oggi che succede? Sintetizzando ancora: il deficit continua a correre, non ripariamo più manco le buche e nel mondo ci rappresenta Alfano. Non ci sono più i partiti del dopoguerra, ma non ci sono più neanche le correnti degli anni ’80. Tutto si riduce alla contesa di qualche leader e quando cambia il leader, anche se dello stesso schieramento, cambiano tutti i vertici, non solo delle società pubbliche, ma della stessa amministrazione. Va “ringraziata” per questo la sciagurata legge Bassanini, che ha eliminato la tradizionale terzietà dell’alta burocrazia statale, nel passato vero serbatoio di competenze. Siamo, arrivati, insomma, all’occupazione personale dello stato. Ormai si nominano gli amici, i fedeli, coloro che hanno permesso la conquista del potere. Il famoso “cerchio magico”.
E questo vale per tutti, perfino per chi, come il M5s, ha fatto della critica alla politica invadente la sua bandiera. Guardate Roma. Conquistato il Campidoglio, il sindaco Raggi ha provveduto a piazzare i suoi fedelissimi nei gangli dell’amministrazione. I risultati, non solo di natura amministrativa in senso stretto, ma anche in qualche caso di natura penale, sono sotto gli occhi di tutti. Nei partiti – o in quello che ne rimane – succede ovviamente lo stesso. La politica è uno specchio della società, non il contrario. E dunque si conquista la leadership e si fanno fuori tutti gli avversari scientificamente. Manca anche qui, come nella pubblica amministrazione, una base condivisa, una classe dirigente che sia arrivata al proprio posto per quello che ha fatto e non per mera fedeltà.
Inutile stupirsi dunque se poi cambiano bandiera al primo accenno del mutar del vento. La corsa per salire sul carro del vincitore è diventata una affollatissima maratona.
Lo scopo della gestione del potere, insomma, è diventato un fine e non un mezzo. Altro che Machiavelli. E se negli anni ’80, sia pur nella degenerazione già iniziata, si conquistava il potere e lo si occupava per rappresentare un blocco sociale, adesso il tutto è ridotto alla promozione della propria persona. Perché, in fin dei conti non c’è più un rapporto di rappresentanza, un legame fra le classi dirigenti e chi rappresentano. Il legame è dato da un voto espresso ogni quattro o cinque anni quando va bene, da un’approvazione fideistica nella peggiore dei casi. La clientela è la regola.
Che fare per invertire la tendenza? Io credo che questa sia una delle sfide principali che ha di fronte la sinistra italiana nei prossimi anni. Assieme alla definizione di un quadro di valori. Anche da qui passa il discrimine fra destra e sinistra. Fin dagli anni ’90 abbiamo copiato e mutuato non solo le pratiche economiche liberiste, ma anche questa maniera di gestire il potere, arrivata oggi alle conseguenze estreme. E’ tempo di tornare a pensare a un’alternativa.
La ricostruzione di un’Italia differente, che sia in grado di rilanciarsi dal punto di vista economica, sta anche qui: si parte dalla ricostruzione di una classe dirigente, non solo in politica, lo ribadisco, che abbia come faro il bene comune (un’altra delle mie fissazioni) e non la propria autoriproduzione. Difficile farlo? Sicuramente, perché occorre ripensare non solo le strutture della politica, ma anche un po’ noi stessi. Uscire dal bisogno disperato di apparire per tornare a essere, a dare un contributo onesto. Non è solo una questione di sostituire il pronome “io” con il “noi”. E’ una rivoluzione culturale.
Una cosa va fatta con urgenza, stabilire un modo per selezionare la classe dirigente dei partiti che non sia la cooptazione o la finta meritocrazia dei 5 stelle. Si fanno mandare curricula da tutto il mondo per poi scegliere il fidanzato, quando va bene. Non dico di tornare al vecchio metodo “intanto comincia a attacca’ i manifesti”, ma credo che serva qualcosa di simile, ovvero un processo collettivo dal basso di selezione, in cui le proprie capacità si dimostrano sul campo e non per riconoscimento del proprio capo. In cui non si votano i dirigenti, ma si scelgono.
Aveva ragione Orlando, qualche settimana fa, a dire che un giovane come Pio Latorre non avrebbe trovato lo spazio per far valere le sue idee nella politica di oggi. Ecco, secondo me non l’avrebbe trovato proprio nell’Italia di oggi, paese sempre più di sudditi e poco di cittadini.
Ogni tanto ci arrivano delle fiammate violente e inaspettate, in questo paese stanco e depresso. Così è stato in occasione dei referendum sull’acqua pubblica, lo stesso fenomeno di ribellione si è ripetuto in occasione della consultazione sulla riforma costituzionale. Bene è ora di alimentare quella fiamma e farla diventare permanente, dando spazio al protagonismo dal basso. E convogliando quella forte esigenza, di cambiamento badate bene, non di conservazione come vi vorrebbero far credere.
Per quanto riguarda la pubblica amministrazione io credo che si debba tornare a separare davvero la politica dalle nomine, anche dei vertici. Torniamo alla carriera fatta attraverso l’esperienza e i concorsi, non con la fedeltà al capobastone di riferimento. E torniamo a costruire una classe dirigente statale che abbia il bene comune come stella polare e non la politica. Ecco, anche questa, secondo me, sarebbe una piccola rivoluzione gentile.
Dimostriamo che noi pensiamo ancora che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi.
Io la vedo così
Quante carogne da tastiera!
Lo spiegone del lunedì/2
Il sistema proporzionale e la formazione del governo
Una premessa doverosa, perché girano troppe balle: non abbiamo la attuale legge elettorale, anzi le attuali leggi elettorali visto che sono diverse per Camera e Senato, perché c’è stato il referendum del 4 dicembre e il relativo trionfo del no. Non c’entra nulla, il referendum riguardava la riforma della Costituzione e non la legge elettorale. Il cosiddetto Italicum, a detta del suo ideatore la legge più bella del mondo che tutti ci copieranno, è stato ampiamente bocciato dalla Corte costituzionale perché illegittimo. E quindi, abbiamo la attuale legge elettorale per l’incapacità di una classe politica che manco è stata in grado di capire che la sua proposta andava contro la Costituzione. Ricordate i gufi e professoroni polverosi? Ecco non li avete ascoltati e i risultati sono questi.
Fatta doverosamente chiarezza, le norme attualmente in vigore sono sostanzialmente proporzionali. Non si venga a dire che c’è il premio per il partito in che supera il 40 per cento. Intanto perché tale premio è previsto solo alla Camera e in più perché in un sistema in cui i poli saranno almeno 4 se non 5, è praticamente impossibile che qualcuno superi il 40 per cento.
Dunque, se si votasse oggi, l’attribuzione dei seggi avverrebbe in maniera proporzionale. E qui si leggono in giro cose davvero fantasiose per spingere a un nuovo voto utile. Si dice, infatti: se arriva primo il M5s il presidente della Repubblica darà a loro l’incarico di formare il nuovo governo, dunque bisogna turarsi il naso e votare Pd. A parte il fatto che ormai manco non basterebbe manco la maschera antigas a coprire la puzza di marcio, ma in realtà questa ricostruzione è del tutto falsa.
In realtà il presidente della Repubblica, dopo le elezioni, comincia le sue consultazioni, sente i partiti rappresentati in parlamento e poi decide non in base a chi è arrivato prima, ma a chi ha la possibilità di avere la maggioranza dei voti necessari per ottenere la fiducia delle camere.
Anche se, per ipotesi, seguisse questa idea di affidare un primo incarico esplorativo a un esponente del partito di maggioranza relativa, poi questo dovrebbe cercare la maggioranza. E i grillini, fermi intorno al 30 per cento non ci arriverebbero neanche con un’alleanza (impossibile) con Salvini che veleggia intorno al 10. Dunque dovrebbero rinunciare all’incarico e si andrebbe a un nuovo giro di consultazioni e a un nuovo presidente incaricato.
Certo continuare a votare per garantire l’impunità dei parlamentari come nel caso Minzolini non aiuta a smontare i 5 stelle, ma questo, di certo, non è colpa di chi ha lasciato il Pd, semmai di chi ci è rimasto.
Qual è dunque, lo scenario più probabile stante questo quadro istituzionale? Difficile dirlo, le elezioni sono lontane, il Pd sta facendo in questi giorni la conta per il segretario, movimenti e partiti di sinistra sono in fase di costruzione. Se si votasse domani cosa succederebbe? Con ogni probabilità nessuno schieramento, neanche allargato a parenti e amici avrebbe la maggioranza. E dunque si andrebbe verso un governo di responsabilità nazionale: una grande coalizione da Pisapia a Berlusconi, tagliando le ali estreme, con un presidente del Consiglio che garantisca tutti. Per fare cosa? Si spera per arrivare almeno a una legge elettorale condivisa e fare quelle riforme costituzionali necessarie per semplificare il sistema, senza snaturare, possibilmente la Costituzione.
Tutto questo, per la precisione.
Il Pippone del venerdì/2 Il garantismo de noantri
Mettetevi comodi perché la questione è lunghetta. Il quadro è più o meno questo.
2013: il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri è nella bufera per il presunto interessamento per la scarcerazione della figlia di Salvatore Ligresti, Giulia Maria, a cui vennero accordati gli arresti domiciliari a causa delle condizioni di salute. Mancano pochi giorni alle primarie e Matteo Renzi in persona, allora candidato alla segreteria del Pd, non ci pensa due volte, parte deciso: “Per me Letta fa un errore a dire che sulla Cancellieri ci mette la faccia. È stata lei a fare la sintesi perfetta dicendo: il vecchio Pd mi avrebbe difeso e il Pd ha votato a favore. Il nuovo Pd credo che non difenderà più casi di questo genere”.
2016: arresto di Marra a Roma, fedelissimo del sindaco Raggi. Il 16 dicembre il Pd si scatena chiedendo le dimissioni del sindaco. Il commissario del Pd romano, nonché presidente del Pd nazionale, nonché deputato, nonché attuale reggente autoproclamato del Pd nazionale, Matteo Orfini, spiega che “ loro sono diversi. Quando è capitato a noi abbiamo commissariato il partito, lavorato mesi a bonificare e ripulire. Abbiamo cacciato persone e reciso legami. Per queste scelte abbiamo pagato un prezzo altissimo. Ma era la cosa giusta da fare. Loro oggi scappano, si nascondono”.
A difesa del sindaco di Roma, indagata per falso e abuso d’ufficio si schierano tutti i 5 stelle e anche Matteo Renzi, che si dichiara garantista sempre. Nel corso della presentazione della sua candidatura alle primarie del Pd (sempre in mezzo le ritroviamo) dichiara addirittura la sua solidarietà: “Vorrei mandare un grande abbraccio di solidarietà a Virginia Raggi che è stata indagata, perché noi, a differenza di altri, siamo garantisti per tutti e non solo per i nostri”. Salvo per la Cancellieri, la Idem, Lupi eccetera eccetera.
2017: scoppia il caso Consip. L’inchiesta condotta da due procure, Napoli e Roma, riguarda presunte pressioni sull’amministratore delegato della Consip, Luigi Marroni, per favorire il gruppo Romeo in un mega appalto da 2 miliardi e mezzo di euro. Nella vicenda sono indagati, fra gli altri, il padre di Renzi, Tiziano,. e il ministro dello Sport, con delega al Cipe, Luca Lotti che, si legge negli atti dell’inchiesta, avrebbe avvertito Marroni dell’indagine in atto e della presenza di microspie nel suo ufficio. Lo dichiara lo stesso Marroni: ”Ho fatto effettuare la bonifica del mio ufficio in quanto ho appreso in quattro differenti occasioni da Filippo Vannoni (presidente di Publiacqua, ndr), dal generale Emanuele Saltalamacchia (comandante Legione Toscana, ndr), dal Presidente di Consip Luigi Ferrara e da Luca Lotti di essere intercettato”.
Scatta la difesa a oltranza da parte del Pd, Renzi in testa, mentre i 5 stelle si scoprono meno garantisti e presentano una mozione di sfiducia nei confronti del ministro al Senato. Mozione respinta anche grazie al fatto che Forza Italia non vota e 19 senatori fra i verdiniani e sieguaci di Tosi arrivano a garantire la maggioranza assoluta. 161 i voti contrari. Gli 19 stessi voti saranno restituiti (ma sicuramente è una mera concidenza) il giorno dopo nella votazione che doveva portare alla decadenza (legge Severino) del senatore Minzolini, di Forza Italia, condannato in via definitiva a due anni e sei mesi per peculato. Quando era direttore del Tg1 usava in maniera allegra la carta di credito aziendale. Il senato respinge. Con quella condanna non potrebbe partecipare ad alcun concorso pubblico, ma fare il senatore sì. Va bene essere garantisti, ma dopo tre sentenze, un dubbio non vi viene proprio? Ma questa è un’altra storia.
Il ministro Lotti, intervenendo in Senato, non solo proclama la sua innocenza con grande veemenza, ma rispolvera il vecchio leit-motiv berlusconiano del complotto. Tira sempre. “Colpendo me – declama con i capelli al vento – si vuole colpire Renzi e la stagione del riformismo”. Che a dire il vero sembra già messa a dura prova dalle bocciature ripetute della Corte Costituzione e degli elettori. Sarà un complotto anche questo. Chissà.
Nella stessa occasione, la senatrice pentastellata Paola Taverna, spiega un curioso concetto di giustizia: “Il tema non è l’avviso di garanzia, ma la gravità delle accuse e per capirlo non abbiamo bisogno di aspettare le sentenze della magistratura. E’ un principio basilare, che noi del Movimento 5 Stelle, applicando il nostro codice etico elogiato dal magistrato antimafia Di Matteo, abbiamo già fatto nostro”. Insomma, per la Raggi le accuse non sono gravi, per Lotti sì. A quanto pare decide Grillo, giudice supremo ingiudicabile.
Sono soltanto alcuni esempi. Per farla breve, è un gran casino. Sfugge, secondo me un punto fondamentale. Tutto questo con il garantismo non c’entra nulla. Andiamo con ordine.
Il Garantismo (copio dalla Treccani):concezione dell’ordinamento giuridico che conferisce rilievo alle garanzie giuridiche e politiche volte a riconoscere e tutelare i diritti e le libertà fondamentali degli individui da qualsiasi abuso o arbitrio da parte di chi esercita il potere.
Che vuol dire applicato al sistema giudiziario? Che il garantismo è quel complesso di norme che rende effettivo il diritto del cittadino alla difesa. Il tutto deriva da quello che è un principio cardine nel nostro ordinamento: tutti sono innocenti fino a sentenza definitiva. E siccome siamo garantisti tanto tanto questo non avviene, come succede in tutto il mondo, dopo due gradi di giudizio, ma addirittura tre, visto che di fatto la Cassazione è diventato un giudice di merito. Insomma il cittadino accusato di un reato ha il diritto di difendersi su un piano di assoluta parità rispetto all’accusa, a cui spetta l’onere della prova: deve cioè dimostrare la colpevolezza e non il contrario. Cosa c’entri con Lotti, la Raggi, la Cancellieri, la Idem, Lupi eccetera, eccetera, non è dato sapere.
Insomma, per farla breve il tema, non è essere garantisti o meno. Lo siamo un po’ tutti a giorni alterni, a seconda della simpatia che ci ispira il presunto colpevole. Per cui il negro accusato di aver stuprato una donna bianca è sicuramente colpevole, mentre il distinto ingegnere che fa crollare un ponte diventa subito soltanto “presunto” responsabile. Ma in questo caso non c’entra nulla.
Si tratta di un problema politico. Che è altra cosa rispetto a un processo. La politica deve agire su un piano diverso e distinto da quello giudiziario. Provo a farmi capire ragionando proprio sul caso Consip. Al di là dell’esistenza o meno di un reato, cosa che non sta a noi giudicare, questa vicenda ci dice una cosa, molto semplice. Che attorno alla società per azioni del Tesoro che si occupa della gestione degli appalti per le forniture della pubblica amministrazione gira un groviglio di interessi e di persone a dir poco inquietante. La Consip nasce con lo scopo di ottenere risparmi ampliando la scala di grandezza degli appalti. Detta semplice: se invece di acquistare penne in ogni comune facciamo un’unica gara a livello nazionale, forse si spende di meno. E’ una semplificazione, ovviamente, ma il principio è questo.
Appaltoni enormi, però, su cui, proprio per la dimensione dovrebbe esserci, massima attenzione e massima trasparenza. E quello che si scopre, invece, è che nella migliore delle ipotesi un groviglio di interessi e di personaggi grigi si muovevano in quelle stanze per cercare di condizionare quelle gare.
E’ un problema politico o no, fare in modo che anche il semplice sospetto che questo si possa verificare venga rimosso? In tutto questo rimestare nel torbido, ci sarebbe un ministro, il condizionale è evidentemente d’obbligo, che va da un dirigente pubbligo, guarda caso nominato dal “capo” del ministro stesso, e gli dice: ciccino, stai attento che la magistratura indaga su di te, c’è pieno di cimici nel tuo ufficio.
Ora questo ministro, oltre che allo Sport, per una di quelle stranezze tipiche della politica italiana, ha anche la delega chiave sul Cipe, il Comitato per la programmazione economica che dà l’ok alle spese strategiche, e sull’editoria, con tutti i decreti attuativi di una riforma appena approvata. Lotti sarà anche innocente, avrà modo e tempo di dimostrarlo, tutti noi sinceri garantisti ci auguriamo addirittura che si arrivi mai a un processo, che la procura archivi in tempi rapidi la sua posizione.
Ma in attesa che questo avvenga, è proprio necessario che faccia il ministro? E’ proprio necessario che continui a seguire la programmazione economica? E’ proprio la persona più adatta fra i cittadini italiani? O forse il semplice fatto che sia sfiorato da un’inchiesta dovrebbe fargli valutare l’opportunità di rinunciare a dettare la linea del governo sugli investimenti strategici da fare nel Paese?
Ecco, sarà anche innocente, ma senza Lotti al governo ci sentiremmo tutti più garantiti. E’ proprio il caso di dirlo.
Ps: questo non è un blog anonimo e sono un giornalista. La responsabilità di quello che scrivo, insomma, me la prendo tutta. Sempre.
Lo spiegone del lunedì\1
Cosa è un’intervista
Intanto sarebbe bene che tutto ve ne faceste una ragione: Esposito non è in grado di intendere e di volere, quindi evitate di seguire le stupidaggini che dice. E invece no, ci cascate ancora e giù a scrivere post su post sui “grillini che sono invitati a programmi televisivi senza contraddittorio”. E allora vi beccato lo spiegone.
Nel giornalismo, in particolare in questo caso parliamo di televisione, esistono vari format. L’intervista è uno di questi. In cosa consiste? Semplice un giornalista pone domande al suo interlocutore e quello risponde. Non è un processo dove ci sono diverse parti e c’è un contraddittorio fra accusa e difesa con un giudice che decide. C’è un giornalista che fa domande. In caso, semmai, si può criticare il livello delle domande, la eventuale mancanza di preparazione del giornalista, il grado di asservimento dello stesso all’intervistato. Ma non si può dire che manca il contraddittorio, per il semplice fatto che non è previsto dal format.
Semmai sarebbe simpatico discutere di altre trasmissioni, in cui le interviste sono condotte da presentatori, non da giornalisti. Non so se ricordate Renzi da Fazio, tanto per fare un esempio. Dove non c’è il contradditorio perché si tratta di un’intervista, ma in realtà non c’è manco il giornalista e diventa una specie di onemanshow che non può definirsi informazione. Ma su questo non ho sentito alzarsi neanche una paglia. Esposito doveva essere distratto.
Altro genere televisivo – e qui serve un contraddittorio – è il dibattito. In questo caso a confrontarsi sono persone che sostengono opinioni differenti e il giornalista ha un ruolo differente, moderatore e conduttore del dibattito stesso.
Tutto questo per la precisione.
Il pippone del venerdì/1
Pd o non Pd
Da oggi, continuando nel progetto di voler rendere più strutturale il mio contributo da osservatore del dibattito politico, social e non social, inauguro questa nuova rubrica, “il pippone del venerdì”. Sarà una sorta di bilancio della settimana, in cui vorrei ragionare sugli aspetti che mi sembrano interessanti. Ci provo, combattendo con la mia nota pigrizia. E vorrei anche provare a rinnovare e utilizzare con maggior costanza il mio sito. Chissà, non scommetterei su me stesso.
Comunque sia, cominciamo il pippone.
In realtà non è proprio “il tema della settimana”, questa storiella va avanti da almeno un paio di anni. Da quando, cioè, Pippo Civati ha lasciato il Pd e ha fondato il suo “Possibile”, movimento di cui non si ricorderanno tracce durature nella storia dell’uomo, ma che tuttavia merita una menzione, quanto meno per essere alla base di un disastroso equivoco. Nello statuto di Possibile, mi dicono, sta scritto a chiare lettere che non faranno mai, a nessun livello, alleanze con il Pd. Il che è una novità assoluta. Che un partito escluda di potersi alleare con un altro partito dell’arco democratico, ci sta. Ma che si metta nero su bianco nello statuto è un fatto di assoluta rilevanza e, come vedremo, sia pur in forma indiretta, ha condizionato il dibattito politico nella galassia della sinistra italiana.
E’ successo con la tornata delle scorse elezioni amministrative. Con grandi scontri fra chi diceva che non si poteva rompere il centro sinistra per principio e chi diceva che l’esistenza di un campo alternativo al Pd doveva essere visibile e omogenea su scala nazionale. Sostanzialmente ha vinto la secondo tendenza, fra mugugni e resistenze, con la sia pur rilevante eccezione di Milano. Devo ammettere di essermi lasciato prendere da questo dibattito. Sbagliando.
E devo dire che, alla fine dei giochi, tutta sta visibilità di uno schieramento alternativo al Pd mica l’abbiamo vista. Abbiamo visto, piuttosto, uno scontro da stadio fra gli ultras degli opposti schieramenti. Salvo poi andare a piangere perché, dopo aver parlato di periferie a tutto spiano, a Tor Bella Monaca abbiamo preso il 2 per cento. Elettori eroici, verrebbe da dire.
Eppure non è che si sia imparato dagli errori. Anzi la situazione è peggiorata. Per chi esce dal Pd si propone l’analisi del Dna, suo e delle tre generazioni precedenti. Il congressino di Sinistra italiana, oltre ad aver prodotto un gruppo dirigente, ha anche prodotto un secondo anatema: mai con il Pd di Renzi, a tutti i livelli. Manco nel condominio di via Carugatti 53 si faccia l’alleanza con il Pd di Renzi. Scelta applauditissima da Possibile che ha deciso di fondere i gruppi parlamentari, “pur mantenendo l’autonomia dei rispettivi partiti”. In giro si leggono addirittura moderni soloni che si scandalizzano perché Pisapia non ha definito la sua posizione sul renzismo. Quello, dicono, sarebbe il minimo richiesto per definirsi di sinistra.
L’Italia intera dibatte e si accalora su questi affascinanti temi.
Scherzi a parte, come la vedo? Pur tra i mille errori commessi resto convinto di tre cose.
1) Resta l’esigenza di ricreare un movimento ampio della sinistra italiana, non un partito, una gabbia escludente, ma un percorso aperto, che guardi al futuro e non agli errori del passato. Senza esclusione alcuna. Per me l’unica pregiudiziale resta l’antifascismo.
Un percorso che se ne freghi delle forme strutturate, del fatto che stiamo in partiti differenti e parta dalle persone. Possibilmente parta da quelle “vite di scarto”, da quelle periferie, come luogo sociale ma anche come spazio culturale, di cui parliamo sempre, ma dalle terrazze dei palazzetti d’epoca. Il Partito arriverà quando il percorso sarà compiuto e tutti saranno pronti a lasciare le casette di provenienza non per un condominio scomodo e spersonalizzante, ma per una grande casa di tutti. E non con le forme del ‘900, perché il ‘900 è finito. Tutto questo, sia chiaro, nelle pur rinnovare forme ha bisogno di mettere radici fisiche nei territori. Primo obiettivo dunque, trovare spazi, tanti, nei quali costruire un agire politico comune. Spazi utili ai cittadini, accoglienti. Per rovesciare il ragionamento di un autorevole ministro, un luogo in cui un Pio La Torre di oggi si troverebbe a suo agio, avrebbe modo di crescere e, al tempo stesso, di mettersi al servizio di un progetto collettivo.
2) Questo movimento non si crea contro o in alternativa al Pd o al renzismo o al populismo. Si coltiva, da più parti, la sensazione che sia sufficiente definirsi di sinistra per poter essere annoverati automaticamente nell’olimpo dei rivoluzionari. Non funzionava così manco ai tempi del Pci, figuriamo adesso. Solo che allora, con quel nome, con quella storia, potevi pure permetterti di essere conservatore ogni tanto. Oggi no.
E ritorniamo a quella che io mi intestardisco a considerare l’origine di tutti i mali. La nascita del Pds. In quegli anni sciagurati in cui si buttò a mare un patrimonio di 80 anni, ci si dimenticò di un particolare: che quella operazione aveva bisogno di definire un nuovo orizzonte, ideale e culturale, per dare testa alla sinistra. Le gambe c’erano, la testa no.
Il problema sta tutto qua. Chissenefrega di Renzi, del Pd, delle alleanze. Ma si può dibattere da Roma se a Parma si debba appoggiare Pizzarotti o fare una coalizione di centrosinistra classica? E quelli di Parma che stanno a fare? Danno i volantini? Guarda che poi, ne abbiamo le prove provate, quelli di Parma finisce che non ti votano. E poi mica puoi dire “date le condizioni abbiamo fatto il massimo”. La politica, la sinistra, servono a cambiarle le condizioni, mica a subirle.Dicevamo: identità, bagaglio culturale e ideale. Queste sono le condizioni essenziali. Poi possiamo anche chiamarlo davvero Arturo, se in contenuti e le idee sono quelle di un nuovo movimento socialista. Serve un grande lavoro prima di tutto culturale, chiamando a tornare in campo tutte le energie migliori, i famosi intellettuali che non si sa che fine hanno fatto. Bisogna definire quale sia “il nostro cielo”, il nostro orizzonte ideale, quale sia la nostra cassetta degli attrezzi con la quale interpretare la realtà. Con mi alleo poi? Semplice con chi ci sta. Bisogna, insomma, avere la capacità e la pazienza, di rovesciare il percorso. E guardate che non parlo di “un programma”. Vanno bene le officine delle idee, va bene tutto. Ma non basta. Un programma siamo bravissimi a scriverlo. Anzi, magari neanche più tanto quello perché ormai scriviamo cose che non capiamo neanche noi. Quello che manca è un manifesto dei valori, un campo ideale. E guardate, la butto lì, non credo che sia neanche sufficiente la dimensione nazionale. Le coordinate: io credo possano essere tre: la dicotomia lavoro/non lavoro (perché dovremo porci prima o poi il problema di una società in cui il lavoro sarà sempre meno parte fondamentale della nostra vita e quindi assumere anche il tempo del non lavoro come valore) l’uguaglianza (perché ci hanno fatto una testa tanta con la meritocrazia, ma senza uguaglianza diventa soltanto una maniera più elegante per disfarci degli ultimi) l’ambiente (non perché l’economia green fa tanto fico, ma perché se non mettiamo l’ambiente come base di tutto il nostro agire ci siamo giocati il pianeta e altri non ne abbiamo). Mi fermo perché altrimenti altro che pippone.
3) Fatto questo si torna alla conclusione del punto 1. Ovvero: come si creano le condizioni per far in modo che un giovane Pio La Torre del terzo millennio si senta a casa? La traduco in politichese: come si crea un nuovo meccanismo di selezione della classe dirigente? Perché sicuramente dobbiamo sapere cosa fare, ma anche con chi farlo.
Ora, negli ultimi venti anni (il Pd ha soltanto estremizzato questo processo) i partiti non sono stati più gli “intellettuali collettivi” di cui parlava Gramsci. Ossia quei luoghi in cui un cervello collettivo elabora le soluzioni ai problemi. Ma non sono neanche quei luoghi dove si sperimenta e si mette alla prova la classe dirigente. Tutto questo è stato sostituito dal partito del leader e delle correnti. Si tratta di un processo generale che in Italia ha coinvolto l’intero panorama politico. Non è un caso se la contesa nel Pd è sostanzialmente fra due populisti. Perché nel momento in cui non sei più intellettuale collettivo e non sei più luogo di selezione della classe dirigente, il partito diventa mero luogo di gestione del potere. Il mezzo diventa fine e allora servono solo un leader e i suoi lacchè. Il processo decisionale non è più tra linee politiche alternative, ma fra capi alternativi. E vince chi è più populista e arrogante dell’altro.
Essere di sinistra, oggi, vuol dire anche invertire questa tendenza, costruendo un movimento dove il nodo non sia il leader ma la classe dirigente, diffusa e riconosciuta.
Dico non a caso riconosciuta, perché oggi esistono soltanto i grandi leader mediatici, non abbiamo più i dirigenti di base, quelle figure essenziali se si vuole avere un legame forte con il territorio. Abbiamo una classe politica (non la chiamo dirigente non a caso) completamente slegata dal territorio. Sento autorevoli parlamentari che ti dicono candidamente “non abbiamo capito cosa stava succedendo”. E’ successo ad esempio sul referendum costituzionale. Bastava andare a dare un volantino in giro per capire che gli italiani non solo avrebbero votato no, ma che gli stavate proprio sulle palle.
Tre cose da fare subito, insomma, avendo bene in testa che non serviranno due giorni. Ma bisogna partire. E allora: Pd o non Pd? Machissenefrega.
Costruiamo ponti, non steccati
Il 15 luglio del 2015, forse un po’ paradossalmente, conclusi così l’intervento con il quale annunciavo al direttivo del circolo Pd Capannelle le mie dimissioni da segretario e dal Pd stesso: “Dobbiamo, anche in questa fase, avere sempre l’obiettivo di costruire ponti e non steccati”. Paradossale perché anche in quel momento, di rottura, facevo riferimento al bisogno di trovare le forza di proseguire un dialogo, anche se una storia comune si interrompeva. Il bisogno di continuare a esplorare insieme terreni sconosciuti. La risposta fu più che uno steccato: la commissaria di zona, una sorta di Orfini un po’ più arrogante, ordinò di cambiare immediatamente le chiavi del circolo e mi diffidò via mail dall’entrare in quelle stanze. Come dire: mi hanno sbattuto le serrande in faccia. Poco male.
Da allora mi è sempre rimasta in testa quella frase, quell’obiettivo. E per questo ho lavorato da subito, quando il gruppo di compagni con cui avevamo lavorato in quei mesi, mi propose di essere il “referente romano” (nome un po’ bizzarro che vuol dire coordinatore) di Futuro a sinistra, l’associazione a cui aveva dato vita Stefano Fassina, anche lui appena uscito dal Pd.
Costruire ponti era la mia ossessione perché vedevo con forte preoccupazione quello che stava succedendo: invece di provare a lavorare per riunire il campo disgregato della sinistra italiana, ognuno coltivava soltanto il proprio orticello. Troppo sigle, poco popolo. La dico così in sintesi. Tutti gruppi tesi ad alimentare esclusivamente la sopravvivenza del proprio gruppo dirigente. Dove si parla di partecipazione e poi manco ti comunicano le decisioni, le leggi sui social. Troppi recinti, troppe casette magari rassicuranti e protettive per chi sta dentro, ma poco attrattive e poco utili se non ci si vuole accontentare di sopravvivere. Settarismi, si sarebbe detto un tempo, che non portano da nessuna parte.
L’ho detto ogni volta che ho potuto. Non chiudiamoci, inventiamoci forme nuove per stare insieme. E anche quando è stato avviato il percorso che poi ha portato alla nascita di Sinistra italiana, ho sempre insistito sulla necessità che non fosse un partito classico, ma un arcipelago di mille isole, autonome, con la propria identità, ma messe in rete. Perché non bisognava escludere nessuno. Anzi.
Per questo ho proposto, dove mi è stato concesso, che si partisse da un manifesto, pochi punti chiari. E su questo si avviasse un processo costituente dal basso, che non fosse un accordo fra gruppi dirigenti ma un processo che, al contrario, si aprisse a quanto è nato e cresciuto in questi anni nelle città e nei quartieri. Non serviva che qualcuno scrivesse la storia per noi, che qualcuno scrivesse in qualche bel documento che “bisogna ridare centralità al lavoro, tornare a parlare al popolo della periferia”. Serviva che il lavoro e le periferie tornassero a essere protagonisti nella scrittura di una storia comune.
Nell’appello con cui lanciammo Futuro a sinistra a Roma scrissi: “La sinistra a cui pensiamo nasce dal basso, non dalla fusione di ceti politici. Non vogliamo essere i reduci delle sconfitte dell’ultimo ventennio che si mettono insieme alle rinfusa dimenticando le divisioni e le ragioni che le hanno prodotte. E’ una sinistra nuova, inclusiva, plurale e che raccoglie anche culture differenti. Una forza di governo e riformatrice”.
Poi sono arrivate le dimissioni di Marino, il notaio, insomma la vicenda è nota. E tutto è precipitato. A Roma si è decisa non si capisce bene dove, la candidatura di Stefano Fassina a sindaco. Ho espresso timidamente a chi mi prospettava questa eventualità le mie perplessità. Per il profilo nazionale di Fassina, per la sua storia politica complessa, per la mancanza di un legame con la città.
Una volta tratto il dado, sono fatto così, ho sostenuto la sua candidatura con tutte le mie energie. In campagna elettorale servono gli eserciti, i soldati, non le discussioni.
Ho cercato comunque di portare le mie idee e di calarle in questo percorso, troppo breve. E qui ho trovato muri robusti. Tutto si è deciso in stanzette anguste. In riunioni di pochi. E invece bisognava davvero ascoltare la città, chiedere a Roma di mettersi in gioco insieme a noi. Di non delegare, ma esporsi in prima persona. Ho proposto di fare le primarie delle idee, quartiere per quartiere. Grandi assemblee con tutta la sinistra diffusa, i lavoratori, le associazioni locali, le forze disperse di una sorta di sinistra sociale che in questi anni di vuoto si è organizzata fuori dai canali tradizionali e li ha anche sostituiti. Non, insomma, le primarie sulle persone, ma un confronto vero sui temi. Da cui poi nascesse il confronto sulle persone da scegliere. C’erano energie che sono state disperse. Tante energie. E invece si è scelta la strada del “tavolo fra le forze politiche”. Interminabili trattative fra partitini inesistenti per decidere chi andava candidato. Esponendosi alle azioni di disturbo di chi ci vedeva come il fumo negli occhi.
Avendo manifestato una forte contrarietà per il metodo e anche per le persone scelte mi è stato prima proposto di candidarmi, nell’ordine: al Comune, come presidente in VII e in VI Municipio. La cosa non mi entusiasmava particolarmente, ma mi misi, come si dice, a disposizione. Poi furono fatte altre scelte, che lessi sui giornali.
Contro di me e contro gli altri compagni che avevano osato dissentire cominciarono a girare le letterine infami. Una sorta di riflesso staliniano che porta chi si sente attaccato a rivolgersi al capo cercando la sua benedizione. La faccio breve perché ho ancora molto da dire: siamo gente con le spalle grosse, le lettere e gli infami ci scivolano addosso.
E in silenzio mi sono fatto tutta la mia campagna elettorale, pacchi di volantini, strada per strada, casa per casa. Strade e case di quella periferia che i leader invocano, ma da rassicuranti distanze. Salvo poi stupirsi se in quelle strade dilagano i diversi populismi. Vi faccio un promemoria: non ci sono soli i 5 stelle, Casapound sta diffondendosi con una rapidità e una profondità impressionante nelle periferie romane. Poi non dite che non lo sapevate.
Continuando in questo racconto, i risultati delle elezioni li sapete. Per la nascente sinistra è stata un risultato rovinoso, altro che storie. Gli eletti si contano sulla punta delle dita. E non è una metafora. Fuori da quasi tutti municipi, salvo che, guarda caso nel centro della città e a Garbatella, dove si ricandidava il presidente uscente, evidentemente molto radicato. Ho provato ad analizzare serenamente il risultato con una lunga lettera inviata ai miei compagni di viaggio, ribadendo il mio giudizio su una campagna elettorale nata male e proseguita peggio. Unica risposta ricevuta, da Fassina: abbiamo fatto il massimo data la situazione.
Ora, sia chiaro, una sconfitta elettorale ci sta. Non hai una forza politica definita e riconoscibile dietro, paghi lo scotto della mancata chiarezza sui valori, sulle prospettive future. E però devi capire dove hai sbagliato e cercare di cambiare strada. E invece che si fa? Si chiude ancora di più il recinto: la coalizioncina elettorale che aveva sostenuto Fassina diventa un’associazione fatta dagli ex candidati, che si scelgono anche un coordinatore e un coordinamento. Tutto questo lo apprendo su Facebook. Nel frattempo lo stesso Fassina riunisce Futuro a Sinistra di Roma e nomina un nuovo coordinatore.
E di Sinistra italiana? Si perdono le tracce. Della costituente dal basso che tutti avevano giudicato come necessaria non se ne parla più, dell’unione con altri partiti e movimenti neanche. Non si fa neanche la fusione tra gruppi dirigenti. C’è solo Sel più alcuni esponenti ex Pd. C’è un comitato esecutivo nazionale, li si discute e si decide. Nulla più.
Io me ne vado in vacanza, dove maturo la decisione, sofferta, di abbandonare l’impegno politico. Definitivamente? Mai dire mai. Ma questo anno vissuto così, la delusione, le speranze disattese, la fiducia che – come è evidente – ho riposto nelle persone sbagliate… insomma mi sono sentito svuotato. Troppa cattiveria per poter portare avanti le proprie idee. Non che la battaglia mi abbia mia spaventato. Ma mica puoi guerreggiare sempre, anche dentro casa. Sono talmente distaccato che mi scordo pure di togliere “militante del Pd” da questo blog. Sta ancora lì.
Insomma ho scelto il distacco totale. Seguendo da osservatore lontano e disincantato le vicende delle sinistre. Da un lato Sinistra Italiana che ha rinunciato a un processo costituente vero e proprio e ha scelto di fatto di fare solo un congresso nazionale per eleggere un segretario. E si sono persi per strada metà o più dei parlamentari. Ai congressi provinciali hanno partecipato, se ho capito bene, circa 8mila persone. Un condominio o poco più. Poi c’è il nuovo campo di Pisapia. In divenire.
E c’è questa vicenda della scissione (forse ci siamo) del Pd. E qui devo fare un po’ di autocritica. Ho sbagliato a lasciare il partito nel 2015. Non perché mancassero le ragioni: continuo a ritenere che andarsene oggi sia una scelta tardiva e poco comprensibile. Ma perché uscendo da solo mi sono auto isolato da quella comunità con cui avevo percorso un tratto importante del mio impegno politico e – in ultima istanza – della mia vita. Un errore, senza dubbio.
Incontrarli di nuovo, all’assemblea che si è svolta sabato a Testaccio mi ha fatto piacere. Non mi sono sentito ospite, la dico così.
E ora che succede? Io sono sempre convinto che non serva un nuovo partito della sinistra italiana. O meglio. Sono convinto che quello debba essere l’obiettivo da raggiungere, ma aprendo l’orizzonte. Facendo rete fra le realtà che ci sono e che vogliono rappresentare la loro identità, la loro specificità. E riprendere un cammino comune non è facile se si chiede di annullarsi. Ancora una volta torna il tema dei ponti. Un movimento plurale dove ci sia spazio per tutti. Non una casa dove si entra bussando, ma un cantiere dove per entrare nessuno ti chiede da dove vieni, cosa hai fatto, quanti globuli rossi hai nel sangue. Perché stare insieme significa arricchirsi se si considerano le storie, le esperienze, le forme organizzative e le diverse intelligenze come parti da esaltare e non come semplici cellule che devono uniformasi. Un partito non si creare fondendo gruppi parlamentari, insomma. Anche se i gruppi parlamentare servono eccome.
Si potrebbe finirla, ad esempio, di dire: il Pd è un alleato naturale oppure mai con il Pd. Io credo che Si debba riannodare un rapporto con l’Italia che la sinistra, nelle sue diverse forme, non ha più. Scuola, lavoro, movimenti, sindacati, un ceto medio sempre più marginalizzato. Chi ci parla più con questi mondi? Chi li ascolta. Da sempre, faccio un esempio, ho ritenuto che lo scontro con la scuola fosse l’inizio del declino del Pd. Perché la scuola rappresenta tutto il paese. Scontrarsi con famiglie, studenti, insegnanti vuol dire litigare con l’Italia. E come ci rimettiamo in sintonia adesso? Non è che bastano i social o le televisioni. O ancora le periferie. Come tornare a metterci piedi e cuore dentro? Come tornare a essere percepiti come un interlocutore utile e non come la peste da evitare? Come si torna a essere presenti nei luoghi del conflitto, come ci si sta dentro e non ci si limita più a descriverlo?
Invece di preoccuparsi delle alleanze, le sinistre si devono preoccupare di ricostruire un rapporto, un intesa con la loro base sociale. Poi le alleanze serviranno. Perché io a essere condannato a essere minoranza non ci sto, non fa parte della mia cultura politica. Alleanze sulle cose, non sulle sigle. Guardando alla realtà non al curriculum. Possiamo dialogare se tu ti fai un giro di campo sui ceci. A me queste cose fanno impazzinre. E dai su, smettiamola di dare giudizi sugli altri e sediamoci ad ascoltarci. Si torni a fare politica. Non comizi, ma luoghi di confronto.
E come si organizza questo movimento? Con quali strumenti di partecipazione? Le primarie modello Pd, altro abbaglio che ho preso anni fa, hanno distrutto la partecipazione, riducendo il partito a un seggio. E adesso che fare? Quale forma dare all’impegno? Come si seleziona, oggi, una nuova classe dirigente? Vogliamo puntare ancora sulla fedeltà al capo? Occhio che così si producono i Rondolino e gli Orfini.
Pongo domande, non credo che nessuno abbia la risposta. Di certo c’è bisogno di un luogo dove si provi a darne qualcuna di risposte. In questo luogo, se mai ci sarà, metterò la mia passione e la mia intelligenza.
Piccoli stalinisti alla corte di Renzi
Quello che vi racconto oggi è un piccolo esempio di come si costruisce un piccolo quanto inutile falso mediatico. Siamo alla periferia di Roma, assemblea organizzata da due circoli del Pd, con un parlamentare della minoranza. Introduzione della segretaria del circolo, molto critica con il partito. Poi una cittadina, ex iscritta al Pd, interviene con molta passione. E’ una insegnante e fa un lungo discorso, vero, si sente che è lacerata da una riforma che mette in discussione la sua stessa vita. Nel corso dell’intervento a un certo punto strilla “Renzi è un fascista”, applaudita da una parte – minoritaria – della platea. In tutto una cinquantina di persone. Ci sono molti insegnanti.
E’ un piccolo circolo di periferia, un quartiere di poche migliaia di abitanti. Cinquanta persone sono una folla. Subito dopo interviene un anziano cittadino di quella zona, che sta registrando tutto sulla videocamera e dice: ma come mai non le avete detto nulla, ci sono i segretari di due circoli del Pd, difendete Renzi.
Nei successivi interventi, in realtà sono molte le persone che dicono: guarda che il tema non è questo, Renzi non è fascista. Argomentano anche. C’è chi lo definisce un principe machiavellico. C’è anche chi dice che sarebbe pure meglio, perché avresti individuato l’avversario. Chi, come il segretario del secondo circolo dice che secondo lui Renzi è il prodotto ultimo del fallimento della sinistra italiana negli ultimi venti anni Alla fine interviene il deputato presente, Stefano Fassina. Che fa un appassionato intervento, anche lui dice che è sbagliato definire Renzi fascista. E annuncia che gli spazi per fare una lotta di minoranza all’interno del Pd sono sempre più ristretti.
Succede che alla fine della manifestazione, senza dire nulla a nessuno, ma ovvviamente è nel suo diritto, l’anziano cittadino pubblica il video del suo intervento e quello di Fassina in un oscuro gruppo su facebook dove però ci sono anche degli esperti di comunicazione.
Ad esempio c’è Massimo Micucci, che conosco fin dai tempi della Point, una delle prime società dove ho lavorato. Un vecchio lupo passato per il gruppo dei D’Alema Boys a Palazzo Chigi, per le varie società di Velardi. Adesso a quanto ho capito si occupa di cinema, al Roma film festival. Insomma uno che c’ha mezzo metro di pelo sullo stomaco, uno di quelli che cadono sempre in piedi.
Insomma per farla breve, prende questo video e lo pubblica su youtube. E fin qui ancora nulla di male. Anzi il video viene ripreso dalle principali testate nazionali, ha migliaia di visualizzazioni. E tra l’altro è un video molto vero, Il vento, le bandiere al tramonto. Insomma molto fico dal punto di vista della comunicazione. Chissà se Micucci è d’accordo, lui che è uno di quelli abituati a costruire campagne finte a tavolino. Spesso sono più efficaci queste cose qui. Pochi secondi di parole chiare, senza effetti speciali.
Ma il Micucci non è neutrale e deve provare a disinformare, chissà se è solo un atavico riflesso dei tempi che furono oppure è proprio un mestiere. E allora ci mette una bella didascalia, su youtube. “Dopo che una ex iscritta ha appena detto che Renzi è fascista, senza che né Fassina né i due segretari di circolo fiatassero, Fassina annuncia che lascia il PD”.
Ovviamente, se avete avuto la pazienza di leggere quello che ho scritto, è completamente falso. E chiedo subito a Micucci di cancellare la didascalia.
Quello che segue è il dialogo con il personaggetto di cui sopra. Si commenta da solo, ma ci dà un esempio, in piccolo, di come si crea un falso.
Io: “Come ti ho scritto su youtube: Libero di pubblicare quello che vuoi, ma non di scrivere cose false. Ai sensi della legge sull’editoria ti invito a cancellare quanto prima quella frase in quanto non corrispondente al vero”.
Micucci: “Quale frase?”
Io: “Quella con cui commenti il video di fassina. è falsa. Come ho scritto ampiamente non è vero che nessuno abbia risposto alla compagna che ha dato del fascista a Renzi. Semplicemente nessuno l’ha interrottta, io sono abituato così. ma perche devi fare battaglia politica scrivendo falsità”.
Micucci: “Senti hai fatto della ironia sulla scorta a Orfini chiamandola arma di distrazione di massa, per questo ti ho rimosso dagli amici. Non meriti considerazione, ma biasimo.ti consiglio sobrietà”
Io: “Ok, vado: hai scritto una cosa falsa. dopo l’intervento di una cittadina in una piazza, non in una sede di partito, almeno altri cinque interventi hanno detto “guarda che non è vero”. Compreso il mio.
Per quanto riguarda la scorta di orfini:
1) il mio spazio su facebook è uno spazio satirico
2) rispondevo a un compagno che mi diceva: confessa che le minacce anarchiche a Orfini sei stato tu a farle
dopodiche
i metodi sono sempre gli stessi
buona giornata.
Micucci: “Scrivilo pubblicamente, ne prenderò atto con piacere, nonostante le tue ridicole minacce. Anche se confermi che non hai fiatato durante l’intervento ed un tempo non sarebbe accaduto. Confermi anche che hai ironizzato sulla scorta di Orfini. Ma che vuoi che ti dica che hai perso la testa? Mi spiace per te”.
Io: vabbeh lascia perdere fiato sprecato”.
Ovviamente è un dialogo privato, non è corretto pubblicarlo. Ma come si dice… a brigante brigante e mezzo. Quel video in poche ore ha avuto più di duemila visualizzazioni. E tutti hanno dovuto leggere come didascalia una cosa meramente falsa. Non vale la pena di querelare i due signori per diffamazione, avrei la sentenza fra qualche anno dopo aver speso un sacco di soldi. Ma di sputtanarli, nel mio piccolo, sì.
Perché io faccio il giornalista, questi personaggetti fanno solo danni al padrone di turno. Ieri D’Alema oggi Renzi.
Caro Renzi questa volta ti scrivo io…
Lettera dal segretario di un circolo di periferia
Caro signor Renzi, segretario del Pd nonché presidente del Consiglio e chissà cos’altro, chi le scrive è un segretario di un piccolo circolo del Pd della periferia di Roma, il circolo Capannelle. Nel 2014 dei 69 iscritti dell’anno precedente siamo rimasti in 42,. Tessere gonfiate nel 2013? Neanche per niente. In gran parte si tratta di persone deluse dal suo governo, anzi le dirò di più, proprio da alcuni dei punti che lei cita nella sua sconcertante lettera.
Sconcertante per due ragioni, la prima di merito. E’ zeppa di falsità. Si parla del jobs act come del provvedimento che sta garantendo diritti a centinaia di migliaia di giovani, quando quel provvidemento i diritti li toglie. I nuovi contratti a tutele crescenti firmati non sono dovuti all’eliminazione dell’articolo 18, ma al fatto che chi assume con quella forma non dovrà pagare contributi per tre anni, fanno 24mila euro risparmiati, secondo gli economisti. Che poi qualcuno mi dovrebbe spiegare quali sono queste tutele che crescono. Quando quel tipo di contratto fu ipotizzato, infatti – penso alle tesi di Ichino – si ipotizzava che nei primi anni di assunzione fossero sospesi alcuni diritti, alcune forme di tutela, come appunto il diritto al reintegro nel caso di licenziamento senza giustificato motivo. Adesso no e quindi non si capisce bene quali tutele crescano. Verrebbe da dire: “Lo sapremo fra tre anni”. Già, ma resta l’interrogativo: non è che fra tre anni, finita la decontribuzione, l’onesto imprenditore italico licenzia il lavoratore e fa ripartire la giostra con un nuovo contratto?
Per quanto riguarda, invece, la scuola, siamo davvero alle comiche. Il provvedimento da lei voluto non è stato preceduto per niente da quel lungo processo di partecipazione a cui fa riferimento, ma da una consultazione farsa che ha coinvolto pochi intimi. Altrimenti non si capirebbe come mai contro la cosiddetta riforma della scuola si sia creato uno schieramento di un’ampiezza mai vista, che va, in pratica, dai naziskin alle brigate rosse. Non sono un esperto di scuola e di formazione, m a ci sono alcuni aspetti che risultano evidenti. Lei dice che con la sua riforma viene introdotta l’autonomia scolastica. A me risulta che siano state le (troppe e troppo ravvicinate) riforme precedenti a introdurla e rafforzarla. Di questo provvedimento saltano agli occhi altre cose: vengono marginalizzati gli organismi collegiali introdotti nella scuola negli anni ’70 del secolo scorso, si dà potere totale al preside che diventa un dominus assoluto. Gli manca lo jus primae noctis, ma magari con un emendamento… Ma soprattutto si porta a compimento quel devastante processo di trasformazione della scuola della conoscenza in scuola della competenza che tanto caro era a Berlusconi. Devastante perché chi ha la conoscenza è in grado di acquisire man mano le competenze che il mondo del lavoro gli richiederà, mentre chi ha solo competenze specifiche a quelle sarà sempre limitato. La progressiva marginalizzazione delle materie umanistiche a questo porta.
Gli studenti che usciranno da questa scuola saranno meno cittadini, avranno menti meno aperte. In tutto il mondo gli studenti italiani sono sempre stati apprezzati per il alto livello di preparazione e per la loro agilità mentale. In tutto il mondo meno che in Italia, a quanto pare.
L’altro aspetto inquietante è quella forma di ricatto strisciante che è presente nella legge: approvatela in fretta perché permetterà di stabilizzare decine di migliaia di precari. Ora, a parte il fatto che ci si dimentica – e non si capisce bene per quale motivo – di alcune migliaia di professori che avevano vinto i concorsi e che vengono cancellati, non si poteva fare un provvedimento ad hoc, slegando le assunzioni dalla riforma vera e propria?
Cambiare radicalmente il nostro sistema scolastico non può essere fatto in fretta e furia, con i tempi contingentati perché bisogna assumere i prof in maniera da poter fare partire regolarmente il nuovo anno scolastico. Per esempio a me sarebbe piaciuto discutere di come si rafforza la collegialità di un istituto, non di come si cancella. Di come si rinnovano quelle forme di partecipazione alle decisioni che hanno anche un profondo significato formativo. Già, mi sarebbe piaciuto avere una sede e un partito per discutere di questi temi.
Le balle continuano, nella sua sconcertante lettera, quando parla della riforma elettorale. Si perché lei definisce la legge in discussione alla Camera, come la proposta del Pd: approvata dagli elettori con le primarie e poi modificata secondo i desideri della minoranza del Pd. Ora, a parte che le due affermazioni sono in evidente contraddizione: se la proposta è stata modificata non è detto che gli elettori la approvino ancora, ma l’affermazione alla base del suo ragionamento è destituita di ogni fondamento. Alle primarie lei, infatti, non presentò alcun disegno di legge, ma tratteggiò soltanto per grandi linee il modello elettorale che avrebbe voluto. Fece riferimento al concetto di “Sindaco d’Italia”, al fatto che serviva una legge che garantisse un vincitore “subito dopo la chiusura delle urne” e poco più. Le sarà facile comprendere come ci sia una pluralità di soluzioni differenti per raggiungere questo risultato. La legge da lei proposta io come segretario di circolo non ho mai avuto modo di discuterla. A nessun livello.
Poi c’è questa sgradevole chiamata alle armi contro i supposti traditori della minoranza Pd, quelli che vorrebbero sfasciare la ditta, non come, si legge nella lettera, fece lei che sostenne lealmente il Pd dopo aver perso le primarie.
Ora, signor Renzi, io ho scarsissima stima nei suoi confronti, quasi nulla. Come mai? Perché a me chi cerca di gettare fumo negli occhi del suo interlocutore usando tecniche da televendita non è mai piaciuto. Si figuri se mi può piacere un segretario del mio partito con queste caratteristiche. La comunicazione è solo fumo senza i contenuti. Quel fumo prima o poi si dirada e rivela il nulla.
La mia stima nei suoi confronti precipitò da quando pretese di cambiare lo statuto per fare le primarie contro Bersani che era già il nostro candidato a presidente del Consiglio, eletto proprio con le primarie. La mia stima nei suoi confronti arrivò a zero quando si ribellò contro l’albo degli elettori, chiedendo che ci si potesse registrare fino all’ultimo minuto (e così fu). La mia stima nei suoi confronti arrivò ai numeri negativi quando sempre lei chiese che ci si potesse iscrivere anche fra il primo turno e il ballottaggio. Che sarebbe un po’ come se una squadra di calcio, in svantaggio nel primo tempo, chiedesse di giocare il secondo tempo in 15. E quando le fu risposto di no, lei che dice che vanno rispettate le regole se si vuole stare nello stesso partito, fece un sito internet nel quale si truffavano gli elettori, illudendoli che per votare bastasse iscriversi al medesimo sito. Ora i suoi fedeli parlano della necessità di regolamentare le primarie, istituendo un albo degli elettori al quale ci si deve iscrivere ben prima del voto. Le stesse regole che gli stessi suoi fedeli giudicavano degne del Pcus quando si pensava che fossero un elemento che non giocava a suo vantaggio. Vede è questa concezione che ci divide: per lei è giusto solo quello che le garantisce più potere. Ma una legge elettorale non deve essere fatta a vantaggio di una parte sull’altra, non deve garantire il potere a qualcuno, deve garantire tutti i cittadini, tutte le parti in gioco. E deve garantire soprattutto il diritto di una minoranza di controllare l’operato del governo e di poter in futuro diventare maggioranza. Nella nostra Costituzione sono presenti una serie di pesi e contrappesi, che proprio questo scopo hanno: quello di non dare troppo potere a un singolo soggetto. Un sistema che viene scardinato nei suoi capisaldi se leggiamo i risultati che si otterrebbero combinando la legge elettorale alla riforma costituzionale in discussione al Senato.
Si potrebbe continuare nel merito. Si potrebbe parlare a lungo, ad esempio dell’aberrazione giuridica che abbiamo pervicacemente voluto: invece di garantire un procedimento penale rapido si allungano i tempi della prescrizione. Con il risultato che chi è colpevole riuscirà a tirarla ancora più alle lunghe, mentre chi è innocente dovrà aspettare ancora più a lungo per riuscire a dimostrarlo.
Potrei continuare, dicevo, ma mi fermo qui. Perché per me, oltre ai motivi di merito, ce n’è uno di metodo che è dirimente. Io mi sono francamente rotto tutto quello che è possibile rompere: non è possibile stare in un partito dove gli iscritti non decidono mai nulla, neanche sulle questioni fondamentali come una riforma costituzionale. Perché mica è vero che le riforme siano essenziali per migliorare il nostro Paese. Possono esserlo se vanno nella direzione giusta. Ma possono anche affossarlo definitivamente. Non voglio consegnare a mio figlio un paese meno democratico, con meno spazi di partecipazione, con meno diritti per i lavoratori. Non parli quindi a nome mio, perché a me, come a tutti gli iscritti al Pd non ha dato modo di esprimersi. Invece di una lettera nella quale si invita a prendere le armi contro chi – a parer suo – vuole confinarci nella palude, avrebbe dovuto chiedere ai circoli di avviare una grande campagna di ascolto e di confronto nella società. Con gli studenti e i professori, con quei sindacati che lei, come del resto alcuni suoi poco illustri predecessori a Palazzo Chigi, detesta. Perché un partito non è una semplice cinghia di trasmissione della volontà del capo assoluto. E non è neanche un luogo dove una maggioranza decide e gli altri eseguono. Un partito è una comunità in cui si discute, ci si confronta e ci si convince anche di ragioni diverse dalle nostre. Ma soprattutto un partito è vivo se è un luogo aperto alla società, se ha le sue antenne ovunque. Lei, evidentemente, di queste antenne non ritiene di aver bisogno: altrimenti si sarebbe accorto che tanti dei provvedimenti che cita nella lettera al nostro elettorato non vanno proprio giù. Lei non se ne cura. Altrimenti si preoccuperebbe non tanto e non solo delle percentuali dei voti al Pd, ma anche del numero di voti, rimasto sostanzialmente invariato. So preoccuperebbe della partecipazione che crolla, del clima di crescente sfiducia dei cittadini.
Su questi e altri punti mi piacerebbe avere occasione di discutere. E invece no. Ci si chiede un appoggio alla cieca, sulla fiducia. Non è questo il partito che abbiamo provato a costruire. Qua ci scrivono tutti, ci scrive il commissario che ha inviato per smantellare quel poco che restava della federazione romana, ci scrive lei. Mai nessuno che provi a consultarci, a chiederci cosa ne pensiamo, invece di chiamarci alle armi. Ma quello che lei vuole non è un partito, non è una comunità. Lei non vuole rappresentare gli iscritti, come dovrebbe fare un dirigente, lei ha bisogno di altro, di una mera cassa di risonanza per le sue decisioni. Non ci sto. E con me tanti altri che non hanno rinnovato la tessera nel 2014 e non la rinnoveranno nel 2015.
Se trova un paio di ore, signor Renzi, il nostro circolo è sempre disponibile per una discussione franca, come si fa in una comunità politica. Altrimenti alle armi ci vada da solo, si accontenti dei suoi fedeli, non avrà le persone libere come me e tanti altri.
Michele Cardulli
Segretario Circolo Pd Capannelle – Roma
Un treno nella storia
“Appia Antica Station”
Una stazione del treno dentro la più grande area archeologica del mondo, a cavallo tra due splendidi parchi. Io mi immagino cosa succederebbe in qualsiasi altro paese, se avesse questa possibilità. Qua, quando ne parli, ti prendono per un marziano e ti rispondono con il solito “non ci sono i soldi”.
Lo dico subito, l’idea originale non è mia, ma del presidente del Comitato di quartiere Statuario-Capannelle, Guido Marinelli. Me l’ha illustrata nel corso di un incontro organizzato dal circolo del Pd e ho avuto una specie di illuminazione.
Andiamo con ordine. Nel piano regolatore è già prevista una stazione sulla vecchia Roma-Napoli, adesso scarsamente utilizzata dopo l’apertura della linea ad alta velocità. La stazione doveva nascere a via Polia. E sembrerebbe una semplice fermata di quartiere, lungo una delle linee che dovrebbero diventare una futura metropolitana di superficie.
E invece – l’idea è semplice ma proprio per questo formidabile – potrebbe diventare una vetrina di Roma nel mondo. Perché, guarda caso la fermata si trova in pieno Parco degli Acquedotti, ma soprattutto a poche centinaia di metri dall’Appia Antica. Insomma a Roma si potrebbe arrivare in treno dentro l’area archeologica più grande del mondo.
All’idea originaria aggiungo qualcosa di mio. Secondo me la stazione andrebbe spostata direttamente sull’Appia nuova, proprio davanti a quella che, nei progetti della giunta comunale dovrebbe diventare “la porta di accesso al Parco dell’Appia Antica”.
In questa maniera, infatti, avremmo anche un nuovo nodo di scambio per chi arriva in macchina dai Castelli romani e la stazione avrebbe così una doppia valenza, sia turistica che di alleggerimento per la linea A della metropolitana. Dico di più, in questa maniera si troverebbe proprio davanti alla Villa dei Quintili. Un altro gioiello straordinario e ancora poco conosciuto.
Ci metto ancora del mio. Mi immagino un grande concorso di idee internazionale per dare una veste architettonica adeguata a quello che, lo ripeto, potrebbe diventare uno straordinario biglietto da visita per Roma in tutto il mondo. Mi immagino molto legno e vetro, una struttura leggera e luminosa. Immagino anche una stazione che sia davvero una porta per l’archeologia. E allora un punto di informazioni adeguato, un servizio di guide. Un punto di bike sharing, ma anche una ciclofficina, archeo-percorsi con app dedicate.
I soldi? Ragazzi, basta con il ritornello della crisi e dei fondi che mancano e dei tagli inevitabili. Intanto il nostro Paese, se vuole ripartire, deve fare delle scelte. E quella di valorizzare il nostro patrimonio dovrebbe essere obbligata.
E poi, facciamo uno sforzo di fantasia. Andiamo dalle più grandi aziende del mondo, andiamo da Apple, da Microsoft, da Google. I nomi sono ovviamente solo a titolo di esempio. E proponiamogli di unire il loro marchio a un’operazione di questo tipo. Immagino anche lo slogan: “Chi cerca il futuro ama la storia”. Io non credo che aziende di questo tipo sarebbero insensibili al fascino mediatico di un’operazione di questo tipo. Appia Antica Station, si può fare. Basta essere un po’ meno provinciali.
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