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Le mie (poche) certezze sulle elezioni regionali.
Il pippone del venerdì/39

Gen 12, 2018 by     1 Comment     Posted under: Il pippone del venerdì

Sono stato fortemente tentato, lo confesso. Volevo dedicare questo pippone post feste natalizie al tema delle molestie sessuali, tornato sulle prime pagine dei giornali dopo l’appello “pro maschi” firmato, tra altre cento donne, da Catherine Deneuve. Provare a fare una riflessione al di fuori dagli opposti schematismi estremi, in un certo senso, mi incuriosisce molto. Forse incuriosisce non è il termine esatto. Io sono sempre stato disgustato dall’idea stessa di un rapporto non consensuale, quando mi occupavo di cronaca nera faticavo moltissimo a scrivere di uno stupro. Soffrivo perfino. Mi sono rifiutato di andare a intervistare le vittime. Perché mi sembrava di sottoporle a una nuova violenza solo per solleticare la morbosità di una parte dei lettori. Eppure nelle vicende di queste settimane mi riesce difficile prendere una posizione definita. Mi sembra che si stia facendo un gran calderone di storie e situazioni differenti. Mi sembra che si stia tagliando con l’accetta una discussione più sfaccettata, troppo complessa per entrare in una logica da “bianco e nero”. E mi sembra, però, che lo stesso errore lo facciano anche le firmatarie di quest’ultimo appello. Ecco, me la cavo così e torno alla politica in questi giorni troppo pressante davvero, faccio un appello io: non facciamo diventare le molestie, la violenza sessuale, materia da bar. Non dividiamoci in tifosi dell’una o dell’altra tesi.

Chiusa la parentesi, mi pare che la politica italiana, nel suo complesso, avrebbe bisogno di uno stuolo di psichiatri. Se si prova a mettere insieme un po’ delle notizie apparse sui giornali nelle ultime settimane si capisce subito la ragione di questa mia affermazione, che potrebbe apparire eccessiva. Tabacci che fa la lista con la Bonino. Berlusconi che vuole abolire – o quanto meno modificare – il jobs act. Calenda (Confindustria) che accusa Grasso di essere di destra. Gli appelli alla santa alleanza contro i barbari lanciati dagli stessi che accusano Liberi e Uguali di aiutare Salvini. Nel novero degli atteggiamenti da psichiatra ci metto anche i reiterati appelli dei cosiddetti padri nobili all’unità a tutti i costi. Prima ci hanno provato con le elezioni politiche, adesso tornano alla carica con le regionali. Ora, intanto non si capisce bene come si diventa padri nobili. C’è un concorso? Vengono eletti? No, perché almeno uno di quelli che adesso parlano e straparlano di unità della sinistra è stato quello che la sinistra la voleva morta. Ricordate Veltroni e le elezioni politiche? Ricordate Di Pietro e i Radicali sì e Bertinotti no? Ecco e allora abbiate il buon gusto di tacere, cari padri nobili.

Eppure la questione c’è, ci sta lacerando le carni in questi giorni. Se l’esito di quello che succederà in Lombardia è pressoché scontato – io derubricherei le aperture di quale esponente di Leu nel novero dei tatticismi da bassa politica – la situazione nel Lazio è sicuramente più complicata. In primo luogo perché la sinistra in questi anni ha governato con Zingaretti. Anche con silenzi troppo prolungati, se vogliamo dirla tutta. Penso al piano casa, alla sanità, innanzitutto. Ho sentito poche voci, pochi allarmi in questi anni. Hanno taciuto anche gli odierni pasdaran.

In secondo luogo perché per molti di noi Zingaretti rappresenta quella parte del Pd con cui vorremmo fare un percorso insieme in un prossimo futuro. Non prendiamoci in giro: da soli, anche andassero bene le elezioni, non si va da nessuna parte. Possiamo anche continuare a giocare e dire che tenteremo un’apertura verso i 5 stelle, ma non ci crede neanche chi lo dice. Quelli hanno un Dna diverso dal nostro. Certo, insieme alle ragioni dello stare insieme, ci sono gli argomenti, anche questi serissimi, di chi dice andiamo da soli. Al di là delle differenze programmatiche, su cui un accordo si trova sempre, sono due le obiezioni serie. La prima: mai nella stessa coalizione con la Lorenzin. E su questo mi pare che siamo tutti d’accordo. La seconda: si vota lo stesso giorno, non saremmo capiti dai nostri elettori. E in effetti chi sostiene questa tesi non ha torto. Sarà una campagna elettorale piena di schizzi di sangue. Dire che da un lato il Pd ci fa schifo e dall’altro si sostiene un suo esponente, sia pur della minoranza orlandiana, non sarebbe semplice. Né aiutano in questo senso le troppe timidezze che ha avuto Zingaretti negli anni. Si defilato per lunghe stagioni dal dibattito politico nazionale. Io credo, paradossalmente, che abbia ragione Orfini quando dice che dovrebbe assumere un profilo più politico. Ovviamente siamo in disaccordo sulla qualità del profilo politico. Il presidente del Lazio dovrebbe dire chiaramente che si candida come costruttore di una nuova stagione della sinistra, di una alleanza diversa per tornare a governare. Non solo il Lazio.  Un consiglio non richiesto, dunque: esca da questa mistica della “coalizione del fare”, parli alla sinistra, ai suoi elettori. Il fare serve, ci mancherebbe, ma solo quando si ha una bussola, una agenda precisa. Torni a incarnare la famosa autonomia del gruppo dirigente di Roma e del Lazio. L’abbiamo costruita e difesa gelosamente per decennni, ci serve anche adesso.

Lo poteva e lo doveva fare nel percorso che lo ha portato dall’annuncio della sua candidatura fino ad oggi. Non lo ha fatto, ha preferito prima affidarsi a Pisapia e Smeriglio, a cui per troppo tempo ha appaltato l’esclusiva del lato sinistro della coalizione, commettendo un errore di cui paga le conseguenze adesso.

Come vedete, insomma, si tratta di una partita difficile, forse essenziale per il processo di crescita di Liberi e Uguali. Diffidate, prendete accuratamente le distanze, evitate chi ha troppe certezze. Coltiviamo il dubbio e discutiamo senza preclusioni. Anche valutando la forza di eventuali alternative. Perché nelle Regioni, non lo dimentichiamo mai, si vota in primo luogo il candidato presidente. E alle elezioni mancano ormai pochi giorni.

Una certezza però ce l’ho e vorrei fosse più diffusa e proclamata a voce alta: che alle elezioni regionali, qualunque sia la decisione che i nostri delegati prenderanno nelle prossime ore, voteremo tutti Liberi e Uguali. Non vorrei più leggere: se fate questo io me ne vado. Né voglio credere alle voci che mi parlano di liste alternative già in avanzato stato di costruzione. Liberi e Uguali è la nostra casa comune, è appena un embrione del partito che avremmo già dovuto costruire. Ma almeno questo deve essere un punto fermo per tutti noi. Indietro non torniamo. Diciamolo tutti, però.

A casa si litiga, si discute, ci si divide. Ma poi si va avanti insieme. Si trovano le strade per far prevalere le ragioni che ci fanno stare uniti. La ragione che deve prevalere, sempre, è semplice: dobbiamo ridare voce agli ultimi in questo paese. Dobbiamo portare la sinistra in tutte le sedi istituzionali. E se questa è la stella polare, dobbiamo usare, anche in maniera un po’ spregiudicata, tutte le strade utili allo scopo. Altri tentativi, lo sappiamo tutti, non ci saranno concessi. Per cui, cari compagni, discutiamo, litighiamo, prendiamoci a parolacce, che volino sonori schiaffoni. Si sceglie e poi si torna a lavorare. Per Liberi e Uguali, per riportare la bandiera rossa in Parlamento e nelle Regioni. Ci serve.

Una partita a scacchi lunga due mesi.
Il pippone del venerdì/38

Dic 22, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

La costruzione di Liberi e Uguali, dopo i sussulti iniziali, procede spedita. Il 7 gennaio ci sarà una nuova assemblea nazionale, chiusa la legge di stabilità alla Camera è arrivato anche il giorno dell’adesione di Laura Boldrini. Con lei il listone della sinistra si arricchisce di un profilo di peso, si ricompone la frattura provocata dalle bizze di Pisapia. Insomma possiamo mangiare il panettone, se non proprio del tutto sereni almeno con un tasso di fiducia in crescita.

Credo che l’appuntamento del 7 gennaio non sarà un semplice passaggio di routine. Come non saranno per nulla scontati i giorni successivi, nei quali si definiranno con precisione le liste dei candidati alle elezioni. Politiche e regionali, nelle zone dove si votano anche le assemblee locali. Dico questo perché, visto che non siamo ancora riusciti a fare un partito, dotarsi di un programma radicale, con punti qualificanti e innovativi su lavoro, diritti, stato sociale, scuola e formazione diventa essenziale.  A fronte di un centrodestra sempre più aggressivo e sicuro della vittoria e di un Pd isolato e avviato sulla strada della deflagrazione post elettorale, occorre mettere un argine serio. Piantare non qualche bandierina isolata, ma un accampamento consistente. E per farlo servono due cose: le idee chiare e una squadra all’altezza per rappresentarle. Non so quale sarà il metodo scelto per selezionare i candidati. Le proposte nasceranno nelle assemblee locali e poi verranno vagliate da un comitato nazionale presieduto da Grasso. Non so quanto sarà ristretto questo gruppo. A me piacerebbe che fosse una sorta di gruppo dirigente provvisorio a cui affidare non soltanto la selezione delle candidature ma anche la definizione del percorso post elettorale. Indietro non si torna, l’ho detto e ripetuto in tutte le occasioni in cui mi è stato possibile. Perché i nostri militanti e, credo, ancor di più i nostri elettori, ci chiedono di costruire una casa.

Non ci siamo riusciti in questi anni. Io sono uscito dal Pd nel 2015, era luglio, e da allora ho sempre cercato, nel mio piccolo, di mettere insieme le forze sparpagliate della sinistra. Secondo me siamo ancora in una fase intermedia. E’ bene tenere le menti e le porte aperte. Perché il processo di scomposizione e ricomposizione della sinistra italiana non è finito. E purtroppo affrontiamo queste elezioni mentre ci troviamo in mezzo al guado. Un pezzo di strada l’abbiamo fatto, anche grazie alle accelerazioni degli ultimi mesi, tanta strada resta da fare e le acque in cui ci muoviamo sono tumultuose, le correnti forti, il nostro equilibrio precario. Per questo quei giorni, dal 7 gennaio alla presentazione delle liste, saranno essenziali.

Io dico – e dopo qualche tempo vorrei provare a scrivere due cose anche sul livello locale – che anche dalle alleanze e dalle candidature che sapremo mettere in campo nelle Regioni si capirà la cifra del nostro progetto politico. Si fa un gran dibattere in questi giorni sulla natura che deve avere il nostro progetto, radicale, di governo, di lotta. Io credo che la dimensione del governo sia talmente naturale che non si debba ripetere ogni due passi. Altrimenti sembra che lo diciamo quasi per farci forza. Mi spiego meglio. Intanto l’obiettivo di andare al governo dovrebbe essere naturale. Che senso ha presentarsi alle elezioni se non si ha in testa, nel breve o ne medio periodo, di entrare nella stanza dei bottoni e provare a guidare l’Italia? Se non si ha in testa questo si potrebbe direttamente aderire al club del bridge e si fa anche meno fatica. In secondo luogo io credo che i profili e la storia dei “soci fondatori” di Liberi e Uguali siano una garanzia.  Non solo per il pezzo che viene dai Ds, ma anche per quello che arriva dall’esperienza di Sel, che si è sempre messa a disposizione – direi anche troppo – nell’ambito di un progetto di centro sinistra.

Se è vero questo, allora, il problema non si dovrebbe neanche porre: dove ci sono le condizioni per costruire un’alleanza per vincere le elezioni si fa. Non è ovviamente così banale. Intanto perché la rottura avvenuta nel Pd per molti di noi è ancora fresca. Le separazioni hanno bisogno di tempo per sedimentarsi, le polveri devono posarsi atterra dopo un’esplosione per tornare ad avere una visione chiara. E poi perché si vota lo stesso giorno. Dunque non sarebbe facile spiegare agli elettori perché su una scheda il Pd è brutto e cattivo e sull’altra un alleato affidabile.  D’altro canto, scendo a livello del Lazio, non sarebbe facile neanche spiegare – se la prospettiva comune a tutti noi – è quella di costruire in futuro un’alleanza per tornare al governo nazionale, per quale motivo si lavora per dare una botta in testa a quel Nicola Zingaretti che, pur con tutti i suoi limiti, per me rappresenta comunque una delle risorse migliori per il “post Pd”.

Non dico altro perché scrivere parole definitive su questa vicenda non è possibile. Le variabili in campo sono ancora molte e non tutte, secondo me, sono ancora conosciute a pieno. Credo che però l’assemblea del 7 gennaio qualche parola chiara di “indirizzo politico generale” debba essere chiamata a dirla. Non essere un partito avrà anche i vantaggi di potersi muovere con agilità, ma se non si mette in campo una proposta politica definita non si richiamano i famosi elettori che stanno nel bosco. E questa secondo me è una discriminante seria: crediamo ancora che la prospettiva per governare questo paese sia un nuovo centrosinistra, in forme del tutto differenti rispetto al passato, oppure pensiamo a qualcosa di differente?

Resto convinto che l’incontro delle differenti culture politiche che abbiamo chiamato centrosinistra sia l’unica strada possibile. Magari evitando di ripetere l’errore di voler racchiudere prospettive differenti in un contenitore unico. Magari costruendo una sinistra che non abbia paura di essere davvero radicale. Guardate che in questa società in continua evoluzione le timidezze anni ’90 ti portano alla situazione di oggi. E ripetere lo stesso errore un’altra volta non mi pare davvero intelligente. Ma detto questo, ricostruito il nostro campo, fatto un partito forte, strutturato, pesante nelle idee non tanto nella burocrazia. Fatto questo, dicevo, bisogna farla contare la propria proposta politica. A tutti i livelli. Mi piacerebbe che nelle proposte programmatiche che i nostri delegati andranno a discutere a gennaio queste riflessioni potessero trovare cittadinanza piena.

Intanto buone feste a tutti. Per qualche settimana anche il pippone se ne va in vacanza.

Liberi e Uguali, c’è qualcosa di nuovo.
Il pippone del venerdì/36

Dic 8, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Ora, chi vive sui social probabilmente non se ne sarà accorto, perché la vita virtuale in questa settimana è stata dominata dalle polemiche grammaticali sul nome della nuova lista. Liberi e Uguali sarebbe maschile e quindi non va bene. E chi è sopravvissuto alle suddette polemiche è stato steso dalla nuova, ennesima, lettera di Tomaso Montanari che ha stroncato l’assemblea di domenica scorsa. Lui non c’era, ovviamente, ma ha capito benissimo tutto quello che è successo e ce l’ha spiegato – a noi che invece c’eravamo eccome – con righe di fuoco. Al leader mancato della sinistra perfetta verrebbe da rivolgere un accorato appello: “Caro Tomaso, fatti una vita tua, non parlare sempre di quanto sbagliano gli altri”. In realtà lui ci ha anche provato. Alla fine l’hanno rimasto solo.

Insomma: chi, come ormai tanti di noi, segue il dibattito politico solo ed esclusivamente sui social rischia una depressione che neanche il disastro del duo Pisapia-Fassino riuscirà ad alleviare. A me è capitato di passare un paio di giorni così. Incupito dalle notizie che apprendevo via facebook, mi si erano appannate le belle immagini di domenica. Poi ho fatto mente locale, ho partecipato a qualche riunione vera. Ho parlato con persone in carne e ossa e non con icone virtuali. Aiuta, bisognerebbe tornare a farlo con una certa continuità. Si possono perfino guadagnare voti.

Intanto alcune considerazioni: non ho trovato nessuno in giro che si lamenti dell’acclamazione di Grasso come leader. Che poi, siete davvero intossicati da questi anni passati a contarsi nel Partito democratico: ma se siamo tutti d’accordo, se c’è un candidato solo, condiviso da tutti, ma che cosa dovevano votare mai i delegati? La politica, mi riconoscerete di averlo sostenuto in tempi non sospetti, deve tornare ad essere confronto, anche scontro, ma luogo dove si cercano soluzioni condivise e non si cerca la conta a ogni angolo di strada. Perché già nelle aule istituzionali è un dovere cercare sempre punti di mediazione, ma in un partito diventa essenziale, procedere sempre a maggioranza finisce per far venire meno le ragioni per cui si è scelto di stare insieme. Avremo modo di confrontarci già nelle prossime settimane sui programmi e poi sulle liste: la strada della condivisione mi sembra la migliore.

Detto questo, parlando con le persone reali, non le icone sui social, non ne ho trovato uno che mi abbia posto i problemi di cui cianciano i soloni da tastiera dei salotti bene, da Montanari in giù. E questo mi ha francamente sorpreso. Se usciamo un po’ dalla cerchia di chi ha già la tessera di uno dei partiti che hanno fondato Liberi e Uguali (cerchia molto ristretta) i problemi che ci pongono sono altri. Nessuno ti chiede se Grasso è stato votato o come sono stati scelti i delegati.
Faccio un salto logico, ma solo in apparenza. Uscendo dall’Atlantico Live, reduce da un’assemblea complicata da un’organizzazione frammentaria, ho scritto, sinteticamente: ci siamo sentiti tutti a casa. A me non succedeva da tempo, di partecipare a un evento insieme a persone che hanno una storia differente dalla mia e non sentirla questa differenza. Ricordo il primo luglio le facce sconcertate dopo l’intervento di Pisapia, domenica al contrario ho visto facce sorridenti. Certo poi non c’è il simbolo, poi siamo stati in piedi o seduti sulle scale. Ma chi c’era ha percepito un’aria diversa in quell’assemblea.

Io credo che – è questa la novità – gli interventi, la loro qualità e anche intensità emotiva, ci hanno fatto guardare in faccia senza il pensiero rivolto al passato. Non sono stati i soliti interventi di circostanza, i testimonial scelti per dare una verniciata civica a qualcosa di preconfezionati. Io ho ancora i brividi per il discorso del medico di Lampedusa, ho ancora il senso di speranza che mi ha dato la compagna della Melegatti. Ho ancora in testa le questioni sollevate da Legambiente, le questioni non tanto contabili quanto di senso poste dal presidente di Banca Etica. E quella figura, forse un po’ da nonno saggio che tiene a bada tre ragazzini, di Piero Grasso ci ha dato finalmente alcune sicurezze. L’ombra incombente dei cattivi Bersani e D’Alema, i reduci delle sconfitte che ora mettono la figurina a coprirli. Io non ho visto né percepito questo. Bersani e D’Alema erano li in platea, pronti ad abbracciare Grasso dopo il suo intervento. Ho sentito sentimenti fraterni, non calcoli da bassa politica.

Lo dico sottovoce: c’era un’aria nuova in quel brutto capannone della periferia romana. Non c’erano i lustrini e i palloncini colorati delle convention mediatiche. C’era un popolo ansioso. Ceto politico hanno detto. Io ho qualche dubbio. Cinquemila persone in fila al freddo di una mattinata di dicembre. E poi gli applausi, quasi liberatori. Abbiamo capito tutti insieme una cosa, forse la abbiamo addirittura scoperta tutti insieme domenica. Provo a raccontarvi la mia sensazione. Sono partito dubbioso, quel nome ostico, l’assenza della parola sinistra. Sarà l’ennesimo e inadeguato papa straniero, pensavo. Poi quel discorso, quelle facce. Ho cominciato ad avere la sensazione che il “modello Grasso”  non parli a noi, a quelli che con disprezzo i giornali nella migliore delle ipotesi definiscono i fuoriusciti. La costituzione, i valori, la lotta alla mafia, la questione sociale. Un discorso semplice e alto allo stesso tempo. La serenità e la fermezza di un uomo che vive sotto scorta da non so quanti anni ma non molla. Dice con fierezza: Io ci sono. Andiamo avanti tutti uniti.

Guardate che Grasso non parla alla sinistra. Non parla neanche solo a quelli che stanno ancora nel bosco. Grasso parla agli italiani. A quelli che non arrivano a fine mese. A quelli che sono stanchi dei furbi e dei favori. A quelli che rivendicano i propri diritti. Abbiamo una figura che non è solo o tanto un leader, è una specie di garante. E’ un programma vivente, ha detto Vendola con una battuta molto efficace. E’ uno serio, non un venditore di pentole, mi permetto di aggiungere.

Attenzione che c’è qualcosa di nuovo. Non siamo alla riedizione della sinistra minoritaria 2017. C’è curiosità e attesa nei nostri confronti. Ho visto facce diverse, nuove. Ho sentito tante persone che ci dicono: attenti a quello che fate, perché ci interessate. Non ci deludete. Ecco, ora tocca a noi. Usciamo dalle discussione social, troviamo un modo intelligente per selezionare i candidati migliori a ogni livello. A me non importa che siano nuovi o vecchi. Devono essere i migliori che possiamo mettere in campo. E allora magari a Lampedusa potrà essere il medico degli immigrati, nel Salento potrà essere D’Alema. Io non la vedo in contrapposizione. Devono esserci tutte e due le cose: dobbiamo portare in parlamento novità ed esperienza allo stesso tempo. E poi, lo so sono ripetitivo. Apriamo sedi, comitati, facciamoci vedere a ogni angolo di strada, nei mercati, nelle scuole, sui luoghi di lavoro. Dentro i luoghi del conflitto. Radicali, ha detto Grasso. Ha ragione. Non è tempi delle sfumature di grigio. Servono proposte da battaglia.

Attenzione che c’è qualcosa di nuovo. E cresce di giorno in giorno. Altro che ridotta di sinistra. Noi stiamo costruendo il futuro della sinistra in Italia. La ridotta (di centro) rischia di essere il partito di Renzi.  Quindi, compagne, compagni eccetera: scarpe comode, poche polemiche, al lavoro e alla lotta. Anche questo l’ho già detto, ma ci stava bene.

La sinistra c’è. Ora facciamo la sinistra.
Il pippone del venerdì/32

Nov 10, 2017 by     No Comments    Posted under: Senza categoria

Diciamolo chiaramente: quando, era il 7 novembre, a raffica, sono apparsi il documento unitario per la lista di sinistra, le date delle assemblee delle forze politiche che hanno elaborato la bozza che andrà discussa e approvata, fino al nome (importante) di quello che potrebbe essere il futuro “presidente” di questa aggregazione, diciamolo chiaramente, molti di noi hanno aperto la bottiglia buona. Quella che tieni da parte per le grandi occasioni. Senza neanche leggere le dieci scarne paginette prodotte dal comitato dei “saggi”. E anche questa “laconicità” è una positiva novità.

Non saranno i 140 caratteri che vanno di moda oggi, ma rispetto ai programmi dell’Ulivo è una rivoluzione. Abbiamo brindato senza neanche leggere, dicevo, perché dopo mesi e mesi di messaggini criptici, di mezzi passi in avanti seguiti da ampie retromarce, di silenzi imbarazzanti sui temi fondamentali dell’agenda politica, siamo stremati. Siamo come quei naufraghi che dopo mesi di navigazione senza meta vedono uno sperduto isolotto in mezzo al mare, con un’unica palma, e gli sembra il paradiso. Poi, magari, bisognerà anche ragionare su questi mesi che ci separano dalle elezioni e soprattutto su quello che dovrà succedere dopo. Datemi tempo che ci arrivo. Ma, intanto, per una volta non facciamo i rompiscatole e prendiamoci cinque minuti di gioia pura.

Sì, gioia pura. La sinistra manca in Italia da anni. Questo lo hanno capito anche le pietre ormai. Ma oggi siamo di fronte al fatto nuovo della possibile scomparsa di qualsiasi tipo di rappresentanza degli ultimi. Non solo in parlamento, ma anche nella società. Questo è il rischio che abbiamo di fronte. Perché la prossima legislatura senza una forza di sinistra in parlamento e nella società sarà quella del colpo definitivo ai sindacati, all’associazionismo, ai corpi intermedi che sono la vera garanzia per le libertà democratiche. Sarà quella in cui famoso “piano di rinascita nazionale” di Licio Gelli troverà la sua definitiva attuazione grazie all’asse Berlusconi-Renzi. Inutile che vi incazzate. Basta leggerlo e confrontarlo con le leggi approvate negli ultimi cinque anni, compresa la riforma della Costituzione. Salta agli occhi la perfetta convergenza di intenti: passare dalla democrazia avanzata descritta dai padri costituenti a una moderna forma di Stato autoritario dove gli spazi di partecipazione si esauriscono nell’acclamazione del leader.

Ecco perché abbiamo brindato. Con la bottiglia delle grandi occasioni. Non è che quel documento e quel percorso frettolosamente delineato risolvano d’incanto tutti i problemi. Ce ne accorgeremo nelle prossime settimane. I guastatori professionisti non mancano, sono già cominciati i distinguo, le accuse di verticismo e via dicendo. Sono gli stessi che denunciavano la mancanza di iniziativa politica di questi mesi. Non ce ne curiamo troppo. Come non ci curiamo troppo dei mal di pancia di Pisapia e soci. Che restano ancora sospesi tra un’alleanza con il Pd e una convergenza nella lista di sinistra. Decideranno. Siamo gente paziente. Ci piace, però, la determinazione e la nettezza delle posizioni e delle dichiarazioni dei dirigenti delle varie formazioni politiche di queste ore. Si respingono le tardive sirene che arrivano, più per strategia della disperazione che per convinzione politica, dal Pd. Compresi gli accordi tecnici lanciati da quel Parisi che tanti danni ha prodotti negli anni passati. Si affermano con ritrovata convinzione i valori della sinistra. Scopriamo la forza e la determinazione di Pietro Grasso, sempre meno presidente del Senato e sempre più in campo con noi. La sua spigolosità, le sassate che lancia, i suoi toni sempre decisi. Niente più timidi pigolii.

Insieme, questa volta si può dire davvero. Attendiamo con ansia non tanto le assemblee del fine settimana 18-19 novembre, quando arriverà il via libera al documento dai “costituenti”, quanto l’assemblea del 2 dicembre. Perché ci siamo stancati di riunirci divisi, ognuno nella sua casetta. E poco importa se qualche maître à penser della borghesia cosiddetta illuminata parla di ritorno ai riti burocratici dei vecchi comunisti. Congressi locali, regionali, nazionali, comitati centrali, commissioni, discussioni infinite. Poco importa perché, gli editorialisti pensosi non lo sanno, quei riti sono il sale della democrazia. La partecipazione è questo: non pagare due euro e imbucare il nome di un leader scelto da altri. Democrazia è discutere faticosamente per ore in sale sempre fredde e troppo piccole. Trovare una sintesi, legittimare dal basso una linea politica e in base a quella indicare una classe dirigente. Magari fosse.

E proprio questo, esauriti i brindisi voglio provare a dire. I passi fatti in queste settimane sono soltanto l’inizio della soluzione del problema. La condizione necessaria, come dicono quelli bravi. Ora bisogna non solo arrivare alla condizione sufficiente, ma anche andare oltre la sufficienza. La dico chiara: in questo periodo ho avuto modo di contattare tanti compagni, molti dei quali tornano ad affacciarsi dopo anni di disimpegno. Il messaggio è chiaro: siccome ci siamo stancati di votare il meno peggio come ci succede da tempo, diamoci da fare. Siamo anche disposti a rimboccarci le maniche in prima persona, ma sappiate che se il risultato è il meno peggio, ce ne restiamo a casa. E allora, secondo me, abbiamo poco tempo per fare due cose.

La prima, essenziale: avviare un vero processo dal basso. Non bastano le assemblee provinciali di Mdp, di Sinistra italiana, dei “civici” del Brancaccio. Non bastano perché siamo sempre gli stessi. E non siamo sufficienti. Bisogna lanciare appuntamenti unitari in tutte le città, in tutti i quartieri. Tornare nei luoghi del conflitto, dall’Ilva occupata a Ostia Nuova regno dei clan mafiosi e della destra fascista. Tornare per restarci. Aprire sedi, luoghi di confronto, luoghi utili anche a “mettere insieme il pranzo con la cena”, come si dice a Roma. Troviamo le forme moderne delle pratiche antiche della mutua assistenza. Sporchiamoci le mani senza paura. I comitati per la sinistra unita (il primo nome che mi viene in mente) devono piantare bandierine ovunque.

La seconda: scriviamolo chiaramente, non si torna più indietro nelle nostre casette. Del resto, lo abbiamo visto, se ci si arma di buona volontà, ci si siede a un tavolo, si discute e si arriva a una posizione comune. La voglia di unità, il bisogno di ritrovarsi insieme prevale sulle ragioni che ci hanno diviso negli anni. Quello della lista deve essere il punto di partenza, non di arrivo. Non illudiamoci di chissà quale risultato mirabolante. Saranno tempi grami. Riportiamo una pattuglia agguerrita della sinistra in Parlamento e nelle Regioni dove si vota. Che siano le nostre punte avanzate, non il fine della nostra iniziativa politica, ma lo strumento che ci permetta di costruire un futuro meno gramo. Queste forche caudine delle elezioni possiamo superarle con un risultato dignitoso. Date le condizioni io sarei più che contento di un 6 per cento a livello nazionale. Ma stiamo bene attenti, che se lo scopo è solo quello di garantire qualche poltrona a un pezzo di ceto politico stanco e consumato, non solo non arriveremo al 6 per cento, ma manco al 3. Per questo dico: scriviamolo subito che indietro non torneremo. Poi troveremo le forme per arrivare gradualmente a un nuovo partito. Una federazione, forme di adesione collettiva, tematiche. Inventiamo senza paura, tanto peggio di così non si può fare? Ma l’obiettivo deve essere un partito. Si, partito. Di quelli con le sezioni, i congressi, e tutto il rito della democrazia. Saremo anche noiosi. ma per tornare a incidere nella società serve una forza organizzata, di massa, in grado di contrastare il ritorno della destra. Della destra fascista, non dei moderati.

Buona sinistra, buon vento a tutti (il riferimento velistico non è casuale, diciamo).

Il mio sogno impossibile: andare in pensione.
Il pippone del venerdì/30

Ott 27, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Premessa doverosa: non tiratemi per la giacchetta non parlo di Grasso né di possibili futuri leader della sinistra. Non era un sabotatore delle istituzioni quando ha subito la fiducia imposta da Renzi sulla legge elettorale, non è un eroe adesso che ha tratto le conseguenze lasciando il gruppo del fu Pd. Una persona coerente. Certo di questi tempi non è poco, ma lasciamolo in pace. Quello che succederà in futuro lo scopriremo.

Parliamo del nostro di futuro, di quello concreto di tutti noi. Non per personalizzare, ma la dico semplice: mobbizzato e costretto in un sottoscala da un’amministrazione pubblica che si riempie la bocca di parole come merito e capacità, ma poi premia la prontezza della lingua più che della penna, non ho davvero ambizioni di carriera. Chiedo solo di essere lasciato in pace e di poter arrivare serenamente alla pensione, senza troppe rotture di scatole.

Ecco, la pensione. Da ragazzo, ingenuamente, pensavo che ci fosse una specie di contratto con lo Stato: quando comincio a lavorare so che dopo un certo numero di anni, prefissato, avrò una pensione che sarà pari a una certa cifra, determinata da parametri precisi, predefiniti anche questi. Non è un regalo dello Stato generoso, badate bene, perché per tutti gli anni che uno lavora versa una determinata cifra ogni mese, in percentuale sul suo stipendio, che viene messa da parte proprio per pagargli la pensione quando sarà il momento.

Quando ho cominciato a lavorare c’era ancora il sistema retributivo, in sintesi la pensione era calcolata non su quanto effettivamente versato, ma sullo stipendio degli ultimi anni di attività. Potrebbe sembra un sistema ingiusto, ma era pensato per tutelare chi – e in Italia non erano e non sono pochi – prima di avere uno stipendio regolare con regolari versamenti dei contributi aveva lavorato per decenni in nero o con formule variamente precarie. Per non farla troppo lunga, da quel momento, le regole sono cambiate una decina di volte. Una volta si passa al sistema contributivo, la volta dopo si allunga il tempo che uno deve lavorare, poi ancora si inseriscono complicati calcoli da fare considerando sia l’età che il numero di contributi versati. Ora siamo arrivati all’età variabile. Ovvero l’età a cui si va in pensione cambia a seconda dell’aspettativa media di vita calcolata dall’Istat. Se si allunga l’età sale, se si accorcia resta la stessa. Un po’ come il prezzo della benzina, che aumenta sempre anche quando il costo del petrolio diminuisce. Come se uno scalatore arrivasse alla cime a gli aggiungessero ogni volta una decina di metri in più.

Il mio professore di demografia all’università ci guardava con occhi comprensivi e ci spiegava: “Voi siete la generazione più sfortunata, siete gli ultimi del boom delle nascite e quindi avrete difficoltà enormi a trovare lavoro, ma siccome dopo di voi il dato delle nascite crolla non andrete mai in pensione perché non si sarà una base di contribuzione abbastanza ampia per garantirla a tutti”. Le condizioni in realtà sono un po’ cambiate, c’è stata una forte immigrazione a colmare quel vuoto nelle nascite. C’è stata la globalizzazione, la rivoluzione informatica. Insomma il mondo si è rivoltato, ma quella profezia si sta tristemente rivelando esatta. Perfino ottimistica.

Sì, ottimistica, perché qui non solo non ti mandano in pensione, ma ti prendono anche in giro. Ti dicono che campi di più e quindi deve lavorare di più, senza per altro fare distinzioni: la statistica è quella, prendere o lasciare. Poco importa se poi tu, personalmente, stai bene o stai male, hai fatto per una vita il minatore piuttosto che quello che conta il passaggio dei gabbiani davanti al faro di Malibù. Niente pensione.

Poco importa se il tuo posto di lavoro potrebbe essere occupato da uno di quei giovani per cui l’occupazione resta un miraggio. Poco importa se sei rincoglionito e alcuni lavori non puoi proprio sostenerli per impossibilità fisica o intellettuale. Si lavora fino a 67 anni. Per ora. Quando arriverete a 67 anni ne riparliamo.

Io credo sia una vera e proprio truffa, alla quale dovremmo tutti ribellarci. Ma non con uno scioperetto, no, una ribellione vera. Tutti davanti al Parlamento fino a quando non cambiano quella norma infame. Tutto il paese bloccato, senza fasce di garanzia, precettazioni o limiti vari. Come fanno nelle altre nazioni europee. Quando c’è da protestare si protesta. Senza chiedere il permesso.

Per oggi la finisco qui. Sono un po’ più breve del solito, mi perdonerete. Ma l’età avanza e anche il pippone ne risente. Del resto anche i vostri occhi non sono più quelli di una volta.

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