Lettera aperta alla Sinistra
Edizione straordinaria del “pippone”
Scena prima, una strada di Roma, giugno, volantinaggio di Articolo Uno.
Passante: “Ma che è?”
Militante: “E il nuovo movimento della sinistra, con Bersani, Speranza, D’Alema”.
Passante: “Bravi, ce l’hanno fatta a lasciare Renzi. Però mica farete un altro partito. Dovete stare tutti insieme, sennò io me ne rimango a casa”.
Militante: “Hai ragione pure tu, ma insieme con il Pd? Con Renzi?”
Sguardo truce del passante: “Ma de che? Insieme sì, ma la sinistra”.
Scena seconda, sfoglio dell’organo di stampa di un grande gruppo editoriale.
“Pisapia: no alla sinistra rancorosa. Tutti insieme, ma serve il centrosinistra, non un partito di testimonianza, dobbiamo puntare al governo. Con quelli del 18 giugno abbiamo un’altra visione”.
“Il primo luglio nasce Insieme, appuntamento a Roma. Prodi non ci sarà, ma in futuro potrebbe arrivare la sua benedizione. Letta non ci sarà ma si sente vicino. Cuperlo tentato. Sul palco Boldrini, Bersani e Pisapia. Obiettivo: dividere Bersani da D’Alema. Prodi incontra Renzi: farò da collante”.
Scena terza, dibattito sui social.
Militante di Sinistra italiana: “Eh no però, con chi ha votato Sì al referendum non ci voglio stare insieme. E poi D’Alema ha bombardato Belgrado. E Bersani che vuol dire che lui è liberale?”
Militante di uno dei partiti comunisti: “Ah, ma noi siamo comunisti, non ci interessano le istituzioni, siamo per la lotta nel lungo periodo”.
Militante di Articolo Uno: “Ma noi siamo per unire la sinistra, ma contro l’accozzaglia. Vi sento un po’ rancorosi oggi. E poi voi non siete neanche un prefisso telefonico”.
Sostenitore di Pisapia: “Bisogna tornare allo spirito dell’Ulivo, ma mica rivorrete fare l’Unione. E poi con il Pd, ma senza Renzi, bisogna dialogare”.
Insomma, qua non abbiamo capito nulla. Non abbiamo capito il grido del passante, a cui l’idea di un ritorno in campo di una sinistra piace anche, ma che nel guazzabuglio di gruppetti dirigenti, nei giochetti parlamentari non ci si ritrova proprio. Non vi capisce, cari presunti leader della sinistra. Non capisce cosa vi divide. E soprattutto, le elezioni amministrative ne sono l’ennesima riprova: non vi vota. Ritorna in campo solo quando vi presentate insieme e lo fate con un progetto radicato nella città e credibile. Alternativo e autonomo. E allora? Nel mio piccolo ci provo, con questa mia lettera-appello. Copiatela, condividetela, scrivetene una vostra, ma diamoci tutti (tutti tutti) da fare.
Lettera aperta alla Sinistra
Cara Sinistra,
da ragazzo, appeso davanti al mio letto, avevo un grande poster. C’era un Pasolini in bianco e nero, con accanto la sua poesia secondo me più bella: “Alla bandiera rossa”. Parla di una bandiera che era stata la speranza di milioni di persone e si sta sbiadendo, sta diventando un ricordo. Il poeta non era uno di quelli che te la mandava a dire, la conseguenza era drammatica, le parole impietose: “Chi era coperto di croste è coperto di piaghe, il bracciante diventa mendicante, il napoletano calabrese, il calabrese africano, l’analfabeta una bufala o un cane”. Quando guardavo quel poster, quando leggevo quelle parole, mi venivano sempre le lacrime agli occhi. Un po’ perché era un regalo di mia madre. Un po’ per quelle parole, violente, di Pasolini. Ecco, cara Sinistra, tu oggi sei come quella bandiera rossa.
Ti sei sbiadita dietro i giochi in Parlamento, ti sei nascosta nei retroscena dei giornali. Ti perdi ogni giorno di più nelle divisioni, nella frantumazione, nelle votazioni “tattiche” alla Camera e al Senato. E mentre tu ti sei persa, gli altri, le destre, mica stanno a aspettare. Siamo il paese con più diseguaglianze d’Europa. Fra lo stipendio di un manager e quello della sua segretaria passano vite intere. Dodici milioni di cittadini non si curano più. Non hanno i soldi e lo Stato pensa a dare i buoni ai figli dei ricchi. Invece di diminuire le tasse ai poveracci, cara Sinistra, chi governa in tuo nome, le ha diminuite ai padroni, non gli tassa neanche i villoni, quelli con la recinzione alta due metri, messa lì perché non si possa neanche vedere quello che c’è dentro.
Cara Sinistra, ti sei persa fra le righe dei comunicati stampa, dietro al dialogo via tuitte. In quei 140 caratteri maledetti che non ti fanno pensare. In quella gara a chi fa la battuta più fica, non ti abbiamo più ritrovato. Ti sei persa perché ai cancelli delle fabbriche non ti sei fatta più vedere. Ormai ci va soltanto, pensa un po’, Papa Francesco. Sei prigioniera nei gruppi parlamentari. Ti sei persa da quando non solo non vieni più ad ascoltare i compagni e i cittadini, ma pretendi pure di insegnar loro come devono vivere.
Cara Sinistra, io te lo dico con grande affetto: ci hai un po’ rotto le palle a tutti. Noi siamo quelli che ci sono sempre, che stanno alle cucine alle feste, che fanno i rappresentanti di lista estate e inverno, che riempiono le sale quando arriva il deputato. Quelli che votano, cercano le preferenze, si sgolano per strada e si prendono i pesci in faccia per te. Quelli che si incazzano, discutono, Quelli che ci hanno sempre creduto e sono sempre stati iscritti al Partito. Con la P maiuscola.
Ecco, proprio voi, cari militanti ignoti della Sinistra dispersa: qua ci stanno mandando a sbattere, gruppi dirigenti senza popolo, leoni da tastiera che non alzano la faccia dal computer. Serve una ribellione unitaria. E nel mio piccolo ci provo. Con questa lettera-appello, rivolta alla Sinistra ma ancora di più a voi. Ribellatevi, ribelliamoci. Inondiamo di mail i nostri parlamentari, facciamoci sentire ogni volta che convocano un’iniziativa, ma, ancora di più, facciamola da soli, la sinistra. Telefoniamoci, messaggiamoci, fissiamo incontri tra noi, militanti ignoti frantumati per motivi ancor più ignoti. Convochiamo noi assemblee (caseggiato per caseggiato) con un solo slogan: Unità. E invitiamo i parlamentari, i dirigenti, li facciamo sedere in platea e li costringiamo, per una volta, ad ascoltare noi. E se ancora non capiscono prendiamoli e chiudiamoli in una stanza.
Cara Sinistra, insomma, non servono le cose complicate. Nome: La Sinistra. Simbolo: Una stella rossa, una sola mi raccomando. Un bel cerchio, con un altro slogan: Uguaglianza è democrazia. No, cara Sinistra, non è uno sbaglio. Volevo proprio usare il verbo essere. L’accento è giusto. Perché la democrazia, se il tuo padrone guadagna mille volte più di te è una presa in giro. Senza uguaglianza le libertà democratiche sono una chimera. Cara Sinistra, chiama un grafico bravo, fatti fare un simbolo chiaro, di quelli che sulla scheda si vedono bene Il partito unico? Lascia perdere, cara Sinistra: siamo un arcipelago, costruiamo intanto una rete. Non una piramide, hai capito bene: una rete. Fatta da tutti i partiti e i movimenti esistenti, dalle liste civiche, dalle associazioni, dai singoli militanti ignoti.
Cara Sinistra, parla anche con i sindacati e spiegagli che si devono dare una mossa anche loro, perché hanno cominciato con l’articolo 18 e la “Buona scuola”, ma mica hanno finito. Non fate i buoni, neanche voi. Scendete in campo, aiutateci, non pensate che la contesa politica sia altra cosa, che non vi riguardi.
Insomma, cara Sinistra, non perdere altro tempo, torna nelle piazze, torna dalla parte del torto, con i migranti, con i pezzenti, torna a fare la Sinistra.
Come diceva Pasolini, cara Sinistra “ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli”.
Il pippone del venerdì/14
Di tatticismo si muore, Articolo Uno rompa gli indugi
Mentre in Gran Bretagna i laburisti, con un programma di sinistra, guadagnano seggi per la prima volta dal 1997, in Italia quelli che sono sempre stati in vita loro in un partito del 3 per cento, spiegano a D’Alema come non fare un partito del 3 per cento. Sullo sfondo l’ennesimo disastro renziano: salta l’accordo sulla legge elettorale, il voto segreto fa emergere tutta la doppiezza dei grillini. Che saranno anche gli apriscatole del Parlamento, ma poi, quando si trovano a dover decidere, si comportano come la peggiore Democrazia cristiana: comandano le correnti. Succede nelle amministrazioni locali, dove non v’è traccia della trasparenza e della partecipazione dei cittadini. Succede alla Camera dove fanno finta di fare l’accordo e poi lo bruciano con manine che dovevano restare segrete e, invece, sono apparse sul tabellone elettronico di Montecitorio. Ma tutto questo è cinema. Torniamo al filone principale.
Ora, dicevamo la settimana scorsa: la sinistra guadagna voti quando fa il lavoro suo, difende i deboli, elabora programmi di riscatto sociale, parla ai lavoratori, agli studenti, ai pensionati. E’ successo in Grecia, in Spagna, in Portogallo, in Francia. Succede proprio in queste ore in Gran Bretagna. Il vecchietto Corbyn che tutti davano per defunto prende il 40 per cento. E allora come prendere voti e tornare a contare qualcosa anche in Italia? La risposta è facile. Copiamo dal resto del mondo. E invece no. Da settimane ci stiamo lambiccando sulla formula da adottare: rifare la sinistra, rifare il centro sinistra, no serve un sinistra centro. Ma poi ci mettiamo il trattino o no? Serve un centro-sinistra discontinuo. Sì, ma niente ammucchiate arcobaleno. E questa, lo dicevamo in apertura, è la più bella.
Andiamo con ordine. Che succede nel 2008? Caduto il governo Prodi, anche grazie ad alcune uscite improvvide sulla vocazione maggioritaria del Pd da parte del segretario Walter Veltroni, il Partito democratico decide che il centro-sinistra che aveva vinto le elezioni precedenti non serve più e che alle elezioni andrà da solo. Uno scontro frontale con Berlusconi. Bertinotti, allora leader di Rifondazione comunista, la principale formazione a sinistra dei democratici, dice che va bene e dà vita alla sinistra arcobaleno, raggruppando tutti i frammenti di quella variegata galassia: dai vari partiti comunisti, a quella parte dei vecchi Ds che non aveva aderito al Pd, ai verdi. Non aveva calcolato, il rivoluzionario dei salotti bene di Roma, due cose. La prima: andare alle elezioni con un simbolo nato dal nulla pochi mesi prima non era una grandissima idea. La seconda: il maggioritario tende a polarizzare lo scontro fra i due contendenti principali. Morale della favola la sinistra arcobaleno rimase fuori dal Parlamento e iniziò una lunga traversata nel deserto. Una batosta dalla quale, pur con risultati meno disastrosi, non si è più ripresa: la diaspora è proseguita, le aggregazioni che si sono succedute negli anni sono sempre state accordi fra gruppi dirigenti, lontani dagli scontri veri in atto nel paese.
Che succede da qualche mese a questa parte? Qual è la vera novità? Che un pezzo di gruppo dirigente del Pd abbandona Renzi, dice che quella non è più la sua casa, troppo personalismo, troppi elementi di destra nell’azione del governo e dice: tocca ricostruire un soggetto politico plurale e unitario al tempo stesso, che possa dare rappresentanza a tutto quel popolo che non sa più chi votare. E si è rivolto perfino, negli ultimi anni, a un movimento populista e demagogico come i 5 stelle. Come fare? Ripartiamo dal basso. Insomma, le tesi che da qualche anno, non da solo, provo a sostenere. Chi ogni tanto legge le mie farneticazioni, lo sa bene cosa intendo: vedo la sinistra come tante isole disperse nell’oceano. Non parlo tanto delle tante (troppe) sigle di partiti e partitini, ma della sinistra diffusa, delle associazioni, dei movimenti. Di tutte quelle esperienze di resistenza sociale che, nel vuoto della politica, hanno tenuto duro in questi anni. E non hanno rappresentanza. Facile? Tutt’altro.
Non è per niente un compito facile. E diventa ancora più complicato se ci mettiamo a fare l’analisi del Dna a ciascuno di noi. A rispondere “no tu no” a chi dice “vengo anche io”. I veti reciproci, il rinvangare errori di vent’anni fa, non ci porterà da nessuna parte. Ora si parla di un nuovo Ulivo, di un nuovo centro sinistra, chi è stato protagonista della stagione della sinistra arcobaleno parla con terrore di quella esperienza. E lo venite a dire a noi? Guardate che abbiamo ben chiaro che non serve la somma delle siglette della sinistra. Non serve un’operazione di conservazione di ceto politico. Bisogna parlare a quelle mille isole disperse, bisogna dirgli che devono uscire dal guscio, che devono mettersi in gioco direttamente. Non delegare a una classe dirigente stanca e usurata dalle sconfitte, ma farsi classe dirigente in prima persona. Non aspettare che noi ricostruiamo una casa dove anche loro possano riconoscersi, ma costruirla insieme. Altro che sinistra arcobaleno, altro che somma di partitini inesistenti. Esperienze di questo genere, questa rincorsa minoritaria, non sono nel nostro Dna. Diciamolo una volta per tutte: non si prendono lezioni da chi in formazioni irrilevanti ha passato gran parte della sua storia politica. Che ognuno faccia i conti con la sua storia, con le sue sconfitte e le sue vittorie.
Il punto da cui partire, la base comune, non può che essere, a mio avviso che uno: applicare la Costituzione italiana. Io credo che dire il nostro riferimento è il no al referendum del 4 dicembre, sia insufficiente. Intanto perché chi ha votato sì con molti mal di pancia, per mera disciplina di quello che all’epoca era il suo partito, non può essere crocifisso nei secoli a venire. Ma anche perché non si parte da un no, non ci si definisce per contrarietà. “Noi siamo quello che non vogliono”. Capite la debolezza di questa frase? Noi siamo quelli che, dopo un referendum che ha salvato la Costituzione da un attacco senza precedenti, ora vogliono farla vivere, vogliono che i principi scritti nella prima parte della Carta diventino azione politica quotidiana. Credo sia una prospettiva più solida, più attrattiva.
Punto secondo: le diseguaglianze. Io resto convinto della necessità di superare il capitalismo. Sarò vintage, ma sono rimasto legato alla prospettiva indicata da Togliatti prima e Berlinguer poi. Le libertà democratiche, i diritti civili e sociali, dicevano, sono nulla, diventano parole vuote, se non ci si aggiunge una libertà più importante, la libertà dal bisogno, dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Nel paese che ha accumulato negli ultimi vent’anni più diseguaglianze che nel resto d’Europa messa insieme, queste frasi sono fondamentali, la parola “uguaglianza” assume una valenza rivoluzionaria. E quindi lavoro, investimenti, sanità di qualità per tutti, una scuola pubblica più forte e più democratica. Non so se sono parole vecchie, antiche dice qualcuno. A me sembra che siano di gran moda in tutto il mondo.
Ultima notazione, la vicenda del leader di questo schieramento. Un sondaggio apparso nei giorni scorsi sul Fatto Quotidiano, attribuisce a una forza unita della sinistra percentuali intorno al 10 per cento. Con punte del 16 a seconda del leader. Saviano, per dirne uno, è quello che attira più consensi, a seguire Rodotà e Bersani. Io credo sempre che, più che sulla ricerca di una figura carismatica, dovremmo concentrarci di più su cosa vogliamo fare e metterci a farlo. Casa per casa. Poi le formule verranno da sole e i leader cresceranno. Alcuni errori, però, vanno evitati con accuratezza.
1) Basta con i tatticismi politicanti. Non ci capisce nessuno se ci definiamo in maniera differente a seconda del modello elettorale in voga durante la settimana. Credo che sia persino insufficiente e fuorviante definirsi come forza “alternativa” al Pd. Perché una forza non si definisce in relazione ad altri. Quella che dobbiamo costruire non è una forza alternativa a qualcuno, ma una sinistra autonoma, dal punto di vista culturale innanzitutto.
2) No al raggruppamento dei reduci. In queste settimane abbiamo dato tutti un’occhiata ai nomi che girano e che garantirebbero, nella mente di chi li fa filtrare, un profilo del tipo ulivista alla nuova formazione politica. Da Prodi, a Tabacci, a Letta. Fino a De Mita che le cronache danno in fase di grande attivismo. Tutte figure significative che hanno avuto un ruolo importante nella nostra storia. Ed è positivo sapere che ci guardano con attenzione. Ma non possono essere il nostro riferimento. Anche perché poi lo stesso Prodi ci fa sapere che si è accampato con la tenda e aspetta. Non si sa bene cosa. Noi di tutto abbiamo bisogno meno che di gente che aspetta.
3) Nessuno pensi che basta definirsi leader per esserlo. Lo dicono proprio i sondaggi. Non basta avere il via libera da parte di qualche salotto buono. Neanche se di quel salotto fanno parte editori, capitani d’industria e importanti intellettuali. Quando si va a votare, il loro voto sempre uno conta. Il leader, o meglio il gruppo dirigente si sceglie con un processo di partecipazione. Primarie, assemblee diffuse, decidiamolo insieme.
4) Basta con le posizioni dette a metà. Dobbiamo essere netti. Diritti: bisogna reintrodurre l’articolo 18. Punto, senza mediazioni a monte. Scuola: abolire questa vergogna dell’alternanza scuola lavoro. Tasse: paghino i ricchi, noi abbiamo già dato. Guardate che i Melenchon, i Corbyn i voti lo hanno presi così. Fra i giovani, mica fra i sessantenni.
5) Basta con le convocazioni in contrapposizione: prima si fa l’assemblea di quelli del No, poi si fa quella di Pisapia e soci. Articolo uno, che nasce proprio con la vocazione di riannodare i fili spezzati, non può essere semplice spettatore, infrastruttura a disposizione come dicono alcuni con un’espressione orribile. No, tutt’altro. Dobbiamo essere noi il motore della barca. Dobbiamo fare il giro delle isole, non aspettare che si spostino da sole.
Il pippone del venerdì/13
La sinistra, breve storia (triste) di un suicidio di massa
Punto primo: la sinistra vince, o meglio resiste, quando fa la sinistra. Perde quando si sposta al centro e sposa i vari liberismi, magari tentando di mitigarne gli aspetti più estremi. Succede in tutto il mondo.
Punto secondo: il centro, in politica, non esiste. E’ una finzione che ci siamo inventati in Italia, in tutto il mondo i partiti si schierano sull’asse progressisti/conservatori. Possono essere più o meno orientati verso uno dei poli, ma un partito neutrale rispetto a questa contrapposizione non esiste in natura. E anche quando qualche movimento politico proclama la sua neutralità è solo per mascherarsi.
Il ragionamento sarebbe ovviamente più complesso e articolato. La contrapposizione progressisti/conservatori appare a volte più o meno netta. I fattori che entrano in gioco vanno spesso oltre la contrapposizione di classe dell’800. Anche se, lo dico per onestà, io trovo che capitalisti contro proletari, in fondo in fondo, funzioni bene anche adesso, se ampliamo l’orizzonte a livello mondiale. Al netto delle semplificazioni, che ammetto, io credo che queste coordinate siano vere, questi due punti fermi rappresentino bene la situazione politica. Tranne che in Italia. Paese nel quale c’è ancora il fattore k.
Riassumiamo brevemente, non me vorrete per la rozzezza dl racconto. Nel dopoguerra in Italia si crea una situazione del tutto originale, rispetto al resto dell’Europa occidentale: c’è un blocco moderato, conservatore, che ha il suo fulcro nella Democrazia cristiana, non c’è un blocco progressista che possa competere per la conquista del potere, perché la sinistra è rappresentata essenzialmente dal Pci, partito che arriverà nelle stagioni migliori a due milioni di iscritti e al 34 per cento dei voti. Una forza considerevole, ma non spendibile per il governo. Perché l’Italia, nella spartizione del mondo fra Usa e Urss che avviene dopo la seconda guerra mondiale, fa parte dell’occidente. E, malgrado l’evoluzione democratica avviata da Togliatti e conclusa da Berlinguer, resta la pregiudiziale: il Pci può amministrare Comuni e Regioni ma non può partecipare al governo del paese. Lo chiamano fattore K. E quando con Moro si profila una convergenza fra Dc e Pci, il famoso compromesso storico, ecco che il dirigente democristiano viene rapito dalle Brigate rosse e ucciso. Un rapimento dietro il quale c’è chiaramente la mano dei servizi segreti. Non solo italiani.
E allora che succede? Quale è il senso di questa storia? Complice il fattore K, in Italia ci siamo inventati il centro: la Democrazia cristiana da partito conservatore diventa un grande contenitore in cui sono presenti sia la destra che la sinistra. E tutto ruota intorno alla balena bianca: si allea con le forze moderate, poi si apre ai socialisti che si allontano dal Pci. Quando servono ci sono i voti del Msi, la destra fascista, voti in frigo, ma a disposizione. Una grande ammucchiata. La sinistra comunista, un terzo del Paese è bene ricordarlo ancora una volta, resta esclusa. Fino a tangentopoli. Siamo all’inizio degli anni ’90. Il Pci, finita l’Unione sovietica, ha cambiato nome, crollano gli altri partiti tradizionali. Sembra arrivato il momento per avere un governo progressista. E invece che succede? Salta fuori Berlusconi, aggrega la destra, parte della vecchia Dc e del Psi, tira fuori dal frigo il Msi, diventato nel frattempo An, e rimanda i nipotini di Togliatti all’opposizione. Servirà Romano Prodi, un ex democristiano per portare i progressisti al governo. Insomma, il fattore K passa dall’essere elemento di esclusione totale a elemento di “necessità di tutela”: potete governare ma non troppo, vi controlliamo comunque noi. Perfino quando un ex comunista diventa presidente del Consiglio, succede con Massimo D’Alema dopo la caduta di Prodi in Parlamento, la gestione del potere, la stanza dei bottoni vera, ha un forte ancoraggio occidentale. Il suo governo tira avanti grazie alle truppe di Francesco Cossiga, l’ex presidente della Repubblica regista di gran parte delle trame anticomuniste dei tempi della guerra fredda. E D’Alema per dimostrare la sua fedeltà all’occidente, dovrà perfino far partire i bombardieri contro la ex Jugoslavia. Una sorta di sindrome dell’ultimo arrivato che deve dimostrare al gruppo quanto è fico.
E che si fa? La sinistra, per risultare ancora più digeribile al potere economico in Italia, si annacqua ulteriormente: nasce il Partito democratico. Lo guida il meno comunista degli ex comunisti, Walter Veltroni. E manco così va bene. Ci prova Pierluigi Bersani, esponente della sinistra del fare, ex presidente dell’Emilia Romagna. Insomma, uno che vuole aiutare l’economia capitalista, non trasformare l’Italia in un paese socialista. E niente, non va bene neanche lui. Quando la vittoria sembra a un passo gli piazzano Mario Monti, presidente del Consiglio di un governo chiamato a salvare il paese dall’emergenza economica. E gli dicono: lo devi sostenere, altrimenti l’Italia va verso la bancarotta. Probabilmente non è vero, malgrado la cura liberista siamo ancora un paese troppo importante economicamente. Ma il Pd ci crede. Più di un anno di agonia. Non sto a fare l’elenco, perché i provvedimenti decisi dai tecnici sembrano la trama di un film dell’orrore. Tutti sappiamo come è finita, la vittoria non vittoria, i 101 contro Prodi, le dimissioni di Bersani, le nuove primarie.
Qui si chiude il cerchio della storia del dopoguerra. Renzi, giovane virgulto democristiano con entrature importanti in ambienti finanziari e in oscure lobby, diventa il “capo” degli ex comunisti. E cosa ti fa fin dal primo giorno di lavoro? Lavora per farli estinguere. Questa è la famosa rottamazione, altro che storie: non il pensionamento di uno o due leader politici consunti dagli anni, ma la rottamazione di un’intera cultura politica italiana, la cultura comunista italiana che ha continuato, in varie forme a essere cervello e gambe della sinistra nel nostro paese. Lo fa, o almeno prova a farlo, perché la trova nel momento più basso della sua storia. I dirigenti sono consumati dalle sconfitte, sotto di loro c’è una classe di giovani rampanti che, il giorno dopo l’elezione di Renzi, provano già a salire sul carro del vincitore. E il ragazzotto fiorentino, magnanimo, li accoglie, ma lascia loro i posti più scomodi e marginali, non entrano mai nella vera stanza dei bottoni. In cambio pretende fedeltà assoluta. Una roba che neanche negli anni in cui il centralismo democratico era regola assoluta per la vita del Pci. Perché lì almeno si discuteva prima di decidere. Adesso il leader decide e hai una sola opzione: dire di sì. Chi contesta, educatamente, diventa gufo, rosicone, parruccone, rema contro. Succede all’interno del partito, succede con i giudici che bocciano le leggi del governo, succede con i – rari – intellettuali che provano a gridare che “il re è nudo”.
Il resto è storia di oggi. Una parte, piccola o grande si vedrà, di quella tradizione, di quella cultura comunista italiana, prova a rialzare la testa, se ne va dal Pd e dice: “Ragazzi, si riparte”. E scatta subito il fattore K. Questa volta assume le sembianze di un timido avvocato milanese, un esponente della cosiddetta borghesia illuminata che si autonoma leader federatore, prende le redini della baracca e dice: bisogna rifare il centrosinistra. Anzi più che dice, pigola. Perché fra un tentennamento e l’altro questo Pisapia sembra più un pulcino spaventato – il pulcino Pisapio appunto – che un capo politico. Ma al di là delle battute, quello che vorrei provare a spiegare è l’errore di fondo su cui si basa questa operazione, alla quale, a quanto pare, tutti stanno accodandosi in buon ordine.
Immaginatevi questa scena: per vent’anni vi danno da mangiare biscotti con olio di palma. Poi a un certo punto si scopre che l’olio di palma fa male. Lo eliminano dai biscotti e lo sostituiscono con il burro di palma. Non è che fa male anche quello no?
Insomma, provo a dirla semplicemente, da qualche anno oramai mi sono fatto questa convinzione: non è che il progetto originario del Pd è fallito. Era proprio questo il progetto originario, ovvero rendere inoffensiva una famiglia politica, una cultura che tanto aveva rappresentato nella storia del ‘900. E la cura qual è? Ne facciamo un altro, ma più piccolo. Invece di Franceschini ci mettiamo Tabacci che almeno è simpatico. Guardate che se la raccontiamo a un cittadino di un altro stato ci prende per matti. Non è che gli altri lavorano per farci scomparire, non è il destino cinico è baro: stiamo facendo tutto da soli. Siamo noi che lavoriamo alla nostra scomparsa. Ora, io passo per essere realista. E dunque, prima di tutto bisogna pensare alla sopravvivenza. Va bene tutto. E quindi Pisapia, che uso come personificazione di una sinistra moderata, può essere parte di un progetto in due fasi: a) sopravviviamo alle elezioni; b) abbiamo cinque anni di tempo per riorganizzare la sinistra. Ma non può essere che per far ripartire la sinistra ci facciamo scegliere il capo da qualche gruppo editoriale italiano al quale non siamo mai stati particolarmente simpatici.
Dunque, che fare? A me convince molto lo schema indicato da D’Alema, non a caso indicato come il cattivo da abbattere: si parta da assemblee quartiere per quartiere, sui programmi, per ritrovarsi, per ricostituire una comunità politica che altri hanno diviso. Poi si facciano le primarie per scegliere i candidati alle Camere (che altrimenti saranno tutti nominati, con la legge elettorale che stanno discutendo in parlamento) e soprattutto per scegliere il leader di questa alleanza. Di sinistra, di centrosinistra… ha ragione chi sostiene di essere stanco di nominalismi. Io sarei anche per evitare di indicare un leader unico, sarei per dare la sensazione di una squadra ampia e rinnovata, ma dicono all’epoca della comunicazione sfrenata ci serve. Magari non lo lasciamo solo. Mettiamoci i contenuti, mettiamoci facce nuove. Di gente che viene dalla vita reale, non dai salotti. Il tempo dei polli di allevamento è finito.
Il pippone del venerdì/12.
Berlusconi-Renzi, un patto che si può sconfiggere
Tutto fatto, dicono i giornali. C’è l’accordo fra Renzi e Berlusconi sulla reintroduzione di un sistema elettorale quasi proporzionale, simile a quanto pare al modello tedesco, ci sarà sicuramente qualche correttivo per non creare guerre in Parlamento, gli Alfano, i Verdini, dovranno pur essere rassicurati. Resta incerta solo la data del voto. Insieme alle elezioni in Germania, come vorrebbe il neo segretario del Pd, più avanti dice il leader della destra. Particolari, briciole, che non andranno a rompere un abbraccio che regge ormai da anni, al di là delle scaramucce.
Andiamo con ordine. Intanto: sarà proprio proporzionale? Evidentemente non del tutto, si parla di uno sbarramento al 5 per cento, molto alto per un sistema frammentato come quello italiano. Faccio un paragone con la prima repubblica. Elezioni del 1979: avremmo avuto solo quattro partiti in parlamento: Dc, Pci, Psi, Msi, che rappresentavano all’epoca circa l’83 per cento degli elettori. In più è facile immaginare una sorta di effetto taglia partiti: ci sarà il richiamo a non disperdere il voto, che, di fatto, tenderà a concentrare il voto degli elettori su quelle forze politiche che sono sicure del 5 per cento. In politica conta molto l’effetto psicologico, se vieni percepito come perdente hai già perso.
Quindi ci sarà intanto un effetto aggregativo, si formeranno liste composte da più partiti. Funzionano? Secondo me no, se l’elettore ha la sensazione (ancora una volta entra in campo la psicologia) che siano soltanto aggregazioni elettorali, tenute insieme dalla mera voglia di mantenere qualche seggio in Parlamento. Ma di questo parleremo dopo, torniamo al cuore del ragionamento.
Dunque avremo un sistema con due forze fra il 25 e il 30 per cento, Pd e M5s, altre due intorno al 10 forse 15 per cento, Forza Italia e Lega. Fanno un totale di voti fra il 70 e il 90 per cento dell’elettorato. Probabilmente attorno ai due poli moderati, Pd e Forza Italia, si aggregheranno parte degli attuali cespugli parlamentari, da Alfano a Verdini, alle sigle varie che si compongono e si scompongono dalla mattina alla sera. Chiederanno qualche posto in lista per garantire la propria sopravvivenza. In qualche caso anche la libertà personale dei condannati vari ai quali non si potrà far mancare la protezione del seggio.
Per comodità, ma non credo che il dato finale sarà molto diverso, assumiamo come vero il dato centrale della forchetta: dunque quattro forze politiche rappresenteranno circa l’80 per cento dell’elettorato. Come negli anni ’70 del secolo scorso, viene da dire. E una di loro, il M5s, viene percepita come antisistema dagli altri attori del sistema politico. Un po’ come avveniva con il Pci, in passato, anche se il paragone è ovviamente è forzato. Ma il ragionamento è consequenziale e la conclusione, per chi guarda alla realtà senza pregiudizi è inevitabile: il prossimo governo dovrà necessariamente essere caratterizzato da un patto di ferro fra Berlusconi e Renzi, più qualche acquisto post elettorale per arrivare ad avere una, sia pur risicata, maggioranza parlamentare.
Io credo sia questa una delle ragioni per cui Renzi vuole andare a votare insieme alla Germania, dove, con tutta probabilità avremo un risultato simile, come avviene da due legislature a questa parte nessuna delle due forze principali, i democristiani e i socialisti, avrà i voti necessari a governare da sola. Votare qualche mese dopo significherebbe ammettere esplicitamente di fronte all’elettorato italiano questa eventualità e questo, sempre per lo stesso effetto psicologico, potrebbe indebolire Pd e Forza Italia. Non dimentichiamo che si tratta di partiti che, nel recente passato, hanno convinto una fetta consistente del proprio elettorato proprio in ragione della reciproca contrapposizione. Meglio non rischiare dunque, non instillare ragioni di incertezza in un elettorato di per sé parecchio disorientato.
E allora, riassumiamo. Si approva questo benedetto modello simil tedesco, poi si va al voto. Secondo me alla fine l’avrà vinta Berlusconi. Sia il presidente della Repubblica che Confindustria hanno più volte fatto capire che sarebbe bene fare la legge di stabilità prima di andare alle urne. Altra cosa che Renzi vorrebbe evitare. Ma anche alzare l’Iva al 25 per cento, cosa che avverrebbe in virtù di quel marchingegno infernale di adeguamento automatico che scatta se non vengono rispettati determinati parametri economici, potrebbe non essere esattamente salutare per aumentare il proprio consenso elettorale. Comunque sia, si andrà alle urne. Il M5s sarà il primo partito – l’appello renziano al voto utile servirà a poco – Mattarella, dopo le consultazioni, affiderà a un grillino un incarico esplorativo, come si diceva un tempo. Durerà poco, non hanno la maggioranza e non sarà possibile un governo grillino, poi si arriverà alla ciccia. E sarà, con i numeri che ho provato a descrivere, necessariamente un governo di larghe intese. Ci prenderanno in giro con i soliti ragionamenti che ormai conosciamo a menadito: la responsabilità, i mercati, il rischio di speculazioni sui titoli di stato, la necessità urgente di riforme. Ci sarà la chiamata a tutti le persone “che hanno a cuore l’Italia”. Salviamo il paese dal rischio instabilità, serve un governo autorevole che ci rappresenti in Europa. Si sa, storia già vista.
E passeranno cinque anni così. Poi Berlusconi si ritirerà per limiti di età, si sarà garantito nel frattempo le sue aziende, uscirà di scena serenamente viene da dire. Il suo partito si dividerà e il Pd ingrosserà le proprie file con buona parte dei transfughi di quel campo. Avremo finalmente la nuova Democrazia cristiana di cui tanto sentiamo la mancanza. In questo tempo, siete avvertiti, ci saranno almeno una decina di ultimatum di Gianni Cuperlo, che poi, però troverà inevitabilmente un accordo con la sua nemesi Renzi.
Lo scenario è grigio, ne converrete con me. Resta però, quel campo, quel 20, forse 30 per cento di elettorato che non si riconosce negli attuali quattro partiti maggiori. Più una parte dell’elettorato grillino che vota 5 stelle per disperazione. E vista la situazione non bisogna neanche stupirsi troppo. Una cosa è certa, una sinistra frantumata fra quattro, cinque sigle, non ha alcuna possibilità di incidere su questo quadro. È destinata fatalmente ad un ruolo di testimonianza fuori dal parlamento o ad essere attratta dal partitone renziano del futuro coprendo il fianco sinistro dello schieramento.
E poi, diciamoci la verità: se si guarda al peso politico dei quattro, cinque partiti comunisti esistenti, di Sinistra italiana, Possibile, Articolo Uno, si capisce bene come l’esistenza di buona parte di queste forze ha come unico scopo quello di creare qualche carica inutile. Si ha come la sensazione che qualcuno fondi un partito solo per potersi fregiare del titolo di segretario nazionale. C’è un mondo fuori dalle nostre casette scalcinate. C’è un popolo che ci chiede di essere rappresentato. L’ho già detto e scritto e non mi stancherò di ripeterlo: bisogna superare i rispettivi egoismi, basta con i tatticismi, basta con le incertezze di qualche presunto leader, il cui unico consenso deriva dall’appoggio di qualche potente gruppo editoriale. E basta, mi dispiace dirlo ma tocca farsene una ragione, con la favoletta dei compagni che sono rimasti nel Pd e con cui bisogna comunque costruire un rapporto. Ora, se ancora non hanno capito cosa sta succedendo, vuol dire che sono rimasti nel Pd perché gli sta bene. Porte aperte quando decideranno cosa fare da grandi, ma per il momento stanno lì, sono avversari politici.
Ha ragione D’Alema. Posso dire con un certo compiacimento narcistico di averlo proposto due anni fa, ma ovviamente se lo dice lui ha un altro peso: basta con gli accordicchi dei gruppi dirigenti, lanciamo assemblee in ogni città, chiamiamola alleanza per il cambiamento, chiamiamola Giovanna, i nomi contano poco, servono i contenuti. Con Fondamenta, la settimana scorsa, Articolo Uno qualche paletto ha cominciato a metterlo. Ci sono elaborazioni interessanti di Sinistra Italiana, di Possibile. Ci sono le proposte di legge sui diritti dei lavoratori della Cgil. Ripartiamo da qui.
Insomma, andiamo oltre le nostre siglette. Chiamiamo i sindacati e diciamogli: ma a voi vi sta bene questa roba qui? O avete bisogno di costruire con noi un fronte progressista che possa difendere le istanze dei lavoratori? Chiamiamo l’associazionismo diffuso, il volontariato, chiamiamo quelli che sono tornati a casa negli anni scorsi. Chiamiamo quegli studenti che sono scesi in campo per difendere la costituzione. Chiamiamo quel pezzo di popolo che è convinto che la questione morale, il rispetto della legalità siano valori fondanti per uno Stato moderno. Casa per casa, quartiere per quartiere. Prenderemo il tre per cento come dicono i soloni della politica? Non lo so. Il nostro non è un lavoro che possa concludersi in qualche mese, anche in questo sto diventando ripetitivo, sarà l’età. Stiamo lavorando per non farci trovare impreparati dopo le elezioni. Per costruire un campo autonomo, non una stampelletta parlamentare destinata a estinguersi. Bisogna avere chiaro questo. E aprire anche gli occhi. Assemblee programmatiche in ogni quartiere, troviamo i candidati alle elezioni con le primarie, facciamo scegliere a quelli che non vogliono far carriera, non in qualche stanza chiusa, mettiamoci sempre uomini e donne pronti a una lunga traversata. Facciamo scendere in campo una nuova classe dirigente. Abbiamo sperimentato quelli fedeli che dicono sempre così, proviamo a mettere in campo persone libere. Così, non con aggregazioni mordi e fuggi, possiamo ricostruire la sinistra, il centrosinistra, chiamatelo come vi pare, va bene anche Giovanna. Torniamo a essere quelli che “noi veniamo da lontano e andiamo lontano”. Tre per cento? Echissenefrega.
Il pippone del venerdì/11.
Libera informazione per un libero Stato
Agghiacciante. Non trovo altre parole per definire la discussione che si è sviluppata nel mondo politico dopo la pubblicazione sul Fatto quotidiano di una telefonata fra Renzi figlio e Renzi babbo. Agghiacciante il tono della discussione. Agghiacciante il contenuto. Agghiaccianti le parole usate. Neanche troppo nuove, a dir la verità.
Andiamo con ordine e mettetevi comodi, che facciamo un riassuntino. Accade che Marco Lillo, giornalista ex Espresso, una firma del giornalismo italiano, entra in possesso di una telefonata fra i due Renzi, con argomento l’inchiesta Consip, la inserisce in un suo libro e dà alcune anticipazioni sul giornale. Comunque la si voglia vedere ha un contenuto esplosivo: Renzi che dice al padre “mi stai mentendo”, lo invita a nascondere la presenza della madre a un incontro, poi ancora sostiene che il padre avrebbe mentito a un certo Luca e lo esorta a dire tutta la verità ai magistrati. Un notizione insomma. La mattina però sparisce dalle rassegne stampa dei principali canali televisivi. Ignorata per dare spazio a delitti di provincia e beghe assortite della politica. Sparisce dai tg del mattino. Sui siti se ne trovano poche tracce, mentre diventa in pochi istanti regina dei social network, rimbalza da tutte le parti, fin quando alle nove circa esce la replica di Renzi figlio, sempre su Facebook, il quale rivolta la telefonata a suo favore. Lo vedete? – attacca il neo segretario del Pd – Io non ho nulla da nascondere, ho anche trattato male mio padre per costringerlo a dire la verità, poi in realtà in seguito ho scoperto che aveva ragione lui.
A quel punto tutti i giornali si accorgono della notizia. Non di quella pubblicata dal Fatto, sia chiaro, ma della replica renziana. Spariscono tutti gli interrogativi che quella telefonata dovrebbe porre. Perché mamma Renzi non dovrebbe essere nominata? Chi è questo Luca di cui si parla? Ci sono stati questi incontri fra babbo Renzi e l’imprenditore Romeo, siano cene o aperitivi, o no? Niente di tutto questo: la stampa italiana quasi all’unisono alza gli scudi. Fino ad arrivare, il giorno dopo, a completare il quadretto familiare con un grande scoop del principale quotidiano del nostro paese: parla nonna Renzi. E ci mancava.
In parallelo parte l’attacco concentrico. Il segnale della carica lo dà il neo presidente del Pd Matteo Orfini: per lui l’espressione “gogna mediatica” rispetto al trattamento riservato all’ex presidente del Consiglio non basta. Siamo all’eversione. Si vuole abbattere il partito a colpi di intercettazioni. Il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, tuona dall’alto del suo scranno: tutti ipocriti, sono anni che vi dico che serve una legge per evitare la pubblicazione delle intercettazioni. Serve un bavaglio e anche bello stretto. Segue scazzo violentissimo fra i due, ma questa è un’altra storia.
Sui social il tutto diventa più pecoreccio. Ci sono i professori di diritto da bar che ti spiegano come l’intercettazione non abbia alcuna rilevanza penale e quindi non può finire su un giornale. Ci sono i fascisti di ritorno che si chiedono se sia possibile che un giornalista abbia – udite, udite – la possibilità di scegliere quali informazioni divulgare. Ci sono quelli che intonano una sorte di ode a Renzi, talmente pulito da prendere a schiaffoni telefonici il babbo discolo.
A chiudere il cerchio arriva l’intervista a Andrea Orlando, che smessi i panni di quello di sinistra nel Pd è tornato a essere il renziano ministro della Giustizia. Toni da fine del mondo. Approvare subito la legge in discussione: quella conversazione non doveva uscire, bisogna impedire la diffusione di intercettazioni di questo tipo, perché impedirne la pubblicazione, nell’era di internet sarebbe troppo complicato. Insomma, siccome malgrado tutti i nostri tentativi, qualche giornalista in questo paese, c’è ancora, tocca spezzargli le gambette. Rapidamente.
C’è qualcosa di strano in tutta questa canea alzata ad arte da bravi strateghi della comunicazione. Il tutto ha un sapore antico, una sorta di déjà vu. Basta tornare indietro negli anni, infatti, e troverete che gli stessi argomenti, gli stessi toni, furono usati da Berlusconi. Stesse supposte manovre eversive, stessa finta sindrome da accerchiamento, stessa situazione per cui si ha uno strapotere mediatico, ma si cercano di eliminare le poche voci che escono dal coro. Allora erano le frequentazioni notturne, ora sono i guai in famiglia. Stesso colpevole: l’informazione.
Fine del riassuntino. Ma prima di provare a fare qualche rapida valutazione, mi permetto di copiare e incollare un breve brano della carta dei doveri del giornalista, che mi servono per provare a spiegare il mio punto di vista. “Il giornalista ricerca e diffonde le notizie di pubblico interesse nonostante gli ostacoli che possono essere frapposti al suo lavoro e compie ogni sforzo per garantire al cittadino la conoscenza ed il controllo degli atti pubblici. La responsabilità del giornalista verso i cittadini prevale sempre nei confronti di qualsiasi altra. II giornalista non può mai subordinarla ad interessi di altri e particolarmente a quelli dell’editore, del governo o di altri organismi dello Stato”.
Insomma, non solo il giornalista ha il diritto di pubblicare notizie di pubblico interesse, ma ha il dovere deontologico di farlo. Per calare il principio nella vicenda di questi giorni: non ha sbagliato Marco Lillo a pubblicare la notizia, hanno sbagliato tutti quelli che l’hanno ignorata e poi hanno dato conto solo della replica di Renzi. Per quale motivo? Perché non hanno ottemperato a un dovere deontologico, la responsabilità di informare i cittadini. Con quelli dovete prendervela. E badate bene, che rendere ancor più segrete le intercettazioni, o gli atti giudiziari in genere, ci rende un paese più povero, più debole.
La politica, se fosse ancora un potere dello Stato e non un guazzabuglio di consorterie contrapposte, avrebbe il compito di rendere più facile il lavoro dei mass media, che se fanno il proprio dovere fino in fondo quando sono elemento di controllo nei confronti dei poteri dello stato. Il famoso quarto potere. E il giornalista ha il dovere deontologico perfino di violarle quelle leggi che cercano di mettergli il bavaglio. Ora, si potrebbe dire, ma era proprio necessario conoscere il cazziatone di Renzi al babbo? Assolutamente sì. Non avrà rilevanza penale, anche se, come dire… un presidente del Consiglio che invita un familiare a nascondere alcuni particolari a un magistrato… non è che mi suoni proprio bene. Ma quella intercettazione è assolutamente rilevante dal punto di vista politico. E’ una notizia che il cittadino elettore deve sapere per potersi formare liberamente un suo giudizio sulla vicenda e sui personaggi coinvolti. La formazione di un libero giudizio è necessariamente condizionata dalle informazioni sulle quali ti puoi basare.
E il fatto che, senza ormai distinzione di schieramento, quando si è in difficoltà, un personaggio pubblico come il segretario di un partito si appelli alla privacy non è un bel segnale per lo stato della nostra democrazia.
Proprio nelle stesse ore, per fare un esempio di cosa accade in altri paesi, negli Stati uniti i giornali on line pubblicano l’audio di una telefonata di un parlamentare repubblicano che accusa il suo presidente di essere pagato da Putin. Non mi pare di aver letto reazioni come quelle nostrane. Nessuno si chiede se sia legale o meno pubblicare quella telefonata, perché nella loro cultura hanno il rispetto del ruolo dell’informazione, come elemento essenziale della democrazia.
Si dice, inoltre, beh ma i giornalisti devono pur avere una responsabilità se pubblicano notizie false. Ci mancherebbe che non fosse così. In Italia vengono condannati pure se pubblicano notizie vere. Gli strumenti li abbiamo tutti, anche troppi. Qualche dato per spiegarmi meglio: oltre il 70 per cento dei provvedimenti per diffamazione si concludono con l’assoluzione del giornalista. Come dire: è talmente facile querelare un giornalista che è diventato uno strumento di pressione. Io ti querelo, ti costringo ad affrontare spese legali (in totale oltre 50 milioni l’anno) poi verrai anche assolto, ma intanto ti devi sottoporre al processo. E alla fine, come quasi sempre accade, non viene neanche condannato il querelante al pagamento delle spese legali. E’ evidente come, soprattutto per i giornali più piccoli, tutto questo può diventare un peso troppo grande da sopportare e quindi ci si autocensura per evitare guai. Poi, ci mancherebbe, ci sono anche i giornalisti che diffamano: nel 2015 ci sono stati 155 colleghi condannati a pene detentive, solo per dare un dato, su un totale di 475 sentenze di condanna. Tempo medio del procedimento: oltre tre anni.
Ecco, a me piacerebbe che il ministro della Giustizia, il campione della sinistra Pd, facesse sentire la sua autorevole voce su questo problema. Si potrebbe ad esempio escludere la querela quando il giornale rettifica, si potrebbero rendere più rischiose le querele temerarie rendendo obbligatorio il pagamento delle spese processuali in caso di assoluzione. Non sono un tecnico, ma le soluzioni si possono trovare.
Io mi aspetto, insomma, che la sinistra si batta per la libertà di informazione, anche quando finisce sotto torchio, non che si batta per mettere ulteriori bavagli. Poi un giornale può piacere o meno. A me personalmente il Fatto annoia e Travaglio mi sta antipatico. Ma se non ci fosse saremmo tutti poveri, perché le voci servono tutte, anche quelle che ti strillano nell’orecchio.
E guardate, la finisco qui, che i giornalisti hanno un grande giudice naturale e implacabile: i lettori. Se fanno bene il proprio lavoro, i giornali escono e acquistano un pubblico più grande. Quando diventano semplici megafoni del potente o del segretario di turno, meri volantini di propaganda, allora non li legge più nessuno. E’ il mercato, non basta avere una testata prestigiosa, devi onorare tutti i giorni il tuo compito. Informare.
Il pippone del venerdì/10.
Roma, la città che non c’è più
La montagna di immondizia che sommerge Roma e i romani per me è una sorta di metafora di una città che non c’è più. Mi piace dirla così, secca, senza eufemismi. Ora, sia chiaro, non è colpa della Raggi, lei è soltanto l’ultimo anello della decadenza di una classe politica che non ha gli “skill”, come dicono quelli bravi, per governare una città. A maggior ragione una città complessa, con strumenti amministrativi non adatti. Non c’è la competenza, non c’è l’esperienza politica, non c’è quella capacità di entrare in sintonia con la città e le sue necessità che hanno avuto i grandi sindaci di Roma. Solo per rimanere all’epoca recente Petroselli, Rutelli e Veltroni. Gente che questa città la sapeva leggere, la sapeva coccolare e amare. Non si governa questa città se non la si ama, diceva Petroselli. E aveva ragione.
Già, dicono, però la Raggi è onesta, mica come quei delinquenti che l’hanno preceduta. Ora – premesso che ha alcuni procedimenti giudiziari avviati e, quanto meno, il giudizio andrebbe sospeso – dico una cosa forte: meglio ladri, ma bravi. Perché se sei un ladro, ma bravo, ruberai anche, ma qualcosina per la città resta. Se sei onesto – pare – ma del tutto incapace, alla città non resta nulla. E il danno è peggiore del furto. Ovviamente è un’iperbole. Per me l’onestà, dirò di più una certa intransigenza morale, resta condizione necessaria per qualsiasi incarico pubblico. Condizione necessaria, ma, appunto, del tutto non sufficiente.
Il degrado di una città, dicevamo, non avviene in un giorno. E’ un processo lento. Che è iniziato quando abbiamo perso l’ambizione di pensare un futuro importante per questa città. Roma si amministra con grandi progetti e una cura maniacale per la minuta amministrazione. Si deve guardare al mondo e al marciapiede sotto casa insieme. Le grandi stagioni della sinistra, l’ho scritto tante volte, sono state caratterizzate da un grande progetto complessivo: era la ricucitura fra centro e periferia con Petroselli, era la vocazione di grande Capitale mondiale con Rutelli e ancora più con Veltroni. Poi il nulla.
In passato, era il tempo della campagna elettorale di Marino, ho anche provato a cimentarmi, nel mio piccolo, su questi argomenti, indicando un’altra idea forte: quella della costruzione di una “città per vivere”. Deve essere sembrata poca cosa, perché non ho mai trovato una sede politica dove poterne ragionare. Eppure resta una prospettiva, nella sua semplicità, rivoluzionaria: orientare tutta l’amministrazione su queste coordinate vuol dire rigenerazione urbana, trasporti pensati per gli utenti, valorizzare le risorse turistiche. Vuol dire un modello di città, dalle applicazioni “smart” che oggi vanno tanto di moda, a una nuova cultura civica che metta in rete le tante esperienze di volontariato e ne moltiplichi le potenzialità. Insomma, significa dare un orientamento all’azione di governo. Non il giorno per giorno, ma un vero e proprio progetto complessivo per la città. Provai anche a buttare giù qualche idea, dalla “circle line” per i trasporti, all’archeotreno (già c’è, basterebbe una stazione) per collegare il centro con la grande bellezza del parco dell’Appia Antica e i suoi acquedotti. Ma la sinistra preferì mascherare le sue debolezze dietro Marino. Poi arrivò la bolla mediatica di Mafia capitale, utilizzata nel Pd per spazzare via quel che restava dei circoli, l’amministrazione fece finta di interessarsi e nulla più. Andammo, io e gli altri sostenitori di questi progetti, a qualche dibattito, in qualche radio. Ricevemmo tanti applausi da Soprintendenze a dirigenti dei parchi. Pacche sulle spalle.
Perché riporto questa esperienza, se volete marginale? Non per dire quanto sono bravo, questo lo so (se non me lo dico io). Ma per raccontare come questa città, nel suo complesso, abbia rinunciato a essere comunità che discute, si appassiona. Non è che non ci sono le intelligenze, Roma resta una grande capitale della cultura. Ha tre università, grandi istituzioni di ricerca. Non ci sono i luoghi dove mettere in rete le competenze.
Vedete il tema non è che un sindaco, o un ministro, debba essere per forza laureato o esperto di tutte. Il politico può anche venire dai campi di pomodori del sud. Deve avere un’altra capacità però: quella di ascoltare le persone competenti nella materia di cui si occupa. E questo è essenziale per un amministratore. Non deve dare lui le soluzioni, deve indicare la strada da seguire. Faccio un esempio pratico: come politico penso che debba essere privilegiato il trasporto pubblico. Bene, devo trovare le persone capaci di progettarmi un sistema efficace. Non posso mettermi io a dire quale tracciato debba avere una linea. Devo indicare la strada, che poi deve essere seguita da chi ha le competenze tecniche.
Insomma, la classe dirigente di una grande metropoli non si improvvisa. E questo è successo a Roma per troppi anni. A partire, secondo me, dal secondo mandato di Veltroni. Quando l’evidente interesse del sindaco per un suo impegno politico a livello nazionale ha creato le condizioni per una frattura fra l’amministrazione e la città. Il livello è crollato con Alemanno, ma qui io credo che la sinistra abbia perso un’occasione storica per rifondare se stessa. Serviva un grande movimento di idee, bisognava chiamare tutta la città a raccolta per prepararsi alla rivincita. Si è fatta, grazie a un gruppo dirigente “da battaglia” nella federazione romana del Pd, un’opposizione senza sconti, dopo qualche tentennamento da parte del gruppo consiliare, che all’inizio dimostrò un forte rischio di deriva consociativa. E’ mancata la fase due, quella del progetto. Si è preferito affidarsi alle logiche delle correnti, quel gruppo dirigente si è immerso nella battaglia elettorale, in tanti si sono candidati, dalla Regione, al Parlamento, al Comune. E si è mascherata la propria povertà dietro un sindaco che ha fatto una bandiera della sua estraneità a Roma.
Marino non era “il marziano” perché pulito e differente rispetto alla bassa politichetta romana. Era marziano rispetto a una città che lo ha amato ma che lui non ha mai capito. Da qui le difficoltà dei suoi anni in Campidoglio. Con una squadra di governo improvvisata, dove anche quelli bravi furono messi a recitare un ruolo non loro. Eppure, malgrado tutto, qualche cosa si muoveva. Poi, lo ripeto, arrivò la bolla mediatica di Mafia Capitale. Non che non fosse grave, per carità, anzi: io sono convinto che sia venuta fuori un percentuale minima della verità. Parlo di bolla mediatica perché il Pd ne approfittò per uccidere se stesso. Non rifaccio la storia, non parlo dei silenzi dei tanti che non si opposero. I risultati li conosciamo: invece di mettere in campo le risorse migliori che il partito aveva e affiancare un sindaco in difficoltà, ha preferito affossarlo.
Non contenti, perché le cose non vanno fatte a metà, candidano un impresentabile in tanti sensi: vecchia volte della politica romana, famoso per i suoi digiuni e per gli insulti quotidiani alla sinistra del suo stesso partito. Giachetti. Te lo buttano in campo e poi quando gli dici ”io non lo voto” diventi pure un traditore. E vince, tanto a poco, questa Raggi. Oggetto misterioso all’inizio, molto condizionata da vecchi ambienti della destra, attorniata da inquietanti dirigenti comunali e da una sorta di corte dei miracoli che raccoglie spazzatura varia. Con qualche eccezione, come Paolo Berdini, assessore all’Urbanistica, un tecnico conosciuto per le sue posizioni radicali. Lo fanno fuori con il solito fuorionda malandrino che spunta quando serve, nel bel mezzo della trattativa sullo stadio della Roma, guarda tu le coincidenze.
Morale della favola: Roma non ha grandi progetti in cantiere, la manutenzione urbana non esiste, è diventata una città caratterizzata dai cumuli di rifiuti sparsi ovunque. Una città dove, lo dico sempre, ormai la natura ha vinto sull’uomo. L’antropizzazione del territorio, in mezza città, è ormai a rischio. Sempre che sia un male. Non ci sono più le erbacce, in mezzo alle nostre strade crescono gli alberi. Per non parlare delle reti arancioni che ci invadono: vera e propria coscienza sporca della città. Non riesco a riparare neanche un buca, ma mi salvo l’anima con questi inguardabili cerotti.
E poi, ancora peggio, c’è il degrado morale di questa città. Che non è più la Capitale bonacciona, accogliente e tollerante. E’ una città cattiva. Dove si muore bruciati vivi in un camper. E non mi importa se sia stato razzismo o faida fra clan. Il tema è che in un tredici in un camper non ci dovresti proprio vivere. Petroselli prese tutte le case popolari e le riempì con gli abitanti dei cosiddetti borghetti, i ghetti di baracche di lamiere e pochi mattoni che costellavano la città. Portò le fogne e la luce in quelle borgate talmente abusive che le strade girano intorno alle case e non il contrario. Una grande operazione di recupero della città. Con tanti limiti, dovuti all’emergenza. Primo fra tutti quello di aver creato dei quartieri ghetto, penso a Laurentino 38. Le emarginazioni furono trasferite dalle baracche alle case. Che non è poco, ma non basta. E le amministrazioni che sono arrivate dopo non hanno saputo proseguire quel lavoro di integrazione che sarebbe stato necessario.
Ma, comunque sia, Petroselli cambiò per sempre il volto di questa città. E poi, perché il progetto era quello di ricucire il centro con le borgate, lanciò quell’estate romana che fu, credo, la più grande campagna culturale che questa città ricordi. C’è adesso una classe dirigente che sia capace anche solo di dire con coraggio che non vogliamo più campi ghetto per i nomadi? Che vanno chiusi? Che servono solo piccoli campi sosta per chi davvero è nomade e che agli altri va data una casa e un lavoro?
No, ci si cosparge il capo di cenere, si lancia l’allarme quando c’è una protesta in qualche sperduta periferia che nessuno conosceva fino a un minuto prima. La stessa cosa che succede per i barconi in mare. Quando di inquadrano i cadaveri dei bambini tutti contriti. Ma quando qualche “pazzo” dice: apriamo i corridoi umanitari per i profughi, portiamoli noi via da lì, ecco che il dolore finisce e torniamo serenamente ai nostri razzismi.
Un “pippone” pessimista? Forse sì, diciamo malinconico, ma quando vedi una discarica davanti al Parco dell’Appia Antica, a un patrimonio vero dell’umanità, ti viene lo sconforto. Quando di tre sorelle rimane solo una macchia scura sull’asfalto, ti viene da dire che questa città non c’è più. Non è più “comunità”, non è più quella Roma sorniona ma ribelle del secolo scorso. Si piega, si fa irretire da chi strilla più forte, ma non si rivolta, non alza la voce. Se il principale partito di opposizione è convinto di farsi sentire ramazzando per una domenica la città – telecamere al seguito – come non farsi prendere dallo sconforto? Io credo, al contrario, che si debba per prima cosa ascoltare Roma, per davvero, non per far finta di avviare un processo partecipativo. Perché Roma sono anche le centinaia di associazioni di volontario, le esperienze culturali di autogestione di spazi, i cittadini che si organizzano e lavorano contro il degrado non per una domenica, ma giorno per giorno. Senza telecamere. Ecco: facciamole spengere le telecamere sui vip in maglietta gialla, il tema non è come apparire o quanto strillare, il tema è ricominciamo a fare rete, a costruire spazi di discussione, di confronto, di iniziativa concreta. Torniamo a essere punto di riferimento per quel pezzo di città che non si è arreso. Accendiamole dopo le telecamere, per raccontare quale grande progetto di rinascita vogliamo mettere in campo. Roma non c’è più, insomma. Ma la storia non è finita.
Il pippone del venerdì/9.
L’eterna rincorsa dell’unità a sinistra
Finito il tormentone politico primaverile delle primarie del Pd, possiamo tranquillamente ricominciare a farci del male fra di noi, fra quelli che si definiscono di sinistra. Anzi, sarebbe il caso che tutti, mi ci metto anche io, pensassimo di più ai guai di casa nostra, piuttosto che gioire dei guai di casa altrui. Non ci serve.
Parto da questa scena. Corteo del 25 aprile, incrocio un compagno di Sinistra italiana che mi fa: “Che poi, io mica capisco perché io e te stiamo in partiti diversi?”. Bella domanda. Neanche io lo capisco. O meglio: le ragioni le conosco, conosco la storia che ha portato da un lato alla formazione di Rifondazione prima, poi delle altre formazioni della sinistra, alla fine di Sel e di Sinistra Italiana, e dall’altro lato alla fusione del Pds con un pezzo dei socialisti e dei Verdi prima, poi con la Margherita. Se guardiamo gli anni dal 1990 in poi, in pratica quello che si vede è questo: la sinistra cosiddetta radicale si è andata via via sempre più spezzettando alla ricerca della purezza ideologica assoluta. Ormai i grafici sono in crisi a forza di disegnare falci a martello in tutti i modi possibili. La sinistra cosiddetta riformista, al contrario, nel corso degli anni ha annacquato la propria identità a tal punto da non riconoscersi più neanche quando si guarda allo specchio. La radice del problema credo sia la stessa: la crisi di un sistema politico che, la verità è questa, non riesce più a rappresentare i cittadini, a svolgere quella funzione importantissima di corpo intermedio fra il popolo e le istituzioni che gli assegna la Costituzione.
Insomma, fin dagli anni ’90 i partiti perdono man mano la loro funzione, diventano sempre più ceto politico e sempre meno popolo. E che succede? Che questo ceto politico cerca disperatamente di proteggere se stesso, cercando recinti protetti da un lato, allargando il proprio recinto dall’altro. Le due risposte, questi sono i fatti, non funzionano. I prodotti più evidenti della crisi del sistema politico sono i Berlusconi, i Renzi, i Grillo, che avranno anche caratteristiche differenti, ma hanno la stessa radice. Di fronte alla fine dei partiti di massa del ‘900, il popolo cerca il “nuovo” e lo identifica nei vari uomini forti che arrivano sulla scena. Salvo poi pentirsi sempre più rapidamente con il passar degli anni.
Dunque ricapitoliamo: crisi dei partiti, la sinistra si frammenta o si annacqua con il centro, arrivano gli uomini forti. Questo è il quadro. Ma torniamo a noi. Cosa succede nelle due anime della sinistra (la dico rozzamente per grandi linee) così come generate dalla dismissione del Pci? Da una parte, nella miriade di formazioni derivate da Rifondazione si fa a gara a chi è più puro, fino a rinfacciarsi l’emarginazione di Secchia dal gruppo dirigente del Pci: prevale una vocazione talmente minoritaria che quando, quasi costretti dagli eventi, si ritrovano al governo si sentono talmente fuori posto da essere la causa della caduta del governo che hanno contribuito ad eleggere. Caso tipo: prima votano Prodi poi lo accusano di essere troppo moderato. E che vi credevate di aver votato il Che? Dall’altra, si percepisce la crisi, ma invece di dare risposte dal punto di vista delle idee e del rinnovamento delle forme della partecipazione politica, si risponde gettando la palla in avanti: viene fuori così questa ossessione di costruire contenitori sempre più ampi, nell’illusione di risultare comunque egemonici. Finisce che scopri che i contenitori così ampi non sono e che i democristiani le preferenze ce le hanno nel sangue e tu no.
Quando te ne accorgi te ne devi perfino andare da quella che consideri casa tua. Ora, io ho partecipato ormai a varie scissioni, avendo girovagato fra le due anime, e quindi cambiare partito non è che mi traumatizzi più di tanto. A dire il vero, però, questa lenta agonia del Pd fa un po’ impressione: non c’è una scissione, c’è una frammentazione individuale che cresce giorno dopo giorno. Non si vede, ma poi all’improvviso ti ritrovi che nelle Regioni rosse gli iscritti sono la metà di un anno prima e gli elettori non vanno proprio a votare. Guardate che è peggio di una scissione “frontale”. Io ho vissuto quella più dolorosa di tutte, quella del Pci, ma mica è stato così: c’erano energie, passioni, anche scontri durissimi. Qua tutto avviene in un clima ovattato. Ha cominciato Civati, poi Cofferati, poi Fassina, poi D’Attorre, ora il gruppo di Bersani, Speranza, Epifani, Rossi e D’Alema. Bene, anzi meglio ci togliamo la zavorra, rispondono gli ultras. Ma il popolo? I militanti? Guardate che quelli sono tornati a casa da anni. Mica da ieri. Eravamo milioni quando si è costituito il Pd. Ricordate? Le assemblee fondative dei circoli, il Circo Massimo. Sono tornati tutti a casa. Quello che resta è ceto politico e affiliati. Poco altro. La ritirata è avvenuta in silenzio, uno alla volta, senza clamori.
Insomma, la cosa curiosa è che le due strade, quella della sinistra “identitaria”, semplifico così scusatemi la rozzezza, e quella della sinistra “ampliativa”, alla fine producono lo stesso risultato: gruppetti dirigenti che si autoriproducono per gemmazione, i militanti semplici che sono sempre meno e sempre più comparse, marginali e quasi fastidiosi. Si celebrano come “volontari eroici” quando devono montare i gazebo, dare i volantini e cuocere le salsicce, ma poi a decidere sono altri. Loro, i volontari eroici al massimo sono convocati a benedire il loro leader. Già scelto da altri. Poco importa la forma, congresso, primarie, caminetti. Il risultato è quello: i militanti servono soltanto come platea. E la logica conseguenza è che le platee sono sempre più ristrette. Parafrasando uno slogan da stadio si potrebbe dire che se qualche anno fa riempivamo il Circo Massimo, adesso riempiamo al massimo un circo.
In tutto questo, puntualmente, una volta ogni due, tre anni rispunta il gioco dell’unità a sinistra. Sinistra Arcobaleno, Lista Ingroia, Lista Tsipras, un paio di costituenti comuniste, poi ancora le riunioni fra Rifondazione, Possibile, Sel, Altra Europa, Tilt, Act, Futuro a Sinistra. Ci sono stati tavoli dove le sigle erano talmente tante che mi è venuto il sospetto che qualcuno rappresentasse se stesso. A stento. A volte questa specie di risiko politico ha prodotto grandi alleanze elettorali del 3 per cento, altre volte neanche quelle. L’ultimo caso è di scuola: la nascita di Sinistra italiana, che aveva alimentato grandi speranze. Si era partiti da tanti soggetti diversi, con l’idea di cedere ognuno un pezzo della sua identità, si è finito tra veti contrapposti e la fuga di tanti a far nascere un partito più piccolo di quello originario.
Altra cosa curiosa: il percorso italiano è del tutto originale, mentre la crisi del sistema democratico e della sinistra ha una dimensione quanto meno europea. Ma negli altri paesi quando i partiti tradizionali della sinistra socialista hanno cominciato a dar segni di confusione e a perdere consenso sono nati movimenti alternativi che hanno preso rapidamente il centro della scena. Il ceto politico, una volta perso il consenso, non è riuscito a sopravvivere, è stato spazzato via. Altro che la finta rottamazione all’italiana. Spagna, Francia, Grecia, solo per citare i casi più importanti: nuovi movimenti, nuove forme di aggregazione e di partecipazione. In Italia no, non ci si aggrega, ci si continua a frammentare. A chi ti si avvicina si chiedono non solo le analisi del sangue, ma l’intero genoma. Non si accoglie, si respinge.
Altra cosa curiosa (l’ultima): pezzi della sinistra italiana, tradizionalmente europeista (Altiero Spinelli era eletto come indipendente nelle liste del Pci), come risposta al sovranismo delle destre non dicono “ci vuole più europa” come sarebbe logico aspettarsi, ma diventano sovranisti a loro volta e si allineano ai colleghi francesi, che però una tradizione isolazionista ce l’hanno eccome. Insomma, per vent’anni ci siamo fatti dettare l’agenda politica da Berlusconi, ora da Salvini e Storace.
Scusate la disanima che più di un’analisi politica sembra l’autopsia di un cadavere, provo come al solito a proporre qualche idea per andare avanti.
- Scordiamoci del Pd. Se partiamo nella discussione da “ci si allea o no con il Pd” non si va da nessuna parte. Definire il proprio campo nel rapporto con un altro partito è già un segno di subalternità politica. La tua esistenza la giustifichi con un fattore esterno. Invertiamo i termini, definiamo cosa vogliamo fare, quale è il campo di valori da cui ripartiamo. Poche cose: siamo contro il liberismo, per il lavoro, per i diritti, per l’eguaglianza. E su queste confrontiamoci liberamente con tutti.
- Non partiamo dall’alto e dalle formule organizzative. Se cominciamo a discutere se, come e in quali tempi dare vita a una nuova formazione politica, se ci si deve sciogliere e rinunciare alla propria identità (leggi al proprio pezzettino di potere), come ci si deve aggregare, se usiamo questo metodo finiamo direttamente in prigione senza passare neanche dal via.
- Aggreghiamo dal basso: i gruppi dirigenti che hanno interesse a un percorso unitario, si mettano, per una volta a ascoltare prima di parlare. Definiamo chi è interessato e poi, invece, del solito tavolo nazionale, lanciamo i comitati città per città, quartiere per quartiere. E ciascun comitato produca idee, documenti. Si caratterizzi come vuole, per tematiche generali, questioni locali, per la presenza nei luoghi di lavoro. La forma partito facciamola strana: ognuno decide come organizzarsi. Facciamo casino, insomma. Chissà che non venga fuori una cosa ordinata e credibile. E apriamo le porte alle associazioni, quelle vere non i soliti amici, che cercano da anni un interlocutore credibile e puntualmente non lo trovano, apriamo le porte agli intellettuali, quelli veri non quelli dei salotti. Contaminiamoci. Partiamo da quel “mica capisco perché siamo in due partiti diversi” e non dal “tu nel 1898 eri turatiano e io no”. Secondo me se cominciamo a confrontarci noi che siamo stati abituati ad attaccare i manifesti più che a discutere di poltrone, una sintonia la troviamo. Cancelliamo le nostre provenienze, magari proviamo ad aggregare qualcuno che non proviene da nessuna delle nostre storie e confrontiamoci sulle cose. Anche perché, guardate che veniamo tutti da sconfitte. Mica c’è qualcuno che aveva ragione e gli altri che devono “solo” cospargersi il capo di cenere e venire a Canossa. Chi più chi meno, siamo tutti responsabili, dello sfascio attuale. Se da un lato si è preparato il campo a Renzi, dall’altro si è talmente poco credibili che piuttosto che votarti gli elettori se ne restano proprio a casa. Insomma finiamola con la gara a chi ce l’ha più lungo, ce l’abbiamo tutti piccolo piccolo.
- Da lì, da questa contaminazione, costruiamo una rete orizzontale, che si concretizzi in assemblee cittadine, poi regionali, poi in una serie di assemblee generali sui temi. Dobbiamo girare come trottole, perdere l’orientamento se vogliamo ritrovare una bussola. Alla fine di questo percorso, si vedrà quali sono i leader. Io eviterei l’uomo solo al comando, abbiamo già dato e non è andata proprio bene bene. Un gruppo dirigente plurale e collettivo, uscito da questo percorso e non calato dall’alto. In parte avrà i capelli bianchi e verrà dalle istituzioni. In parte avrà magliette e scarpe da ginnastica. Nessuna rottamazione, di nessun tipo. Mescolare il tutto e agitare prima dell’uso.
- Discutiamo subito della nostra collocazione internazionale. Per me la politica, a maggior ragione in questo tempo, non può avere una dimensione nazionale. La sinistra, europeista, questo per me è scontato, non può creare da sola nuove barriere “doganali”, per cui la nostra azione deve avere un respiro sovranazionale. Io, lo dico subito, non vedo più nel Partito socialista europeo una casa comune credibile. Poi sono disposto anche a ricredermi, ma vorrei una discussione seria su questo punto.
- Altra cosa da evitare, e concludo, sono le aggregazioni elettorali: non funzionano, si passa il quorum a stento, ma non si incide. Perché questa è l’ultima caratteristica che deve avere la sinistra che vorrei: quella di incidere sulla società. Possiamo perdere, magari non sempre, ma non possiamo essere pura testimonianza. La sinistra è se cambia il mondo che non le piace. Altrimenti è un salotto. Ma di quelli, credo, ne abbiamo tutti le scatole piene.
Ultimissima notazione: facciamo in fretta, facciamolo subito.
Il #pippone del venerdì/8.
C’era una volta l’industria italiana
Cominciammo con l’Iri. Che li facciamo a fare i panettoni? Poi ci fu Alfa Romeo. Bisogna creare un grande polo italiano dell’auto, regaliamola a Fiat. Poi ci fu Telecom. E che le comunicazioni sono strategiche? Poi fu la volta di Alitalia. Con lo Stato perde, ci costa troppo, diamola ai privati e per ripagarli del favore gli regaliamo pure le autostrade va.
Avete appena letto: breve storia triste dell’industria italiana. In mezzo ci sono acciaierie, petrolchimico, farmaceutica, informatica. Tutto sparito. Della sesta o settima potenza economica mondiale cosa resta? Il turismo mordi e fuggi e poco altro. Perfino Fiat, oggi gruppo Fca, appena ha potuto ha portato la sede fiscale in un paradiso fiscale (europeo). Ma come, verrebbe da chiedersi, dopo tutto quello che abbiamo fatto per loro? Abbiamo fatto strade, eliminato i tram, concesso bonus a chi rottama le auto, per anni sono state Fiat tutte le auto della pubblica amministrazione e poi ti arriva un Marchionne e se ne va, tra gli applausi dei nostri governanti.
Però, ragazzi, stiamo tranquilli che va tutto bene. C’è Matteo che pensa a tutto. E che ti fa? Il Jobs Act: detassazione per le imprese che assumono a tempo indeterminato, tanto poi vi do libertà di licenziare e tolto l’articolo 18. E non basta. Ragazzi, arriva industria 4.0. Una scoppola da 13 miliardi di contributi in varie forme per gli imprenditori che investono in robotica. E così i contributi previdenziali non li paghi proprio più. Quando il robot è vecchio mica lo devi liquidare, dargli il welfare e la pensione al massimo serve una discarica. Quindi tu elimini lavoratori con il finanziamento statale. Una genialata.
E poi torna ancora Alitalia, riassumiamo per chiarezza. Partiamo da un dato: nel 2001 un’azione di Alitalia (all’epoca lo Stato aveva più del 60 per cento) valeva circa 10 euro. Nel 2006 circa 1.57. Che si fa? Vendiamo, mi pare ovvio. Ora, io non sono un economista, ma c’è qualcosa di strano: io venderei a dieci semmai, non a 1.57. Comunque sia, un paio di “bandi”, interessamenti vari. Alla fine Alitalia sceglie: il nostro partner sarà Air France-Klm. Partono le trattative, non si chiude l’accordo con le parti sociali sulla ristrutturazione che il socio straniero pretende prima di firmare l’intesa. E poi arriva a gamba tesa il Berlusconi che dice: dopo le elezioni, che vinco io, di vendere agli stranieri Alitalia non se ne parla proprio. Air France capita la malaparata si tira indietro.
Ma che bravo il Berlusca, tra l’altro dentro Air France c’è una bella percentuale pubblica, dello stato francese, e che vendiamo la nostra compagnia di bandiera a uno stato estero? Non sia mai. Morale della favola Berlusconi la regala a un gruppetto di amici suoi che convoca ad Arcore e convince a suon di regali (autostrade comprese). In cambio si prendono Alitalia senza debiti (quelli li paga lo Stato), ricordate la bad company e la good company? Ecco, il senso era quello: a voi i debiti a noi il capitale. Questi benemeriti del popolo li chiameranno “i capitani coraggiosi”. Alitalia continua a perdere, perché sono pippe, e i capitani prendono il largo. Il governo Renzi si inventa allora la soluzione araba. Arriva Etihad. E cavolo questi sono arabi, gente che gli affari li sa fare. E poi negli ultimi anni il volume di affari legato al trasporto aereo continua a crescere, vuoi che non si aggancino a questa tendenza? E infatti, annuncia Renzi con il solito tuitte: “Presentati i nuovi aerei, sembrava impossibile due anni fa. Ma Alitalia torna in pista, pronta su nuove rotte. Vola Alitalia, viva l’Italia”. Secondo me porta male. Ma questa è un’altra storia, fatevela raccontare dalla nazionale femminile di pallavolo.
Morale della favola, l’unica cosa nuova che fanno gli arabi sono le divise, pare peraltro di tessuto che raschia la pelle. Nuove rotte, piano per il lungo raggio, integrazione con Etihad? Nulla. La compagnia è di nuovo sull’orlo del fallimento. Si tratta, i sindacati firmano l’intesa, è storia recente. Altri tagli al personale, altre diminuzioni di stipendio, con la prospettiva di mettere in vendita nuovamente la società. Questa volta i lavoratori non ci stanno e votano no all’accordo. Finisce quasi 70 a 30, non si tratta di un esito sul filo di lana, malgrado l’intervento a gamba tesa del presidente del Consiglio, Gentiloni: “Se votate no, l’azienda fallisce”, dice. Una specie di invito subliminale a votare no due volte.
E adesso che si fa? Prestito ponte per avviare le trattative e vendere a qualcuno. Si dice ai tedeschi. Perché i soldi per salvare Mps (10 miliardi) ci sono. I soldi per regalare i robot agli industriali ci sono (13 miliardi). Alitalia costa troppo, c’abbiamo già rimesso 7.4 miliardi. E poi è colpa dei lavoratori che si sono suicidati. Io tengo a pensare che si siano semplicemente rotti le scatole di essere presi in giro. Ma forse vivo su un altro pianeta. E poi, ma a nessuno viene il dubbio che la colpa sia di manager pagati milioni e liquidati a peso d’oro? Possibile, lo ripeto, che il traffico aereo continui ad aumentare e i passeggeri di Alitalia a diminuire?
Siccome non credo che il personale Alitalia, nel suo complesso, emani odori insopportabili, non è che qualcuno ha sbagliato la strategia aziendale? Sempre che ve ne sia mai stata una. L’attuale amministratore di Alitalia, tal Crames Ball guadagna nel complesso 2.2 milioni di euro l’anno, solo per restare all’attualità. Ma velo ricordate, per fare un altro esempio, Giancarlo Cimoli? Si prese 3 milioni come buonuscita. E mi fermo per carità di patria. Solo un altro: Montezemolo. Basta il nome.
Come sempre tendo a essere curioso, apro parentesi. Abbiamo salvato Mps o abbiamo salvato i suoi debitori, dei quali per questione di privacy non si può avere la lista? Io propendo per la seconda. E chi vi racconta che sono stati salvati migliaia di correntisti vi dice una balla, quelli sono garantiti comunque.
Su Alitalia, invece, il governo ha una brillante strategia: 300 milioni per garantire la continuità aziendale, due spiccioli, e nel frattempo si vende. In pratica, visto che gli aerei sono per la maggior parte in affitto che si vende? Gli slot, detta in parole povere il diritto di partire da un aeroporto ad una determinata ora, le rotte. Poco altro. I dipendenti? I tedeschi ne vogliono solo 3mila su 12mila. Insomma si smantella quel poco che resta di Alitalia. Come sempre.
Cosa resta di Alitalia l’abbiamo capito e dell’industria in genere? Poco. Non produciamo praticamente più nulla. I capitalisti coraggiosi hanno venduto a multinazionali o hanno de localizzato le proprie imprese. La nostra rete commerciale è in mano a multinazionali. Che ci resta? Turismo e pastorizia? E come si regge un paese solo sul turismo? Qualcuno si ricorda che fine hanno fare alla Grecia? Del resto siamo un paese dove un paio di anni fa il presidente del Consiglio spiegò che elaborare un piano di sviluppo industriale per l’Italia non era compito del Governo, questa è la logica conseguenza.
Io resto convinto che alcuni settori siano strategici per un paese che vuole essere competitivo. Quelli bravi li chiamano asset. Letteralmente vuol dire “beni”. Trasporti e reti di comunicazione, l’industria pesante. E in questi settori ci deve essere la mano pubblica. Lo fanno i francesi a piene mani, con qualunque governo e nessuno pensa che siano dei pericolosi bolscevichi. In Italia no, siamo ancora vittime della balla anni ‘90° per cui privato è bello e il pubblico non funziona.
Ecco, io la vedo così: cambiamo rotta in fretta, magari proprio a partire da Alitalia. Non sta scritto da nessuna parte e soprattutto in nessuna regola europea (e chi ve lo racconta dice balle) che lo Stato non possa essere azionista di società private o proprietario di industrie. L’economia da noi riparte soltanto se riprendono gli investimenti. Così si creano i posti di lavoro, non eliminando i diritti. Le imprese assumono se hanno bisogno di produrre. E lo Stato può dare il primo segnale, ricominciando a investire nel futuro del Paese. Lo diceva Keynes, un liberale, non un pericoloso comunista.
Questa furia antipubblica ci ha portato a svendere il nostro paese. Abbiamo privatizzato anche l’acqua, ci manca solo l’aria, ma state sereni…
Lo #spiegone del lunedì/6.
Il suicidio politico alla francese
La dico subito, se fossi in Francia non avrei dubbi e farei due cose: fra due settimane voterei Macron, cominciando però a lavorare a una larga alleanza delle sinistre per le elezioni legislative dell’11 giugno. Ci sono, infatti, due diverse modalità di suicidio politico in questo scorcio di storia francese. Il primo è quello della sinistra del Partito socialista, che ha vinto – a sorpresa – le primarie interne, ma senza capire che l’eredità di questi cinque anni di Hollande all’Eliseo erano un fardello troppo grande per chiunque. Un bel pezzo di Ps è già scappato con Macron, non a caso sostenuto apertamente dai centristi di mezza europa. Occorreva lavorare a una coalizione unitaria, anche con i comunisti, fin dal primo turno delle presidenziali. Bisognava rinunciare ognuno a pezzo della propria identità per arginare le destre.
E invece ci ritroviamo con l’annunciato ballottaggio fra la fascista Le Pen e il liberista moderato Macron. Su cosa si debba fare fra due domeniche non si possono avere dubbi. E non ne avranno i francesi. Sbaglia, in questo caso, Mélenchon che non capitalizza il suo importante 19 per cento. Fossi stato in Francia lo avrei votato senza troppe esitazioni. Non mi ha mai convinto questa menata del cosiddetto “Piano B”, un eufemismo per non dire “vogliamo uscire dall’Euro”, che ritengo un errore di tattica (lo accumuna troppo alla Le Pen) e di prospettiva (senza una dimensione internazionale della politica e dell’economia, diventeremo irrilevanti). Ma per il resto non trovo nel suo programma distanze incolmabili da quello socialista. Lo avrei votato, dicevo, ma mi aspetto che da oggi assuma sulle sue spalle un ruolo di ricostruttore della sinistra.
Perché guardate che la vera notizia francese, come è già successo prima in Grecia e poi in Spagna è la scomparsa della sinistra “tradizionale”. Solo che qui non c’è nulla di pronto per sostituirsi al vecchio partito socialista e dare una risposta forte al liberismo e ai diversi populismi. E allora che fare? Per chi come me ha da sempre una grande ammirazione per la concretezza togliattiana non ci sono dubbi: per prima cosa si battono i fascisti, poi si prova a costruire un asse di sinistra per le elezioni di giugno. Macron al momento ha mostrato un campionario delle ricette classiche del liberismo: meno vincoli per le imprese, meno tasse. Ricette che non funzionano. E che una forte presenza della sinistra nell’Assemblea nazionale potrebbe correggere in maniera sostanziale. Le elezioni francesi, del resto, sono una sorta di partita andata e ritorno. Le presidenziali sono soltanto l’andata. Le legislative rappresentano il ritorno. Non un contentino, una competizione che può condizionare davvero l’Eliseo.
E quindi, dopo il primo suicidio politico avvenuto ieri, evitiamo di cadere ancora nell’errore. Il maggioritario a doppio turno, per chi non lo avesse ancora capito, funziona così: ci si conta al primo turno, si vota il meno peggio al ballottaggio. E chi invita a restare a casa non ha ben capito il rischio che si corre, neanche dopo la Brexit e dopo la vittoria di Trump negli Stati Uniti. A me questa “nuova” destra sovranista e xenofoba ricorda tanto il passato. Sarò anche vintage, ma per me sempre imperialisti rimangono.
Il pippone del venerdì/7.
Sinistra, c’è una luce in fondo al tunnel (?)
Sala in centro di Roma, arrivo presto e conto le sedie. Circa 300. Non una folla, ma neanche poche. Quando entra Bersani si riempie in un attimo, restano una cinquantina di persone in piedi. Descrizione del pubblico: molti over 50, una quindicina di ragazzi estremamente giovani (diciamo sui vent’anni a occhio), una robusta presenza di quarantenni. Uno spaccato della società italiana, con tendenza alla prevalenza degli anziani.
E’ la “prima” di Articolo Uno a Roma. Il movimento che vuole ricostruire un nuovo centrosinistra in Italia, dopo un lungo peregrinare in giro per l’Italia arriva anche qui. E già il fatto di non partire da Roma è significativo. Incontro con Bersani, recita la locandina.
In realtà l’ex segretario del Pd concluderà soltanto un pomeriggio con interventi di professionisti, lavoratori, esponenti del mondo sindacale e del terzo settore. Si parte dall’ascolto. La platea, a occhio mi sembra un curioso mix di quadri di partito, dirigenti politici locali e intellettuali. Capita così di vedere seduti fianco a fianco Roberto Zaccaria, ex presidente Rai poi parlamentare di Margherita e Pd, e il segretario di un circolo Pd della periferia romana. Mancano, sempre a occhio, i militanti di base. Il livello si ferma ai quadri di partito. Il “popolo della sinistra”? Bersani risponderà che va riconquistato. E proverà a dire anche come, con quali parole d’ordine.
Prima notazione politica: avevo in testa il Bersani stanco della campagna elettorale del 2013, poi quello “sballottato” dalle vicende successive alle elezioni. Non l’avevo più sentito da allora, se non in dichiarazioni di pochi secondi. L’ho trovato differente. Meno metafore, non manca la concretezza emiliana ma viene meno banalizzata in immagini, questa volta. Più analitico. Parla più di un’ora e – per usare una metafora – ti mette le mutande al mondo. Poi forse restano un po’ strettine, per come la vedo io. Ma era da tempo che non ascoltavo un ragionamento così. Analisi, racconto, soluzioni. Mi dirà un collega, giornalista e compagno: “Guarda che quelli delle agenzie di stampa hanno preso il primo appunto dopo cinquanta minuti di intervento, quando ha nominato Renzi”. E’ la maledizione di esce dal Pd: per il mondo dell’informazione conta solo la contrapposizione al leader democratico. E poi Bersani non è tipo da 140 caratteri. Ma ci serve un tipo da 140 caratteri? Basta questo? Io non credo, non vorrei un altro partito del leader.
Seconda notazione politica: l’ex segretario del Pd capisce, lo dice chiaramente, di essere un reduce: fa un po’ lo stesso ragionamento di D’Alema. Noi ci siamo per dare solidità a questa nuova avventura. Ma non guardate a noi come ai futuri leader. Chiede – a se stesso e a tutti – un atto di generosità: siamo a disposizione, ma bisogna fare spazio. Mettiamo dunque al bando – questo il ragionamento – tatticismi e personalismi, non siamo un partito, ma un movimento, disposto a confrontarsi, nel merito, con tutti quelli che ci stanno. “E il rapporto con il Pd? – si chiede retoricamente Bersani – Costruiamolo noi il nuovo centrosinistra, poi sarà il Pd a dover decidere cosa fare”. Mi sembra convincente: un movimento, un raggruppamento di forze culturalmente autonomo che si pone l’obiettivo, non l’ossessione, del governo. Poi le alleanze verranno.
Terza e ultima notazione politica: nel suo intervento Bersani ha criticato duramente la globalizzazione e l’atteggiamento di quella sinistra che ha fatto spallucce continuando a proporre ricette di destra. “Ora – si chiede ancora retoricamente – arriverà il conto di questi anni in cui si è detto che tutto andava bene e il tema vero è: chi lo paga? Io avevo provato a dirlo nella campagna del 2013, forse non sono stato capito. Ma per me resta questo il discrimine fondamentale. Paghi chi ha di più”. Per chi è ossessionato dalle “cose di sinistra” questa è una. Bella chiara.
E ora vediamo ai punti dolenti. Non entro nella polemica di chi dice “eh ma che ve ne siete accorti adesso?”. Ci sarà stato anche qualcuno più bravo che ci era arrivato prima, senza dubbio, ma non ha lasciato grandi tracce della sua esistenza. Mi ci metto anche io, nel mio piccolo. Quello che mi interessa è l’aver finalmente capito la fase che sta vivendo il mondo, capito i problemi e capito quali sono stati gli errori della sinistra a livello mondiale. Non la faccio tanto lunga: “Mentre la destra – ha argomentato Bersani – ha cambiato radicalmente la sua ricetta passando dal liberismo sfrenato di Reagan e della Thatcher al sovranismo e al protezionismo di oggi, noi non abbiamo capito il cambio di fase”. E quindi la crisi della cosiddetta globalizzazione porta alla luce anche gli errori del passato, quando la sinistra ha vinto in tutto il mondo proponendo soltanto un modello un po’ più umano. Adesso invece spuntano fuori quelle che l’esponente di Articolo Uno chiama le spine: finanza senza controlli, diseguaglianze diffuse, attacco ai diritti, umiliazione del lavoro. Fin qui tutto bene, la parte che mi sembra debole nel ragionamento di Bersani è quella delle soluzioni al problema. Posto che la risposta che abbiamo dato fin qui, almeno in Italia, ovvero sostanzialmente assistere inerti alla deindustrializzazione del nostro paese, è del tutto inadeguata e ci porta dritti nel baratro, non basta ripartire dai tre classici capisaldi europei, ovvero diritti dei lavoratori, stato sociale universalistico e fiscalità progressiva. Non basta neppure aggiornando i contenuti.
Mi piace però ripartire, da due belle definizioni che ha dato nell’appuntamento romano. La prima: “Se l’Europa non è un’idea per il mondo non potrà mai farsi Europa”. La seconda: “La sinistra è quella cosa che esiste perché non gli piace il mondo così com’è”.
Io le stamperei e le attaccherei in tutte le sezioni, circoli, comitati o come diamine si chiameranno le articolazioni locali di Articolo Uno. Perché lì dentro ci sono le nostre radici e il nostro futuro. C’è la necessità impellente di trovare strade nuove, di dare risposte a quella fortissima crisi che sta vivendo l’idea stessa di democrazia rappresentativa. La risposta di Renzi è “più potere con meno consenso”. Ha ragione Bersani, questo volevano dire Italicum e riforma della Costituzione: spazzare via i corpi intermedi, smantellare il sistema della rappresentanza vuol dire avere meno democrazia. E la famosa democrazia diretta tanto decantata dal movimento 5 stelle vuol dire un sistema autoritario dove i cittadini non contano più nulla.
Rimango ai tre punti di cui ha parlato Bersani. Della questione del lavoro, ovviamente centrale, ho già parlato, ampiamente, qui. Vorrei soffermarmi, invece, nel “pippone” di oggi sulla questione delle diseguaglianze, che ieri sono state ridotte, in sintesi, alla necessità di garantire un welfare di natura universalistica. E’ importante porsi nuovamente questo tema, uscendo finalmente dalla retorica del merito. Ma credo che sia un errore limitarsi a questo ragionamento. E anche limitarsi a descrivere il tema delle diseguaglianze come tema interno a un paese. Fra gli stipendi dei supermanager e i vaucher, tanto per usare la semplificazione di Bersani. Chi vuole definirsi di sinistra non può continuare a leggere le diseguaglianze solo all’interno degli anacronistici confini nazionali. E allora la differenza è fra gli stipendi dei supermanager italiani e lo stipendio di un operai africano o cinese. Qua stanno le diseguaglianze, qua sta la vera lotta di classe del nostro tempo. Altrimenti continuiamo a essere prigionieri della contrapposizione fra migranti e proletari “interni”. Giochiamo la partita nel terreno di gioco scelto dalle destre. Continuare a parlare di stati e di nazioni, insomma, ci condanna a una visione miope e alla sconfitta. E allora che fare? Io credo che dobbiamo, ad esempio, mettere in discussione seriamente la casa del Partito socialista europeo. E usare il “metodo Bersani” anche a livello internazionale. Una cosa del tipo: “Guardate ragazzi che ognuno per sé mica reggiamo più, qua tocca mettersi insieme davvero”. Potrebbe sembrare eccessivamente ambizioso: non riusciamo a rimettere in piedi una sinistra italiana e ci preoccupiamo del livello europeo? Io credo sia essenziale, limitarsi ai patri confini sarebbe un errore tragico. Tornare a produrre, come Europa, idee che siano modello per tutti, sui grandi temi che abbiamo di fronte. Da quelle diseguaglianze che sono il concime per tutti i fondamentalismi, ai temi ambientali, a quelli economici, della produzione, della finanza. Io credo che una delle riflessioni che dobbiamo fare sia su questo.
Abbiamo di fronte un’ondata di destra senza precedenti, non basta chiudersi nei confini nazionali, non basta una strategia di difesa dei diritti del novecento. Occorre riaprire davvero la partita, sfidare le destre e i populismi, sfidare le paure di un occidente che si sta accartocciando sempre più su se stesso. Ancora una volta, come è ovvio, mi limito ai titoli. Non sono in grado di fare di più. Serve un vero e proprio intellettuale collettivo per un’elaborazione compiuta su questi e altri temi. Ma secondo me la strada da percorrere, la direzione da prendere è segnata.
Ecco, se cominciamo a fare questo possiamo dire che in fondo al tunnel in cui si è cacciata la sinistra, non solo italiana, c’è una luce. Senza punto interrogativo. Neanche fra parentesi.
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