Ora costruiamo l’alternativa.
Il pippone del venerdì/59
Il quadro è semplice, la dico subito così, senza introduzioni, senza perdere tempo. Il gioco delle parti che stanno magistralmente interpretando Salvini e Di Maio mi pare evidente: il primo si occupa delle questioni di destra, il secondo prova a giocare a tutto campo, strizzando l’occhio alla sinistra, ma senza dimenticare la “pancia” degli italiani. E così prima incontra i ragazzi delle consegne, garantendogli il suo impegno per i loro diritti, poi va all’assemblea di Confcommercio e annuncia il taglio di tutti gli strumenti di controllo sull’evasione fiscale. Ci mette anche l’inversione dell’onere della prova che, come è evidente, rallenterebbe le verifiche rendendole di fatto impossibili. La chiamano pace fiscale, ma è un grande maxi condono non sul passato – come avviene di norma in questo Paese ogni quattro, cinque anni – ma addirittura sul futuro.
La vera novità di questa situazione, insomma, anche rispetto al resto d’Europa, non sono tanto i partiti populisti o sovranisti al potere, come vorrebbero farci intendere i commentatori nostrani, sempre pronti ad accorgersi di quello che succede dopo un paio d’anni dal suo effettivo verificarsi. La novità è che le ali estreme della rappresentanza parlamentare, per la prima volta, si uniscono tagliando fuori i moderati. Lo strano animale rappresentato dai 5 stelle, che dentro si sé racchiudono le istanze più disparate, e la destra leghista si uniscono sotto l’unica bandiera che hanno in comune. Quella del cambiamento. Quale segno abbia il cambiamento non importa. Basta che sia tutto nuovo, tutto in apparente discontinuità con il passato. Del resto siamo il Paese in cui ogni tanto cambiamo il nome perfino alle tasse per far vedere che qualcosa si muove. Siamo il Paese che nel nome del “nuovo” ha seguito Mussolini, Berlusconi, Renzi. Nulla di nuovo – perdonate l’impiccio delle parole – sotto questo aspetto.
Destra e sinistra “tradizionali” si ritrovano dunque all’opposizione insieme. Con un governo che gli ruba l’aria incarnando di volta in volta sia la destra che la sinistra, portando all’estremo le istanze tradizionali. La risposta che arriva da parte dell’azionista di maggioranza dell’opposizione, Matteo Renzi, è disperante. Una sterile rivendicazione di quello che è stato fatto nel recente passato unita a una vacua sottolineatura delle presunte inadeguatezze dei nuovi governanti. In più, si dice, l’ex presidente del Consiglio, vorrebbe lanciare un suo nuovo partito, l’occasione sarebbe l’annuale adunanza dei fedeli alla Leopolda, magari unendo gli sforzi con la parte più presentabile di Forza Italia, depurata da un Berlusconi che sembra ormai arrivato al capolinea, se non altro per ragioni anagrafiche. Lo schema che ha in testa Renzi è semplice quanto inefficace: da una parte i sovranisti, dall’altra gli europeisti.
Dico inefficace perché si riproporrebbe con chiarezza anche maggiore lo scontro delle ultime elezioni: il cosiddetto “Fronte repubblicano” proposto dall’ex ministro Calenda verrebbe inteso come “il popolo, gli ultimi, contro le élite sociali ed economiche”. Il risultato lo abbiamo visto e un secondo round su questo spartito avrebbe conseguenze devastanti per la tenuta stessa della democrazia. Non si può giocare uno scontro politico sulla difesa della Costituzione e delle istituzioni affermando automaticamente che gli avversari hanno connotati eversivi. Per questo, secondo me, erano sbagliate le manifestazioni programmate lo scorso fine settimana in difesa del presidente della Repubblica. Le istituzioni vanno sempre tenute fuori dallo scontro politico, utilizzarle come bandiera di parte crea una sorta di scontro di civiltà che potrebbe portare, questo sì, a conseguenze eversive.
A fronte di questo quadro, mi sembra ancora più insufficiente la risposta che arriva dalla sinistra. Detta in sintesi: facciamo fuori Renzi, ricostruiamo una nuova alleanza di centrosinistra che abbia come perno sempre il Pd, ma un Pd radicalmente rinnovato. Non si capisce per quale motivo coloro che sostengono questo ragionamento siano usciti da quel partito. Se il problema fosse stato soltanto la linea politica incarnata dal segretario di turno sarebbe bastato aspettare la sconfitta elettorale, per di più di facile lettura. Io resto convinto che sia sbagliato il progetto stesso che ha dato vita al Pd e che serva una analisi più profonda di quello che è successo negli ultimi decenni non solo Italia, ma a livello mondiale e che da lì si debba ripartire.
Non si possono, insomma, riprendere i pezzi del vaso rotto – lo dice magnificamente Piero Bevilacqua sul Manifesto di oggi – e ricostruire l’intero a partire dal pezzo più grosso. E non basta fare un’opposizione per quanto puntuale e tempestiva. Dobbiamo prendere atto che i pezzi sparsi della sinistra oggi non si tengono insieme. Potere al popolo è convinto della sua risposta di stampo mutualistico, che senza una lettura politica rischia però di essere mera assistenza in stile cattolico. Liberi e Uguali fatica a tenere una rotta chiara. Troppo presi dalla volontà di autoconservazione del gruppo dirigente per veleggiare in mare aperto. Il Pd è un pugile suonato, ancora dominato da Renzi. E anche quando venisse messo in minoranza i suoi possibili successori non è che siano proprio un sorso di acqua limpida e fresca.
Serve un collante non per ricostruire il centrosinistra, un progetto fallito, che ha avuto come risultato quello di fare da narcotico al conflitto sociale, ma per costruire una alternativa di sistema. Fu questa, secondo me, la grande intuizione di Berlinguer dopo la parentesi del compromesso storico. Non riuscì a portare fino in fondo il ragionamento, ma si rese conto che il processo di disgregazione che già attraversava l’Italia e metteva in crisi il complesso dei partiti nati nel dopoguerra, aveva bisogno di un nuovo inizio, di una scintilla, di una alternativa vera, radicale. Per questo rivendicava la diversità dei comunisti. Non serve soltanto l’opposizione quotidiana, ma una visione sociale e culturale alternativa che si imponga e provi a ritessere un Paese impaurito e diviso. Liberarsi dalle paure, recita lo slogan con cui l’Arci ha aperto il suo congresso nazionale. Uno dei punti da cui ripartire è sicuramente questo. E la sinistra politica lo può fare insieme ai corpi intermedi, altrettanto in difficoltà: dai sindacati, all’associazionismo. Che però, lo ripeto ormai quotidianamente da anni, non possono ritenersi soggetti esterni, devono essere un pezzo fondante di questo lavoro di ricostruzione. Cari compagni dell’Arci, ma anche della Cgil questo è il momento di sporcarsi e mani non quello di ritenersi osservatori esterni.
L’altro punto, secondo me, è che l’alternativa deve essere popolare. In questi anni abbiamo rappresentato sempre più soltanto minoranze. Ci siamo chiusi in una visione snobistica della società per cui il popolo puzza. Meglio occuparsi dei diritti civili che di quelli sociali. Abbiamo puntato tutte le nostre carte sull’introduzione nella nostra società delle coppie di fatto, sullo ius soli, sul testamento biologico. Tutto giusto. Ma insufficiente per qualificare la sinistra. Sono diritti tipici delle democrazie liberali. La nostra funzione deve essere più profonda.
Io resto convinto che la prima libertà sia quella dal bisogno. Se non torniamo non solo a stare in mezzo al popolo, ma a essere popolo, saremo sempre più la sinistra delle élite, pure un po’ antipatici per il nostro malcelato senso di superiorità. La diversità dei comunisti era rispettata. Da tutti. Proprio perché non si traduceva nella spocchia che troppo spesso vedo nelle facce e negli atteggiamenti dei nostri dirigenti, ma veniva messa a servizio del popolo. Come si torna all’antico guardando al futuro? Io resto convinto che serva una commistione di livelli differenti: grandi momenti di elaborazione intellettuale, insieme alla quotidianità dell’azione politica sui territori. E resto convinto che questi due livelli debbano intrecciarsi con logiche orizzontali e non più piramidali. I prossimi mesi ci diranno se sarà possibile non ricostruire il vecchio, ma progettare il nuovo. Questa volta nuovo per davvero.
Una sinistra votata al suicidio.
Il pippone del venerdì/58
A raccontare questa settimana c’è da farsi venire il mal di testa. A raccontare questa settimana da sinistra c’è da diventare scemi. Il balletto di presidenti incaricati, governi che saltano in dirittura d’arrivo, veti da Berlino e via dicendo, ha di per sé del surreale. Abbiamo assistito, per la prima volta nella storia della Repubblica, a un capo dello Stato che interviene in diretta per spiegare che ha detto no a un ministro proposto dal presidente del Consiglio incaricato. E ha detto no per ragioni di divergenza politica, non di inadeguatezza acclarata come avvenuto in passato.
Complice anche la fine del campionato tutto questo è diventato chiacchiera da bar, con schiere di costituzionalisti del fine settimana schierati sull’uno o sull’altro fronte, pronti a brandire come armi gli articoli della costituzione. Ci è mancato soltanto il Var. In pochi hanno notato il precedente creato da Mattarella, secondo me parecchio scivoloso, perché da adesso i futuri presidenti della Repubblica potranno citarlo per rifiutare un ministro sgradito per divergenze politiche. E non provate a citare situazioni del passato che non hanno nulla a che vedere con il caso in questione. Quando Berlusconi propose Previti come ministro della Giustizia, non c’era un problema di linea politica, c’era l’assurdità di un presidente del Consiglio che voleva mettere in quella posizione il suo avvocato. Insomma, il presidente Mattarella, diciamola così, ha usato i suoi poteri fino al limite estremo. Sul fatto che l’abbia o meno superato i pareri dei costituzionalisti, quelli veri, non sono concordi.
Comunque sia, alla fine il governo lo abbiamo. Manca la fiducia del Parlamento, ma, vista anche l’astensione della Meloni, pare un passaggio abbastanza scontato. Diciamo pare perché ormai le sorprese sono quotidiane. Mattarella ha ingoiato Savona, Salvini ha ingoiato il fatto che non sia ministro dell’Economia, ma abbia una posizione di minor rilievo. Pari e patta, avanti tutta. Altro record della settimana: abbiamo avuto un presidente del Consiglio che viene incaricato, rimette l’incarico e alla fine ne riceve un secondo nel giro di tre giorni. Con il povero Cottarelli che prima viene messo in campo per portare il Paese alle elezioni cercando di evitare traumi ulteriori, poi viene di colpo rimesso in panchina. Con Palazzo Chigi, insomma, l’uomo dei tagli che passò un anno a studiare i conti e poi venne esautorato di colpo da Matteo Renzi, continua ad avere un rapporto difficile. Se fossimo su Facebook si troverebbe in una “relazione complicata”.
Cosa farà davvero questo governo, al di là delle parole del famoso contratto, non è dato sapere. L’asse appare molto spostato a destra, fatto salvo il reddito di cittadinanza che è il vero asso nella manica dei 5 Stelle. Hanno ingoiato di tutto pur di inserirlo nel programma. Resta da capire cosa faranno i vertici europei che in questa settimana hanno guidato la partita a colpi di spread. Al fatto che le fluttuazioni fossero opera del libero mercato non ci credono neanche i bambini. Si è trattato di una vera propria direzione operata dalla Banca centrale europea a colpi di acquisti (e soprattutto di mancati acquisti) di titoli italiani. A occhio, per dirla sinceramente, da questa commistione di diversi populismi, non arriverà nulla di buono per questo martoriato Paese. Azzardo comunque una previsione: vista la gestazione che, usando un eufemismo, si può dire travagliata, secondo me questo esecutivo durerà a lungo. Scordiamoci di avere occasioni di rivincita (si fa per dire) a stretto giro di posta.
Sia pur in estrema sintesi, è stata una settimana molto agitata, dal punto di vista istituzionale. Dal punto della sinistra, invece, è stata l’ennesima dimostrazione della nostra accentuata vocazione al suicidio. Abbiamo assistito a una bella e partecipata assemblea nazionale di Liberi e uguali, nella quale Grasso con il plauso della quasi totalità dei presenti, ha rilanciato il progetto. Con tre caratteristiche: una forza autonoma, che metta al bando i verticismi, con un forte rinnovamento – anche generazionale – nel gruppo dirigente. Sono passate 24 ore e ci siamo ritrovati in televisione e sui giornali Bersani e D’Alema a spiegare la linea (per altro non esattamente la stessa linea), i parlamentari chiusi per tre giorni in riunioni segrete per decidere il da farsi, la maggioranza di loro pronta a votare la fiducia a Cottarelli (sarebbero stati gli unici o quasi), un sostanzioso gruppo pronto ad accettare qualsiasi tipo di alleanza con il Pd, fino al listone unico del “fronte repubblicano” proposto da Calenda. Ultima assurdità: dopo tre giorni di silenzio ufficiale, rotto soltanto da improvvide iniziative di singoli, arriva il grande rilancio politico. Una lettera in cui si invitano le forza progressiste a costruire l’unità in caso di elezioni. Avranno posto precisi paletti, immagino: sui punti qualificanti del programma, sul leader. Manco per niente. Vaghi richiami alla discontinuità. Tra l’altro un appello arrivato fuori tempo massimo, quando ormai era certo il ritorno al governo cosiddetto gialloverde, e ovviamente ignorato del tutto dalla stragrande maggioranza dei media. Poche ore prima sugli stessi media era addirittura circolato lo schema che aveva in mente il Pd: una lista di centro capitanata da Calenda, una di sinistra guidata dalla Boldrini, i democratici al timone di questo nuovo campo progressista, con Gentiloni, quello degli otto voti di fiducia sulla legge elettorale, a fare da sintesi. Insomma, lo schema che voleva Pisapia un anno dopo. In tutto ciò Renzi irride all’irrilevanza del nostro 3 per cento.
Taglio corto e me ne vado al mare. Con questi non andremo mai da nessuna parte. E’ evidente come la loro strategia non abbia nulla di politico ma sia orientata soltanto alla mera conservazione del loro posto “di lavoro”. Neanche è possibile parlare di posto di potere, perché di potere non ne hanno alcuno. Mirano soltanto a conservare lo scranno in parlamento. E questa volta, nel diabolico piano dei nostri, non sarebbe servita neanche la base. Bastava essere piazzati in qualche collegio sicuro, del voto al proporzionale non si preoccupava nessuno. Tanto a superare lo sbarramento del 3 per cento non sarebbero mai arrivati. Poi si sarebbero coperti parlando di emergenza democratica, di difesa delle istituzioni, di fase cambiata. Balle.
Scampato il pericolo a breve termine, verrebbe da chiedersi cosa fare adesso, non tanto per costruire una forza politica saldamente autonoma e ancorata a sinistra, ma almeno per liberarsi da questi quattro straccioni. Io resto convinto che l’unica strada sia costruire Liberi e Uguali, fare rete, mettere radici nei territori e poi sbattere fuori l’intero gruppo dirigente che da 30 anni non ne azzecca una, io direi a calcioni ma va bene tutto, anche un cordiale “prego, accomodatevi in strada”.
Attenzione a non farli diventare eroi.
Il pippone del venerdì/57
Qua bisogna fare l’opposizione, non pensare di rivolgere contro il nuovo governo i metodi usati da loro. La ragione è semplice: se hanno funzionato contro la politica “tradizionale”, rischiano di essere un clamoroso boomerang contro i “nuovi” arrivati. L’esperienza l’abbiamo fatta a Roma, dove la disastrosa sindaca Raggi, eletta ormai 2 anni fa, vive ancora in una sorta di luna di miele infinita con buona parte dei cittadini. Che hanno sì gli occhi pieni del degrado della città, ma in testa ancora troppo vivi i ricordi di Alemanno, di Mafia Capitale e dei consiglieri del Pd che vanno alla chetichella dal notaio per sfiduciare il sindaco eletto dai cittadini. E sono ancora pronti a perdonare la sindaca bollata come “inesperta”, ma “sempre meglio dei ladri che c’erano prima”.
Vedo gli stessi rischi nelle dinamiche che si stanno sviluppando a livello nazionale. Qualche svista nel curriculum del presidente incaricato diventa una violentissima campagna di stampa. Ora, non che non sia grave, ma nulla in confronto a cosa hanno combinato i governi precedenti. Vogliamo parlare di Banca Etruria? O degli attici al Colosseo ricevuti in regalo? Siccome, poi, la campagna viene lanciata addirittura dal New York Times, rischia addirittura di sembrare la reazione dei poteri forti al cosiddetto governo del cambiamento. Ancora una volta si ripropone l’antitesi fra l’establishment – brutto e cattivo – e l’indistinto bisogno di “nuovo” che anima questo nostro confuso paese. E’ stato nuovo Berlusoni, poi è stato nuovo Renzi. Adesso il fatto che Conte sia anche uno sconosciuto ai più lo mette automaticamente in buona luce. E anche i contrasti con il presidente Mattarella sul nuovo ministro dell’Economia rischiano di essere un ulteriore tempo di questa partita che porta voti e consensi a Lega e 5 Stelle. Perché una cosa sono le prerogative del Presidente della Repubblica, tutte molto vaghe e applicate in misura variabile a seconda della forza dei partiti che ha di fronte, un’altra il sentire comune degli italiani. Ora, a me non sta particolarmente simpatico Savona, ma dire di no a Salvini per un mero dissenso politico sarebbe l’ennesimo regalo fatto alla Lega. Secondo me quasi quasi ci sperano addirittura. Il format è sempre lo stesso: vecchia politica moribonda che vuole bloccare il cambiamento. E l’immagine del morto che afferra il vivo e lo vuole portare con sé non è proprio delle migliori.
Io credo che l’opposizione sia un’altra cosa. Come era facile immaginare alla fine, con mille difficoltà e mille giravolte, alla fine un governo si sta facendo. Piaccia o non piaccia ce lo terremo a lungo. La Lega vuole prendere in pieno l’onda che la sta sospingendo sempre più in alto di giorno in giorno. I 5 Stelle hanno bisogno di mettere in campo i provvedimenti necessari a far capire che sono in grado di mettere in atto i programmi a lungo agitati come mere clave. E ricorrere ai vecchi rituali della politica per fare opposizione sarebbe un suicidio. Lo dicono i risultati delle ultime consultazioni: dal 4 marzo si è votato in 3 regioni e per la sinistra è stato un bagno di sangue dopo l’altro.
Sarà anche un test di scarsa rilevanza ma il Pd non entra nel consiglio regionale della Val D’Aosta. Dal 1946 il Pci, Il Pds e i Ds – dei quali i democratici continuano a dichiarararsi parzialmente eredi – non avevano mai avuto forza enorme ma erano sempre stati rappresentati. Meglio va alla sinistra propriamente detta che – saggiamente abbandonato il logo di Liberi e uguali, ma su questo torno dopo – ha preso il 7 per cento e tre consiglieri.
Non è questa la sede per entrare a fondo sui temi da mettere al centro dell’opposizione. Segnalo soltanto che mentre Lega e 5 Stelle stavano trattando su fisco, lavoro, ambiente, mettendo al centro del loro “contratto” i temi con cui ogni giorno gli italiani fanno i conti, il Pd svolgeva una fantascientifica assemblea nella quale l’argomento era più o meno questo: votiamo Martina come segretario fino al congresso stabilendo una data, oppure non lo votiamo e lo facciamo restare semplice reggente, sempre fino al congresso, ma senza indicare subito una data? Alla fine il principale partito dell’opposizione manco questo è riuscito a decidere, rimandando lo scontro furibondo a una successiva assemblea. Il tema era così delicato, insomma, da scomodare mille e passa delegati per ben due volte. Nelle stesse ore i leghisti spiegavano ai cittadini con gazebo sparsi per tutta Italia il programma del futuro governo. La differenza non è poca.
E meglio non va se si pensa alla sinistra propriamente detta. Anche in questo caso l’appuntamento è una assemblea nazionale che si svolgerà domani, sabato 26 maggio, in un hotel alla periferia di Roma. Ancora un luogo chiuso, quasi a simboleggiare un destino. Sui limiti di questa convocazione ho già scritto e quindi la faccio breve. Ma gli ultimi sviluppi sono esilaranti. Prima arriva una comunicazione in cui si invita chi vuole intervenire a mandare una mail. Pare che le richieste siano centinaia e questo del crescente bisogno di apparire in prima persona in ogni occasione dovrebbe essere materiale di ampia riflessione. Nulla però si sa dell’ordine del giorno dell’assemblea. Secondo le poche notizie che arrivano dai giornali anche in questo caso ci sarebbe uno scontro furibondo in atto: diciamo subito che vogliamo fare un partito o lo si fa al termine del percorso? Che partito facciamo? Unitario o federato? Che si allea con il Pd o no?
Io vi voglio bene, ma qui si sta esagerando. Io credo che sarebbe bene decidere intanto, formalmente, che faremo un partito. E poi avviare una fase di discussione, se non va bene la parola congresso perché vi pare che “escluda”, chiamiamolo anche piripicchio, l’importante è il concetto. Ma soprattutto bisogna tornare nelle piazze. Perché non lanciare, dal prossimo fine settimana, una specie di “operazione verità”? Mille gazebo in tutta Italia nei quali mandiamo deputati, dirigenti e militanti. Megafono in mano, come si usava una volta, a spiegare agli italiani perché il programma del governo andrà a impoverire tutti loro. La flat tax, la ventilata chiusura dell’Ilva, una politica suicida sull’immigrazione. Facciamo un volantino chiaro dove scriviamo – solo per fare un esempio – che la tassa uguale per tutti è un regalo ai ricchi. Senza tante perifrasi. Diciamo poche parole, ma comprensibili a tutti chiare: meno ore di lavoro per tutti, a parità di salario; patrimoniale per i ricchi, tasse più basse per i redditi medio bassi. Mi fermo, ma l’elenco sarebbe lungo.
Mi prendo, infine, poche righe per aprire un breve ragionamento sugli spazi sociali. Uno dei problemi della nostra società, credo che ormai ci siano arrivati tutti, è la mancanza di società. Non è un gioco di parole: viviamo in un mondo dove ci sono sempre più “singoli” e meno comunità. E la sinistra non può che battersi contro questo fenomeno. Ecco, credo che questo sia uno dei terreni di azione. Non basta, ad esempio, essere solidali con la Casa delle donne di Roma, minacciata di sfratto (la questione è più complessa, ma la faccio breve) perché in arretrato con gli affitti. Bisogna dire che le esperienze sociali devono avere spazi a costo zero. C’è un patrimonio pubblico non usato. Vecchie scuole, negozi, interi palazzi vuoti. Si faccia un bando: li affittiamo a costo zero a chi mi garantisce un uso sociale. Anche ai partiti, ai sindacati. Tutto quanto fa “società”, crea punti di aggregazione deve essere protetto e incentivato dal pubblico. Poi magari si controlla, si fanno verifiche sulle attività, in maniera da evitare che qualche furbetto ci si faccia il ristorante o l’albergo abusivo. La questione sarebbe complicata, magari ci tornerò.
La finisco qui, sperando che di proposte come questa si parli all’assemblea di Liberi e uguali e non di astratte alchimie. A proposito, dimenticavo: troviamo un nome e un simbolo, che dicano chiaramente chi siamo. Leu credo sia definitivamente bruciato dal 4 marzo.
Sabato 26 maggio: non facciamo scherzi
. Il pippone del venerdì/56
Questo fine settimana si avviano a conclusione due soap opera francamente melense e stanche. Sabato ci sarà l’assemblea nazionale del Pd, dove si annunciano fuoco e fiamme fra i renziani e gli altri. Si dovrebbe decidere chi guiderà al partito fino al congresso. Il fatto che il candidato dei non renziani sia quello che alle scorse primarie si era candidato in tandem con l’ex segretario fa parte dei paradossi di questo partito. Ha ragione Rosy Bindi: la cosa migliore che potrebbe fare è sciogliersi, dando il via a un processo di riaggregazione della sinistra su basi diverse. Siccome è l’unica cosa sensata da fare non la faranno. Facciamocene una ragione una volta per tutte. Alla fine, malgrado le annunciate conte, rese dei conti e via dicendo, si accorderanno secondo i voleri di Renzi.
L’altra storia che si avvia all’epilogo è quella del governo. Siamo ormai a 74 giorni dal voto, Lega e 5 stelle hanno raggiunto un accordo politico, si tratta sul nome del presidente del Consiglio. Se ne parlerà, a quanto si vocifera, lunedì. Il paradosso è che si cerca un nome dove aver trattato sul programma. Come se fosse una specie di notaio e non una delle figure più importanti del panorama politico. Una sorta di maggiordomo disponibile a prestare la propria faccia a idee altrui. Lo troveranno? Come finirà non è davvero dato saperlo. Salvini e Di Maio ci hanno abituato a sorprese continue. Temo che non saranno positive. I contenuti del cosiddetto “contratto” non fanno ben sperare.
C’è una terza storia che si avvia se non alla conclusione quanto meno a un punto di chiarimento. Ed è quella di Liberi e uguali, ovvero del progetto di un nuovo partito della sinistra che avrebbe dovuto formarsi dopo le elezioni. Dopo un paio di mesi di silenzio si è fatto vivo a sorpresa Pietro Grasso: ci vediamo tutti a Roma sabato 26, non mancate. Per fare cosa non è dato saperlo: discuteremo insieme su come proseguire il percorso politico. Ci sarà un documento, un ordine del giorno? Mistero assoluto. Secondo me non lo sanno neanche loro. Si tratta, lo dico senza giri di parole, di una convocazione tardiva, perché siamo scomparsi dalla scena per oltre due mesi, ma affrettata al tempo stesso. Non è, infatti, di un’assemblea eletta, rappresentativa (si devono essere resi conto che i delegati nominati per l’appuntamento di dicembre appartengono a una diversa era geologica), ma aperta a tutti quelli che vogliono partecipare. E dunque non sarà un luogo in cui si prenderanno decisioni vincolanti.
Serviva un processo differente, che partisse dalle assemblee locali, capovolgendo la piramide e arrivasse a un’assemblea nazionale davvero rappresentativa. Ancora una volta la democrazia e il confronto vero fanno paura a un gruppo dirigente che guarda con preoccupazione anche alle proprie ombre. Si è preferito discutere separatamente nei diversi partiti, in maniera da alimentare le divisioni in maniera artificiale. Però questo abbiamo e tocca farselo bastare. Sarò dunque breve e spiegherò cosa mi aspetto da questo appuntamento messo insieme alla carlona.
Tre cose vanno fatte secondo me: per prima cosa i dirigenti chiariscano cosa pensano, senza tatticismi. Se vogliono davvero procedere verso la costruzione di un partito unitario, che vada oltre il ristretto orizzonte attuale, bene. Altrimenti, visto che alla base la volontà c’è, si facciano da parte. Devono finirla con questo assurdo gioco del cerino, in cui tutti dicono che la strada è tracciata e poi tifano perché avvenga qualcosa che interrompe il percorso a patto che la responsabilità sia di altri. In questi due mesi sono stato a molte assemblee locali, ho letto i resoconti di altri appuntamenti. Non ho sentito nessuno dire: torniamo indietro, chiudiamoci nelle nostre formazioni politiche di appartenenza. Anche perché molti dei partecipanti sono “esuli”, faticano a inquadrarsi nei tre partitini che hanno dato vita a Leu.
Chiarito il primo punto, si potrebbe passare a fare un elenco dei nodi da chiarire: analisi della situazione attuale, quadro di valori in cui collocare il nuovo partito, la casa europea da scegliere, la forma da assumere. Sono questi i punti su cui si costruisce una forza politica unitaria e autonoma, che non dipenda dalle decisioni che prenderà il Partito democratico. Siamo d’accordo, ad esempio, su una critica serrata sulle scelte compiute non nell’ultima legislatura ma – almeno – a partire dagli anni ’90 del secolo scorso? Siamo d’accordo sull’esigenza di costruire un nuovo orizzonte strategico per la sinistra a livello non solo italiano? Senza un quadro di valori nuovo, che risponda alle esigenze della società liquida continueremo a farfugliare soluzioni estemporanee e non riusciremo a rappresentare un’alternativa credibile alla destra. Né tanto meno a tornare a parlare con quelle classi sociali più deboli che mai nella nostra storia sono così lontane da noi. Ma la sinistra che prende i voti solo dei ricchi e snobba gli operai è destinata, giustamente alla scomparsa. Quale forma vogliamo dare al nuovo partito? Anche qui, non servono risposte tese unicamente a preservare gruppi che ormai dirigono soltanto loro stessi. Federazione, confederazione, partito pesante. Tutte definizioni rigide che hanno poco senso nell’era liquida e non si calano nella realtà delle nostre città, dove serve un partito che “faccia società” e non si ponga solo la questione della rappresentanza. Dobbiamo porci, insomma, l’obiettivo di riannodare i fili in un mondo dove la solitudine digitale è ormai la regola. Tornare alle nostre origini, a forme mutualistiche, a iniziative che non solo descrivono la società che vorremmo ma la creano un pezzo alla volta. In questo quadro io resto dell’idea che la soluzione siano forme di adesione differenti al partito: singole o collettive, allo stesso tempo, lasciando aperte strade diverse per coinvolgere associazioni culturali, politiche, sindacali.
Terza questione da affrontare: come e in quali tempi si sciolgono questi nodi. Diffido per abitudine di chi lancia appelli a “evitare derive organizzativistiche, perché non ci servono nuovi contenitori altrimenti”… e via con un profluvio di parole senza senso alcuno. Una casa, solida e aperta al tempo stesso, ci serve eccome. Perché l’assenza di una struttura ben definita ha dato luogo a questa situazione di delega in bianco a gruppi parlamentari che a loro volta hanno teso esclusivamente alla propria sopravvivenza. Non mi aspetto ovviamente che l’assemblea del 26 ci dia tutte le risposte, ma, appunto, che ci indichi almeno i percorsi e i luoghi in cui darle. Se si individua un percorso chiaro e partecipato lo spazio in cui muoversi non sarà angusto, altrimenti, almeno da parte mia, non darò la mia disponibilità a soluzioni pasticciate e finte. Io credo, dunque, che dopo aver definito le domande a cui rispondere, l’assemblea del 26 maggio sia chiamata a dire quali sono i luoghi in cui si danno le risposte a quelle domande. E credo ancora che non sia possibile più dare deleghe in bianco a nessuno. Bisogna ripartire, lo dico per l’ennesima volta, dalle città, dai quartieri. Con assemblee aperte, in cui ci si confronta si trovano le strade unitarie. E ci si confronta non solo con chi c’era il 4 marzo, ma soprattutto con chi è rimasto a casa. Ci servono luoghi diversi in cui intrecciare discussioni “alte” sui valori, con la necessaria quotidianità dell’azione politica.
Ecco, sembrano cose semplici da fare. Ma non sono ottimista. Mi sembra che a oggi prevalgano ancora i tatticismi che ci hanno ridotto ai minimi termini. L’assemblea non ha una traccia, si prefigura come l’ennesima seduta di autocoscienza. Spero di sbagliarmi, ci vediamo il 26.
Tranquilli, siamo tutti su scherzi a parte.
Il pippone del venerdì/55
Sintetizzo il quadro in cui ci troviamo. Nasce il governo più a destra nella (breve) storia della nostra Repubblica, con i voti di quelli che mai avrebbero fatto alleanze con chi “aveva rovinato l’Italia negli ultimi 20 anni”. Ora accettano perfino Berlusconi nel ruolo di badante interessata. Allo stesso tempo il capo del principale partito di opposizione, quello che, nell’immaginario collettivo, rappresenta la sinistra che fa? Chiama i suoi elettori alla mobilitazione? No, ci mancherebbe altro. Dice: adesso stiamo a vedere se siete bravi, popcorn per tutti. Intanto quelli della sinistra vera, ancora rintronati dallo scarso risultato elettorale non sanno bene se convocare un’assemblea nazionale unitaria: “Che gli diciamo ai nostri?”, è l’angosciata domanda aleggiata nel vertice di giovedì scorso. Mentre ci pensano bene, il prossimo ministro dell’Interno potrebbe essere quello della ruspa, quello che vuole cacciare gli immigrati a pedate, mentre il ministro degli Esteri potrebbe essere uno di quelli che voleva un referendum sull’uscita dall’Europa.
Sembra davvero un grande scherzo televisivo, quello ordito ai danni degli italiani. Che assistono quasi intontiti da questi due mesi di trattative. I mass media ci hanno convinto che un governo va fatto, ci hanno messo in mezzo anche gli europei, i soliti moniti sui nostri conti. Mattarella ha paventato un immediato ritorno alle urne e, come di incanto, tutto si è sbloccato. Caduti i veti dei 5 stelle, garantito Berlusconi che non partecipa al governo ma sta lì in caso di necessità. Tirano un sospiro di sollievo i 900 e passa parlamentari che temevano di restare a piedi.
Ci sono stati casi di panico acuto in questi giorni. Abbiano letto interviste drammatizzanti, ad esempio, di Roberto Speranza, autonominato coordinatore nazionale di Articolo Uno – Mdp, che preconizzava l’esigenza di un “campo largo”, di una nuova alleanza di centro-sinistra, profondamente innovata nei contenuti e nei partiti, che facesse da argine ai due contendenti veri della scena politica. E’ lo stesso Speranza che dopo il 4 marzo diceva che Leu aveva preso pochi voti perché percepita troppo in continuità con il Pd. Giovedì era pronto a farsi guidare da Gentiloni. Abbiamo letto di telefonate preoccupate di Renzi a Salvini: “Ma davvero non ce la fate a fare il governo?” Tutti presi dal panico, perché avevano ben chiaro che rischiavano la scomparsa o, quantomeno, la definitiva certificazione della loro irrilevanza.
Lasciato da parte il cinema e i popcorn, ho scritto tutto questo per arrivare a una domanda vera, la stessa che vi ripeto – lo so sono ormai a livelli ossessivi – da qualche settimana: non è che aveva ragione Nanni Moretti e che con dirigenti così non vinceremo mai? E la domanda seguente, quasi conseguente: non è che per Leu il 4 marzo sarebbe stato meglio stare sotto il tre per cento e rimanere fuori dal Parlamento? Forse era quello l’unico modo di liberarci una volta per tutte da queste mezze figure. Uno strano mix di vecchie cariatidi ferme al ‘900 e di giovani cresciuti con gli ormoni come i polli da batteria: sembrano belli e sani, ma sono soltanto gonfiati. E invece quel risultato miserello, ma sopra il quorum, ottenuto da Liberi e Uguali ci ha consegnato questo gruppuscolo di 18 parlamentari che un confronto vero con i propri militanti non ce l’ha proprio in testa.
Sabato 12 maggio è previsto il primo appuntamento pubblico di Articolo Uno. Sono passati più di due mesi dalle elezioni. Dopo una batosta simile si immagina un lavoro preparatorio, intenso, un documento nazionale discusso ed emendato a livello locale. Assemblee di base per stabilire i delegati a questa importante assemblea. E invece no. Si sono svolte le assise regionali senza manco sapere quale fosse l’ordine del giorno, né tanto meno chi avesse diritto di voto: una specie di grande seduta di autocoscienza dove ognuno ha parlato a ruota libera. Quella del Lazio, addirittura, manco si è conclusa: è stata aggiornata alla settimana prossima. E domani? Ingresso libero, solita sfilata di sedicenti leader della sinistra nelle sue varie forme, i soliti noti. Dalla Falcone, a Cuperlo, a Fratoianni, a Orlando. Un lungo elenco di bolliti che dopo aver sbagliato tutto o quasi negli ultimi decenni ci verrà a spiegare come continuare a farlo. Il congresso, Articolo Uno lo farà con calma, entro la fine dell’anno. E soltanto perché questo prevede il regolamento per ottenere i finanziamenti del 2 per mille, l’unica forma rimasta di contributo pubblico. Ancora cinema, insomma. E neanche di alto livello.
Allora che fare? Io sarei sempre per ripartire da assemblee al di fuori e al di sopra rispetto ai partiti esistenti. Che sono soggetti ridicoli, che non esistono più se non per dare un po’di medagliette da dirigente. Assemblee aperte, dove non ci si chieda da dove veniamo ma dove vogliamo andare. Non mi sembra, purtroppo, che ci sia lo spirito giusto. E allora bisogna combattere con i pochi mezzi che abbiamo, dentro questi partitini. Io lo farò, per le limitate forze che ho, dentro Articolo Uno. In questi mesi le scadenze elettorali, la necessità di fare comunque fronte comune, mi hanno indotto troppo spesso al silenzio e alla ricerca del compromesso. Da adesso, davvero basta. Lotterò, magari da solo, ma le spalle sono atte allo scopo, con pochi punti da cui partire.
- Dimissioni immediate del gruppo dirigente nazionale di Articolo Uno. Speranza per primo. Non è possibile che in due mesi non abbiano sentito l’esigenza di avviare un confronto e abbiano continuato a parlarsi unicamente tra loro. Unica preoccupazione: come garantirsi il ritorno in Parlamento in caso di un nuovo voto. Grazie, non mi interessa. Sia chiaro a tutti che quando parlano non rappresentano che loro stessi. E siccome manco vanno d’accordo, a volte neanche quello.
- Avvio altrettanto immediato dei “Laboratori della sinistra unita” in ogni quartiere. Su questo molto ho già scritto. Articolo Uno nasce un anno fa con questo scopo dichiarato. Sarebbe assurdo che proprio adesso decidesse di diventare a sua volta un partito con la propria struttura. E allora nessun tesseramento, nessun nuovo gruppo dirigente, si riparta da una forma il più aperta e inclusiva possibile, quella del “laboratorio” appunto. L’obiettivo è arrivare in tempo relativamente breve alla costruzione di un partito unitario. Non una federazione, perché sarebbe una presa in giro, una sorta di certificazione del fallimento. Semmai una forma nuova di aggregazione politica dove l’adesione possa essere sia a livello personale che collettivo. Nei laboratori si dovrà discutere e deliberare su pochi punti: la forma partito, la collocazione europea della nuova forza politica, i cardini essenziali per la stesura di una carta dei valori.
Io credo che la situazione, sempre che non sia tutto un grande scherzo, sia quasi disperata ormai per questo Paese. Sarà davvero la fine del bipolarismo destra-sinistra? C’è chi lo teorizza, quasi lo auspica, senza capire che, senza una forza che torni all’analisi marxista della società e la traduca nel mondo contemporaneo, non ci sono nuovi traguardi, c’è soltanto lo strapotere dei forti sui deboli. C’è il ritorno a una società dominata da quella élite che abbiamo combattuto dall’800 a oggi. Io credo che l’Italia sia una sorta di prova generale, siamo una specie di provetta dove i giganti della finanza sperimentano. E sarebbe bene che questo virus fosse isolato e battuto. Se ognuno di noi fa la sua parte con lo spirito che dicevo sopra ce la potremmo anche fare. Diciamolo in ogni occasione, nei partiti e nei movimenti di cui facciamo parte: non ci sono alleanza né campi da ricostruire, dobbiamo ripartire da noi stessi, dobbiamo ritrovare la capacità di parlare al nostro blocco sociale di riferimento. Prima la sinistra. Diciamolo forte, in ogni assemblea.
Non costringeteci a votare 5 stelle.
Il pippone del venerdì/54
Dopo la direzione del Pd, come di consueto, la Meli sul Corriere della Sera ci riporta il pensiero di Renzi e i relativi retroscena. E viene istantaneamente voglia di cambiare paese. Ora, al di là dello sproloquio quotidiano della giornalista di fiducia, alcuni dati, in questo marasma, sono certi. Il primo è l’assoluto controllo che l’ex segretario ha sul Pd. E’ bastata una comparsata da Fazio per smantellare il cambio di rotta faticosamente appena abbozzato dall’ala cosiddetta “dialogante” del partito e tornare su quell’insensato Aventino su cui i democratici si sono ritirati dal 5 marzo. Martina, che si era fatto interprete del disagio interno, ha svolto una relazione con il timbro del giglio fiorentino ben in evidenza. Si è rimesso in linea nel giro di un paio di giorni, dopo aver minacciato tuoni e fulmini. La sua relazione, questa è la seconda certezza, è stata approvata all’unanimità. Si sono allineati tutti, dunque, come da copione. Con buona pace del povero Roberto Speranza che ancora due giorni fa auspicava che la sinistra tutta, anche quella rimasta nel Pd, dopo l’ennesimo disastro elettorale si rendesse conto della necessità di un big-bang, di un reset, per usare un linguaggio informatico. La terza certezza, dunque, è che una sinistra interna al Pd non esiste più.
Finiti i dati di fatto, restano aperti gli scenari per il futuro, prossimo e meno prossimo, ovviamente siamo nel campo delle ipotesi. Dunque, le carte in tavola sono queste: Matteo Salvini chiede un incarico per portare alle camere un governo di minoranza. A cosa serve lo spiega bene la collega Meloni. O si ottiene la fiducia o si va alle elezioni, ma con un esecutivo a guida centrodestra insediato, sia pur per l’ordinaria amministrazione, a Palazzo Chigi. Mattarella dice no. I grillini chiedono a gran voce le elezioni. Del resto, in questi due mesi, il forno l’hanno diretto loro, adesso rischiano di veder tornare in campo i vecchi fornai e di ritrovarsi a scaricare la farina. Il Pd dice che non parteciperà a nessun esecutivo con la destra e con i 5 stelle, ma si dice pronto a rispondere a un’eventuale chiamata di Mattarella. E qui arriviamo al punto vero.
Come è noto Renzi avrebbe voluto un “governo della nazione”, una sorta di larghe intese all’italiana che tagliassero fuori le ali estreme dei due schieramenti e che garantissero un periodo di decantazione nel quale provare a rimescolare le carte e rendere ininfluenti Grillo e soci. Il sistema elettorale demenziale con cui abbiamo eletto il Parlamento puntava chiaramente a realizzare questo obiettivo. La grande – e imprevista – forza elettorale di 5 stelle e Lega lo ha reso materialmente impossibile. E allora, come se ne esce? Con un governo del presidente. Ovvero un esecutivo sostenuto dalla destra e dal Pd, mascherato dalla presidenza affidata a un tecnico, la classica riserva della Repubblica. Pensano di prendere in giro gli italiani. Dubito che ci riescano, ma questa è un’altra storia. Il tentativo è già in atto. Era solo questione di tempo. Il tempo necessario a far cadere tutte le ipotesi di alleanze politiche.
Sono già partiti gli allarmi europei sullo stato della nostra economia, gli ultimatum e tutto l’armamentario che si usa in questi casi per convincere i bambini bizzosi. Un governo serve – si dice – perché altrimenti perdiamo il treno della ripresa, non potremo partecipare a pieno titolo alla definizione del prossimo bilancio europeo. E poi c’è la questione dell’aumento automatico dell’Iva se non si interviene nella legge di stabilità. Insomma serve responsabilità, dicono quelli che ci hanno ridotto praticamente in miseria.
Se questo non fosse possibile, visto che anche Salvini non sembra particolarmente portato a questa soluzione, che succederebbe? Si tornerebbe a votare, presumibilmente a ottobre a meno che non si voglia fare la campagna elettorale sulle spiagge d’agosto. E qui viene fuori il coniglio che la Meli attribuisce a Renzi. Quale sarebbe il grande piano che l’ex segreterio del Pd avrebbe in mente? Un centro-sinistra largo, a guida Gentiloni, che vada da una lista centrista (in stile Scelta Civica di montiana memoria) a Liberi e uguali. Magari benedetto da primarie di coalizione. Qua finisce che ritirano fuori anche Pisapia, parcheggiato da tempo nell’armadio delle scope.
Ovviamente, verrebbe da dire, vista la situazione i dirigenti di Leu si saranno già riuniti, avranno detto, cari compagni la faccenda è grave, prendiamo atto del disastro del 4 marzo, delle sconfitte in Molise e in Friuli, abbiamo sbagliato, ma abbiamo capito la lezione. Serve un partito autonomo, forte, che non solo stia nella società, ma che “faccia” società. Ci mettiamo al lavoro da subito per questo. Già ci si immagina un brulicare di iniziative, unitarie, compresi anche quelli di Potere al popolo che hanno capito l’errore di isolarsi. Ci saranno centinaia di assemblee, con i centri sociali, con i compagni che sono tornati dal bosco. Questo dovrebbe accadere, insomma, se non fossimo diretti, da una congrega di pippe. In realtà, ognuno si fa la sua assembleina, il suo congressino bonsai, il tesseramento in proprio, talmente in proprio che ormai siamo a livelli di bocciofila. Pronti a costruire il nuovo centro-sinistra con il Pd, che al di là della facciata è rimasto quello di alcuni mesi fa. Ora, qualcuno dirà che sono troppo pessimista. Che vedo tutto nero. Io credo di essere perfino ottimista.
Dico soltanto, non costringeteci a votare 5 stelle a ottobre. C’era l’occasione di spostare i grillini verso sinistra e farli diventare a pieno attori nel sistema democratico. Renzi e chi lo segue, per mero calcolo personale, li hanno ricacciati nel loro sterile strillonaggio continuo. Pensano, i dirigenti del Pd, di dimostrare così l’inutilità di quel movimento. Succederà l’esatto contrario. L’ultimo sondaggio di Piepoli dà la destra vicina al 40 per cento e i 5 stelle al 32. La partita sarà questa se si andrà a votare nei prossimi mesi. Non prendiamoci in giro. E allora il famoso voto utile a cui ci avete educato da anni, il voto per arginare la destra razzista e fascista, sarà soltanto uno, non ci sarà spazio per terzi o quarti poli.
Siccome sono ottimista, dico anche che siamo ancora in tempo. Lasciamo perdere le tessere, i congressi farsa, le assemblee nazionali palcoscenico per il nulla che avanza. Costruiamo davvero una sinistra autonoma, forte, con valori e programma davvero alternativo. Senza più balbettare. Senza più leader di plastica che sorridono e parlano a vuoto. Facciamola democratica e partecipata. E andiamo alle elezioni così. Non con una lista, ma con una forza politica vera, che non si scoglie alla prima burrasca. Il tema delle alleanze per governare non ce lo poniamo adesso. Non avrebbe senso. Il centrosinistra è morto, quel modello di alleanza ha voluto dire accettare le idee liberiste, ha voluto dire la precarizzazione del mondo del lavoro, la resa alle forze del capitalismo finanziario mondiale. E’ ora di nuova proposta. Poi, da pari, andremo a trattare eventuali alleanze. Trovando una sintesi fra i programmi. Prima misuriamo il nostro consenso. Lo faremo? Ci riusciremo? Non so davvero.
Ma siccome sono ottimista, ma non incosciente, dico – e la finisco – che il tempo è adesso. Non domani. Oggi.
Un governo che ci dia felicità.
Il pippone del venerdì/53
Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia? Se lo chiedeva nel 1796 Melchiorre Gioia, esponente di spicco del giacobinismo italiano, con una lunga dissertazione nella in cui sosteneva la tesi di un’Italia libera, repubblicana, retta da istituzioni democratiche, indivisibile per i suoi vincoli geografici, linguistici, storici e culturali. Non so perché, ma in questi giorni di convulse (si fa per dire) trattative, ribaltoni bizantini, forni che si chiudono e si aprono, mi è tornato in mente questo saggio con il quale Gioia vinse un concorso, studiato negli anni dell’università. Mi è tornato in mente perché sono in molti gli studiosi della politica che attribuiscono alla mancanza di una qualsiasi forma di rivoluzione lo stato magmatico dell’Italia attuale.
Il giacobinismo, del resto, in Italia non ebbe gran seguito, occupa appena una mezza paginetta nei manuali dei licei. Non abbiamo avuto rivoluzioni politiche, né abbiamo partecipato a pieno a quelle tecnologiche. Da noi gli effetti di quello che succede nel resto del mondo arrivano sempre con decenni di ritardo, depurati dagli aspetti più traumatici e rivoluzionari. Assorbiti dalla classe dirigente che più o meno è rimasta quella dell’ottocento a essere ottimisti. Questa è la vera casta, davvero inamovibile, che ha saputo sempre adattarsi ai cambiamenti. Del resto siamo il paese del “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” come siamo il paese sempre pronto a saltare sul carro dei vincitori. E allora siamo sempre stati governati da una commistione fra grandi famiglie, ordini professionali, notabili locali, sistema delle banche. Una sorta di potere feudale che, sostanzialmente sempre uguale, è arrivato al ventunesimo secolo adattandosi alle condizioni mutate, anzi avvolgendo la realtà in una sorta di blob melmoso che tutto attenua e tutto comprime.
Certo, poi succede che un mondo sempre più globale fa in modo che i movimenti mondiali si espandano con maggior rapidità. E allora arriva il ’68, esplodono i no global. Sembra che tutto debba cambiare nel tempo di un batter di ciglia. Ma l’Italia sa sempre come trattare chi vuole tutto e subito. Basta pensare agli anni del terrorismo – si chiamavano “di piombo” – che seguirono il ’68 o a piazza Alimonda che spense la luce su quel movimento che – visto con occhi obiettivi – aveva capito gran parte dei disastri, sociali e ambientali, che la globalizzazione stava causando. Tutto deve cambiare perché tutto rimanga come è. Il ritornello è sempre lo stesso.
L’anomalia italiana, vera – lo so sono noioso e ripetitivo, ma invecchiando peggioro – nacque dopo la seconda guerra mondiale. E fu quel Partito comunista che diventò una sorta di Stato nello Stato. Una comunità con una sua etica perfino feroce, un suo scopo da raggiungere oltre i confini temporali della vita umana. Anche quella esperienza, davvero originale, è stata ormai messa definitivamente a tacere. Non rifaccio tutta la storia da Occhetto a oggi, ma nel momento stesso in cui si decise di cancellare il Pci perché bisognava arrivare al governo si mise una grossa pietra tombale sulla storia della “differenza” dei comunisti italiani.
E così arriviamo ai giorni nostri. Sono giorni in cui essere ottimisti diventa davvero difficile. La sinistra è sparita. Ora, Liberi e Uguali sarà anche un gruppo sparuto, ma comunque più consistente di partiti che ai tempi del proporzionale facevano il bello e il cattivo tempo. Basta pensare che un eventuale governo Pd-M5s al senato avrebbe appena 161 voti. Roba che il primo Turigliatto che si sveglia con la luna storta ti fa saltare il banco. Quei quattro senatori eletti con Leu, insomma, servirebbero come il pane. Eppure nulla: manco vengono consultati dall’esploratore Fico. Il Pd, dal canto suo, dorme sonni agitati, diviso fra chi vede una luce in fondo al tunnel perché proprio costituzionalmente non riesce a immaginarsi confinato all’opposizione e Renzi che pensa la politica soltanto in termini di potere personale. Faranno mai un governo?
Il ragionamento gattopardesco lo vorrebbe fortemente. Non a caso in questa direzione premono i mass media più legati alla casta del potere. Perché un governo che renda normali i 5 stelle, che depotenzi la domanda di cambiamento contenuta nel loro successo ricondurrebbe la situazione politica a un ambito noto e quindi rassicurante. E quindi mai un governo fra Di Maio e Salvini perché sarebbe una rincorsa fra estremismi differenti, ma simili nella loro radice culturale. Ben venga un governo che faccia piombare nel blob Grillo e i suoi.
E la sinistra? Viene da pensare che abbia perso il suo ultimo appuntamento con la storia. Non oggi. Il risultato elettorale del 4 marzo è solo l’ultimo effetto del logoramento quanto meno ventennale al quale siamo stati sottoposti. Dall’accettazione del capitalismo come orizzonte unico, alla globalizzazione subita e neanche mitigata. Capita la lezione si potrebbe ripensare, riorganizzare, pensare a nuove radici da far crescere nel conflitto, in quelle periferie sociali che crescono sempre più. Nulla di tutto ciò. Si continua stancamente a parlare di governo, di costruire un nuovo centro-sinistra non si capisce bene con chi. Ultimo caso il Molise. Dove tutti insieme – ma proprio tutti – si arriva al 17 per cento. Sarà un test piccolo, ma non insignificante. Il centro-sinistra ha chiuso un ciclo storico. La partita è ormai fra 5 stelle e destra. Non solo non esiste quel quarto polo vagheggiato da Sinistra italiana, ma manco il terzo che vorrebbero Bersani e soci.
I partitini di Leu si sono rinchiusi nei loro piccoli recinti, teatro di miserie umane di autoproclamati leader. Pensano ai loro piccoli tesseramenti. Alle loro piccole idee per sfangare le prossime elezioni. Alle loro piccole clientele per far felice qualche famiglia. Come ho sentito dire. Quella voce che, sia pur in maniera contraddittoria e con toni incerti, aveva cominciato a farsi sentire in campagna elettorale è scomparsa. Di Potere al popolo si sono perse le ancor più flebili tracce. Si aspetta il big-bang del Pd per rifare un partito socialdemocratico alla tedesca, in grado di tornare a quelle cifre elettorali che garantiscano tranquillità alla sua classe dirigente. E allora? Alla domanda che poneva Melchiorre Gioia alla fine del ‘700, come si può rispondere oggi?
Io credo che il nuovo paradigma debba essere quello della felicità. Capisco che è un parametro complesso da misurare, ma il benessere di un popolo è qualcosa di meno semplice rispetto al reddito. Servirebbe un movimento che si ponesse la felicità come obiettivo. Felicità in termini di esperienza comunitaria, di coesione sociale, di conservazione delle ricchezze ambientali, di mutuo soccorso. Sarebbe una rivoluzione, questa volta difficilmente riassumibile negli schemi classici. E per questo non la vedremo mai.
E comunque, buon Primo maggio a tutti. Che almeno questa sia una giornata senza lavoro.
La sinistra faccia una cosa giusta: riprendiamoci L’Unità.
Il pippone del venerdì/52
Mentre l’Italia aspetta con ansia la formazione di questo benedetto governo, fra incontri, incarichi, esploratori giornalieri e aspiranti presidenti del Consiglio, una notizia è passata quasi inosservata: L’Unità viene messa all’asta. La storica testata che fu del Pci, fondata da Antonio Gramsci, è stata pignorata dai dipendenti a garanzia dei propri crediti con l’editore (fondamentalmente stipendi arretrati) e il tribunale adesso ha avviato la procedura e affidato la perizia per la valutazione, primo passo per poi procedere alla vendita del giornale. Trattandosi di procedura giudiziaria, ovviamente, non c’è spazio per mediazioni o ragionamenti politici: se la aggiudicherà il miglior offerente.
Ora, partiamo da una notazione: intanto questo fatto sottolinea, ce ne fosse ancora bisogno, l’assoluta cialtronaggine dei dirigenti del Pd che si sono occupati dell’ultima edizione del giornale. Ripercorriamo rapidamente: il quotidiano era tornato in edicola nel 2015, dopo la crisi e la sospensione delle pubblicazioni avvenuta nel 2014. L’editore, come già avvenuto in passato, non era più il partito di riferimento, il Pd in questo caso, o una società controllata dallo stesso, ma un privato, tal Pessina, imprenditore impegnato nel campo delle costruzioni, a digiuno di vicende editoriali, vicino – all’epoca – a Matteo Renzi. Fu costituita una società in cui il partito aveva, tramite una fondazione, una quota di minoranza, ma si riservava il potere di nomina del direttore. In questi casi, di solito, si tende a separare la proprietà della testata dall’editore vero e proprio, attraverso un contratto di affitto, magari a un prezzo simbolico. Detta in poche parole: il Pd avrebbe potuto rimanere proprietario della testata, il vero valore di un giornale, affidandone la semplice edizione al socio privato. Invece no, a Pessina viene trasferito il pacchetto completo. Morale della favola, il costruttore attualmente è proprietario de L’Unità e anche dell’archivio del giornale. Un patrimonio storico e culturale di enorme valore in mano a uno che costruisce ospedali. E, morale della favola due, la testata rischia di essere comprata da qualche sconosciuto che ne potrà fare l’uso che vuole. Sempre che questi sprovveduti non facciano addirittura scadere la registrazione: una testata per “esistere” deve essere pubblicata almeno una volta l’anno, altrimenti decade la sua iscrizione nel registro della stampa e chiunque la potrebbe iscrivere ex novo senza pagare un euro ai lavoratori. Mancano pochi mesi.
Ecco, proprio nei giorni in cui esercitiamo la nostra abituale capacità di prenderci a martellate i cabbasisi litigando sulle sigle per il 2 per mille, vorrei lanciare un appello credo un po’ più utile: utilizziamo quei fondi, magari integrati da una sottoscrizione popolare, per ricomprare L’Unità. Credo che sarebbe un utilizzo più utile che pagare qualche costosa sede in centro, comoda perché “sta proprio accanto alla Camera”, per non parlare dell’utilità degli staff dei (sedicenti) dirigenti. Vorrà dire che per le riunioni utilizzeranno le sedi istituzionali e gli staff se li pagheranno di tasca loro. Per quello che producono…
I partitini della sinistra dispersa – comprendendo anche Rifondazione, neo Pci e tutti quelli che ci vogliono stare – potrebbero mettersi attorno a un tavolo non per contrattare l’ennesima alleanza elettorale, ma un progetto concreto di una casa comune, sia pur solo editoriale. Si potrebbe anche chiedere un impegno alle fondazioni che amministrano il patrimonio immobiliare ex Pci. Sposetti batta un colpo. Sicuramente il milione e mezzo di elettori che hanno votato per formazioni di sinistra il 4 marzo non sarebbero insensibili.
Non si tratta soltanto, insomma, di salvare dal “macero” una testata di grande valore per tanti di noi. Ma di ridare a tutti un punto di riferimento, un luogo di confronto aperto. Ecco io la immagino così la nuova Unità: una ossatura snella, pochi giornalisti giusto per coordinare il lavoro, inizio solo on line, spazio al dibattito e al contributo di intellettuali. Non credo ci sarebbe alcuna difficoltà a trovare giornalisti, uomini di cultura, ma anche militanti disposti a dare un contributo volontario. Siamo un popolo di grafomani del resto.
Poi, magari, siccome sono uno anche affezionato al mondo reale, da lì potremmo riorganizzare le feste, tutti insieme. E ancora potremmo pensare a dei quaderni cartacei, magari con cadenza mensile o anche più. Quaderni tematici che possano essere punti fermi, di raccolta di idee, in un mondo dove tutto dura lo spazio di un click. E magari potremmo far vivere la nuova Unità aprendo spazi di dibattito non solo web, usando la testata per tornare – non ci torno perché ne ho già parlato più volte – aprire sedi, non di partito, ma utili: ecco, quelle che ho chiamato le Case del popolo 2.0, perché, a questo punto, non chiamarle Case dell’Unità?
Insomma, questa vicenda de L’Unità potrebbe essere un nuovo inizio. Visto che Liberi e Uguali lo stanno ammazzando in culla, tra reciproci veti, personalismi di (sedicenti) dirigenti che parlano soltanto fra di loro e si convincono – sempre fra di loro – della giustezza delle posizioni che assumono salvo poi prendere schiaffoni a ogni tornata elettorale, una casa anche solo editoriale unitaria sarebbe un bel modo per ripartire da zero, tornando a parlarci senza dannose intermediazioni. Avendo luoghi in cui farlo, ne sono convinto, scopriremmo che le divisioni tra noi sono molto meno di quelle che ci fanno pensare.
Cari elettori, vi abbiamo preso per il culo.
Il pippone del venerdì/51
Noi ci abbiamo provato in tutte le maniera a essere ottimisti, positivi, propositivi. Da noi, cosiddetta base, in questo mese post elettorale sono arrivate proposte, iniziative, documenti, discussioni sulla forma partito. Da voi, cari dirigenti, non sono arrivate mai parole chiare. Intervistine, indiscrezioni passate a mezza bocca al giornalista amico. E invece dovete avere il coraggio di dirlo chiaramente: cari elettori vi abbiamo preso per il culo.
Ricordate quando ci hanno detto: non c’è tempo adesso per fare il partito, ma dopo le elezioni ci impegneremo tutti insieme a costruire una grande casa comune, con un percorso aperto, democratico, partecipato? Lo hanno messo nero su bianco, in un appello pochi giorni diffuso pochi giorni prima delle elezioni. Tutte balle. Subito dopo il 4 marzo è parso subito chiaro che ognuno preferiva tornarsene nella casetta propria. Qualcuno trombato e quindi offeso a morte (per la serie: la sinistra esiste soltanto se la dirigo io). Altri perché “abbiamo di fronte a noi prospettive differenti”, altri ancora in attesa che il Pd si scomponga per rifare un partito un po’ di sinistra, ma non troppo. Par di ascoltare quella canzone di Jannacci, quando dice “il nostro piangere fa male al re”. La morale della favola è semplice: una sinistra forte, autorevole, autonoma, in Italia non ci deve essere. Dà fastidio al manovratore.
Ma come, potreste dire, Liberi e Uguali allora? Che fine fa? Par di capire – ma la conferma si avrà solo nei prossimi giorni con i congressi e le assemblee varie di Possibile, Sinistra italiana e Mdp – che rimarrà una specie di coordinamento parlamentare e poco più. Del resto ci sono elezioni dove il simbolo è già stato presentato e, soprattutto, fosse mai che non si fa un governo e si torna a votare. In quel caso Leu verrebbe rispolverato e ripresentato in grande stile (si fa per dire). Insomma: cari elettori, non solo vi abbiamo preso per il culo, ma siamo pronti a farlo di nuovo. Il primo risultato dell’ennesima trovata geniale del gruppo dirigente di Leu è che alle regionali di fine aprile e alle amministrative di giugno, come diceva uno splendido Guzzanti d’antan, ognuno fa un po’ come cazzo gli pare. Da qualche parte c’è il simbolo rosso con le foglione, altrove liste civiche, in qualche caso saremo con il Pd, in altri da soli.
Ora, a parte l’ingenuità del ragionamento, io vorrei provare a ripercorrere quello che è successo in un anno e poi ditemi voi, io mi taccio, quale sia la definizione migliore da dare a questo (sedicente) gruppo dirigente.
Febbraio 2017: si scinde il Pd, quelli della “ditta” chiedono a Renzi di arrivare alle primarie con più tempo per presentare e far conoscere candidati alternativi. Gli rispondono picche e loro se ne vanno. Il 25 febbraio fondano Articolo Uno – Mdp. Nello stesso periodo dalla fusione di Sel e Futuro a sinistra nasce Sinistra italiana. Una parte rilevante dell’ex Sel, – fra cui Arturo Scotto, Ciccio Ferrara e Massimiliano Smeriglio – aderisce però a Articolo Uno. Un movimento con un cospicuo gruppo di parlamentari, ma che rinuncia ad essere strutturato nei territori. Perfino il tesseramento parte a stento. Di eleggere un gruppo dirigente non se ne parla proprio, bastano gli “eletti”.
Aprile-giugno 2017: Massimo D’Alema propone di fare un partito unitario della sinistra, riunendo le esperienze a sinistra del Pd. Ipotizza una alleanza elettorale, costruita con la selezione democratica dei candidati che poi diventi un partito. Bersani, d’altro canto, guarda all’ex sindaco Giuliano Pisapia come possibile “federatore”. Anna Falcone e Tomaso Montanari lanciano l’idea di una grande assemblea per promuovere una nuova formazione politica che nasca dal basso, nella quale i partiti ci siano ma anche no. E’ l’assemblea del Brancaccio, da cui origina l’omonimo percorso, poi fallito per ragioni rimaste misteriose.
Luglio 2017: dopo qualche mese di travaglio nasce “Insieme” con una manifestazione a Roma in piazza Santi Apostoli. Dovrebbe essere il nucleo di una specie di Ulivo 2.0. Ci sono Tabacci, Lerner, qualche prodiano, le truppe bersaniandalemiane, i verdi, qualche socialista. Una forza politica autonoma che mira a costruire un campo largo del centro-sinistra. Leader indiscusso il già citato Giuliano Pisapia. Che dopo pochi giorni manifesta profonde crisi di identità e si abbraccia calorosamente con la renzianissima ministra Boschi.
Ottobre-dicembre 2017: dopo un’estate travagliata, piena di reciproci malumori, Bersani e Pisapia divorziano ufficialmente. L’avvocato milanese tenterà poi in tutti i modi di fare un accordo con il Pd per presentare una lista ulivista alle elezioni, ma alla fine si ritirerà. Alcuni dicono di averlo avvistato in qualche parco milanese a dar da mangiare i piccioni. La lista Insieme alla fine si presenterà sul serio alle elezioni, con un risultato che non lascerà traccia alcuna nella storia italiana. Articolo Uno, Si e Possibile, dal canto loro scoprono di essersi sempre amati e trovano un altro leader, il presidente del Senato Grasso, uscito dal Pd poche settimane prima. Una grande assemblea popolare, il 3 dicembre, lo incoronerà ufficialmente: nasce Liberi e Uguali. Nello stesso periodo l’altro pezzo del Brancaccio, quello capitanato da Rifondazione e partitelli vari, trova come foglia di fico alcuni centri sociali e nasce la lista “Potere al popolo”.
Da dicembre a oggi come sia andata lo sappiamo tutti. In una frase sola: Liberi e Uguali non ne azzecca una manco per sbaglio. Una campagna elettorale inesistente, liste per niente nuove e calate dall’alto. Un risultato elettorale modesto. La sinistra nelle sue varie forme viene spazzata letteralmente via. Anche considerando il Pd un partito di questa area, complessivamente arriva a stento al 25 per cento. Leu si ferma al 3,4 per cento, Pap si ferma all’un per cento classico di Rifondazione. E anche dove si è vinto (almeno un po’) come nel Lazio, dal giorno dopo abbiamo ricominciato a darci martellate sulle gengive (o giù di lì).
Ci sarebbe da dire, ragazzi, fermiamoci, ragioniamo un mesetto, ma poi ripartiamo. Come la penso lo sapete. L’ho scritto ampiamente in questo periodo. Forma partito, valori fondanti, esigenza di tornare a una radicale critica della società capitalista, un nuovo orizzonte a cui guardare. Ci sarebbe materiale per avviare davvero una fase di ricostruzione. Che non si esaurisca in pochi giorni e poche assemblee nelle quali contrattare i posti negli organismi dirigenti. Andrebbero demolite le casette da cui veniamo, per farne una dove accogliere non soltanto i militanti con la tessera, ma anche tutti quelli che di tessere non ne avevano ma hanno creduto al progetto di Liberi e Uguali. Bisognerebbe considerare il milione e mezzo di voti che sono arrivati a sinistra del Pd come una base di militanti irriducibili su cui poggiare questo nuovo edificio. E invece no. Pap va avanti da solo. Leu, dopo aver annunciato assemblee territoriali, assemblee costituenti nazionali, resta, di fatto, come mero specchietto per le allodole ma partono i tesseramenti ai soggetti fondatori. Delle assemblee unitarie, al momento, non se ne parla proprio più.
Se avete un certo mal di testa dopo questo pippone, pensatevi adesso tornare nelle vesti di militanti e dirigenti di base e spiegare ai compagni che si devono rifare la tessera di Articolo Uno – Mdp, di Sinistra italiana o di Possibile. Io mi immagino le facce e anche qualche insulto. Per non parlare degli elettori (non che ci abbiano creduto poi in tanti) a quali dovremo dire, sinceramente, che li abbiamo presi in giro. Per l’ennesima volta. Che Leu era solo l’ennesimo accrocco messo in piedi in fretta e furia per eleggere qualche parlamentare.
Cosa fare, come andare avanti non lo so davvero. Una provocazione però la voglio lanciare: mi chiedo ma davvero è stato un bene superare il quorum del 3 per cento ed eleggere 18 parlamentari? Forse era meglio restare fuori dalle elezioni. Almeno il partito degli eletti ce lo saremmo scordati. Ci saremmo scordati le segreterie, i portaborse, la corsa al posticino per gli amici degli amici. Perché di una cosa sono convinto: con questa classe dirigente ci meritiamo di essere cancellati. Loro perché per l’ennesima volta ci hanno dimostrato tutta la loro incapacità tattica e strategica. Noi perché non siamo in grado di prenderli a calci nel sedere.
La cosa drammatica, e la finisco davvero, è che non ci si rende conto del fatto che le energie e le idee ci sono, basta leggere i mille documenti prodotti in tutta Italia, i tanti interventi di intellettuali che pongono problemi, indicano soluzioni. Energie vive, da non disperdere. Serve, insomma, una ripresa forte dell’iniziativa unitaria. Badate bene, non è facile e il processo non durerà un giorno. Ma se aspettiamo i gruppi dirigenti nazionali e non mettiamo in rete le esperienze di questi mesi, se, insomma, non li prendiamo per il collo e li costringiamo a guardare un po’ verso il basso (che non fa male), continuerà questo processo di distruzione che va avanti dal 1989 e che ci priverà di ogni prospettiva di cambiamento anche per i prossimi trent’anni. Insomma, la situazione è un po’ come l’immagine che accompagna questo articolo: sono macerie? O sono mattoni?
Il Partito delle Case del popolo 2.0. Per fare società.
Il pippone del venerdì/50
Il Pd sembra essere tornato improvvisamente a essere centrale nella vicenda politica italiana. La linea renziana dell’Aventino lo ha trasformato in una preda ambita, sembra una scena di un film di quelli classici: la bella figlia del re contesa fra più principi che si nega. E più si nega e più la braccano. In realtà si tratta di un effetto ottico. Di Maio usa il Pd per giustificare l’approccio con Salvini. Quando dice che lui preferirebbe un accordo con il Partito democratico non renziano fa finta di non sapere che si tratta di una condizione impossibile. Renzi, al di là dei vagiti delle varie correnti interne, è ancora l’azionista di maggioranza. E senza i suoi voti (già ampiamente negati) un governo non si può proprio fare. Questione di numeri. E allora, incassato il no, porterà i 5 stelle a un accordo con la destra di Salvini. Esclusa Forza Italia? Vedremo. Se ne parla a fine aprile, dopo le regionali in Friuli e Molise. Intanto becchiamoci un’altra settimana di consultazioni soporifere.
Nel frattempo, salvo rinvii, si sarà svolta anche l’assemblea nazionale dei democratici che incoronerà il nuovo segretario. Si dice che sarà confermato il reggente Martina (anche se nelle ultime ore affiorano incertezze fra gli azionisti di maggioranza, ovviamente i renziani). Le variabili sono molte. Per quanto tempo? Fino alla scadenza del mandato? Fino a ottobre? Fino alle Europee? La data di svolgimento delle primarie (sì, faranno ancora le primarie, nessuno ha la forza di modificare lo statuto) è una delle chiavi di lettura per capire cosa accadrà nei prossimi mesi. Affari loro? Neanche tanto, visto che al futuro del Pd, di fatto, ha deciso di legare i suoi destini anche Liberi e uguali, che ha rinviato la sua assemblea nazionale a maggio. Il fatto che la data sia successiva a quella dell’appuntamento democratico non è casuale.
Sulla scialuppa di Liberi e Uguali arrivano, infatti, gli echi di due sirene contrapposte. Da un lato, quello di Sinistra italiana, non si è insensibili al richiamo di de Magistris e al progetto di Diem25, ovvero la lista transnazionale per le Europee che farebbe capo all’ex ministro greco Varoufakis e al francese Hamon, già candidato alle presidenziali francesi per il Partito socialista. Dall’altro lato, quello di Articolo Uno, si sta con l’orecchio teso pronti a scattare nel caso qualcosa si muova in casa democratica. Non un semplice cambio di segretario, che tutti (o quasi) considerano insufficiente per “tornare a casa”, ma una vera e propria scomposizione del partito che riporti a uno schema bipolare il centrosinistra. Una sorta di riedizione di Ds e Margherita. Non è più, infatti, il solo Sandro Gozi a sostenere la necessità di andare oltre il Pd per fare una sorta di partito di Macron in Italia. Anche fra i renziani doc sono molte le voci che, più prosaicamente, fanno i conti. Il centro destra, con due forze trainanti arriva a essere la coalizione più forte, perché non ripetere lo stesso schema anche dall’altra parte?
C’è la convinzione, tra l’altro, che alla fine un governo Di Maio – Salvini si farà, magari aggregando un pezzo di Forza Italia. E a quel punto tornerebbe in campo l’idea originaria dello statista fiorentino: ovvero lanciare un’Opa sui moderati in libertà, dopo essersi ovviamente liberato di quel che resta della sinistra nel Pd. Oppure dopo essersi liberato proprio del Pd e aver lanciato “Avanti”, la riedizione italiana di “En marche”. In pratica, a quanto si capisce dai retroscena, il marchio democratico, considerato ormai usurato dalle sconfitte, si trasformerebbe in una specie di bad company sulla quale scaricare tutte le colpe del passato e Renzi tornerebbe in campo con un contenitore tutto nuovo, dove assemblare i moderati in cerca di casa. La sinistra avrebbe il compito di fare altrettanto in vista di una futura ricomposizione, quanto meno sotto forma di alleanza elettorale.
In pratica si tratterebbe di fare quel nuovo Ulivo da molti evocato già prima del 4 marzo ma reso impossibile proprio dalla presenza stessa del Pd. Troppo grande per essere alleato alla pari, troppo piccolo realizzare davvero la vocazione maggioritaria di veltroniana memoria.
A me è venuta la nausea soltanto a scriverla questa roba. Figuriamoci a metterla in pratica. Per due ragioni essenziali. La prima è che non sono davvero un nostalgico di Prodi e dell’Ulivo. A quella stagione, che oggi si tenta di dipingere come età dell’oro, si deve, in buona parte, il disastro attuale. Fu in quegli anni che si delineò una sinistra culturalmente minoritaria, che si accontentò del compito di rendere un po’ meno cattivo il capitalismo. In quella stagione si sono gettate le basi per il Jobs act renziano, si è precarizzato il lavoro, rendendo sempre più complesso perfino portare il sindacato nelle aziende. Si è, in sintesi, spianata la strada a quella frammentazione sociale che oggi rende così debole, non tanto e non solo la sinistra, ma la nostra stessa democrazia. La seconda ragione, è che, se anche non volessimo considerare il carattere secondo me negativo della prima versione dell’Ulivo, le minestre riscaldate non funzionano mai. Dopo una sconfitta si riparte cercando strade nuove.
Non sto a ripetere come la vedo, il percorso che secondo me andrebbe seguito, coniugando, come ho già ampiamente scritto, le necessità strettamente organizzative con quelle della creazione di un vero e proprio laboratorio politico. Per me quella di un partito che metta in campo un’analisi di tipo marxista della società resta non solo la prospettiva più credibile, ma l’unica che possa ridare fiato a una prospettiva vera di cambiamento, di riscatto sociale. Un partito genericamente di sinistra sarebbe l’ennesima ridotta difensiva. Peccato che da difendere ci sia ben poco. I nostri dirigenti, questo è l’altro corno del problema, sono insufficienti. Quelli più acuti come Bersani hanno forse azzeccato l’analisi, intravedendo l’ondata antisistema che stava per arrivare. Ma nessuno pare in grado di andare oltre la stantia formula del centrosinistra. Al massimo, quando proprio si impuntano, pretendono di mettere un trattino fra le due parole. E’ deprimente, ma questo sono in grado di produrre. Né dal sindacato sembrano arrivare segnali di un possibile risveglio nel campo più prettamente sociale. Politica e società vanno di pari passo e se non hai rappresentanza politica diventa sempre più complesso dare rappresentanza sociale.
E allora che fare? Arrendersi e mettersi al vento aspettando che ci sbattano il grugno per l’ennesima volta? Io non credo sia possibile, perché non c’è più tempo. Credo che servano due condizioni insieme per uscire dall’avvilente stallo attuale: dall’alto, le energie migliori dei vari campi – politica, cultura, sindacato, esperienze sociali – devono unirsi e fare squadra; dal basso, serve una campagna nazionale di assemblee popolari. Non il “Brancaccio due”, perché quella roba lì era finta, c’eravamo solo “noi”, la sinistra tradizionale nelle varie declinazioni. Non prendiamoci in giro. Bisogna andare in profondità, nei quartieri nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università. Io penso a una rete di “Case del popolo 2.0” luoghi dove non si fa soltanto politica, si fa società. Luoghi di aggregazione, dove trovi il medico popolare, la scuola per gli stranieri, servizi di tipo mutualistico, momenti di svago e di cultura. Non un “muretto” per far svernare i militanti, ma iniezioni di un nuovo modello di comunità. Da lì si deve ripartire, non basta un nuovo partito. Serve una nuova comunità che non stia a discutere per giorni su quale assessore indicare al Comune, su chi candidare. Una comunità attiva, riconoscibile, che infonda robuste solidarietà nella nostra società polverizzata. La nuova sinistra non può nascere negli studi televisivi o nei gruppi parlamentari, deve essere sinistra sociale.
Ci sono le energie e il coraggio per rifondare un partito in questo modo? Le energie sicuramente ci sono, serve la capacità di metterle in rete e farle connettere. Ma il tempo non è molto, basta con i rinvii a fantomatiche assemblee nazionali. Bisogna mettersi “en marche”, ma senza Macron.
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