Roma, Capitale a scartamento ridotto.
Il pippone del venerdì/31
Premessa doverosa: per una volta invidio i cittadini siciliani che domenica sono chiamati ad eleggere il presidente della Regione. Li invidio perché hanno la fortuna di poter votare Claudio Fava, uno dei miti della mia giovinezza. Uomo con la schiena dritta, non tanto un simbolo della lotta alla mafia, ma un pezzo vivente di quella lotta. Uno che, insieme al gruppo del settimanale “I Siciliani”, la mafia l’ha combattuta quando non si poteva neanche nominare. Quando i giornali di Catania rispettavano ossequiosi i quattro “cavalieri del lavoro”, Pippo Fava diceva apertamente che erano mafiosi. Insieme a lui c’era quel gruppo di giovani coraggiosi, dal figlio a Riccardo Orioles a Michele Gambino che poi ho avuto la fortuna di conoscere nell’esperienza romana di Avvenimenti. Ma fra i Siciliani e Avvenimenti c’era stato l’assassinio di Pippo Fava, le vite a rischio degli altri giornalisti, alcuni dei quali costretti a scappare all’estero per anni. Un grande giornalista ma soprattutto, lo ripeto, un uomo con la schiena dritta. La Sicilia ha bisogno di uscire dalla eterna ammucchiata dei compromessi se vuole pensare a un futuro differente. E con Fava presidente ne ha l’opportunità. Non la sprecate.
Che c’entra con il titolo? Nulla o forse molto. Perché Roma, in condizioni differenti, mi sembra avviata verso lo stesso declino a cui – lo dico da osservatore lontano, ma sempre attento a quello che succede a quelle latidunini – l’isola del sud è soggetta da troppo tempo. Le varie “primavere” siciliane rischiano di essere soltanto pallidi intermezzi. Tagliamo corto, ne ho già ampiamente parlato un anno fa, ma mi ha stimolato l’intervento di Massimo D’Alema che, concludendo una iniziativa di Articolo Uno, ha dato una definizione sferzante della situazione: “Roma – ha spiegato – rischia di non essere più la capitale d’Italia, ma la capitale del mezzogiorno”. Una definizione che è un po’ un cazzotto nello stomaco. Un cazzotto salutare, ma per sempre una botta violenza. D’Alema, in sostanza divide l’Italia in due, immagine non nuova ma che torna d’attualità, per dire che Roma non segue più la parte più virtuosa del Paese, ma si ritrova a guidare quella che arranca, quella in cui il degrado vince sulla bellezza. Quella si arrende al declino. Da un lato Milano, tornata la città rampante degli ultimi decenni del secolo scorso, in cui lo sviluppo, economico e culturale è impetuoso. Dall’altro Roma che perde pezzi come l’asfalto delle sue strade massacrate dall’incuria.
La definizione mi ha particolarmente impressionato per una ragione anche personale. Come molti sanno dal 2001 al 2007 ho lavorato come responsabile della comunicazione al gruppo dei Democratici di sinistra del Lazio, curando contemporaneamente anche la comunicazione del partito regioanel. E mi sono trovato, lavorando spesso alle relazioni del segretario, Michele Meta, a usare l’immagine di una regione al bivio, in bilico, fra le due italie. Regione e non città, perché avevamo ben chiaro che una grande capitale non è solo una città, ma è una Regione intera. Sia dal punto di vista economico e sociale che politico. Avvertivamo il rischio, insomma. E indicavamo anche le soluzioni: la città della tecnologia e della comunicazione, lo sviluppo dell’Information and communications technology, l’aerospaziale, il settore farmaceutico. E ancora: la rete della conoscenza e della ricerca basata sulla necessità di mettere a sistema le grandi istituzioni universitarie del centro-sud, il turismo, l’opportunità rappresentata dalla linea ferroviaria ad alta velocità che si stava completando in quegli anni.
Varrebbe forse la pena riprendere quella riflessione, perché rappresenta un po’ un libro delle occasioni perse. A oggi succede l’esatto contrario di quello che auspicavamo: Roma perde pezzi ogni giorni. Da Sky emigrata a Milano insieme ad altre redazioni importanti, alla ricerca farmaceutica che ha sempre meno casa a Pomezia, alla Tiburtina Valley eterna incompiuta che è persino difficile da raggiungere grazie alle strade iniziate e mai finite. Roma ha vissuto anni impetuosi dalla metà degli anni ’90 all’inizio del nuovo secolo. Era la locomotiva d’Italia, la sua economia cresceva il doppio rispetto al resto del Paese. C’erano insomma basi importanti sulle quali chi governava quei processi – ovvero il centrosinistra – non è riuscito a costruire un modello di sviluppo, quel modello che pur avevamo intuito e tratteggiato in tanti convegni.
E’ bastato il combinato disposto della crisi economica unita ad anni di amministrazioni comunali incapaci di intendere e di volere, per svelare quanto quella crescita fosse effimera. Legata a un fiume di finanziamenti pubblici che poi si sono interrotti. Ai giubilei, alle manifestazioni sportive. Ecco, in questo vedo un parallelo profondo con la situazione siciliana, una regione intera che per cento anni è vissuta così, con un flusso ininterrotto di finanziamenti dallo Stato centrale che tutto copriva e tutto metteva a tacere. Tutti avevano un posto pubblico. Un posto sicuro. Poco importa che fosse improduttivo o che, nei casi peggiori, fosse in gran a parte un territorio a gestione mafiosa. Non è un caso che a Roma la penetrazione delle organizzazioni criminali sia diventata sempre più profonda. Basta guardare le insegne dei ristoranti e dei bar.
Né la Regione, amministrata sicuramente meglio in questi anni, è riuscita a sopperire al disastro delle amministrazioni Alemanno, Marino, Raggi. Stiamo continuando a rotolare lungo una china. Nella quale il romano è tornato a essere quel personaggio un po’ indolente che Sordi ha saputo descrivere nei suoi film con tanta profondità. Indifferente, apatico, incapace persino di ribellarsi. Anche le esperienza civiche, dai comitati di quartiere alle tante realtà associative, mostrano tutti i loro limiti. Perché possono essere spalle importanti per arrivare dove una buona amministrazione non riesce ad arrivare, ma non possono sostituirsi ad essa.
Ecco, io credo che Roma possa ripartire, possa tornare a essere Capitale d’Italia e non dell’Italia di serie B, soltanto se unisce questi due fattori: una classe politica (Comune e Regione insieme) meno peracottara di quella attuale, ma soprattutto una nuova coscienza civica. Serve una vera e propria rivoluzione culturale che scuota questa città indolente. Fa impressione vedere ragazzi arrivati da lontano che puliscono le strade e chiedono in cambio qualche moneta per tirare avanti e i negozianti (ma anche i condomini) che se ne fregano se qualcuno riempie la strada davanti alle loro attività di materassi, frigoriferi e rifiuti vari. Poi servirà anche il resto, a partire da un nuovo modello di governo della città. Più decentramento vero, una dimensione non più limitata a Roma, ma che comprenda anche l’area metropolitana. Una vera rivoluzione nelle istituzioni e non la presa in giro architettata da Renzi e Delrio. Tutto vero. Ma se insieme non ci sarà una rinascita dei romani sarà l’ennesima primavera effimera. Verrà magari anche l’estate, ma poi tornerà inesorabilmente l’inverno. Se la riflessione della sinistra non riparte da qui non basteranno mille convegni. Saremo sempre una capitale a scartamento ridotto, lontani da quelle grandi realtà europee a cui guardavano Rutelli e Veltroni, gli ultimi due sindaci di Roma.
Il mio sogno impossibile: andare in pensione.
Il pippone del venerdì/30
Premessa doverosa: non tiratemi per la giacchetta non parlo di Grasso né di possibili futuri leader della sinistra. Non era un sabotatore delle istituzioni quando ha subito la fiducia imposta da Renzi sulla legge elettorale, non è un eroe adesso che ha tratto le conseguenze lasciando il gruppo del fu Pd. Una persona coerente. Certo di questi tempi non è poco, ma lasciamolo in pace. Quello che succederà in futuro lo scopriremo.
Parliamo del nostro di futuro, di quello concreto di tutti noi. Non per personalizzare, ma la dico semplice: mobbizzato e costretto in un sottoscala da un’amministrazione pubblica che si riempie la bocca di parole come merito e capacità, ma poi premia la prontezza della lingua più che della penna, non ho davvero ambizioni di carriera. Chiedo solo di essere lasciato in pace e di poter arrivare serenamente alla pensione, senza troppe rotture di scatole.
Ecco, la pensione. Da ragazzo, ingenuamente, pensavo che ci fosse una specie di contratto con lo Stato: quando comincio a lavorare so che dopo un certo numero di anni, prefissato, avrò una pensione che sarà pari a una certa cifra, determinata da parametri precisi, predefiniti anche questi. Non è un regalo dello Stato generoso, badate bene, perché per tutti gli anni che uno lavora versa una determinata cifra ogni mese, in percentuale sul suo stipendio, che viene messa da parte proprio per pagargli la pensione quando sarà il momento.
Quando ho cominciato a lavorare c’era ancora il sistema retributivo, in sintesi la pensione era calcolata non su quanto effettivamente versato, ma sullo stipendio degli ultimi anni di attività. Potrebbe sembra un sistema ingiusto, ma era pensato per tutelare chi – e in Italia non erano e non sono pochi – prima di avere uno stipendio regolare con regolari versamenti dei contributi aveva lavorato per decenni in nero o con formule variamente precarie. Per non farla troppo lunga, da quel momento, le regole sono cambiate una decina di volte. Una volta si passa al sistema contributivo, la volta dopo si allunga il tempo che uno deve lavorare, poi ancora si inseriscono complicati calcoli da fare considerando sia l’età che il numero di contributi versati. Ora siamo arrivati all’età variabile. Ovvero l’età a cui si va in pensione cambia a seconda dell’aspettativa media di vita calcolata dall’Istat. Se si allunga l’età sale, se si accorcia resta la stessa. Un po’ come il prezzo della benzina, che aumenta sempre anche quando il costo del petrolio diminuisce. Come se uno scalatore arrivasse alla cime a gli aggiungessero ogni volta una decina di metri in più.
Il mio professore di demografia all’università ci guardava con occhi comprensivi e ci spiegava: “Voi siete la generazione più sfortunata, siete gli ultimi del boom delle nascite e quindi avrete difficoltà enormi a trovare lavoro, ma siccome dopo di voi il dato delle nascite crolla non andrete mai in pensione perché non si sarà una base di contribuzione abbastanza ampia per garantirla a tutti”. Le condizioni in realtà sono un po’ cambiate, c’è stata una forte immigrazione a colmare quel vuoto nelle nascite. C’è stata la globalizzazione, la rivoluzione informatica. Insomma il mondo si è rivoltato, ma quella profezia si sta tristemente rivelando esatta. Perfino ottimistica.
Sì, ottimistica, perché qui non solo non ti mandano in pensione, ma ti prendono anche in giro. Ti dicono che campi di più e quindi deve lavorare di più, senza per altro fare distinzioni: la statistica è quella, prendere o lasciare. Poco importa se poi tu, personalmente, stai bene o stai male, hai fatto per una vita il minatore piuttosto che quello che conta il passaggio dei gabbiani davanti al faro di Malibù. Niente pensione.
Poco importa se il tuo posto di lavoro potrebbe essere occupato da uno di quei giovani per cui l’occupazione resta un miraggio. Poco importa se sei rincoglionito e alcuni lavori non puoi proprio sostenerli per impossibilità fisica o intellettuale. Si lavora fino a 67 anni. Per ora. Quando arriverete a 67 anni ne riparliamo.
Io credo sia una vera e proprio truffa, alla quale dovremmo tutti ribellarci. Ma non con uno scioperetto, no, una ribellione vera. Tutti davanti al Parlamento fino a quando non cambiano quella norma infame. Tutto il paese bloccato, senza fasce di garanzia, precettazioni o limiti vari. Come fanno nelle altre nazioni europee. Quando c’è da protestare si protesta. Senza chiedere il permesso.
Per oggi la finisco qui. Sono un po’ più breve del solito, mi perdonerete. Ma l’età avanza e anche il pippone ne risente. Del resto anche i vostri occhi non sono più quelli di una volta.
I populismi, i supposti argini e il vero voto utile.
Il pippone del venerdì/29
Sto leggendo in questi giorni un libro di Giorgio Amendola, trovato su ebay per pochi euro, che racconta la storia del Partito comunista italiano dal 1921 al ’43. Doveva essere il primo capitolo di un lavoro più complessivo, ma non ne ebbe il tempo. Di lui ho sempre apprezzato una grande capacità di raccontare i fatti più complessi in maniera chiara, intrecciando le vicende personali con gli avvenimenti più generali. Non freddi saggi, insomma, ma la storia che diventa concreta, che scende dalle cattedre universitarie e si colora di facce, persone, passioni. In questo suo lavoro, meno romanzato rispetto ad altri, trovo la stessa facilità di racconto, unita al solito rigore nell’analisi.
Arrivo al punto. Una cosa mi colpisce sempre quando leggo qualcosa che riguarda la storia del Pci: la distanza fra il racconto dei protagonisti e la narrazione che degli stessi avvenimenti veniva rappresentata dai mass media. Mentre nella storiografia spesso si ritrova la descrizione di un partito e un gruppo dirigente chiuso e dipendente da Mosca, sia leggendo Togliatti, che Amendola, ma anche Ingrao, si percepisce sempre, sia pur nelle posizioni spesso differenti, un sentiero comune di tutt’altra natura: il bene del Paese. Questa sorta di stella cometa ha sempre guidato il gruppo dirigente dei comunisti italiani per settant’anni. Più che il destino personale, quello del Partito, contava il destino complessivo dell’Italia. E lo stesso progresso dei lavoratori, degli ultimi, dei proletari, veniva visto come condizione necessaria per il miglioramento del Paese.
Quando quella storia, quella del Pci, finisce si perde anche questo senso comune che aveva caratterizzato quella comunità? Sicuramente non è più stato quello il filo conduttore delle forze della sinistra. Di quel pensiero si ritrovano tracce, anche importanti. Penso, ad esempio, al Bersani che sostiene Monti, convinto che andare alle elezioni senza aver prima messo in sicurezza i conti sarebbe stato un disastro per l’Italia. Non ho condiviso quella strategia, Monti non era la medicina giusta, ma quella era la ragione. Perché una parte importante della classe dirigente della sinistra quel marchio di fabbrica ce l’ha impresso nel Dna.
Per questo mi capita, in questi giorni, di chiedermi cosa convenga davvero fare oggi per il bene dell’Italia. E credo anche che sarebbe bene che partissimo proprio da questa riflessione nel processo della ricostruzione della sinistra. Questa per me è la strada per ritrovare una connessione, anche emotiva, con il nostro popolo. Perché altrimenti si rischia di essere percepiti come quelli che si mettono insieme solo per riportare qualche deputato in Parlamento. E se questo è non si raggiunge neanche questo obiettivo francamente non particolarmente attraente.
E credo anche che sia una riflessione da fare a maggior ragione in questi giorni in cui l’offerta politica italiana appare in tutta la sua miseria. C’è una destra che si unisce per ragioni di potere dietro l’effige stinta di Berlusconi, dove la voce di Salvini è sempre più forte, ci sono i 5 stelle che a parole sono rivoluzionari ma quando governano si dimostrano soltanto apprendisti pasticcioni, c’è un centro che si affida a Renzi, forse il più populista della compagnia. Si odono sinistri scricchiolii a destra con l’avanzata dei fascisti veri e propri, di cui abbiamo già parlato.
Le vicende di questi giorni non sono altro che una conferma delle riflessioni di questi anni. Renzi si proclama a parole unico argine al populismo parolaio e poi ne usa gli strumenti a piene mani. Al di là del giudizio su Visco, sicuramente non univoco, la sgrammaticata mozione del Pd rappresenta uno schiaffo alle istituzioni. Il paradosso è che chi è fra i responsabili degli scandali che hanno colpito i risparmiatori negli ultimi anni si erge a paladino degli stessi andando a mettere sotto accusa l’organismo che sulle banche ha esercitato un’azione costante di controllo, sia pure con ritardi e omissioni, evitando guai peggiori. Insomma, invece che perseguire i malfattori si perseguono i controllori. Si indebolisce la Banca d’Italia, la sua indipendenza sancita dalla Costituzione. Per qualche voto in più si mette a rischio una istituzione essenziale. La stessa cosa che rimproveravamo a Berlusconi, le stesse critiche che da sempre muoviamo a Grillo.
Anche a voler ignorare le inchieste giudiziarie in corso, questo modo di fare politica è di per sé un danno per il Paese. Perché non di discosta minimamente da quel populismo che vorrebbe combattere. Si fa forcaiolo quando il vento tira da quel lato, razzista quando le tensioni sui migranti fanno ondeggiare l’opinione pubblica, stucchevole nella sua deferenza verso i potenti, arrogante con i sindacati e gli studenti. Unico scopo è l’affermazione personale, la gestione del potere fine a se stessa.
Io resto convinto che fosse sbagliato il progetto stesso del Pd, ma ai Veltroni, ai Prodi, ai Franceschini, ai Gentiloni vorrei chiedere ugualmente: ma era questo il partito che sognavate? La famosa vocazione maggioritaria voleva dire che pur di raccattare un voto in più si può fare tutto? E pur di salvare qualche posticino in parlamento per voi e la vostra corrente siete disposti a digerire tutto?
Ecco, il bene del paese: cosa è oggi il bene del Paese? Arginare i populismi. Bene. Io credo che siano due le condizioni necessarie. Per prima cosa ricostruire un campo della sinistra. Senza altri aggettivi, radicale, di governo, riformatrice. La sinistra e basta. Quella che parte dalla cultura del bene comune e che non a caso in questi anni è stata costantemente sotto l’attacco concentrico di tutti. Per seconda cosa deve morire il Partito democratico, deve esplodere questo contenitore malato che ancora ingabbia e illude tante energie positive.
Solo ricreando una sinistra forte e autorevole e un partito che rappresenti i moderati, si può davvero mettere un argine ai populismi che sembrano oggi inarrestabili. Non è un compito che si esaurisce in due o tre mesi, lo dico da troppo tempo. Ma è essenziale che si cominci adesso a costruire un campo differente. Ognuno a casa sua. Noi dobbiamo lavorare per dare voce a quel popolo di sinistra che ormai puntualmente resta a casa a ogni elezione. I Veltroni, i Prodi devono abbandonare Renzi al proprio destino e dare vita a un nuovo progetto moderato con il quale poter interloquire.
Se ci ritroviamo su questi obiettivi è anche più facile capire cosa fare, sia a livello nazionale che a livello locale, dove bisogna lavorare per isolare il giglio magico e rafforzare le energie che in modo manifesto si dichiarano alternative, anche dentro il Pd. Questo sarà il vero voto utile.
Le elezioni, in questo quadro, sono un passaggio obbligato ma non dirimente. Un passaggio che può aiutare questo grande big-bang, questa complessiva scomposizione e ricomposizione su basi nuove che serve alla rinascita di un sistema politico che ormai è solo un danno per l’Italia, per noi tutti.
Serve una sinistra autonoma e socialista. Facciamola.
Il pippone del venerdì/28
Era il due giugno scorso, ovviamente un venerdì, e scrivevo che Pisapia rappresentava l’ultimo killer mandato a eliminare quel che restava della tradizione dei comunisti italiani. Da allora sono passati quattro mesi e la convinzione si è rafforzata, devo dire che nelle ultime settimane mi è parso di non essere più il solo a pensarla in questa maniera. Con sollievo. Scrivo questo non tanto per un classico “ve l’avevo detto”, quanto per un più incazzato “possibile che non ve ne siete accorti prima?”. Abbiamo buttato sei mesi nel secchio, con tutti i giornali che adesso ci sparano contro a pallettoni: siamo la sinistra residuale, minoritaria, mera testimonianza, litigiosa, un partitino del 3 per cento. Qualcuno parla addirittura di spaccatura in Articolo Uno, visto che un pezzo dei parlamentari iscritti al gruppo erano in realtà legati a Campo progressista. Non se ne può più. Pagine e pagine dedicate alla “scissione degli scissionisti”.
Che poi non si capisce bene: se siamo davvero così residuali da arrivare a malapena al 3 per cento, perché darsi tanta pena, mobilitare tante brillanti penne del nostro giornalismo per demolirci? Viene addirittura richiamato in servizio permanente effettivo quell’Achille Occhetto che di demolizione della tradizione comunista resta l’autorità principe nel nostro paese. Quando si richiamano in campo i pensionati vuol dire che c’è davvero una gran paura in giro.
A me sembra che i salotti che contano abbiano una gran paura di questi quattro cialtroni malmessi che riescono a stento a parlarsi fra loro e portano troppe ferite delle battaglie del passato. Il tiro a pallettoni contro D’Alema è solo l’inizio. Da qui alle elezioni ne vedremo delle belle. Quello che fa paura è l’idea che un gruppo (al momento quasi soltanto di parlamentari) possa anche solo pensare che in Italia debba esistere una sinistra autonoma. Autonoma: è questa parola che turba i sonni di chi decide i nostri destini fin dagli anni ’90. L’idea che nel nostro Paese torni a esistere una qualche forma di soggetto politico che provi a staccarsi dalla deriva liberista che ci ha portati alla situazione di oggi e che ridefinisca se stesso sui valori dell’eguaglianza e della libertà. Una formazione di natura socialista che dice con chiarezza che serve una nuova rivoluzione per ridare forza ai deboli, voce agli ultimi.
Hanno provato a fermarci in tutti i modi, Pisapia e la sua riedizione sbiadita dell’Ulivo, ci hanno portato fuori strada. Si è tentato di dividerci ancora. E continueranno a farlo. Servono nervi saldi perché adesso non si può più sbagliare. E allora un appello a tutti: fermiamoci e cambiamo registro, perché le elezioni sono pericolosamente sempre più vicine, forse anche più di quello che si dice. Insomma, si può tornare a parlare della sinistra. E bisogna farlo subito, bisogna farlo in tutti i quartieri, nei luoghi di lavoro. Perché l’attività di sabotaggio ci ha portato a un minuto dalle elezioni. Non so se la data sarà sul serio il 19 novembre. Poco importa se sarà una settimana dopo, le cose importanti sono le coordinate che dovrà avere quell’appuntamento.
Dovrà essere un appuntamento di massa nel quale dal basso si sceglie un gruppo dirigente provvisorio, un comitato di direzione, chiamatelo come vi pare, e si indicano le coordinate del percorso che dovremo fare insieme. Un percorso che, lo dico senza perifrasi, secondo me non può avere come semplice approdo un’alleanza elettorale. Dobbiamo dire chiaramente che la lista della sinistra è il primo passo, forse quello più difficile per le date ravvicinate e le reciproche diffidenze, verso un nuovo partito. Di questo abbiamo bisogno: di una casa comune nuova, nella quale nessuno si senta ospite, magari anche poco gradito. Magari si può iniziare da una forma di federazione. Ma deve essere chiara la direzione, la “cessione di sovranità” degli aderenti: un investimento verso il futuro, non una coperta di Linus per riportare in Parlamento una pattuglia di dirigenti. Qualsiasi forma partito si scelga, chiari devono essere i processi di formazione delle decisioni. Non la corsa alle tessere che tanti di noi hanno vissuto come un incubo negli ultimi anni, ma la possibilità per chi vuole partecipare di contare e portare il proprio contributo.
In quell’appuntamento dovremo scegliere carta dei valori, nome e simbolo da presentare alle elezioni. Io suggerisco di rivolgersi a un’agenzia di comunicazione diversa. Serve discontinuità anche in questo, perché gli ultimi simboli non erano un granché. E mi trattengo molto. Servono un nome e un simbolo “facili” da riconoscere ma che al tempo stesso guardino al futuro, facciano pensare non a un evento momentaneo ma a qualcosa di stabile. A me non dispiacerebbe la parola socialismo, da troppo tempo caduta in disgrazia, come non dispiacerebbe un riferimento al lavoro. Altrimenti “La Sinistra”. Secco, senza fronzoli. Magari con una stella ad accompagnarlo. Eviterei le rose, perché anche a livello europeo serve una nuova sinistra, il Pse mi sembra sulla strada del declino, neanche troppo lento.
Io non credo a un processo civico. C’è bisogno, al contrario di una formazione politica, dove le esperienze civiche abbiano piena cittadinanza. Un processo esclusivamente civico secondo me è un’illusione. Come è un’illusione quella del campo informe, del movimentismo perpetuo. Dobbiamo fare un partito politico. Senza avere paura di dirlo. La crisi della sinistra è anche la crisi dei partiti così come erano stati pensati nella Costituzione. A quello spirito dobbiamo tornare. Perché senza grandi corpi intermedi, organizzazioni di massa, non c’è democrazia, c’è solo il leaderismo che abbiamo conosciuto in questi decenni.
Queste coordinate (sinistra autonoma, socialista, valori chiari, partecipazione dal basso) dobbiamo farli vivere nei territori. Dobbiamo aprire sedi comuni, accorciare le distanze anche fisiche tra noi. Una sezione (io sono affezionato a questo nome) in ogni comune, in ogni quartiere delle città più grandi. Poi servirà anche la comunicazione via internet, la presenza sui social. Ma se non torniamo a essere presenti con forza e continuità nelle piazze e nei luoghi di lavoro abbiamo perso in partenza.
Ecco, io immagino un percorso così, non un autobus dove c’è chi guida e ci sono i passeggeri. Un percorso in cui tutti si sentano attori protagonisti. Di comparse non ne abbiamo bisogno, come non abbiamo bisogno di personalismi. Abbiamo bisogni di tanti protagonisti che sappiano fare squadra guardando al futuro. E che siano consapevoli che il futuro non sarà domani. Che le elezioni sono solo il primo passo per ricostruire una sinistra di popolo e non di palazzo. Che il tema non è tanto andare al governo, ma creare le condizioni sociali per una nuova stagione di progresso nel nostro paese. Poi ci porremo tutti insieme anche il problema di chi sia il regista. Non tanto il centravanti, ma il mediano. L’uomo solo al comando, francamente, mi ha un po’ stufato. Sono l’unico a pensarla così? Io non credo.
Sarà una traversata nel deserto. Ma non si torna indietro. In tutta Europa la sinistra guadagna consensi e torna a essere decisiva quando dice e fa cose di sinistra. Sembra semplice no? Facciamolo anche noi.
L’ondina nera della destra che cresce.
Il pippone del venerdì/27
Vi aspettate un bel pippone in difesa del soldato D’Alema dal cattivo Pisapia. Lo so. Si potrebbe dire che ci siamo rotti, confermare che è un sabotatore della sinistra e non già quel federatore che Bersani ci aveva annunciato. Tutto già scritto, già detto in tempi non sospetti. Continuo, dunque, con la mia linea: non mi occupo più di questi personaggi minori della politica italiana, è tempo perso. E ho detto tutto, diciamo.
In realtà, la sinistra questa volta voglio chiamarla in causa (come al solito) sia pur indirettamente. Impressionato da due episodi. Il primo: nel popolare quartiere di Magliana dove abito è stata aperta una sede di Forza Nuova, che si affianca a quella di Casapound che da un anno mi alberga praticamente sotto casa, sempre piena di robusti ragazzotti dallo sguardo truce. Il risultato è che tutta la zona, fino a qualche mese fa tappezzata di manifesti e striscioni dei centri sociali, è invasa da cupi addobbi murali che inneggiano alla razza e alla supremazia italica.
I suddetti fascisti del terzo millennio, e vengo al secondo episodio, si candidano alle elezioni municipali di Ostia, da soli, e vengono accreditati dai sondaggi di un risultato più che lusinghiero. C’è chi li dà addirittura al 10 per cento. Ora, sarà anche esagerato, ma dopo il successo di Casapound alle amministrative della primavera scorsa, quando sono riusciti a piazzare i loro esponenti in assemblee elettive di città importanti (si pensi a Lucca), si apprestano a entrare anche in un consiglio municipale romano: “Gli italiani sono pronti a una soluzione fascista ai problemi locali”, dichiara su un giornale nazionale il loro leader.
Personalmente ogni volta che passo davanti alla loro sede metto ben in vista la falce e martello che ho sempre appesa al collo. Ma mi sembra, come dire, una soluzione minimalista. Ti fa star bene per quei cinque secondi in cui ti guardano sconcertati da tanta sfacciataggine. Però resta intatto il mio sconcerto per quella ventina di ragazzi che si riuniscono in quella sede, discutono, preparano gli striscioni, vanno ad attaccare i manifesti, organizzano gli studenti nelle scuole e all’università. Un po’ come facevamo noi trent’anni fa, verrebbe da dire, prima che i nostri ragazzi non si chiudessero in stanze dove esercitarsi al fare il verso agli errori dei grandi. Né tantomeno credo alla soluzione di una nuova legge per dichiarare fuorilegge tutti questi movimenti pseudo fascisti.
Torno a Ostia, questi ragazzotti il sabato organizzano la raccolta alimentare, che poi distribuiscono a circa 200 famiglie bisognose. Italiani, ci mancherebbe altro. “Agli immigrati pensa la Caritas”, rispondono. Come se l’associazione cattolica ne facesse una questione di cittadinanza. Li abbiamo fatti insediare nei nostri quartieri, nelle zone più popolari di Roma, dove il disagio è diventato più forte. Quartieri dove la sinistra non esiste più. Scomparsa nel giro di dieci anni. Penso a Tor Bella Monaca, dove alle scorse comunali abbiamo ottenuto il risultato più basso di Roma, appena sopra il 2 per cento. Alla stessa Ostia, a Corviale.
Che cosa succede nella nostra città? Questo dovremmo chiederci, più che rinchiuderci in discussioni asfittiche in cui ci parliamo sempre da soli, sempre con gli stessi interlocutori stanchi. Come torniamo a parlare a quelle periferie? Periferie non solo in senso fisico, inteso come distanza dal centro della città. Ma periferie in senso sociale. Le borgate romane non erano così. Erano luoghi dove la solidarietà fra gli ultimi era pratica quotidiana. Dove c’era un tessuto sociale forte, fatto di luoghi, di partecipazione. Dove c’erano decine di sedi dei partiti della sinistra, del sindacato. Dove è nata la grande stagione del civismo romano, quella dei comitati di quartiere, dei consorzi delle borgate che davano voce agli ultimi, li rendevano protagonisti. Le borgate erano i luoghi più vivaci della nostra città. Quasi in contrapposizione ai quartieri bene, dove quasi non ti facevano nemmeno entrare.
E adesso il mondo si è capovolto. La sinistra vince ai Parioli, scompare a Tor Bella Monaca. La stessa conformazione urbanistica di queste nuove periferie, probabilmente, ha favorito questa deriva. Alle “borgate paese”, fatte di casette abusive strette intorno a pochi punti di aggregazione. Senza fogne e illuminazione, ma tutto sommato con una dimensione umana, si è passati agli sterminati quartieri cemento, dove ci siamo fatti guidare da urbanisti che dell’Italia non sapevano nulla e hanno progettato palazzi senz’anima, con i negozi chiusi in tunnel, senza piazze, senza giardini. Questo elemento di spersonalizzazione è sicuramente alla base di quello che sta succedendo in questi anni. In questo panorama si va a sommare la convivenza con i migranti, sempre più complessa. La crisi economica che, malgrado tutti parlino trionfalmente di ripresa, qua morde ancora le caviglie dei poveracci. La somma dei due elementi (quartieri senz’anima e crisi) ha fatto da moltiplicatore. Aggiungiamoci anche l’abbandono da parte della pubblica amministrazione.
Capito ormai di rado a Ostia, ma ogni volta ho la sensazione che tutto stia a andando a rotoli sempre più velocemente. Le buche nelle strade (se di strade si può ancora parlare) sono un termometro preciso. Qua l’asfalto è diventato una rarità. Secondo me non è tanto la vicenda di mafia capitale e del commissariamento del Municipio (a mio avviso ancora inspiegabile). E’ la sensazione di abbandono che ti fa incazzare.
Alle ultime elezioni amministrative sono queste le zone dove i Cinque stelle hanno sfondato. Percentuali bulgare. Hanno sfiorato il 50 per cento al primo turno, al ballottaggio sono schizzati sopra al 70. Ma adesso anche nei loro confronti monta la sfiducia, si comincia a percepire, e lo vedremo il 5 novembre a urne chiuse, che quella che appena pochi mesi fa sembrava una corazzata è diventata una barchetta. Ci sarebbe tanto spazio, insomma, dove ricominciare a lavorare.
Proprio quello che fanno i ragazzi di Casapound. Lavorano, stanno sui territori, aprono sedi fisiche, non sui social. Sedi dove puoi andare, offrono servizi, anche luoghi dove sfogarsi, trovare ascolto. Una ricetta antica, togliattiana verrebbe da dire. Pescano nel nostro vuoto, insomma, gettano reti dove noi abbiamo rinunciato a stare. E certo che il loro messaggio è anche semplice da far passare, rozzo, elementare ma di facile penetrazione. L’Italia agli italiani. Incentivi per i figli. Reddito di cittadinanza. Canone sociale per gli affitti. Alcune parole d’ordine, se non ci fosse quella premessa di razza, sarebbero addirittura degne della sinistra anni ’70.
Io credo che per il momento sia soltanto un’ondina che si può ancora gestire. Ma sicuramente non sono più il fenomeno folkloristico di qualche anno fa. Non sono più qualche decina di reduci. Sono giovani, contemporanei. Si fanno poche pippe mentali e lavorano sui territori.
Ecco forse se stessimo meno a pensare a come farci del male da soli e cominciassimo a riaprire sedi politiche, spazi sociali, in tutta la città, potremmo cominciare a circoscrivere e limitare questa ondina. Poi crescerà e sarà tutto più complesso. Sarò divisivo anche io, ma la sinistra deve tornare a fare la sinistra. Sarà poco, non sarò originale.
Ora vanno di moda, le officine, i camp, le riunioni nelle librerie, gli spazi alternativi. A me piacciono i muri scrostati delle vecchie sezioni popolari.
M5s: la fabbrica dell’irrealtà.
Il pippone del venerdì/26
Ora, vi aspettate tutti una lunga tirata riprendendo le argomentazioni di D’Alema, elogiando Montanari che parla di sinistra, bacchettando Pisapia e i pisapini che si sono offesi, applaudendo il presidente Grasso… Sono stato molto tentato, ma ieri l’ineffabile avvocato milanese ha affermato chiaramente che lavora a un soggetto politico non alternativo al Pd, ma sfidante, con questa legge elettorale. Come dire, se cambiate la legge ci alleiamo subito, basta mettersi d’accordo. Per me la partita è chiusa. Parliamo d’altro.
Voglio tornare, dunque, sul carattere profondamente antidemocratico dei Cinque stelle. Ne avevo già ampiamente parlato in questo articolo addirittura nel 2014, devo dire che ne sono sempre più convinto: dovrei cambiare il mio nome in “Cassandro”.
E’ cronaca di questi giorni la richiesta di rinvio a giudizio per il sindaco di Roma, Virginia Raggi, colpevole, secondo la procura, di falso. Era indagata per due ipotesi di reato: falso e abuso di ufficio. Per la seconda è stata chiesta l’archiviazione. Ora la notizia principale, da giornalista, è che il sindaco della Capitale d’Italia rischia il processo per falso. E, invece, ovunque vedi scene di giubilo. Non degli altri partiti, sia chiaro. Sono proprio i pentastellati a esultare. Dice il capo: “Ora la stampa deve chiedere scusa, la Raggi è stata scagionata”. Sì, viene scagionata per l’abuso di ufficio, un reato nel quale, come ben sanno tutti gli amministratori, è facile incappare, vuol dire semplicemente che si adottato un atto che non rientrava nei propri poteri. E visto il groviglio di leggi con cui un sindaco si trova a dover combattere quotidianamente può anche capitare. E poi, secondo la procura, la nomina di Marra (sempre di questo galantuomo stiamo parlando) resta illegittima, manca l’elemento del dolo e quindi decade anche il reato.
Ma resta in piedi l’accusa di falso. Il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pubblico ministero Francesco Dall’Olio le contestano la falsa dichiarazione inviata alla responsabile Anticorruzione del Comune in cui attestata che la scelta di nominare Marra era stata solo sua. Insomma, per farla semplice. Il sindaco della Capitale d’Italia avrebbe mentito all’autorità anticorruzione. Ecco, per i grillini, a partire dal capo, si tratta di un episodio minore. A tal punto che Raggi si aspetta addirittura le scuse della stampa.
Quanto siamo poco anglosassoni. Alcuni eccessi che arrivano talvolta da oltreoceano fanno inorridire. Ma faccio notare che per molto meno sono saltate addirittura candidature alla presidenza degli Stati Uniti. Per una banale menzogna in una storia di corna ha rischiato addirittura l’impeachment un grande presidente come Bill Clinton. Loro non votano un politico che mente esplicitamente e viene scoperto. Come fidarsi? E dunque, se venisse condannata, come fidarsi di un sindaco che mente all’autorità anticorruzione per giustificare la nomina di un galantuomo come Marra?
Se fosse stato un politico di un altro partito, i grillini sarebbero già partiti con la lapidazione. Non alla richiesta di rinvio a giudizio, già dall’avviso di garanzia. Politici come Errani, Del Turco, Penati, gente eletta, votata dal popolo, si sono dimessi e hanno atteso pazientemente il processo. Poi sono stati assolti senza che nessuno gli chiedesse scusa. Loro no, i pentastellati sono diversi. Perché al M5s aderiscono soltanto persone oneste. Per definizione. Non è proprio possibile che un sindaco dei cinque stelle sia un delinquente. Non è previsto dalla loro religione. E dunque se vengono accusati è un complotto. Se la loro amministrazione fa acqua da tutte le parti è sabotaggio o è colpa di chi ha amministrato prima. Questa è la verità indiscutibile.
Gli adepti della setta non ammettono tentennamenti. Secondo il famoso principio uno vale uno, ma Grillo (Casaleggio) decide per tutti, l’unica sentenza che conta non è quella della magistratura ma quella di Grillo stesso. Basta guardare la loro presenza sui social. Compatti come una falange macedone. Tutti in linea. E che non si scomodino paragoni con il centralismo democratico del Pci. In quel partito si discuteva eccome. Una volta assunta una linea, poi, ci si atteneva a quella. Nel M5s no, non esiste discussione, ma solo catena di comando gerarchica. L’autonomia scende man mano fino ad arrivare alla base, ai militanti che sono semplici “megafoni” del vertice. Altro che democrazia e partecipazione.
Affermare questo e dire che a quel popolo bisogna comunque rivolgersi è una contraddizione? Assolutamente no. Anzi, una volta assunta come certezza la pericolosità di una setta che si fa partito politico per la democrazia, diventa un’urgenza assoluta quella del dialogo con gli elettori che, in buona fede, gli hanno dato fiducia. C’è un bel pezzo della sinistra in quei voti. C’è un bel pezzo del nostro popolo che abbiamo costretto noi a rivolgersi altrove e che è stato attratto dal messaggio di Grillo. Dalle critiche alla partitocrazia (come avrebbe detto Pannella), dalla lotta alla casta, dal messaggio contro le multinazionali e per la protezione dell’ambiente. Bisogna sfidare Grillo e i suoi proprio su quel terreno.
Certo, per farlo – e per oggi meglio che la finisco qui – bisognerebbe finirla di parlare di noi e fra noi e dare un messaggio concreto, tornare a parlare del lavoro che non c’è, della scuola, di una società nuova. Se proprio non siamo in grado di farlo, proviamo a copiare Corbyn. Basta google traduttore.
Il tormentone infinito della legge elettorale.
Il pippone del venerdì/25
Non rimaneteci male, ho deciso, intanto per una settimana ma chissà per quanto tempo: lasciamo la sinistra alle sue contorsioni e Pisapia ai suoi pigolii tentennanti. Forse se li ignoriamo i nostri (autonominati) dirigenti e leader si accorgeranno di quanto siano inutili, se non dannosi, per la causa che dicono di voler perseguire e si daranno una svegliata.
Vorrei, invece, in questo mio sproloquio settimanale, fare qualche rapida considerazione sulla legge elettorale e sull’ultimo cilindro tirato fuori dal capello del Pd. Capisco che di argomenti meno appassionanti ce ne sono pochi, ma mi pare un tema fondamentale per il futuro di tutti noi. E il fatto che si vorrebbe liquidare in poche settimane una partita così delicata ci dovrebbe far scattare subito in piedi. Non parlerò di inciucio, lo dico a beneficio dei grillini: le regole si fanno tutti insieme o almeno con una maggioranza più larga possibile, dunque parlare di inciucio è un vero e proprio ossimoro. Vorrei entrare più nel merito della proposta.
Intanto, diciamolo, viene da chiedersi chi siano i tecnici (chiamarli costituzionalisti o anche esperti di diritto pare un insulto a chi lo è davvero) che si inventano a rotta di collo sistemi elettorali da manicomio. Siamo almeno alla quinta proposta differente in pochi mesi che arriva da parte dei democratici e tutte hanno in comune due punti: per capirle ci vuole uno studio complicato e quando arrivi alla fine ti rendi conto che non sono sistemi elettorali pensati per garantire governo e rappresentanza, ma per far fuori il nemico di turno.
Il punto non è neanche tanto che con l’ultima trovata di Renzi e soci il numero dei nominati direttamente dai partiti arriva alla cifra record del 64 per cento, senza contare i collegi uninominali sicuri, altro rifugio tranquillo. Non è uno scandalo in sé, dicevo, perché se in questo paese ci fossero dei partiti, con una democrazia interna regolata da norme precise e uguali per tutti, verrebbe quasi naturale che fossero loro a selezionare la classe dirigente. E’ proprio questa, del resto, la funzione principale delle formazioni politiche. I partiti sono la democrazia che si organizza, come diceva Togliatti. E dunque nulla di strano. Peccato che ormai in Italia di partiti non ce ne siano più e dunque l’indicazione della classe dirigente spetterebbe nella sostanza a quattro leader. E visti i leader non c’è da stare allegri.
Ma a parte questo, sono altri gli aspetti inquietanti del cosiddetto “Rosatellum bis” (in altra sede ci sarebbe da disquisire sugli improbabili nomi latineggianti che cercano di coprire imbrogli degni di un magliaro di basso livello). Provo a raccontarvi come funziona questa idea su cui ci sarebbe l’accordo di Pd, Lega, Forza Italia e cespugli vari. I due terzi dei parlamentari viene eletto su base proporzionale con liste bloccate, gli altri in collegi uninominali a turno unico, chi prende un voto in più entra in parlamento. Nella parte proporzionale ci sono le liste dei partiti (devono superare il 3 per cento per concorrere alla ripartizione dei seggi) che possono unirsi e presentare un comune candidato nel collegio uninominale. Lo sbarramento per le coalizioni è del 10 per cento, ma non è previsto un programma comune e neanche un leader, ciascuna lista ha il suo “capo”. Se una lista che fa parte di una coalizione non raggiunge il 3 per cento ma ha superato l’1, quei voti vengono spartiti fra gli alleati. Una norma strana, ma che potrebbe favorire la nascita di una serie di liste civetta in grado di spingere i candidati nell’uninominale. Il voto è unico: votando la lista nel proporzionale si attribuisce automaticamente la propria preferenza anche al candidato collegato nella parte uninominale. Se si vota solo il candidato all’uninominale, il voto va (in proporzione) anche alle liste collegate.
La prima cosa che balza agli occhi è che questa legge non garantisce minimamente la stabilità del governo, perché non aiuta a formare una maggioranza e neanche farà immediata chiarezza su chi ha vinto e chi formerà il governo. Anzi, è facile prevedere che da una legge così, visto il nostro attuale sistema, non nascerà alcun governo se non una “grande coalizione dei moderati”, a patto che ci siano i numeri. Sottolineo che questi due punti (stabilità e certezza sui vincitori) sono stati per anni il tormentone che ci ha propinato mattina e sera il segretario del Pd. Ora sono improvvisamente spariti dall’agenda politica.
Il secondo aspetto che vorrei mettere in evidenza è questa bufala delle coalizioni elettorali. Il fatto che solo in Italia esistano dovrebbe accendere un campanello d’allarme. Nel resto del mondo, infatti, i partiti che hanno un programma comune non fanno coalizioni, presentano la stessa lista. Se hanno programmi differenti, invece, presentano liste concorrenti. Dopo le elezioni, questo sì, quando nessun partito raggiunge la maggioranza si formano delle coalizioni per governare fra i soggetti politici più vicini. In pratica: ci si pesa, le idee di ciascuno vengono giudicate dagli elettori e poi, solo dopo il voto, proprio in base al peso elettorale che i programmi hanno avuto, si indirizza l’azione politica del governo. L’invenzione italica delle coalizioni, invece, fa sì che partiti differenti e quindi con programmi altrettanto differenti, facciano una mediazione preventiva senza pesarsi prima. Gli elettori vengono di fatto, privati di un loro diritto fondamentale: scegliere il partito più vicino al loro modo di pensare. Nel caso di quest’ultima pensata dei democratici, non c’è manco il programma comune e dunque non si capisce per quale motivo si dovrebbero presentare insieme.
Raccontata così, è evidente come questa legge debba avere altri scopi, di certo non quello di creare un sistema politico rappresentativo del paese. Del resto, se le ultime due leggi elettorali, approvate da schieramenti opposti, sono state bocciate dalla Corte costituzionale, una ragione ci deve pur essere. Il motivo, secondo me, è evidente: non si pensa a una legge per rafforzare il sistema politico (e quindi che garantisca rappresentanza e aiuti la formazione di maggioranze), ma a una legge che favorisca alcune forze politiche rispetto ad altre. Il porcellum fu studiato da Berlusconi e soci per dimezzare la prevedibile vittoria di Prodi nel 2006, l’Italicum, secondo Renzi gasato dal 42 per cento delle Europee, doveva garantire al Pd una maggioranza solitaria. Non a caso fra le raccomandazioni del Consiglio d’Europa c’è quella di non fare leggi elettorali nell’ultimo anno del mandato delle Camere, proprio per evitare norme confezionate in base ai sondaggi del momento.
Ora, io non sono né un esperto né tantomeno un tecnico, solo un appassionato. Ma Lo scopo mi pare evidente, in questo caso: in primo luogo rendere marginale la forza del Movimento 5 stelle, che per la sua stessa natura non è disposto a partecipare a coalizioni, in secondo luogo ostacolare la formazione di una forza di sinistra che vedrebbe i suoi consensi potenziali messi a rischio dal consueto appello al cosiddetto voto utile. Supposto che la maggioranza potenziale regga alla prova del Parlamento e questa legge passi, a me sembra che Renzi, ancora una volta, abbia fatto male i suoi conti. Perché una legge con queste caratteristiche gli garantirebbe sicuramente di poter fare e disfare a suo piacimento il Pd. Ma il vero favorito sarebbe Berlusconi, che ottiene due vantaggi insieme: si può coalizzare con la Lega di Salvini ma non deve scegliere un leader, può infarcire le liste dei fedelissimi. Senza contare che già da tempo sta pensando a una serie di listarelle parallele a quelle principali cosa che, come abbiamo visto, questa proposta tende a premiare. Insomma, se lo scopo è quello di tornare a Palazzo Chigi anche come capo di un governo di grande coalizione, lo strumento non sembra essere adatto.
Ultima notazione e poi vi libero dal pippone settimanale: il voto utile. E’ un concetto che proprio non capisco. Utile a chi? Io dovrei votare un partito che di cui non condivido molto per evitare che ne vinca un altro di cui condivido ancora meno. Che poi sentire Renzi che evoca il rischio del populismo è anche divertente. Torniamo seri: l’equivoco sta nel concepire il governo come fine unico di una formazione politica. Io credo che non sia così. Sono convinto che un partito debba rappresentare interessi, organizzare un blocco sociale si sarebbe detto una volta. Arrivare al governo è uno dei modi per farlo, ma non l’unico. Continuo a pensare, ad esempio, che abbia influito di più il Pci stando sempre all’opposizione che i partiti suoi (indegni) eredi che nelle loro ragioni costitutive hanno sempre avuto scritta una vera e propria ossessione per il governo. Ecco, fossi nella testa degli (autonominati) dirigenti della sinistra sparsa, mi porrei questo come compito da svolgere per l’autunno: studiare come si fa a incidere nel paese senza per forza doversi alleare con Alfano e soci. Buon lavoro.
Il nodo gordiano delle elezioni siciliane.
Il pippone del venerdì/24
Insomma il vertice degli autonominati dirigenti di Articolo Uno e Campo progressista c’è stato, hanno faticato a trovare un tavolo tanto grande così da poter permettere a tutti di sedersi, ma alla fine ce l’hanno fatta. Su una cosa si sono trovati tutti d’accordo: non si può rompere per non fare brutta figura. Tutto sta a capire come andare avanti. Cosa, a dire il vero, non proprio chiarissima. La sensazione è che la decisione vera sia quella di prendere tempo.
Ci sarà un grande momento di coinvolgimento popolare in autunno (leggasi dopo le elezioni siciliane del 5 novembre), si legge nel comunicato finale. Per fare cosa non è dato saperlo. Si eleggerà un leader? Si voterà un programma? Chi voterà? Sarà un appuntamento limitato solo agli aderenti di Articolo Uno (Campo progressista non esiste, è una finzione giornalistica) oppure si proverà ad allargarlo agli altri soggetti della sinistra italiana? Si sceglierà il nome? Su tutto questo dai partecipanti al vertice arrivano versioni contrastanti se non opposte.
Secondo punto di ambiguità. Il comunicato parla della “costruzione di un centrosinistra alternativo capace di battere le destre e i populismi e alternativo alle politiche sbagliate del Pd di Renzi”. E questo è il secondo punto di ambiguità. Alternativo al Pd non si può dire, ma almeno alternativo al Pd di Renzi si poteva osare? E invece no, alternativo “alle politiche sbagliate”. E ci mancherebbe altro. Ci siete usciti da quel partito, se manco si prova a criticarne la linea politica… altro che psichiatra. Non è una questione terminologica, ma di fondo. Io resto convinto che il Pd di Renzi sia diventato un partito fondamentalmente di destra, con forti connotati populisti che a tratti diventano addirittura razzisti. Per cui credo che una sinistra che ambisca a recuperare uno spazio importante nel panorama politico italiano non possa che definirsi alternativa. Ma la formulazione scelta va addirittura oltre, fino a spingersi a ipotizzare un’alleanza con Renzi stesso. Ora, sempre secondo me, Renzi è solo la conseguenza ultima dell’errore iniziale (fare il Pd appunto), ma anche a voler essere benevoli, almeno evitare di pensare ad alleanza con quel partito fin quando sarà guidato dal fiorentino si può scrivere? Evidentemente no. L’alleanza con il Pd diventa addirittura imprescindibile nell’interpretazione dei fedelissimi dell’ineffabile avvocato milanese.
Terzo punto di ambiguità. Il rapporto con il governo Gentiloni. Qua la divaricazione appare persino più netta. Da un lato la linea di D’Alema che dice da mesi che bisogna togliere la fiducia, dall’altra Pisapia e Tabacci che di rottura non ne vogliono proprio sentir parlare e parlano di “senso di responsabilità”. Espressione che dovrebbe quanto meno mettere in allarme anche Bersani che ha, diciamo, una certa esperienza di come si perdono le elezioni per eccesso di senso di responsabilità.
Sul rapporto con il governo Gentiloni, insomma, abbiamo raggiunto il massimo del politicismo incomprensibile, quello che allontana gli elettori sani di mente. In pratica: noi vorremmo costruire un centrosinistra alternativo alle politiche messe in campo in questi anni e poi votiamo un governo che di quelle politiche è l’erede e il prosecutore instancabile.
E non basta, facciamo di più: vogliamo “aprire un confronto, senza veti o pregiudizi, con tutti i soggetti politici e civici che condividono” la necessità di un’alternativa. Oggi, in una bella intervista sul Manifesto, il segretario di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, dice, in sintesi: carissimi, va bene tutto, non stiamo a discutere sui termini, centrosinistra, sinistra, parliamo di contenuti, ma almeno un voto per prendere le distanze da Gentiloni… un segnale datelo. Difficile dargli torto.
Anche perché in questi mesi, mediamente, i parlamentari di Articolo Uno hanno sempre votato la fiducia, tranne quelli che fanno riferimento a Pisapia che spesso hanno votato contro. Insomma, verrebbe da dire parafrasando un noto e volgarissimo detto romano, parlano di senso di responsabilità, ma con i voti degli altri.
Che poi, lo voglio dire chiaramente, io tutta questa santificazione dell’Ulivo e delle esperienza passate del centrosinistra mica la capisco. A leggere le dichiarazioni di molti sembra che quando c’era l’Ulivo nei fiumi scorresse latte e dagli alberi nascessero pomi di oro massiccio. Io continuo a pensare che in quel periodo abbiamo costruito i presupposti del deserto di oggi. Dal punto di vista sociale. Cedendo all’ideologia berlusconiana della società dell’immagine. Dal punto di vista del lavoro, costruendo le basi per l’attuale sistema precario. Dal punto di vista economico, rinunciando all’intervento pubblico e arrendendoci all’ideologia del libero mercato. Dal punto di vista politico, smantellando il partito di massa per arrivare al vuoto attuale. Ma anche prescindendo dagli aspetti concreti, da quello che davvero si è realizzato in quel periodo, è proprio questa l’unica strada percorribile per costruire una forza alternativa? Segnalo, anche ribadisco, che il risultato ultimo di quel processo è stata la distruzione di una cultura politica nel nostro paese. Quella dei comunisti italiani. Si vuole continuare su quella strada per eliminare anche il poco che resta?
Nel resto d’Europa, dove più o meno si sono fatti errori simili a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, la sinistra ha preso atto della cantonata ed è tornata a fare la sinistra. Rinnovando i partiti tradizionali, come nel caso del Labour in Gran Bretagna, costruendo forme originali e radicalmente alternative come in Spagna, in Grecia o in Francia. Si è tornati a pronunciare la parola socialismo, la usa perfino Sanders negli Stati Uniti. Ma da noi resta una parola proibita.
Si è preferito, per farla breve, un comunicatino stitico per dire che tutto va bene e poi tornare a parlare lingue diverse. Basta leggere le interviste sui giornali. Alternativi al Pd, dice Bersani. Il centrosinistra si fa con il Pd, risponde Luigi Manconi che parla a nome di Campo progressista, ma resta saldamente nel Partito democratico e lo rivendica pure.
Il nodo vero sono le elezioni siciliane. Lì, alla prima prova sul campo, l’alleanza fra Orlando-Tabacci (i due luogotenenti di Pisapia nell’isola) e la sinistra non ha retto. La sinistra, unita, presenta la candidatura di Claudio Fava, Il duo di Campo progressista, malgrado ufficialmente non si schieri, avrà la sua lista a sostegno del candidato di Renzi e Alfano, che del resto è stato indicato dallo stesso sindaco di Palermo. Ora,non sto a cavillare sulle qualità di Fava, sul valore delle elezioni siciliane. Certo, prenderle come test nazionale, viste le specificità dell’isola, potrebbe quanto meno apparire azzardato. Ma al momento rappresentano il vero nodo sulla strada delle elezioni nazionali e degli schieramenti che si presenteranno ai blocchi di partenza. Per due ragioni: intanto è evidente che un risultato positivo di Fava aiuterebbe la creazione di un’alleanza di sinistra, magari anche un qualcosa di più che una semplice lista elettorale. Al tempo stesso, però, una netta sconfitta di Renzi e Alfano potrebbe dare fiato a quanti, nel Partito democratico, vedono nel fiorentino l’incarnazione della sconfitta permanente. Già adesso, a mezza bocca, non sono pochi i dirigenti democratici che evocano la possibilità di una figura meno divisiva come candidato premier. Queste voci diventeranno più forti e riapriranno la partita dopo il 5 novembre? Ho i miei dubbi, ma l’idea di una sconfitta a livello nazionale, nel Lazio e in Lombardia, potrebbe non essere digeribile a chi da sempre dà le carte fra i democratici, Franceschini in primo luogo. E Renzi avrebbe la forza di resistere?
Basta aspettare per capire. Per queste due ragioni, al di là delle schermaglie quotidiane, si muoverà poco nel prossimo mese e mezzo. Io credo, però, che sia sbagliato attendere inerti. Perché c’è il rischio che le elezioni politiche arrivino prima del previsto e perché credo sia un errore grave lasciare che a decidere il nostro futuro sia un appuntamento elettorale parziale, seppur importante. Noi, anche questo l’ho già scritto, abbiamo il dovere di mettere in campo un progetto per il futuro, non lontanissimo magari, ma neanche immediato. Un progetto che si deve confrontare con le urne, non c’è dubbio, ma che non può avere quello come unico traguardo. La sopravvivenza di un piccolo ceto politico non ci interessa.
Ci interessa che una cultura politica importante ritrovi la propria casa e il proprio spazio. Attendere inerti dunque? Io credo che i processi vadano aiutati, magari dal basso. Proviamoci. Proviamo in questo mese a fare dei passi in avanti, a costruire esperienze unitarie nei quartieri, nelle città, nei luoghi di lavoro. E anche in Parlamento con un’iniziativa comune. Sul lavoro. Articolo Uno è nato con questa funzione, quella di fare da cerniera. Nello schema attuale, al contrario, rischia di rimanere in mezzo fra Pisapia e il resto della sinistra. E chi sta in mezzo, si sa, prende schiaffi da una parte e dall’altra. Usciamo dalle ambiguità e andiamo avanti.
E mo basta.
Il pippone del venerdì/23
Ma insomma, possibile che, tornato da un meritato mese di vacanze, vi ritrovo al punto di prima? Pisapia che tentenna fra Renzi e la sinistra (è di queste ore una sua articolata intervista al Corriere nella quale non dice assolutamente nulla se non paventare un suo ritiro), la sinistra che tentenna fra Pisapia e se stessa. Se c’è Alfano non veniamo noi, ma se non c’è Alfano possiamo sederci a tavola. E se ci dai l’articolo 17 e mezzo votiamo la finanziaria. E perché non ci invitate alla Festa de L’Unità?
Ma che siamo all’asilo nido? Mi sembra di essere prigioniero di un incubo collettivo dal quale non ci si riesce a svegliare. Tutta pura tattica, politicismi bizantini che non interessano a nessuno. Provo a fare un rapido quadro, senza approfondire. Resto sulle generali, ma dopo un mese di assenza credo sia il modo migliore per riordinare le idee
Ma che il problema è Alfano adesso? Che senza Alfano si può costruire un’alleanza elettorale con il Pd di Renzi? E allora perché siete usciti dal medesimo Pd? Che senso hanno avuto questi mesi in cui abbiamo detto: “Dobbiamo costruire uno schieramento alternativo”? Il problema per me, lo dico da sempre, non è definirsi in contrapposizione. E’ dire chi siamo e cosa vogliamo. Dire cose di sinistra e su queste aprire un confronto. Si vada alle elezioni con una linea politica chiara, una lista unitaria e si offra un impegno agli elettori e ai militanti: il giorno dopo il voto proseguiremo insieme.
Si sarebbe già dovuto fare. Era così difficile, per gente di provata esperienza come Bersani, Speranza, Epifani, Errani, capire che, seppur in vista di un progetto più ampio, Articolo Uno doveva da subito strutturarsi nei territori? Legittimare il suo gruppo dirigente con un rapidissimo appuntamento di natura congressuale, approvare una linea politica chiara e condivisa, e andare avanti con quella. E invece si continua con le riunioni dei gruppi parlamentari (nominati e non eletti) che si sono auto attribuiti la qualifica di dirigenti. Di loro stessi, forse.
Si continua con gli incontri al vertice fra Speranza, uno dei soci costituenti di Articolo Uno, e Pisapia, un altro che si è autoproclamato leader, lanciato da 270 presunte officine per il programma. Tutta roba di ceto politico, che non attrae nessuno. L’Hanno capito D’Alema e Rossi che da mesi si sgolano in giro per l’Italia a parlare dei partecipazione, di idee, di un percorso democratico per definire i leader e i candidati. Nulla di tutto questo è avvenuto. Ora si parla di un’assemblea costituente della sinistra, ma dopo le elezioni siciliane. Si parla di un nuovo vertice fra Pisapia e Articolo Uno che si dovrebbe tenere martedì 12 settembre. Sarà risolutivo dicono. E invece, ci scommetto, se ne uscirà con l’ennesima dichiarazione di buoni propositi.
E, intanto, fuori dai palazzi, che succede? Dal mio piccolo osservatorio personale noto un grande senso di scoramento. Le tante energie che si erano rivitalizzate rischiano di essere disperse, le tante persone che guardavano a noi con interesse tornano a essere distaccate. I sondaggi non possono che essere lo specchio di questa situazione. C’è bisogno di sinistra proprio quando manca la sinistra.
E’ il primo pippone dopo la pausa estiva, non la voglio neanche fare troppo lunga. Ma è impellente un cambio di rotta. Provo a dire qualche punto essenziale, secondo me.
- Dire chiaramente che si vuole costruire una forza di sinistra alternativa al Pd di Renzi. Dico forza di sinistra e non di centrosinistra, perché considero questo equivoco la tara che ha minato da sempre i democratici. Un partito deve essere di sinistra, di destra, di centro. Ci si può alleare, ma unire culture politiche differenti e distanti porta ad accrocchi indigeribili.
- Capire chi ci sta, senza pregiudiziali. Chiudersi in una stanza e dettare un percorso costituente rapido e dal basso: comitati locali, assemblee regionali, una grande assemblea costituente prima dell’inverno.
- Elaborare un comune Manifesto dei valori. Ci serve questo più che un programma dettagliato che poi non legge nessuno. Quali sono le nostre idee forza sulle quali vogliamo puntare? Diciamole chiaramente, senza tentennamenti, senza metafore. La comunicazione deve essere decisa.
- Abolire la parola governo dai nostri ragionamenti. Il governo è un mezzo, non il fine. Faccio umilmente presente che ha inciso di più il Pci dall’opposizione che la sinistra nei vari governi a cui ha partecipato. Quello che ci si deve porre come obiettivo è il cambiamento in senso socialista della nostra società, non mettere una pezza alle politiche liberiste.
Ovviamente le cose da fare sono molte di più, ho solo sintetizzato, in maniera grezza le emergenze che la quasi defunta sinistra italiana ha di fronte a sé. Si parla di giorni come scadenza temporale per partire davvero, non di mesi.
La Sicilia, da questo punto di vista, mostra qualche sussulto. Malgrado incomprensioni e personalismi che restano sullo sfondo, tutti i movimenti della sinistra si riconoscono nella candidatura di Claudio Fava. Un nome importante in quelle terne, per quello che ha rappresentato, per il suo impegno in prima persona. Si è usciti dallo schema proposto da Leoluca Orlando, proconsole di Pisapia nell’isola insieme a Tabacci. Si è affermata a voce alta l’esigenza di una coalizione alternativa a quella proposta dal Pd. Per fortuna, a toglierci dagli impicci, ha pensato come al solito Renzi che ha concluso un accordo con Alfano e ci ha dato la scusa per levare le tende.
E ora? Si alzano le sirene del voto utile? Si chiama a raccolta contro le destre? E che appello è se un pezzo della destra è già alleato con voi? La partita del governo siciliano, va detto chiaramente, è una partita a due. Se la giocano Berlusconi e Grillo. Mischiarsi in un’accozzaglia (questa sì, lo è davvero) insieme a pezzi del sistema di potere siciliano (con tutto quello che comporta), a pezzi della destra e al Pd di Renzi avrebbe contribuito a far restare a casa i nostri elettori. Vedremo se quest’alleanza, seppur tardiva, basterà a riportarli alle urne. Forse non tutti, ma dobbiamo essere fiduciosi e portare nell’assemblea regionale siciliana un punto di vista davvero alternativo e radicale.
Non che si tratti di un test con valore nazionale, ma un risultato positivo, che testimoni quanto meno l’esistenza di un’area di sinistra, sarebbe anche una spinta forte all’unità a livello nazionale. E se Pisapia non ci sta? Se attua la sua minaccia e se ne torna al suo studio di avvocato? Non ci strapperemo di certo le vesti. Avanti, non è più l’ora dei rinvii.
Le ferie sono finite.
Me ne vado in vacanza, non fate danni.
Il pippone del venerdì/22
Arrivati ai primi di agosto, nella calura dell’estate più calda del secolo, tutto procede per il meglio.
Invece di combattere i moderni trafficanti di schiavi il governo italiano combatte le Ong che salvano i migranti dal mare, tanto fra un po’ non serviranno più, visto che ci prepariamo a pattugliare le coste libiche per ricacciarli all’inferno.
L’occupazione cresce come un soufflé, mai avuto così tante donne al lavoro. Peccato che poi se vai a leggere sono tutti posti precari. E mi piacerebbe anche capire quanti di questi sono lavori a tempo indeterminato a cui sono scaduti i benefici fiscali previsti dal jobs act.
Negli Stati uniti Trump ha licenziato tutto il suo staff e ne ha assunto uno nuovo. Anche quelli sono posti di lavoro in più, con il metodo di calcolo dell’Istat. E aiuta anche la Raggi che, finiti a quanto pare i posti nelle segreterie degli assessorati, pensa di assumere direttamente due nuovi assessori. Due donne, si legge sui giornali, una delle quali crede anche a Babbo Natale e quindi va benissimo per gestire i lavori pubblici a Roma. Argomento che rientra nella letturatura fantasy. Se questi sono gli assessori immagino i loro staff.
La sindaca, in un sussulto di efficientismo estremo, ha perfino varato il piano antincendi per la pineta di Castelfusano. La pattuglierà addirittura l’esercito. Peccato che nel frattempo sia ridotta a una landa desolata di tizzoni ardenti, ma non si può avere tutto.
Il presidente della Regione, Nicola Zingaretti, per non essere da meno, ha risolto l’emergenza idrica che rischiava di assetare i cittadini romani. E’ bastato ritirare l’ordinanza che aveva fatto due settimane prima e tutto è tornato a posto.
Nelle zone devastate dal terremoto di un anno fa i lavori fervono. Ad Amatrice è stata perfino aperta la prima zona commerciale, con tanto di ristoranti. Torneranno i turisti, si dice. A guardare la distesa di macerie.
Per quanto riguarda la politica, Renzi ha superato tutti i record di vendite con il suo nuovo libro. E visto che le elezioni le perde tutte, almeno ha un futuro come scrittore. Pisapia ha fatto pace con Speranza. L’ex sindaco di Milano si è fatto un paio di settimane di ferie, non ha fatto interviste, non ha abbracciato nessuno. Gli italiani sono vissuti benissimo lo stesso. A ottobre nascerà “Insieme”. Insieme a chi non è ancora dato saperlo. Grillo nel frattempo si è rifatto la piattaforma web, subito preda degli hacker. Sul fronte della destra, infine, Berlusconi si è fatto l’ennesimo lifting. Ora tutto è pronto per le elezioni.
La Camera ha perfino approvato una serissima norma che ridimensiona i vitalizi degli ex parlamentari. E che diamine basta con i privilegi della casta. Poi ci sono amministratori delegati che se ne vanno con liquidazione che sono più cospicue del bilancio del Molise, ma quelli producono mica sono parassiti come deputati e senatori. Certo lo Jus soli è stato rinviato a tempi migliori, ma non si può avere tutto. Certo la legge sul fine vita è scomparsa dal radar, ma tanto non sono annunciati altri suicidi assistiti di personaggi famosi. Non sarebbe carino in campagna elettorale.
Insomma, in questa Italia che si prepara a chiudere per ferie, va tutto bene. Non fate i gufi come al solito. Il calcio mercato procede, tra colpi da centinaia di milioni e onesti pedatori che cercano un contratto per allungarsi la carriera di un anno. Non avremo più a quanto pare la tessera del tifoso, si farà lo stadio della Roma, sarà tre volte natale e festa tutto l’anno.
E allora, sapete che c’è? Me ne vado anche io. Verso il mare, verso le pinete della Versilia, verso gli ombrelloni schierati in parata militare. Non fate danni, tra un mese torno e vorrei ritrovare qualcosa.
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