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Il pippone del venerdì\5.
Parliamo di lavoro (e di non lavoro)

Apr 7, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

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L’articolo 1 della Costituzione nacque da un complesso dibattito nell’assemblea costituente. I comunisti avrebbero preferito la dizione l’Italia è una Repubblica di lavoratori, per sottolineare l’importanza del fattore umano, non solo della “condizione”. Ma è evidente che questa formulazione era troppo “ideologica” per la Dc e il compromesso trovato rimane comunque molto avanzato. L’articolo 1 va letto, infatti, insieme al 3, per capirne il dispiegamento pieno: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Quindi l’Italia è fondata sul lavoro e compito della Repubblica è garantire l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla costruzione dello Stato stesso. La Repubblica si costruisce solo quando tutti i lavoratori, non i cittadini si badi bene, sono nelle condizioni di partecipare. Altro che Costituzione astratta, la nostra Carta è concreta e prescrittiva fin dai principi fondamentali. Rimuovere gli ostacoli. Parole nette, precise. Che, d’altro canto, trovano un riscontro in buona parte della filosofia moderna.

Prendo a prestito André Gorz, filosofo di origine austriaca ma francese a tutti gli effetti. Nel suo saggio “Metamorfosi del lavoro”, ci ricorda con parole importanti che il lavoro salariato è un’invenzione moderna e non ha un semplice rilievo economico, ma una profonda radice sociale: “La caratteristica essenziale del lavoro – spiega  – è di essere un’attività che si svolge nella sfera pubblica, è un’attività richiesta, definita e riconosciuta utile da altri che, per questo, la retribuiscono. È attraverso il lavoro remunerato (e in particolare il lavoro salariato) che noi apparteniamo alla sfera pubblica, acquisiamo un’esistenza e un’identità sociale (vale a dire “professione”), siamo inseriti in una rete di scambi in cui ci misuriamo con gli altri e ci vediamo conferiti diritti su di loro in cambio di doveri verso di loro. Proprio perché il lavoro socialmente remunerato e determinato è il fattore di socializzazione di gran lunga più importante – anche per coloro che lo cercano, vi si preparano o ne sono privi – la società industriale si considera come una “società di lavoratori” e, in quanto tale, si distingue da tutte quelle che l’hanno preceduta”.

Insomma, la banalizzo, se l’uomo è un’animale sociale, nella società industriale dispiega a pieno la sua socialità proprio nel lavoro. E dunque non è un caso se i lavoratori vengono posti a fondamento, a garanzia direi quasi, delle nostre libertà costituzionali e sono soggetti di diritti proprio in quanto lavoratori.

Nella nostra società, ormai post industriale, il lavoro si modifica diventa prevalentemente immateriale, non produce – o meglio lo fa in quantità molto più ridotta rispetto al passato – merci, ma soprattutto servizi o merci immateriali. E il capitale del lavoratore diventa sempre più la sua stessa individualità, la sua intelligenza, il sapere. Il lavoro, nella società occidentale – tende a diventare prevalentemente intellettuale, perché – e Marx ce lo aveva spiegato qualche secolo fa  – il capitalista riduce l’apporto della manodopera nei processi di lavorazione fordisti con un uso sempre più massiccio delle macchine. L’informatica ha fatto il resto. E dove neanche in questa maniera riesce più a creare plusvalore, lo fa esportando l’industria stessa in paesi dove il costo del lavoro è più basso e i diritti inesistenti. Non sono, insomma, i migranti, il moderno “esercito industriale di riserva”, quella massa disposta a tutto pur di lavorare che fa peggiorare la qualità della vita del lavoratore salariato, ma sono paesi interi a fornire questa alternativa. Non si importa forza lavoro, si sposta la produzione.

L’analisi è evidentemente rozza e semplificata. Sarà anche un “pippone”, ma tocca rimanere nei limiti dell’umana sopportazione. Se riusciamo, per un attimo, a distaccarci dalla polemica politica quotidiana ci accorgiamo, però, che questo processo che ho solo abbozzato è evidente anche nel nostro paese. Al di là dell’evidente fallimento delle politiche neo liberiste messe in atto dai governi che si sono succeduti e che trovano il loro coronamento nel jobs act, la verità l’ha detta Draghi (non un pericoloso comunista, ma la Banca centrale europea) nei giorni scorsi: i salari sono troppo bassi, se volete far riprendere l’economia e dunque creare nuovi posti di lavoro, alzateli.

Semplice, semplice. Non serve neanche scomodare la scuola di pensiero keynesiana, per capire quanto sia vera questa affermazione. Se vuoi far girare l’economia, in un sistema capitalista avanzato, non puoi che stimolare i consumi e si consuma se si hanno soldi da spendere. E chi è che può dare una scossa? Quella che un tempo si sarebbe chiamata la classe media, ovvio.

Solo che… E se neanche questo servisse a far aumentare i posti di lavoro? Ora l’Istat ci dice ogni mese che tutto va bene e la disoccupazione è in calo. Poi se si leggono bene i dati si scopre che mica va tutto così bene: aumenta sempre più il numero delle persone che smette proprio di cercare lavoro, aumenta il numero delle persone che lavora pochi giorni al mese (per le statistiche sono occupati a tutti gli effetti).

Ora, io non sono un economista, anzi. Ne capisco anche poco. Ma mi viene il sospetto che la nostra società sia già entrata in una fase successiva. Da un lato la delocalizzazione selvaggia della produzione a cui, in Italia più che altrove, non si è in grado di opporsi. Ma non basta a spiegare la nostra crisi strutturale: siamo in quella fase in cui l’automazione e l’applicazione dell’intelligenza artificiale alla produzione fa sì che si che pur aumentando la produzione stessa l’impatto sul lavoro sia modesto. E allora, ritorno all’inizio, come far in modo che i nostri principi costituzionali diventino effettivi, siano pratica quotidiana nell’azione di governo e non un enunciato astratto? Quale partecipazione si può avere se non ci sono più i lavoratori?

Io credo che sia questa la domanda che la sinistra italiana deve porsi con forza. E credo che sia una domanda sulla quale sia doveroso aprire un grande dibattito. Vedo che in altri paesi si fa. Ci si pone il tema di una società in cui il lavoro diventa sempre più merce rara.
E si danno anche risposte, sia pur, secondo me, parziali. Dalla necessità di ridurre progressivamente l’orario di lavoro, alle varie idee di tassazione del lavoro dei robot (arrivano non solo dai socialisti francesi, ma anche dalla silicon valley). Manca ancora una riflessione complessiva. Perché se è vero che il lavoro è il fondamento delle nostre libertà, non basta trovare antidoti “economici” alla sua carenza. Se è vero che nella società moderna il lavoro, salariato, è il massimo momento in cui l’uomo dispiega il suo essere sociale, in cui realizza se stesso, si sarebbe detto un tempo, se è vero questo, una società in cui il lavoro tende a non essere più l’elemento centrale, va ripensata nei suoi paradigmi fondamentali.

Negli anni ’80, un po’ scherzando, un po’ anche no, con un nutrito gruppo di figgicciotti (si chiamavo così gli iscritti all’organizzazione giovanile del Pci), proponemmo di considerare il “non lavoro” come valore. Nel senso che sì, il lavoro nobilita l’uomo, è fondamentale eccetera eccetera. Ma andrebbe anche considerato anche il tempo del non lavoro come spazio in cui si possa realizzare se stessi. Potrebbe sembrare una battuta goliardica, ma guardate che avevamo visto giusto.

Insomma, io credo che la sinistra, non solo italiana, ma nella sua dimensione internazionale, debba porsela questa domanda: intanto come tornare a rivendicare l’espansione della sfera dei diritti sociali, perché sono quelli che ci qualificano, e non limitarsi soltanto alla difesa dell’esistente. Tutto questo, nell’era della finanzia e dell’economia globale, ovviamente non può più essere pensato su scala nazionale. Detta facile: o facciamo arrivare i diritti civili in Cina e in India, insomma, o questi ci fanno a fette. Perché da noi più di tanto i salari non li puoi comprimere e non riusciremmo ad essere concorrenziali neanche seguendo pedissequamente i dettami economici di Marchionne e soci.
Ma fatto questo, bisogna pensare, e farlo in fretta, a una società del non lavoro.

Concludo rapidamente, ma il tema ovviamente meriterebbe ben più spazio. Perché potrebbe anche sembrare, lo ripeto, un’affermazione goliardica. Ma pensare una società in cui il lavoro non è più elemento dominante rappresenta una sfida enorme, dal punto di vista stesso della struttura sociale.  Certo, noi stiamo a pensare alle primariette, ai populismi che avanzano. Ce la prendiamo con i migranti perché ci rubano il lavoro. La nostra vera crisi, non solo italiana, sta proprio qui: manca la capacità di alzare il naso dal quotidiano e vedere oltre l’orizzonte. Manca nella politica, che nel solo ha perso il contatto con il mondo reale, non riesce a fare i conti con “la pancia”, ma non riesce neanche a definire quale sia il suo cielo, la sua utopioa. E manca anche in quel mondo intellettuale tanto fecondo in passato, tanto salottiero e “terrazzaro” oggi.

#Iolavedocosì.
Votare Orlando il 30 aprile?
Un errore politico e una scorrettezza

Apr 4, 2017 by     No Comments    Posted under: dituttounpo'

downloadHa cominciato Gianni Cuperlo, con un esplicito invito a Bersani e ad Articolo Uno, in sostanza: il 30 aprile venite votare alle primarie del Pd per dare una mano a Orlando. Poi ha continuato Goffredo Bettini (che io tra l’altro ricordavo strenuo sostenitore di Renzi e Orfini, mi devo essere perso qualche passaggio), più mellifluo il suo appello: “Confido che il messaggio di Orlando arrivi all’insieme del centrosinistra, che aspetta il momento della riscossa e dell’unità; superando quelle divisioni volute più dai gruppi dirigenti per coltivare orticelli, che dai cittadini e i militanti che da tempo hanno dimostrato, soprattutto nelle città, di avere un sentire comune e la voglia di stare insieme contro la destra e la demagogia”.

E poi da li a ruota molti orlandiani si sono scatenati sui social, arrampicandosi su sentieri scoscesi e ricchi di olio, pur di dimostrare che il regolamento delle primarie del Pd permetterebbe un voto da parte di chi del Pd non è elettore. Manca solo Orlando, ma allora sarebbe disperazione pura.

Intanto non è vero che alle primarie del Pd possa votare chiunque. L’articolo 10 è molto chiaro: devi sottoscrivere un documento dove dichiari di sostenere il partito e condividere la sua linea politica. Poi non ti fanno l’analisi del Dna, diranno che in passato hanno votato folle prezzolate e truppe aviotrasportate, le regole sono chiare, però.

Ma il punto politico è un altro. Non la faccio lunghissima e procedo schematicamente.

1) Sono uscito dal Pd nel luglio del 2015, nel frattempo ho votato alle amministrative e a due referendum, sempre in contrasto con la linea decisa da Renzi, ho lavorato – e continuo a farlo – alla costruzione di una forza di sinistra, alternativa al Pd, che marchi una netta discontinuità con le politiche neoliberiste che hanno affascinato negli ultimi anni le forze che fanno riferimento al Pse. Come potrei mai firmare un documento in cui dico di condividere il progetto e la linea politica di un partito che ha proposto e approvato: introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione, fiscal compact, abolizione dell’articolo 18, legge ammazza scuola, legge elettorale truffa, riforma costituzionale in senso autoritario? E mi fermo qui, ma potrei continuare.
Non sarebbe né serio, né rispettoso, né corretto, insomma, andare a scegliere il segretario di un partito di cui, ormai, non sono non condivido la linea politica, ma neanche il progetto di fondo. Sarà anche vero che la destra nel 2013 scese in campo a favore di Renzi, non so. Ma noi siamo diversi, anche su queste cose.

2) Anche volendo passare sopra alle considerazioni regolamentari ed etiche di cui sopra, qualcuno mi spiega perché dovrei votare per uno che fino all’altro ieri ha fatto il ministro di Renzi senza mai non dico sbattere il pugno, ma neanche provare a instillare qualche dubbio, qualche idea di sinistra, nel programma della compagine governativa? La cosa più di sinistra che ha fatto Orlando in questi anni è stata chiedere la conferenza programmatica all’assemblea nazionale convocata per avviare l’iter congressuale. Insomma, anche a voler essere spregiudicati, la candidatura di Orlando sembra più decisa a tavolino per arginare la crepa che si è aperta, piuttosto che rispondere a una qualche vera esigenza politica.

3) Non capisco per quale motivo Articolo Uno dovrebbe sprecare tempo energie in questa impresa. Io non ho alcuna intenzione di tornare in un partito, lo ribadisco, è alternativo al campo che vorrei costruire. Il che non vuol dire che non ci possano essere rapporti con il Pd, alleanze locali, convergenze programmatiche a livello nazionale. Tutt’altro, sarebbe miope e minoritario non porsi il tema. Al momento opportuno. Ma, vivaddio, che il Pd faccia il Pd e la sinistra faccia la sinistra! Abbiamo da fare abbastanza, sinceramente, dobbiamo ricostruire dal nulla, anzi dalle macerie lasciate in questi anni, un campo di forze che torni a essere percepito come una speranza per il nostro paese. Le elezioni dei segretari altrui, non ci devono e non ci possono riguardare.

4) Infine un rispettoso “rimbrotto” a Cuperlo: io credo che il suo appello sia stato scorretto (per le ragioni che ho scritto all’inizio). E non riconosco in quelle parole il politico rispetto e di rigidità quasi “monastica” che ho apprezzato in tanti anni di comuni frequentazioni. E, la finisco davvero, lo ritengo anche sbagliato tatticamente, un segno di evidente confusione e debolezza. Capisco che le compagnie che frequenta non sono esaltanti, ma se le è scelte. E noi, comunque, lo aspettiamo sempre. A braccia aperte.

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