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Si parte: forse è la volta buona.
Il pippone del venerdì/60

Giu 15, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

E in un caldo pomeriggio di metà giugno, all’improvviso, ti arriva una mail da Grasso con scritto “Finalmente!” e poi le date per il percorso costituente del partito. Chi ci sta, ci sta. Permettetemi una polemica preventiva: caro Grasso finalmente lo possiamo dire soltanto noi che lavoriamo da anni per arrivare a un partito nuovo, non chi ha esercitato poco e male la sua funzione di leader. Ora lavoriamo tutti insieme, tutti soldati semplici, nessun generale. Si strappino i gradi frettolosamente appuntanti sulle divise di ufficiali improvvisati e si torni a discutere da pari a pari. Tutti.

Leggo che c’è chi parla di accelerazione, di fretta eccessiva, leggo di moniti a non cristallizzare una classe dirigente che colleziona sconfitte e basta. Non si capisce bene di quale accelerazione si parli. Prima del voto avevamo detto, tutti insieme, dal 5 marzo Liberi e uguali diventerà un partito. Non è che abbiamo detto: dal 5 marzo, se vinciamo le elezioni si fa un partito altrimenti ci si scioglie. Ora siamo in ritardo, altro che accelerazione. Siamo stati fermi troppo a lungo e bisogna ripartire. E non mi sembra che un percorso che prevede un congresso fra sei mesi sia da giudicare frettoloso. Anzi. Fino a ottobre si parlerà solo di idee, senza nominare gruppi dirigenti, senza impelagarsi in oziose riunioni dove ci si scanna su un nome o su un altro. Ed è bene che sia così, magari in questa maniera facciamo emergere chi ha idee nuove e non i soliti noti legati a note cordate.

Di un partito della sinistra poi – sapete come la penso – c’è bisogno. Un partito nuovo, senza dubbio, che riparta dalle radici socialiste e faccia una seria analisi di quanto è successo negli ultimi 25 anni, forse anche 30, un partito che ripensi le forme della partecipazione, che sia promotore di una nuova sinistra anche a livello europeo. Tutto vero. Tutte questioni aperte. Scogli da superare. Non so se riusciremo a trovare una sintesi fra le diverse posizioni di partenza. Di una cosa sono sicuro però: se il dibattito resta chiuso fra i sedicenti gruppi dirigenti di Leu non ne usciamo davvero. Io resto convinto che più si scende dal vertice e più le differenze si sfumano. Tutto sta a costruire occasioni vere di confronto.

Su un punti sono d’accordo con i critici del processo costituente (e su questo argomento, tra l’altro, si assiste a strane convergenze): Liberi e Uguali è insufficiente. Questa affermazione, a dire il vero, è un po’ la scoperta dell’acqua calda. Lo dicono da sinistra quelli che rimpiangono il Brancaccio, lo dicono da destra quelli che auspicano ancora il big-bang del Pd per favorire una nuova articolazione delle forze in campo. Fra un po’ finisce che torna di moda anche Pisapia. Nessuno pensa che sia sufficiente sommare Sinistra italiana e Mdp per riempire il vuoto che c’è nell’offerta politica. Tra l’altro in politica le somme spesso non funzionano, il totale è inferiore agli addendi.

Per me però Liberi e uguali è il nucleo da cui ripartire. Anche per uscire da quel vizio che ha ucciso la sinistra cosiddetta radicale da Bertinotti in poi: tutte le aggregazioni messe in campo alla ricerca di costruire una “massa critica” che riuscisse a incidere nella società italiana si sono sciolte come neve al sole anche quando hanno avuto un certo successo. Una sorta di trasposizione in politica della tecnica della tela di Arianna. Si tesse di giorno e poi si disfa tutto durante la notte. E invece ora è tempo di tessere. Non serve costruire fortini chiusi nei quali asserragliarsi, ma costruire un tetto, una casa con porte e finestre spalancate. Una casa aperta, insomma, anche a chi al momento non se la sente di mettersi in gioco un’altra volta.

E il momento è proprio questo. Intanto perché le prossime scadenze elettorali sono lontane. Alle Europee, tra l’altro, si vota con un sistema proporzionale sostanzialmente puro e potremo mettere in campo la nostra proposta senza il ricatto solito del voto utile. Un risultato positivo in quella occasione, insomma, potrebbe essere un mattone importante, dobbiamo far vedere che il voto a sinistra è di per sé un voto utile.  Ma anche perché il patto Salvini – Di Maio sta creando uno spazio importante che non va lasciato vuoto. Le prime settimane di questo governo hanno completamente oscurato i temi cari al Movimento 5 stelle, penso al reddito di cittadinanza, ma anche ai beni comuni. Tutti temi “di sinistra”. E invece si è parlato di condoni, di porti chiusi per i rifugiati, di meno tasse per i ricchi. Un governo il cui asse appare fortemente schiacciato sulla destra estrema, insomma, neanche su quella moderata. E un governo di questo tipo inevitabilmente svelerà l’inganno elettorale che ha attratto tanta parte dell’elettorato storico della sinistra. Un primo effetto lo abbiamo visto con il turno amministrativo di domenica scorsa. Ora, anche scontando una difficoltà dei 5 stelle rispetto a questo tipo di elezioni, nelle quali il loro scarso radicamento sul territorio pesa sempre in maniera negativa,  il loro risultato è quanto meno deludente. Un dato è evidente, insomma: poi magari i ballottaggi non andranno tutti a finire bene, la sinistra è ancora troppo “stordita” dalla botta del 4 marzo, ma dove si sono presentate coalizioni di tipo nuovo, con candidati credibili, di natura civica e di sinistra, queste sono pienamente in partita, come si dice in gergo sportivo. Non c’è più la sensazione, come  è successo nelle ultime tornate che la contesa sia fra destra e grillini.

Non c’è ancora, come è ovvio, un ritorno dell’elettorato in massa. Difficilmente i voti passano da un partito all’altro: quando hai una delusione e cambi schieramento politico hai bisogno di un periodo di “decantazione”. E quindi cresce l’astensione. A Roma il fenomeno è ancora più evidente, perché a ragioni di politica generale si somma una forte delusione per il disastro dell’amministrazione locale. Ma anche altrove, a macchia di leopardo, vediamo la sinistra tornare a vincere.

Due notazioni rivolte ai distinti sostenitori della “purezza ideologica”. Dove Leu non si presenta unito non esiste. Non è che si hanno risultati deludenti, sono proprio inesistenti. Le liste di Si, di Mdp, di Possibile, difficilmente superano l’1 per cento. Le liste di Liberi e uguali, pur scontando la nostra scomparsa post 4 marzo, non solo esistono, ma arrivano spesso a percentuali decisive per la vittoria e eleggono consiglieri comunali. Io sono mai stato un fans del “partito degli amministratori”, ma un partito nelle istituzioni ci deve pure stare, altrimenti non sei un partito ma una bocciofila. L’altra notazione è che continua il momento disastroso del Pd. Le vittorie per la sinistra arrivano dove più forte è il profilo civico della coalizione e meno si sente la puzza di Renzi. Basta pensare a Trapani. Il tutto il sud le liste dei democratici non arrivano al 10 per cento. Un ulteriore segno che quella proposta politica ormai non attrae più l’elettorato.

C’è un doppio vuoto, insomma. E in politica è bene non lasciare spazi, perché se non li copri tu lo farà qualcun altro. E’ bene che Leu acquisti forza, protagonismo, che sia presente nel dibattito politico. Senza reticenze, dicendo cose chiare e semplici. Certo, tagliando con il metodo veristico utilizzato in campagna elettorale. Certo, mettendo in campo forze nuove, anche ma non solo dal punto di vista anagrafico. Certo, trovando una sintesi fra le posizioni in campo e ponendo basi forti per essere autonoma e non andare a ricasco di altri.

I dubbi e le cautele ci stanno tutti. Ma il tempo è questo, altro che fretta, è tardi.

Una sinistra votata al suicidio.
Il pippone del venerdì/58

Giu 1, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

A raccontare questa settimana c’è da farsi venire il mal di testa. A raccontare questa settimana da sinistra c’è da diventare scemi. Il balletto di presidenti incaricati, governi che saltano in dirittura d’arrivo, veti da Berlino e via dicendo, ha di per sé del surreale. Abbiamo assistito, per la prima volta nella storia della Repubblica, a un capo dello Stato che interviene in diretta per spiegare che ha detto no a un ministro proposto dal presidente del Consiglio incaricato. E ha detto no per ragioni di divergenza politica, non di inadeguatezza acclarata come avvenuto in passato.

Complice anche la fine del campionato tutto questo è diventato chiacchiera da bar, con schiere di costituzionalisti del fine settimana schierati sull’uno o sull’altro fronte, pronti a brandire come armi gli articoli della costituzione. Ci è mancato soltanto il Var. In pochi hanno notato il precedente creato da Mattarella, secondo me parecchio scivoloso, perché da adesso i futuri presidenti della Repubblica potranno citarlo per rifiutare un ministro sgradito per divergenze politiche. E non provate a citare situazioni del passato che non hanno nulla a che vedere con il caso in questione. Quando Berlusconi propose Previti come ministro della Giustizia, non c’era un problema di linea politica, c’era l’assurdità di un presidente del Consiglio che voleva mettere in quella posizione il suo avvocato. Insomma, il presidente Mattarella, diciamola così, ha usato i suoi poteri fino al limite estremo. Sul fatto che l’abbia o meno superato i pareri dei costituzionalisti, quelli veri, non sono concordi.

Comunque sia, alla fine il governo lo abbiamo. Manca la fiducia del Parlamento, ma, vista anche l’astensione della Meloni, pare un passaggio abbastanza scontato. Diciamo pare perché ormai le sorprese sono quotidiane. Mattarella ha ingoiato Savona, Salvini ha ingoiato il fatto che non sia ministro dell’Economia, ma abbia una posizione di minor rilievo. Pari e patta, avanti tutta. Altro record della settimana: abbiamo avuto un presidente del Consiglio che viene incaricato, rimette l’incarico e alla fine ne riceve un secondo nel giro di tre giorni. Con il povero Cottarelli che prima viene messo in campo per portare il Paese alle elezioni cercando di evitare traumi ulteriori, poi viene di colpo rimesso in panchina. Con Palazzo Chigi, insomma, l’uomo dei tagli che passò un anno  a studiare i conti e poi venne esautorato di colpo da Matteo Renzi, continua ad avere un rapporto difficile. Se fossimo su Facebook si troverebbe in una “relazione complicata”.

Cosa farà davvero questo governo, al di là delle parole del famoso contratto, non è dato sapere. L’asse appare molto spostato a destra, fatto salvo il reddito di cittadinanza che è il vero asso nella manica dei 5 Stelle. Hanno ingoiato di tutto pur di inserirlo nel programma. Resta da capire cosa faranno i vertici europei che in questa settimana hanno guidato la partita a colpi di spread. Al fatto che le fluttuazioni fossero opera del libero mercato non ci credono neanche i bambini. Si è trattato di una vera propria direzione operata dalla Banca centrale europea a colpi di acquisti (e soprattutto di mancati acquisti) di titoli italiani. A occhio, per dirla sinceramente, da questa commistione di diversi populismi, non arriverà nulla di buono per questo martoriato Paese. Azzardo comunque una previsione: vista la gestazione che, usando un eufemismo, si può dire travagliata, secondo me questo esecutivo durerà a lungo. Scordiamoci di avere occasioni di rivincita (si fa per dire) a stretto giro di posta.

Sia pur in estrema sintesi, è stata una settimana molto agitata, dal punto di vista istituzionale. Dal punto della sinistra, invece, è stata l’ennesima dimostrazione della nostra accentuata vocazione al suicidio. Abbiamo assistito a una bella e partecipata assemblea nazionale di Liberi e uguali, nella quale Grasso con il plauso della quasi totalità dei presenti, ha rilanciato il progetto. Con tre caratteristiche: una forza autonoma, che metta al bando i verticismi, con un forte rinnovamento – anche generazionale – nel gruppo dirigente. Sono passate 24 ore e ci siamo ritrovati in televisione e sui giornali Bersani e D’Alema a spiegare la linea (per altro non esattamente la stessa linea), i parlamentari chiusi per tre giorni in riunioni segrete per decidere il da farsi, la maggioranza di loro pronta a votare la fiducia a Cottarelli (sarebbero stati gli unici o quasi), un sostanzioso gruppo pronto ad accettare qualsiasi tipo di alleanza con il Pd, fino al listone unico del “fronte repubblicano” proposto da Calenda. Ultima assurdità: dopo tre giorni di silenzio ufficiale, rotto soltanto da improvvide iniziative di singoli, arriva il grande rilancio politico. Una lettera in  cui si invitano le forza progressiste a costruire l’unità in caso di elezioni. Avranno posto precisi paletti, immagino: sui punti qualificanti del programma, sul leader. Manco per niente. Vaghi richiami alla discontinuità. Tra l’altro un appello arrivato fuori tempo massimo, quando ormai era certo il ritorno al governo cosiddetto gialloverde, e ovviamente ignorato del tutto dalla stragrande maggioranza dei media. Poche ore prima sugli stessi media era addirittura circolato lo schema che aveva in mente il Pd: una lista di centro capitanata da Calenda, una di sinistra guidata dalla Boldrini, i democratici al timone di questo nuovo campo progressista, con Gentiloni, quello degli otto voti di fiducia sulla legge elettorale, a fare da sintesi. Insomma, lo schema che voleva Pisapia un anno dopo. In tutto ciò Renzi irride all’irrilevanza del nostro 3 per cento.

Taglio corto e me ne vado al mare. Con questi non andremo mai da nessuna parte. E’ evidente come la loro strategia non abbia nulla di politico ma sia orientata soltanto alla mera conservazione del loro posto “di lavoro”. Neanche è possibile parlare di posto di potere, perché di potere non ne hanno alcuno. Mirano soltanto a conservare lo scranno in parlamento. E questa volta, nel diabolico piano dei nostri, non sarebbe servita neanche la base. Bastava essere piazzati in qualche collegio sicuro, del voto al proporzionale non si preoccupava nessuno. Tanto a superare lo sbarramento del 3 per cento non sarebbero mai arrivati. Poi si sarebbero coperti parlando di emergenza democratica, di difesa delle istituzioni, di fase cambiata. Balle.

Scampato il pericolo a breve termine, verrebbe da chiedersi cosa fare adesso, non tanto per costruire una forza politica saldamente autonoma e ancorata a sinistra, ma almeno per liberarsi da questi quattro straccioni. Io resto convinto che l’unica strada sia costruire Liberi e Uguali, fare rete, mettere radici nei territori e poi sbattere fuori l’intero gruppo dirigente che da 30 anni non ne azzecca una, io direi a calcioni ma va bene tutto, anche un cordiale “prego, accomodatevi in strada”.

Sabato 26 maggio: non facciamo scherzi
. Il pippone del venerdì/56

Mag 18, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Questo fine settimana si avviano a conclusione due soap opera francamente melense e stanche. Sabato ci sarà l’assemblea nazionale del Pd, dove si annunciano fuoco e fiamme fra i renziani e gli altri. Si dovrebbe decidere chi guiderà al partito fino al congresso. Il fatto che il candidato dei non renziani sia quello che alle scorse primarie si era candidato in tandem con l’ex segretario fa parte dei paradossi di questo partito. Ha ragione Rosy Bindi: la cosa migliore che potrebbe fare è sciogliersi, dando il via a un processo di riaggregazione della sinistra su basi diverse. Siccome è l’unica cosa sensata da fare non la faranno. Facciamocene una ragione una volta per tutte. Alla fine, malgrado le annunciate conte, rese dei conti e via dicendo, si accorderanno secondo i voleri di Renzi.

L’altra storia che si avvia all’epilogo è quella del governo. Siamo ormai a 74 giorni dal voto, Lega e 5 stelle hanno raggiunto un accordo politico, si tratta sul nome del presidente del Consiglio. Se ne parlerà, a quanto si vocifera, lunedì. Il paradosso è che si cerca un nome dove aver trattato sul programma. Come se fosse una specie di notaio e non una delle figure più importanti del panorama politico. Una sorta di maggiordomo disponibile a prestare la propria faccia a idee altrui. Lo troveranno? Come finirà non è davvero dato saperlo. Salvini e Di Maio ci hanno abituato a sorprese continue. Temo che non saranno positive.  I contenuti del cosiddetto “contratto” non fanno ben sperare.

C’è una terza storia che si avvia se non alla conclusione quanto meno a un punto di chiarimento. Ed è quella di Liberi e uguali, ovvero del progetto di un nuovo partito della sinistra che avrebbe dovuto formarsi dopo le elezioni. Dopo un paio di mesi di silenzio si è fatto vivo a sorpresa Pietro Grasso: ci vediamo tutti a Roma sabato 26, non mancate. Per fare cosa non è dato saperlo: discuteremo insieme su come proseguire il percorso politico. Ci sarà un documento, un ordine del giorno? Mistero assoluto. Secondo me non lo sanno neanche loro. Si tratta, lo dico senza giri di parole, di una convocazione tardiva, perché siamo scomparsi dalla scena per oltre due mesi, ma affrettata al tempo stesso. Non è, infatti, di un’assemblea eletta, rappresentativa (si devono essere resi conto che i delegati nominati per l’appuntamento di dicembre appartengono a una diversa era geologica), ma aperta a tutti quelli che vogliono partecipare. E dunque non sarà un luogo in cui si prenderanno decisioni vincolanti.

Serviva un processo differente, che partisse dalle assemblee locali, capovolgendo la piramide e arrivasse a un’assemblea nazionale davvero rappresentativa. Ancora una volta la democrazia e il confronto vero fanno paura a un gruppo dirigente che guarda con preoccupazione anche alle proprie ombre. Si è preferito discutere separatamente nei diversi partiti, in maniera da alimentare le divisioni in maniera artificiale. Però questo abbiamo e tocca farselo bastare. Sarò dunque breve e spiegherò cosa mi aspetto da questo appuntamento messo insieme alla carlona.

Tre cose vanno fatte secondo me: per prima cosa i dirigenti chiariscano cosa pensano, senza tatticismi. Se vogliono davvero procedere verso la costruzione di un partito unitario, che vada oltre il ristretto orizzonte attuale, bene. Altrimenti, visto che alla base la volontà c’è, si facciano da parte. Devono finirla con questo assurdo gioco del cerino, in cui tutti dicono che la strada è tracciata e poi tifano perché avvenga qualcosa che interrompe il percorso a patto che la responsabilità sia di altri. In questi due mesi sono stato a molte assemblee locali, ho letto i resoconti di altri appuntamenti. Non ho sentito nessuno dire: torniamo indietro, chiudiamoci nelle nostre formazioni politiche di appartenenza. Anche perché molti dei partecipanti sono “esuli”, faticano a inquadrarsi nei tre partitini che hanno dato vita a Leu.

Chiarito il primo punto, si potrebbe passare a fare un elenco dei nodi da chiarire: analisi della situazione attuale, quadro di valori in cui collocare il nuovo partito, la casa europea da scegliere, la forma da assumere. Sono questi i punti su cui si costruisce una forza politica unitaria e autonoma, che non dipenda dalle decisioni che prenderà il Partito democratico. Siamo d’accordo, ad esempio, su una critica serrata sulle scelte compiute non nell’ultima legislatura ma – almeno – a partire dagli anni ’90 del secolo scorso? Siamo d’accordo sull’esigenza di costruire un nuovo orizzonte strategico per la sinistra a livello non solo italiano?  Senza un quadro di valori nuovo, che risponda alle esigenze della società liquida continueremo a farfugliare soluzioni estemporanee e non riusciremo a rappresentare un’alternativa credibile alla destra. Né tanto meno a tornare a parlare con quelle classi sociali più deboli che mai nella nostra storia sono così lontane da noi. Ma la sinistra che prende i voti solo dei ricchi e snobba gli operai è destinata, giustamente alla scomparsa. Quale forma vogliamo dare al nuovo partito? Anche qui, non servono risposte tese unicamente a preservare gruppi che ormai dirigono soltanto loro stessi. Federazione, confederazione, partito pesante. Tutte definizioni rigide che hanno poco senso nell’era liquida e non si calano nella realtà delle nostre città, dove serve un partito che “faccia società” e non si ponga solo la questione della rappresentanza. Dobbiamo porci, insomma, l’obiettivo di riannodare i fili in un mondo dove la solitudine digitale è ormai la regola. Tornare alle nostre origini, a forme mutualistiche, a iniziative che non solo descrivono la società che vorremmo ma la creano un pezzo alla volta. In questo quadro io resto dell’idea che la soluzione siano forme di adesione differenti al partito: singole o collettive, allo stesso tempo, lasciando aperte strade diverse per coinvolgere associazioni culturali, politiche, sindacali.

Terza questione da affrontare: come e in quali tempi si sciolgono questi nodi. Diffido per abitudine di chi lancia appelli a “evitare derive organizzativistiche, perché non ci servono nuovi contenitori altrimenti”… e via con un profluvio di parole senza senso alcuno. Una casa, solida e aperta al tempo stesso, ci serve eccome. Perché l’assenza di una struttura ben definita ha dato luogo a questa situazione di delega in bianco a gruppi parlamentari che a loro volta hanno teso esclusivamente alla propria sopravvivenza. Non mi aspetto ovviamente che l’assemblea del 26 ci dia tutte le risposte, ma, appunto, che ci indichi almeno i percorsi e i luoghi in cui darle. Se si individua un percorso chiaro e partecipato lo spazio in cui muoversi non sarà angusto, altrimenti, almeno da parte mia, non darò la mia disponibilità a soluzioni pasticciate e finte. Io credo, dunque, che dopo aver definito le domande a cui rispondere, l’assemblea del 26 maggio sia chiamata a dire quali sono i luoghi in cui si danno le risposte a quelle domande. E credo ancora che non sia possibile più dare deleghe in bianco a nessuno. Bisogna ripartire, lo dico per l’ennesima volta, dalle città, dai quartieri. Con assemblee aperte, in cui ci si confronta si trovano le strade unitarie. E ci si confronta non solo con chi c’era il 4 marzo, ma soprattutto con chi è rimasto a casa. Ci servono luoghi diversi in cui intrecciare discussioni “alte” sui valori, con la necessaria quotidianità dell’azione politica.

Ecco, sembrano cose semplici da fare. Ma non sono ottimista. Mi sembra che a oggi prevalgano ancora i tatticismi che ci hanno ridotto ai minimi termini. L’assemblea non ha una traccia, si prefigura come l’ennesima seduta di autocoscienza. Spero di sbagliarmi, ci vediamo il 26.

Azzeriamoci tutti per costruire la sinistra che parla al futuro. Il pippone del venerdì/49

Mar 30, 2018 by     1 Comment     Posted under: Il pippone del venerdì

Mi sono riproposto, nei giorni scorsi, di non esprimere una posizione su quanto successo nel Lazio, in particolare sulla travagliata – diciamo così – formazione della giunta regionale. E mi atterrò a questo mio proposito. Perché credo che la discussione su come sia stata condotta questa partita e sugli esiti (tra l’altro mentre è ancora da scrivere la parola fine) vada fatta nelle sedi che abbiamo a disposizione e non con interviste, post e articoli sui blog. Dico questo non perché creda alla vecchia disciplina di partito che voleva tenere riservate le discussioni. Nel mondo della comunicazione continua questo non è davvero più possibile. Ma perché credo che ci sia un tempo per tutto. Questo, per me, è quello della riflessione interna. Verrà quello dei bilanci pubblici. Alimentare il chiacchiericcio smodato di questi giorni non fa bene a nessuno.

Su tutta questa vicenda, però,  alcune cose mi sento di dirle, al di là della stretta attualità. La prima è l’inadeguatezza complessiva della classe dirigente della sinistra. Non parlo solo di Liberi e Uguali. Mi pare che la lezione del 4 marzo non sia stata ben compresa. E’ stato un voto che ha premiato chi si è presentato come alfiere del cambiamento. Non lo abbiamo capito prima, continuiamo a fare finta che nulla sia successo adesso, insistendo nelle pratiche nefaste che ci hanno ridotto in questo stato. Il Lazio è solo la spia più evidente. La seconda è che paghiamo, come è successo in tutta la campagna elettorale, la mancanza di un processo decisionale riconosciuto da tutti. Questo, prima delle elezioni, non ci ha permesso di arrivare all’accordo con Zingaretti in maniera chiara e lineare. Non ci ha permesso di indicare un capolista alle regionali. E adesso non ci permette di indicare un assessore condiviso. In questa situazione si fanno largo le furbizie, i personalismi, i “tengo famiglia”, le autocandidature, i protagonismi eccessivi di chi rivendica di “aver preso i voti”. C’è una zona grigia favorita dal non avere un processo democratico interno a Liberi e Uguali dove le vecchie pratiche della politica, del sottogoverno, del clientelismo, stanno purtroppo trovando terreno fertile.

Tutto questo avviene fra lo sconcerto dei militanti che hanno creduto nel progetto politico di Liberi e Uguali e hanno continuato a crederci anche dopo il non esaltante 3 virgola qualcosa per cento. Anzi, la dico tutta, questa vicenda, se non governata in maniera sapiente è anche peggio della bocciatura elettorale. Perché se siamo comunque sopravvissuti in una partita tutta giocata in trasferta, oggi rischiamo di allontanare definitivamente proprio quella base militante che ci ha permesso (a stento) la sopravvivenza. Per questo, innanzitutto, non solo sono rimasto sostanzialmente in silenzio, ma inviterei anche gli altri, soprattutto quelli che si (auto)definiscono dirigenti, a fare altrettanto. Mi permetto solo due domande ulteriori: ai cittadini del Lazio interessa qualcosa se l’assessore al Lavoro è di Sinistra italiana o di Articolo Uno? Ma se ci mettessimo uno bravo? Non sarebbe, infine, il caso di coinvolgere anche i compagni di Possibile nella discussione?

Nel Lazio una qualche soluzione, speriamo dignitosa, si troverà. Ma i danni rischiano di non essere riparabili. E in questo quadro il percorso nazionale delineato dagli organismi dirigenti dei vari partiti di origine non pare risolutivo. Anzi. Io credo che ripartire da un’assemblea generale dei delegati di dicembre sia un altro errore grave. L’ho già scritto e lo ripeto. Perché sono stati eletti con una logica pattizia, in base a quote decise non si capisce bene in base a cosa, senza un reale processo di coinvolgimento dei territori. Tra l’altro, mi permetto di segnalare come sia una platea vecchia. Nel frattempo ci sono state parecchie defezioni, come molte altre persone si sono aggiunte in questi mesi di campagna elettorale. Voler far partire un progetto davvero nuovo da un’assemblea morta è un controsenso che rischia di minare alla base il processo che si vuole mettere in campo. Sempre che si voglia davvero mettere in campo.

Io credo che un partito nuovo della sinistra serva. Ma è utile soltanto se passa da un salutare atto di azzeramento. Vanno sciolte tutte le organizzazioni esistenti, mantenendo in carica gli organismi eletti soltanto per l’ordinaria amministrazione e gli aspetti organizzativi. Facciamola così la fase costituente, senza alcuna figura che si arroghi il diritto di dirigere qualcun altro.

E allora come si fa? La mia proposta è quella di un regolamento di poche righe. Assemblee locali convocate dai coordinamenti comunali o di quartiere nelle città più grandi, si eleggono i delegati alle assemblee provinciali in base a una media ponderata del numero degli abitanti e del numeri dei voti alle politiche. Le assemblee provinciali fanno la stessa cosa per il livello nazionale. Contestualmente le stesse assemblee locali eleggono dei comitati provvisori per promuovere il tesseramento alla nuova formazione politica che deve partire contestualmente e gestire la fase transitoria. La nuova assemblea nazionale così eletta elegge tre comitati: un comitato organizzativo provvisorio, che pensa alla gestione quotidiana del partito un comitato per la forma partito e lo statuto, un comitato per il manifesto dei valori. Ci si dà un tempo preciso, poi i documenti elaborati vengono messi in discussione, con lo stesso procedimento partendo dalle assemblee locali, che nel frattempo devono essere diventate assemblee degli iscritti.

La precondizione perché tutto questo abbia successo è che le assemblee locali siano davvero aperte. A quelli che hanno fatto la campagna elettorale, agli elettori di Leu, ma anche a chi ha scelto, a queste elezioni, altre formazioni elettorali del centro sinistra. Anzi, io rivolgerei da subito un appello anche a Potere al popolo a partecipare a questo processo. Coinvolgiamo tutti quelli che ci stanno, non solo singoli. Anche i sindacati, le associazioni, i comitati dei cittadini, le reti cooperative. Torniamo a dare importanza a quei livelli intermedi che una idea sbagliata di società tende a cancellare. Ha ragione chi dice che serve un partito che “faccia società” non solo politica. Nel periodo transitorio si deve pensare a radicare il partito: sezioni territoriali, diffusione sul web, reti e riferimenti sociali da ricostruire da zero.

Conosco le critiche a questa idea di una fase costituente “senza la rete di protezione”. Ci sarà chi dirà: “No, io prima di sciogliere il mio partito devo sapere dove si va, quale direzione si prende”. Stolti. Il vostro partitino non esiste più, è solo un ostacolo: siete ostaggi di qualche dirigente narciso che si specchia e si piace da solo. La direzione non ce la può indicare nessuno, la dobbiamo costruire insieme.

Io credo che ci siano tutte le possibilità per tornare a svolgere un ruolo determinante per la democrazia nel nostro paese. Io nel nome sarei chiaro, lo chiamerei Partito socialista dei lavoratori. Basta con i riferimenti generici. Il nostro campo è il socialismo, ovvero il superamento del capitalismo. Il nostro blocco sociale sono i lavoratori.

Sarà, insomma, anche un azzardo, ma adesso in mano abbiamo soltanto un pugno di mosche. Prima di tornare nel bosco ci voglio ancora provare e come me tanti altri. Proviamo a farlo insieme. Grasso, Speranza, Civati, Fratoianni diano un segnale, ci dicano: “Cari compagni, abbiamo capito la lezione, ora si fa sul serio”. Noi ci siamo.

Aspettando un Godot che non arriva mai.
Il pippone del venerdì/48

Mar 23, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

La sinistra italiana senza essere vittima di una sorta di coazione a ripetere sempre gli stessi errori. E la gravità della situazione attuale non pare essere in grado di provocare un qualche sforzo se non altro di originalità. Ora, lo stato attuale dell’arte è più o meno questo. Tutti danno la colpa a tutti del pessimo risultato del 4 marzo. Quelli di Sinistra italiana dicono che la colpa è di quelli di Mdp, visti troppo in continuità con il Pd di Renzi, quelli di Mdp rispondono che se non c’erano Grasso, Bersani e soci in prima fila manco al 3 per cento si arrivava. Quelli di Possibile che dicono che la colpa è di tutti (gli altri) e si chiudono in un narcisistico quanto paradossale congresso. Poi c’è anche Tomaso Montanari – che ormai sta sulle palle un po’ a tutti – il quale dal canto suo spiega che l’unico che ha avuto ragione fin dall’inizio è proprio lui. Avevamo giusto bisogno di un essere perfettissimo e infallibile, ma incompreso

La novità, almeno a girare un po’ per le assemblee che si stanno svolgendo a Roma, è questa: il gruppo dirigente è tramortito, se non altro dal fatto che gran parte di esso si deve cominciare a porre il tema di come mettere insieme il pranzo con la cena. Sono i militanti, i quadri, che provano a rianimarli un po’ spiegando ai dirigenti che l’unica cosa da fare (sperando che non sia troppo tardi) è procedere insieme verso un partito nuovo. Parlo di novità perché, di solito, dopo le batoste elettorali, avviene esattamente il contrario: c’è scoramento nella base e i dirigenti provano a tenere insieme i cocci.

L’errore che sembriamo costretti a ripetere, invece, è quello di continuare a parlare di Pd, di centrosinistra, di alleanze. Speranza, Bersani, lo stesso D’Alema che pure è più defilato. Sembra di sentire un disco rotto: abbiamo sbagliato in campagna elettorale, siamo sembrati troppo in continuità, troppo vicini al Pd. E il tracollo di Renzi ha travolto anche noi. Del resto basta vedere i dati delle elezioni per vedere quanto il “pozzo” avvelenato dall’ex leader rignanese sia stato letale tanto al Pd quanto a Liberi e Uguali. I numeri – sia pur nelle rispettive dimensioni – viaggiano in parallelo. Dove “tiene” il Pd va benino anche Leu (centri storici, quartieri medio alti delle grandi città). Dove il Pd crolla, Leu tende allo zero (ceti popolari, quartieri delle periferie estreme). Nulla che non fosse già successo, sono soltanto le dimensioni differenti rispetto al passato.

Insomma, comunque sia, abbiamo capito cosa non funziona. Su questo sono tutti d’accordo, sia pure ognuno con accenti differenti. E allora che si fa? Si continua nell’errore, mi pare ovvio. E giù interviste in cui si parla soltanto del Pd come baricentro di un nuovo centrosinistra. Mi sembra che in molti (troppi) stiano un po’ guardando cosa succede dal buco della serratura, nella semplice attesa che il Pd si doti di una leadership più presentabile per rientrare armi e bagagli nella vecchia casa. Siamo alle solite, insomma. Quando la sinistra è in difficoltà si mette seduta sotto l’albero aspettando un nuovo Godot. Questa volta si chiama Nicola ZIngaretti, unico vincitore (a metà) in questa tornata elettorale. Prima era stato Prodi, poi Rutelli, poi Veltroni. Poi ancora Renzi. E ogni volta tutti a chiedersi: sarà quello buono, sarà quello che ci farà vincere?

Per me – lo so sono noioso, ma questo pezzo si chiama “il pippone”, deve essere noioso – tutto comincia dalla sciagurata svolta della Bolognina. Quando abbiamo buttato a mare l’esperienza più forte della sinistra europea alla ricerca di una irraggiungibile verginità. Per me l’errore resta radicato in quello sbaglio culturale: l’idea che basta un nuovo contenitore e un nuovo simbolo per riuscire a superare i momenti di difficoltà. Grazie all’abbaglio di Occhetto e soci ci ritroviamo in questa situazione: venuto meno l’ancoraggio ideale, piano piano si è sgretolato tutto. L’organizzazione, la militanza, il senso di comunità. E continuiamo a perseverare nell’errore, cercando soltanto il leader in grado di tenere insieme la baracca e farci vincere. Senza avere l’umiltà di ripartire dai fondamentali, da quella ricerca che abbiamo abbandonato. Senza chiedersi più a cosa ci serve vincere.

Anche Liberi e Uguali nasce con la stessa tara genetica. Un quadro di valori confuso, lo scimmiottamento di procedure fintamente democratiche e in realtà soltanto pattizie, un presunto leader scelto a tavolino, doveva essere Pisapia, alla fine siamo andati su Grasso, visto che il primo era un agente del nemico. Basta che non vengano dalla tradizione comunista, verrebbe da dire. Il solito complesso di inferiorità che ci porta a scegliere il Papa straniero. Per il resto Leu era solo un contenitore. Di cosa? Questo lo vedremo dopo, ci avete spiegato.

Ecco, dopo è adesso. Mi pare di capire che si delinea un percorso di questo tipo: si fa una grande assemblea nazionale, con i famosi 1.500 delegati eletti dalle riunioni provinciali. Lì si discute e si approva (ancora una volta un finto esercizio democratico) un documento con carta dei valori e tappe del processo costituente. Chi lo scrive questo documento non è dato saperlo, si immagina siano i responsabili delle forze politiche che hanno dato vita a Leu, più Grasso. Una sorta di segreteria ultraristretta. Avrei preferito che si procedesse, per una volta, al contrario. Va bene la traccia decisa a livello nazionale. Ma poi arricchiamola e facciamola diventare “carne viva” in un confronto quartiere per quartiere. Troviamo sedi, apriamole, facciamolo vivere con un intreccio di vertenze locali, servizi utili ai cittadini e grandi questioni. Raccontiamoli questi quartieri, i loro problemi. Conosciamoli.

L’assemblea nazionale dei 1.500 è un residuo. E’ stata eletta in base a quote stabilite non si sa bene in base a cosa. Ognuno ha indicato i suoi. La lista non è mai stata scelta. E’ stata ratificata in maniera ipocrita. Dopo l’appuntamento di aprile, che ormai pare ineluttabile, allora dichiariamola sciolta in maniera definitiva. Dico di più dichiariamo che non procederemo più in quella maniera. Rinunciamo alle strutture da cui veniamo e facciamo davvero il tesseramento, nei quartieri, nelle università, nelle scuole, nei luoghi di lavoro. E delegati facciamoli eleggere nelle sezioni, non nelle stanze dove non entra la vita reale. In base a chi sono non in base alla loro provenienza. Io non vorrei più essere di Mdp. Vorrei essere di Leu.

E il gruppo dirigente facciamolo nascere così. Nelle assemblee e nelle piazze.  Tra l’altro, queste elezioni un merito ce l’hanno: abbiamo cancellato il cosiddetto partito degli eletti. Andiamo a parlare, fin da subito, con quelli che hanno scelto l’impegno in Potere al popolo e vediamo insieme se siamo proprio così differenti. Perché io resto convinto che non è così, se si parte dalla base e non dalle altezze presunte. Cominciamo a parlare da subito di Europa, di quale casa costruire anche a livello continentale. Forse questo è ancora più urgente. Bastano i vecchi socialisti? Basta alla Gue, la sinistra cosiddetta radicale? Per me l’Europa resta l’orizzonte minimo a cui guardare. Basta cominciare a guardare davvero.

Ecco, proviamoci a non aspettare Godot. A rompere questa spirale che ci sta consumando, elezione dopo elezione. Non serve fare un partito con i dirigenti rimasti in piedi, dobbiamo cercare la sinistra del XXI secolo. Sbaglieremo ancora, magari. Ma almeno proviamo a fare errori nuovi.

Niente scherzi, ora si rema. Magari tutti nella stessa direzione.
Il pippone del venerdì/46

Mar 9, 2018 by     1 Comment     Posted under: Il pippone del venerdì

Se vi aspettate un pippone lamentoso per la serie “quanto siamo incompresi noi della sinistra” oppure, ancora peggio, “abbiamo sbagliato tutto, quanto sono cattivi quelli di Mdp” (sostituire con Si o Possibile a seconda della formazione politica di provenienza), oppure ancora un’infinita lista di errori commessi dai nostri dirigenti, dicevo, se vi aspettate tutto questo, cambiate pagina. Il 3 per cento è la nostra realtà. Questo siamo oggi, da qui bisogna ripartire.

Del resto, conoscevamo bene i problemi che avrebbero caratterizzato questa campagna elettorale. Un’aggregazione che appariva frettolosa e tardiva al tempo stesso, un simbolo sconosciuto ai più, l’appello al voto utile che ci avrebbe inevitabilmente schiacciato. Non ha premiato il Pd, ma i 5 stelle, che sono stati percepiti dall’elettorato come l’unica alternativa credibile alla destra. Infine, non lo dimentichiamo, abbiamo giocato una partita, mi piace credere sia soltanto il primo tempo, su un campo – il Rosatellum – che non avevamo di certo scelto noi. Anzi, era stato studiato nei particolari per metterci in difficoltà.

Certo, poi ci abbiamo messo del nostro. Dell’entusiasmo di quella mattinata romana in cui Grasso aveva lanciato Liberi e Uguali è rimasto ben poco nei mesi che si sono succeduti. Le assemblee-teatrino in cui era tutto deciso, le liste calate dall’alto senza tenere conto delle proposte dei territori, la gestione farraginosa delle alleanze per le elezioni regionali. E poi il silenzio dei media, pronti a fare da grancassa soltanto a quello che ci metteva in difficoltà. Dalle affermazioni ambigue, alle differenze di vedute fra i nostri candidati. Li ricordate i litigi fra noi sui social sulla parola “foglioline”? Beh, altro che tafazzismo. In più mettiamoci anche i mezzi a disposizione. Scarsi. L’organizzazione. Approssimativa. Infine, lasciatemelo dire da un punto di vista professionale, una campagna di comunicazione di scarso spessore.

Lo sapevamo. Come sapevamo che il nostro era un tentativo necessario ma insufficiente. Questa non è comunque la fine della storia. In questi mesi ce lo siamo detti per farci coraggio o perché lo credevamo davvero? Bene, care tutte e tutti, come va di moda dire, io ci credevo davvero. Perché questo impegno ha riempito le mie giornate dal 2015 – quando ho lasciato il Pd – a oggi. E non ho alcuna intenzione di mollare ora. Cambia qualcosa aver preso il 3 per cento rispetto al 6 che ci aspettavamo, illusi da sondaggi che cercano più di condizionare la realtà che di raccontarla? Siamo in Parlamento. Missione compiuta, seppur al minimo sindacale. Questo era l’obiettivo, dare una rappresentanza al partito che dobbiamo costruire. Abbiamo fatto un percorso un po’ al contrario, ma sapevamo anche questo. Dunque: avanti.

Cercando magari di non ripetere gli errori fatti. Avanti. Senza rottamare nessuno, perché non fa parte della nostra cultura, senza chiedere a nessun dirigente della vecchia di guardia di fare un passo indietro. E non è onesto dare la colpa a una generazione di leader he ha fatto una corsa generosa, spesso senza essere candidato ovunque. A volte ha funzionato, altre meno. Io resto convinto che uno come D’Alema sarebbe stato bene averlo in parlamento. Resta fuori non per chissà quale rifiuto popolare nei suoi confronti, ma per il gioco dei seggi del Rosatellum, una sorta di partita a dadi che giochi da bendato. Insomma, non crocifiggiamo nessuno, avremo ancora bisogno di tutti.

E allora, tutti, facciamo insieme un passo in avanti. Che ognuno riconosca i proprio limiti. Che tutti si rendano conto che non siamo stati percepiti come la soluzione, ma come una parte del problema. In una competizione elettorale caratterizzata da un voto anti-istituzioni, che ha premiato tutto quanto era più lontano dall’establishment in tutti gli schieramenti, ci siamo presentati con il presidente del Senato e della Camera in prima fila. Abbiamo proposto soluzioni spesso confuse, spesso descritte in maniera contraddittoria. E’ ora di ripartire.

Io direi di dimenticare – per un po’ almeno – alcune delle parole che più usiamo, cito, a mero titolo di esempio: responsabilità, sinistra di governo, centrosinistra, Ulivo, governo di scopo, del presidente, istituzionale. Dobbiamo essere un po’ sanamente irresponsabili, insomma. Dobbiamo stare nei luoghi del conflitto, non nei salotti bene. Dobbiamo mettere in campo azioni positive per cominciare a raccontare il cambiamento che vogliamo nelle cose che facciamo e non solo nelle parole che ripetiamo sempre più stancamente.

Meno metafore, magari. E più presenza nelle scuole, nelle università, nelle periferie. Ripartiamo nella costruzione di un partito vero. Non un’associazione temporanea fra separati, ma un luogo che appartenga a tutti. Dove ci si chiama per nome e non si aggiunge la sigla di provenienza.

Il documento-appello lanciato da Grasso, Civati, Speranza e Fratoianni (l’ordine è puramente casuale), è un inizio necessario ma insufficiente al tempo stesso. Necessario perché serviva una scossa, bisognava lanciare un appuntamento immediato. Ma io credo che non basti dire: decidete un po’ voi che volete fare. Una direzione se ti vuoi ancora chiamare dirigente, la devi pur indicare. Cosa avete in mente, diciamolo chiaro: una federazione a cui tutti cedano pezzi di sovranità, un partito unitario, magari con forme di adesione collettiva? Quali sono i temi da cui partiamo? Quale il rapporto che vogliamo costruire con i sindacati, con l’associazionismo, con le realtà cresciute in questi anni nelle città? Su questo ultimo punto ad esempio, basta candidare qualche esponente di associazioni sconosciute ai più? Oppure serve un rapporto di tipo diverso? Più organico, come si sarebbe detto un tempo.

Insomma, ragazzi, gli elettori della sinistra saranno anche stati nel bosco, ma sono usciti e hanno scelto altre strade. Di fronte al tracollo del Pd, che perde buona parte del suo elettorato storico, a noi arrivano le briciole. Oggi siamo percepiti come residuali. La sinistra che fu, alla quale si accorda una sorta di diritto di tribuna perché in fondo è simpatica da vedere. Poco più che soprammobili.

Ora, io in pensione ci vorrei anche andare. Ma tra qualche anno. Sento ancora forte il bisogno di impegnarmi, di mettermi a disposizione per aiutare una nuova generazione a prendersi la rivincita. Come fare? Sono queste le domande che sento in giro fra i compagni un po’ sconsolati. Tutte le risposte non le so, vanno cercate insieme, ma alcune idee ce l’ho e vorrei avere modo di metterle alla prova. Ecco, ad esempio, evitiamo di parlare di alleanze per qualche anno, non ci facciamo incartare dagli appelli alla responsabilità. Possiamo ripartire alla definizione di una nostra visione di società. Ecco, ad esempio, riusciamo a ridare cittadinanza alla parola “socialismo”? Si può tornare a usare, si può tornare a sognare un mondo diverso. A me questo fa un po’ schifo. E’ un mondo cafone e arrogante. Ci sto stretto.

Ecco, ad esempio, possiamo invertire la tendenza? Invece di fare assemblee megagalattiche in cui parlano sempre pochi noti, possiamo aprire “la stagione delle mille piazze”? Diamoci un tempo, apriamo una fase di ascolto. Quartiere per quartiere. Dove siamo presenti usiamo le strutture esistenti, ma poi andiamo in giro, andiamo dove non siamo. Prendiamo i risultati delle elezioni politiche e cominciamo dai seggi dove prendiamo meno voti. A viso aperto. Il partito della sinistra, per me va fatto strada per strada, non nei teatri dove siamo sempre gli stessi (Brancaccio compreso). Perché non solo siamo sempre gli stessi, ma siamo sempre più vecchi e stanchi. Io penso che in questa maniera si possa ricostruire qualcosa che non sia un’aggregazione di reduci. La protezione di un gruppetto di parlamentari poco abituati a confrontarsi con gli elettori non mi interessa. Non ci sto più a portare acqua a chi è sempre presente quando si tratta di essere candidato, ma poi non risponde più al telefono una volta eletto. Ecco, queste assemblee di Liberi e Uguali che svolgeremo nelle prossime settimane, facciamole strane. Usciamo dalle liturgie politiciste che ci piacciono tanto ma ci hanno portati alla separazione dalla realtà. Non facciamo programmoni, tavoli di lavoro. Partiamo da due o tre domande e chiediamo a tutti di esprimersi su questo. Vogliamo stare insieme? Per fare cosa? Con quali strumenti? Cerchiamo di essere chiari, di non usare ambiguità comode. Non è più il tempo delle convergenze parallele, dei due forni. E’ tempo di abbattere qualche muro. Anche a testate se serve.

Infine, una notazione sul Pd. Noto con un qualche allarme che diversi compagni che hanno fato questo tratto di percorso con noi sembrano molto interessati alle prossime primarie, alle quali – i giornali lo danno per certo – parteciperà anche Nicola Zingaretti. Non voglio commentare questa forma di esercizio falsamente democratico. Sono, ovviamente, uno spettatore interessato. Perché continuo a ritenere il Pd uno dei possibili interlocutori della sinistra. Ma resto concentrato sulla costruzione di una forza di sinistra. I democratici facciano le loro scelte, vedremo se in futuro le nostre strade, di forze autonome, potranno incrociarsi ancora.

Il 4 marzo, ma anche il 5.
Il pippone del venerdì/45

Mar 2, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Si vota, finalmente. Sono state settimane interminabili e corte al tempo stesso. Interminabili per gli appassionati della politica da spettatori. La noia del dibattito sui mass media non ha precedenti. Liberi e Uguali non ha brillato in campagna elettorale.  Spesso ci siamo fatti stringere all’angolo, raramente, ci è riuscito a tratti Bersani, siamo entrati nel merito delle nostre idee. Sul fisco, sulla riduzione dell’orario di lavoro, sul diritto allo studio, sull’ambiente. Abbiamo avviato un processo, anche autocritico, di profondo ripensamento delle proposte classiche della sinistra riformatrice. Finalmente siamo usciti – stiamo provando a uscire, restiamo cauti – dalla bolla blairista del “liberismo di sinistra” e abbiamo ricominciato a fare il nostro mestiere, guardare il mondo con gli occhi dei più deboli. Temo sia troppo poco e troppo tardi per riuscire a spostare l’ago della bilancia elettorale in maniera sensibile. Ma questo, ce lo siamo detti in tutte le salse, è solo il primo tempo della partita.

Almeno abbiamo iniziato, a ripensare la sinistra. Mi dispiace solo che una parte dei movimenti e dell’associazionismo di base – che dovremmo considerare nostri interlocutori privilegiati – abbia preferito al confronto con noi le sirene della purezza ideologica. Che poi è un po’ una catena: se cominci a fare l’analisi del dna trovi sempre qualcuno che ce l’ha più puro del tuo. Per cui alla fine, invece di quel pungolo a sinistra di cui avremmo bisogno come il pane, le varie listarelle presentate saranno soltanto una (non so quanto) inconsapevole foglia di fico per Renzi. Ogni voto in meno a Liberi e Uguali, secondo me, è un passo indietro nella costruzione della sinistra – laica e socialista  – che serve in questo paese. Avremo tempo, spero tutti insieme, per riflettere, una volta passata la frenesia della campagna elettorale.  Vorrei però che due temi restassero centrali nel nostro ragionamento: quello dell’orario di lavoro e quello di un necessario radicamento popolare del nuovo partito che andremo a costruire.

Partiamo dal lavoro, visto che la nostra proposta di riduzione a parità di salario è stata praticamente ignorata da giornali e tv, interessati, come ormai avviene da mesi, soltanto alle alleanze, alle formule politiciste per giustificare un ipotetico governo post 4 marzo. Io credo che questa resti una questione centrale. Ne ho già parlato, ma vale la pena tornarci su, sia pur rapidamente. La rivoluzione robotica, della quale vediamo soltanto i primi effetti, porterà a una progressiva e fortissima riduzione della manodopera necessaria per produrre e movimentare la merce. Resto al campo dell’informazione: la scomparsa progressiva dei giornali su carta quanti posti di lavoro fa perdere? Dai tipografi, ai distributori, alle edicole. Migliaia. E ci sono sicuramente settori che saranno ancora più colpiti. Penso all’industria pesante, dove l’uomo in un futuro neanche troppo lontano non ci sarà proprio più. Le soluzioni proposte restano varie e contraddittorie. E anche questo fa parte della debolezza di una sinistra europea che è troppo presa a guardare il suo ombelico per tornare a ragionare a livello internazionale.

C’è chi ha lanciato addirittura l’imposta sui robot, proponendo di istituire una sorta di meccanismo di compensazione che vada a salvaguardare quanto meno le entrate dello Stato. Guadagni di più, devi essere tassato in qualche modo. Io credo che la riduzione dell’orario di lavoro resti lo scenario migliore. Per due ordini di ragioni: in primis perché mantiene inalterato il margine  di profitto. Le innovazioni tecnologiche, del resto, devono produrre come risultato ultimo un miglioramento del benessere collettivo. Se comportano un semplice aumento del profitto di pochi a scapito del livello di vita di molti non sono innovazione, ma regresso. E quindi è giusto che il lavoro umano diventi, come dire, più prezioso. Serve meno, ma resta indispensabile. Quindi lo paghi di più.  Succede in Germania, dove i metalmeccanici hanno appena firmato un contratto che prevede la possibilità di scendere a 28 ore settimanali, non si capisce perché la proposta di Liberi e Uguali (32 ore) non sia realizzabile. Certo non ci arriveremo domani, ma la strada è quella. Poi, resta sempre il problema di come organizzare una società in cui l’orario di lavoro scenda così drasticamente.

Mi affascina l’idea di una sorta di banca del tempo, dove ognuno mette a disposizione della collettività le proprie ore avanzate per lavori utili. Mi affascina per due motivi: il primo perché rappresenta una forma di socialità nuova, che combatte l’isolamento che pervade il nostro tempo. Per dirla chiaramente: le ore in più le possiamo sommare a quelle che dedichiamo all’addivanamento da televisione, oppure viverle in maniera sociale, dando un contributo al benessere collettivo. Il secondo, perché potrebbe essere un modo per fare esperienze lavorative differenti, sia pure in forma ridotta, ampliando sul campo la propria formazione. E anche di questo, di persone in grado di svolgere più ruoli, temo avremo sempre più bisogno.

Dovremo, insomma, riflettere molto e con la mente aperta su questi temi, su quella “società del non lavoro” destinata a rivoluzionare i nostri classici parametri di riferimento. La sinistra deve servire anche a questo. A ragionare e trovare le soluzioni ai problemi complessi. Si dice tanto che serve un argine al populismo. Bene. Magari sarebbe utile che chi lancia appelli non fosse, a suo modo, altrettanto populista. Ma non si costruiscono argini a nulla, se non si pensa a radici culturali profonde. Se la sinistra non fa il suo mestiere, non mi stanco di ripeterlo, non argina proprio nulla.

L’altro tema – anche su questo ho già scritto, ma vale la pena ricordarlo – del quale dobbiamo farci carico è come organizzare un moderno partito di massa. E guardate che non è una questione meramente tattica. Perché la crisi che sta attraversando la nostra democrazia è stata in primo luogo proprio la crisi dei partiti di massa. E più in generale la crisi dei corpi intermedi. In queste settimane, pur nel vortice della campagna elettorale, ho avuto sempre in testa l’intervento di una compagna in una riunione nella periferia romana. Diceva più o meno che non basta dire cosa vogliamo fare, non basta scrivere meglio i programmi e fare volantini più accattivanti. Dobbiamo darne una dimostrazione concreta. Confesso che – detta nel corso di una delle nostre sonnolente e spesso rituali riunioni – l’ho ascoltata con sufficienza. Questa è un po’ matta, mi sono detto. Spero non si offenda se per ventura mi legge. Poi, però, ho cominciato a riflettere e mi sono reso conto non solo di quanto avesse ragione, ma anche del fatto che la storia del movimento operaio è piena di esempi virtuosi e concreti. Basta pensare alle società di mutuo soccorso della fine dell’800. Non è da lì che nasce il movimento socialista? E cosa c’è di più socialista che realizzare dei piccoli presidi di egualitarismo e solidarietà? Io la dico, di solito, in maniera più banale: le sezioni di partito, per vivere, devono tornare a essere percepite come luoghi utili per i cittadini. Luogo utile ovviamente ha significati differenti a secondo del nostro interlocutore. A Roma, nel pieno dell’emergenza dei rifugiati, offrimmo alcune nostre sedi per farli dormire, per fare un esempio. Non si tratta di assistenzialismo, ma di cominciare a cambiare la società pezzo per pezzo. E così: biblioteche e scuole popolari, mutua assistenza, gruppi di acquisto solidale, mense popolari. Dobbiamo aprire sedi in tutti i quartieri e farne luoghi vivi, di costruzione dell’alternativa di sistema a cui pensiamo. Anche per questo mi dispiace l’occasione persa da chi ha preferito l’isolamento all’unità: perché tante esperienze esistono già e bisogna che siano protagoniste.

Sono andato lungo, ma sono temi che mi appassionano e ben altro ci sarebbe da scrivere. Vi saluto. Non prima ovviamente di fare l’ultimo appello. Si vota solo domenica. Alle politiche bisogna solo fare una croce sul simbolo. Su quale lo sapete. E’ inutile tornarci su. Alle regionali (Lazio e Lombardia) potete anche esprimere due preferenze di genere (uomo-donna). E andate a votare presto. Da bravi compagni.

 

 

Un voto senza turarsi il naso. Come sempre.
Il pippone del venerdì/45

Feb 23, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Ho sempre trovato di cattivo gusto l’invito ad andare a votare turandosi il naso. La considero una mancanza di rispetto verso la libertà democratica per eccellenza, quella di scegliere i propri rappresentanti nelle istituzioni. Cosa vuol dire turarsi il naso? Che il voto ha un odore nauseabondo? Che la lista sulla quale fare la croce puzza?

Ora, io sono uno che ha il naso molto sensibile ai cattivi odori, per cui mi dà fastidio anche la semplice idea. Detto però dal segretario di un partito a proposito della sua stessa lista, come è avvenuto nei giorni scorsi, sembra addirittura un paradosso. Soprattutto se si pensa che il segretario in questione, Matteo Renzi, quel partito lo ha modellato a sua immagine e somiglianza, con una vera e propria pulizia etnica delle minoranze. E’ come se uno dicesse: mi faccio schifo anche da solo, ma votatemi. L’invito a scegliere il meno peggio fatto addirittura dall’attore protagonista della commedia. Io non ci ho mai creduto, figuriamoci adesso. Certo, a volte il partito che ho votato, il candidato che ho scelto nel caso di elezione diretta del sindaco o del presidente della Regione, non coincideva alla perfezione con le mie idee. Ci mancherebbe altro.

Però, nella mia ormai considerevole esperienza da elettore, ha sempre votato con convinzione, scegliendo un progetto al quale affidare quella che, lo ripeto, è una delle mie facoltà a cui tengo di più. Il voto. Per me la mattina delle elezioni ha sempre un sapore particolare. Mi preparo la tessera elettorale dalla sera prima, sveglia presto. E sono nervoso fino a quando non sono dentro il seggio con la scheda in mano. I comunisti votano la mattina all’alba, si diceva un tempo, perché poi non si sa mai cosa può succedere. E ancora adesso che i comunisti non ci sono più (o almeno non ci sono sulla scheda), basta andare in qualsiasi seggio durante lo spoglio per confermare che i voti della sinistra stanno sempre sotto, sul fondo dell’urna, perché i nostri elettori sono i primi ad arrivare. E questo gesto di andare a votare la mattina presto è un po’ la rappresentazione concreta dell’importanza che noi diamo al voto alle elezioni. Di quanto teniamo all’esercizio di questo diritto democratico.

Ecco perché quella pronunciata da Renzi non è solo una delle tante frasi infelici che ho sentito in questa campagna elettorale, rappresenta una rottura (l’ennesima) con il sentire comune di quello che dovrebbe essere, lo era almeno fino a cinque anni fa, il suo popolo, il popolo del Pd. Mi chiedo se nelle urne, quando i presidenti dei seggi apriranno gli scatoloni, le schede democratiche saranno ancora in fondo oppure questa volta galleggeranno in cima, ultima testimonianza dell’avvenuta mutazione di quel progetto fallito.

Ma bando alle malinconie da fine impero e veniamo a noi. Arrivati ormai a dieci giorni dal voto la nostra campagna elettorale procede. Fra alti e bassi, ignorati dai giornali, con pochissimi mezzi a disposizione. Siamo molto social, stiamo nelle piazze, nelle città. Con pazienza, casa per casa, lentamente e in ritardo, Ma ci siamo. Avverto molto, in questi giorni, quello che ritengo il punto più debole della nostra proposta politica, il non essere un partito. Strutturato, pesante direi, usando un termine a cui si è attribuita una ingiusta valenza negativa. Avverto la difficoltà del fare politica senza sedi, con le case dei compagni adibite a magazzini provvisori di volantini e manifesti. Con gli appuntamenti dati al bar, le bandiere passate di mano in mano. Dalla sezione alla chat di whatsapp, per dirla in poche parole. Non so se il modello organizzativo funziona meglio. Di certo non si riesce a costruire quel senso di comunità che caratterizzava i partiti di un tempo.

Perdonatemi la nostalgia, ma in questi momenti, noi ormai sulla strada della vecchiaia tendiamo a essere nostalgici. E io ricordo gli anni del liceo e dell’università, il mio circolo della Fgci, la sezione di Garbatella, Ia mitica Villetta. I compagni più grandi (non ci saremmo mai permessi di chiamarli anziani) che ci proteggevano come fossimo il loro bene più prezioso. E forse lo eravamo davvero, rappresentavamo il loro futuro. E allora qualsiasi cosa ti servisse c’era il compagno che ti dava una mano. Serviva un dottore, si andava dal compagno medico. Perdita nel tubo? C’era il compagno idraulico. C’era un compagno per tutto. Magari non è che risparmiavi, ma era una garanzia di serietà. E rappresentava quell’essere comunità che è la cosa più grave che abbiamo perso.

Per cui, ridotti un po’ alla stregua di barboni della politica, in strada dalla mattina alla sera senza avere più una “casa” a cui fare riferimento, ripensare a tutto il patrimonio, materiale e di passione, che abbiamo dissipato in questi anni fa davvero rabbia. E questo è solo l’aspetto più evidente delle nostre difficoltà in questa campagna elettorale. Quello più sottile, ma anche più preoccupante, è la mancanza di credibilità politica che deriva dal nostro essere una simpatica accozzaglia, uso il termine in senso scaramantico. I cittadini sono meno disposti a darti fiducia se non sei chiaro sulle prospettive che gli offri. E il nostro essere una coalizione e non un partito non fa chiarezza proprio sulle prospettive. Per di più ci rivolgiamo a un popolo che aveva riposto grandissime speranze nel progetto del Partito democratico e adesso è profondamente scottato dal suo fallimento ormai conclamato. Quando ti bruci prima di rimettere la mano vicino al fuoco ci pensi bene.

Questo è un nostro elemento di debolezza, l’ho sempre detto fin dall’inizio. Per questo fa benissimo Pietro Grasso a ripetere tutti i giorni che Liberi e Uguali non finisce il 5 marzo, che siamo il nucleo di quello che dopo le elezioni diventerà il partito della sinistra. Fa bene perché indichiamo, ammettendo i nostri ritardi accumulati in questi anni, una prospettiva precisa facendo intravedere quell’unità, quella solidità che i nostri elettori ci chiedono. Lasciamo la porta aperta, perché non possiamo arrenderci a perdere sia i compagni che ancora stanno nel Pd, sia quelli con cui il filo di una discussione comune si è momentaneamente interrotto e hanno scelto di dare vita a Potere al popolo. Ma diciamo chiaramente che dal 5 marzo, possibilmente fin dal mattino, lavoreremo per aprire il cantiere del nuovo partito. E poco male allora se prenderemo più o meno voti di quello che ci aspettiamo. Queste elezioni sono soltanto l’inizio della storia.

E bene fa anche il capogruppo Laforgia a andare ancora oltre: indichiamo fin d’ora la data del congresso costituente. Un gesto simbolico, senza dubbio. Ma in campagna elettorale servono anche i gesti simbolici, oltre ai programmi. Non capisco la reazione fredda di alcuni. Sui giornali leggo della “paura di essere fagocitati dagli ex Pd”. Questa rappresentazione degli ex Pd (sempre che si possano definire come una categoria politica) come degli orchi pronti a succhiare le ossa dei bravi compagni della sinistra cosiddetta radicale un po’ mi irrita. Ma poi si va avanti. Io sono uno sicuro del fatto che questa sia la strada giusta. E quindi credo che sia giusto rispettare i tempi di tutti. Senza forzature. Ma sono queste proposte, sono le idee di Grasso e Laforgia che mi fanno andare verso le urne, non solo senza turarmi il naso, ma con fiducia e convinzione. Il 4 marzo, farò tre croci sul simbolo rosso di Liberi e Uguali, una per scheda non vi preoccupate non sono impazzito. E le faccio belle robuste e visibili. Non si sa mai, magari un presidente di seggio miope…

L’unico voto utile per la sinistra.
Il pippone del venerdì/42

Feb 2, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Prima di cominciare questo mese che ci porterà alle elezioni è bene fare chiarezza sul “voto utile”. Perché questo sarà il leit-motiv che ci accompagnerà fino al 4 marzo. Non c’è solo il richiamo diretto, gli appelli dei padri nobili, quello di Prodi è solo il primo, saremo subissati di dichiarazioni simili. Basta pensare ai giornali di questi giorni, in cui tutta l’attenzione è dedicata agli scontri sui collegi. Paginate su paginate con fotine dei candidati e sondaggi a dir poco campati per aria. Tutto per creare un finto allarme sulla destra che sarebbe molto vicina alla maggioranza assoluta ma che ancora non ci arriva perché una cinquantina di seggi all’uninominale sarebbero in bilico. E allora ecco una sorta di richiamo subliminale, una chiamata alle armi contro i populisti. Se ci facciamo chiudere in questo recinto rischiamo sul serio di farci del male.

E allora proviamo a rimettere in ordine le cose. Partiamo da Liberi e Uguali. Siamo partiti bene, con le due assemblee nazionali, un clima di grande attesa, molta partecipazione, fiducia. Poi sono arrivate le spine, la questione delle alleanze sulle regionali di Lombardia e Lazio, la questione delle liste, con discussioni abbastanza consuete, ma amplificate dal fatto di non essere un partito ma – al momento – una mera aggregazione elettorale, una sorta di associazione temporanea di imprese in cui ognuno tende a salvaguardare la sua componente. E’ stato, per dirla in tutta sincerità, un mese in cui buona parte dell’entusiasmo iniziale si è spento, soffocato dalle polemiche e dalle discussioni sui candidati. In molti territori si sono aperte ferite, alcune scelte sono apparse troppo “conservative”, tese esclusivamente a salvaguardare unicamente i parlamentari uscenti. Si poteva fare meglio, senza dubbio. Ma dobbiamo tener conto anche di una legge che, di fatto, non permette alcuna competizione reale. Tutto è affidato alle scelte effettuate dai partiti, i candidati non hanno alcuna possibilità di competere realmente. Non ci sono le preferenze nella parte proporzionale, i collegi uninominali sono così grandi che difficilmente un candidato può incidere sul risultato, con le poche eccezioni, forse, di persone talmente note da rappresentare veramente un valore aggiunto. Un meccanismo infernale nel quale una formazione politica appena nata e di natura essenzialmente parlamentare come Liberi e Uguali rischiava di lasciarci le penne.

Siamo ancora in piedi. Con tutte le ferite del caso, ma siamo ancora in piedi. E abbiamo questo mese in cui non solo dobbiamo resistere ai richiami vari, ma dobbiamo rilanciare il nostro messaggio per tornare a crescere e arrivare a un risultato che ci permetta non solo di riportare una pattuglia della sinistra in parlamento e nei consigli regionali, ma anche di incidere realmente sulle scelte politiche che saranno prese nei prossimi cinque anni. Io credo che per farlo dobbiamo uscire dalla trappola del voto utile e delle sfide nei collegi. Come farlo? Provo a dire come la penso.

Intanto la definizione di voto utile. Tutte le preferenze espresse a formazione politiche che andranno a eleggere anche un solo deputato sono utili. Quindi tutti i voti dati a liste che supereranno il 3 per cento. Dunque: Forza Italia, FdI, Lega, 5 stelle, Pd, Leu. Le altre liste sono specchietti per le allodole. Servono soltanto a portare qualche decimale in più ai partiti che eleggeranno davvero deputati, grazie al meccanismo infernale previsto dalla legge: se non superi lo sbarramento i tuoi voti vengono comunque attribuiti alle altre forze con le quali sei coalizzato se hai preso più dell’uno per cento.  Ecco spiegato l’accanimento del Pd nel cercare alleanze con cespuglietti apparentemente insignificanti. Oppure, nel caso delle liste che vanno da sole, servono soltanto a indebolire gli schieramenti più vicini. Liste come Forza Nuova, solo per fare un esempio, tolgono decimali alla destra, ma non arriveranno al 3 per cento.

Dunque il voto a Liberi e Uguali ha di per sé una sua utilità, non è un voto “disperso”. Perché la somma di questi voti avrà una sua rappresentanza parlamentare. Non fatevi ingannare dalle paginate sulle sfide nei collegi uninominali dove LeU non appare quasi mai. Solo un terzo dei parlamentari viene eletto con questo metodo, il resto, la grande maggioranza dei seggi, sono stabiliti in maniera perfettamente proporzionale. E questo, appunto, vale per tutti i partiti che supereranno il 3 per cento.

Resta l’altro mito da sfatare, cioè, per dirla con le parole di Casini che un “voto a LeU è un voto dato alla lega di Salvini”. Ora, intanto bisognerebbe ricordare al neo renziano Casini che lui con la Lega ci ha governato fino all’altro ieri e quindi non è titolato a parlare di sinistra e manco di centro-sinistra, ma questo mito del voto utile per evitare un governo di destra non sta in piedi. Non sta in piedi per una ragione essenzialmente matematica. E va ricordata anche a Renzi, un altro che ripete il mantra del voto utile contro LeU. Grazie alle politiche di questi anni, la partita a queste elezioni si gioca essenzialmente fra centro-destra e Movimento cinque stelle. Tutti gli altri sono staccati. Sono molto staccati. I mass media possono provare a far finta di credere che ci sia una qualche contesa in cui Renzi e la coalizioncina bonsai messa su per mascherare l’isolamento del Pd possano realmente competere. Basta fare un giro in strada per capire che non è così. Che, per le ragioni di cui abbiamo discusso ampiamente nei mesi scorsi, c’è un vero sentimento popolare contro il Pd, a favore delle destre e dei cinque stelle.

Sono due gli elementi ancora realmente aperti in questa tornata elettorale. Il primo è la dimensione della vittoria della destra, se potrà cioè esprimere una maggioranza autosufficiente in Parlamento. Il secondo, qualora questo non avvenisse è la somma dei voti fra Forza Italia e Partito democratico. Potrebbe sembrare la classica somma fra mele e pere che non può dare alcun risultato. Ma non è così: da Macron alla Merkel, il risultato che tutti si auspicano nelle alte sfere della borghesia europea è proprio questo. Un governo di larghe intese fra Berlusconi e Renzi, con l’esclusione dell’ala cosiddetta populista, da Salvini a Grillo. Le burocrazie Ue questo vogliono per anestetizzare ancora una volta il nostro Paese.

E allora è evidente come il voto a Liberi e Uguali è l’unico voto davvero utile per chi si definisce di sinistra. Perché solo riportando a votare un forte numero di astensionisti e solo con una forte affermazione si possono evitare sia la vittoria della destra che la grande coalizione marmellata alla tedesca. Solo con una forte presenza parlamentare di LeU possiamo mettere un puntello alla prossima legislatura. Altrimenti, con buona pace della parte sinistra ancora rimasta nel Pd, nascerà “finalmente” quel partito della nazione a cui si sta lavorando da anni. Non sarà a guida Renzi, non sarà a guida Berlusconi, troveranno un personaggio meno vulcanico, in grado di rassicurare banchieri e mercati finanziari. Magari quel Calenda, che tanto successo riscuote negli ultimi tempi.

Un ulteriore tassello per completare il quadro sono state le liste democratiche, dove le minoranze sono state decimate, gli uomini più autorevoli emarginati. Vana è la speranza di chi spera di aprire la strada della rivincita contro Renzi a partire dalla sconfitta elettorale. Come davvero curiosa è la posizione dei quadri delusi del Pd che minacciano di votare la lista della Bonino per “dare un segnale” al partito. Per dare questo benedetto segnale, non a Renzi, ma all’Italia, la strada è obbligata: se si vuole rafforzare la sinistra si vota la sinistra. Non certo una forza ultraliberista il cui programma essenziale è andare oltre le richieste dei potentati europei, con misure quali il blocco dei livelli di spesa nei prossimi cinque anni che porterebbero questo Paese a una nuova stagione di recessione. A me non piace una società dove il tuo datore di lavoro controlla i tuoi movimenti con un braccialetto elettronico. Per questo va ricostruita una forza che rappresenti i lavoratori. In Italia come in Europa. Il 4 marzo è solo il primo appuntamento. Importante.

E allora un ultimo appello, prima che la campagna elettorale cominci davvero: guardiamoci in faccia, scarpe comode e maciniamo chilometri. Sciogliamo il nostro “io” in un “noi” collettivo. Bandiera rossa in spalla, volantini in mano. Eppur bisogna andar.

Mi è venuta una strana idea: ma se facessimo un po’ di campagna elettorale?
Il pippone del venerdì/41

Gen 26, 2018 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Dopo una settimana in cui abbiamo dedicato il pippone a questioni più alte, torniamo sulla terra, che le elezioni incombono. A me pare che il tarlo del masochismo non abbandoni mai la sinistra. Abbiamo cominciato questa avventura di Liberi e Uguali in ritardo, con ferite ancora aperte e con i pantaloni più o meno rattoppati. Incontrare sulla nostra strada un uomo come Grasso è stata quasi una sorpresa. Fosse che stavolta ce ne va bene una, mi sono detto. L’entusiasmo che c’era all’Atlantico, la folla, la passione. Niente. E’ durato lo spazio di un sospiro. Siamo tornati al nostro livello abituale di masturbazione mentale nel giro di pochi istanti. Per non parlare di chi pur di affermare il proprio io fa liste alternative sapendo benissimo che non arriveranno mai a superare il quorum. Ma restiamo al tema.

Nell’ordine, abbiamo riempito queste settimane con le seguenti polemiche: all’assemblea c’era troppa gente; il nome Liberi e Uguali è maschile; il leader non è stato votato dall’assemblea; Grasso ha chiamato le donne foglioline; Grasso in passato ha elogiato Berlusconi; azzerare le tasse universitarie non è di sinistra; l’assemblea dei delegati (al nazionale) del Lazio non ha votato il mandato a Grasso per aprire un confronto sulla Regione, pur non avendo votato, però, era contraria; la Boldrini sbaglia a chiudere ai 5 stelle; Bersani sbaglia ad aprire ai 5 stelle; Grasso è troppo decisionista; Grasso non decide nulla, è ostaggio dei veterocomunisti; D’Alema non deve parlare di quello che succederà dopo le elezioni; D’Alema non deve parlare di programmi, ci dica cosa farà dopo le elezioni; D’Alema non deve parlare; D’Alema deve essere più presente non può fare solo la campagna elettorale in Puglia; sono troppi i parlamentari uscenti candidati nelle liste; le liste sono state decise tutte nelle segrete stanze; Liberi e Uguali nasce con tutti i vizi del passato, la base non conta nulla; in Liberi e Uguali c’è troppo assemblearismo (vedasi caso Lombardia); dobbiamo assolutamente convincere Anna Falcone a candidarsi con noi; la candidatura della Falcone è il tipico esempio dell’opportunismo in politica.

Ometto tutte le polemiche minori su questa o quella dichiarazione che non andava bene, ometto anche le sopracciglia della Boldrini (presidente diamo una sfoltita alla foresta, il riscaldamento globale non ne risentirà). Ometto anche le prossime polemiche sul materiale di propaganda che sarà sicuramente troppo generico, ma anche troppo prolisso, colorato, ma troppo pastello, per non parlare delle liste per le regionali sulle quali non oso pensare cosa riusciremo a tirare fuori. Sarà anche vero che i social hanno sostituito le pareti dei cessi e rappresentano una sorta di moderno muro bianco in cui ciascuno di noi tira fuori il peggio di sé, ma io credo che noi di sinistra ci mettiamo un nostro quid in più. Altro che fake news. Noi abbiamo una sorta di memoria selettiva che ci porta a ricordare solo gli errori, solo le sconfitte. Per cui Bersani diventa “quello che ha governato con Berlusconi”. Che non sia vero non importa. Il problema non è che qualcuno fabbrica notizie false contro di noi, ma che noi stessi siamo i primi ad amplificarle e fare un dramma di qualsiasi pisciatina di gatto.

L’ultima in ordine di tempo, vale la pena di soffermarsi un po’ sull’attualità, è quella sulla composizione delle liste per Camera e Senato. Ora, già parlare di liste è difficile, perché questa pessima legge elettorale ha inventato un meccanismo infernale, fra collegi uninominali, proporzionali, alternanza di genere, pluricandidature e via dicendo. Un meccanismo che, di fatto, impedisce qualsiasi tipo di consultazione della base. E se guardate bene anche chi ha detto di averlo fatto, come i grillini, guarda caso non pubblica i risultati con i voti ottenuti dai candidati e alla fine si è affidato ai vertici per riempire tutte le caselle. Abbiamo provato, con le assemblee regionali, a raccogliere proposte dalla base. C’è stata una grande disponibilità di tanti compagni a metterci la faccia, come si suol dire, anche in quei collegi uninominali in cui tutti ci danno perdenti. Non sarà una corsa inutile la loro. Perché il loro nome sarà quello più in evidenza sulla scheda. E conterà eccome avere candidati credibili in tutta i collegi d’Italia. Gente conosciuta, che aiuti a dare visi e gambe alle nostre liste.

Poi sono cominciate le normali fibrillazioni su questo o sul quel nome “paracadutato” dal centro sui territori. Apriti cielo. I giornali che abitualmente non ci si filano proprio, hanno immediatamente trovato spazio e pagine intere sono state dedicate alla rivolta della Calabria o all’insurrezione della Sardegna. Cortei di protesta in viaggio verso Roma, tessere che volano, sedi occupate. Succede sempre, in ogni elezione. Questa volta il tutto è esacerbato da due fattori. Il primo è sempre riferibile a questa legge che ha eliminato tutte le possibili forme di scelta da parte dell’elettore. Ti concede di fare una croce sul simbolo che hai scelto, niente più. Il resto è già deciso. Il secondo, purtroppo, deriva dalla nostra insufficienza, dal nostro essere lista elettorale e non partito. Per cui sei mentalmente portato a difendere “i tuoi” e se invece ti propongono un candidato che arriva da un’altra formazione politica o da un’altra storia la prendi come offesa mortale. Ci sono ancora problemi, è evidente. Alcuni errori che, spero, saranno corretti.

Dobbiamo fare i conti, però, con un fattore che non dipende da noi: il tempo. Febbraio ha 28 giorni, poi arriva marzo. E’ un attimo, questa campagna elettorale, purtroppo o per fortuna, durerà davvero poco. E per una lista appena nata, con un simbolo mai visto prima, è una corsa a ostacoli. Ora, faccio una profezia, nelle prossime ore le polemiche finiranno, presenteremo le liste, nel Lazio e in Lombardia avremo un supplemento di supplizio per quelle regionali, ma lì la pratica è relativamente più semplice perché c’è spazio per tutti, i guai cominciano dopo con la caccia alla preferenza. Una volta presentate le liste resterà qualche mal di pancia, ma avremo i candidati schierati al nastro di partenza. E che siano paracadutati, aviotrasportati, fanteria o cavalleria, possono pure arrivare dalla luna, ma devono battere il territorio metro per metro.

Qui subentra il mio personalissimo appello: abbiamo limiti evidenti, in questi mesi li abbiamo visti tutti. E credo che abbiamo anche gli strumenti per correggere questi limiti nell’immediato futuro. Senza fare sconti. Ma ora serve una moratoria di un mese. Io sono di vecchia scuola. Si discute e ci si scanna fino a quando non suona il gong. Poi si diventa soldati. Io la vedo così: per un mese i nostri dirigenti sono perfetti, i migliori che avremmo mai potuto sperare. Che nessuno degli avversari osi criticare i nostri candidati. Non ne esistono di più bravi, preparati. E, a dirla tutta, sono pure belli. Esagero, state tranquilli, non sono diventato del tutto pazzo. Qualcuno dei nostri non è bellissimo, lo ammetto.

Esagero per dire come la penso: facciamo un mese di campagna elettorale tutta proiettata all’esterno a far conoscere le nostre proposte, il nostro simbolo. Mettiamoci tutti la faccia. Io resto fiducioso sul risultato finale, il mio obiettivo resta quello di riportare in parlamento non tanto la sinistra, genericamente intesa, ma quella cultura socialista che da troppo tempo manca in Italia. Si può fare. Basta smetterla con le polemiche inutili che interessano soltanto a qualche appassionato di contese sterili, appunto. Armiamoci di scarpe comode, bandiere nelle strade, bussiamo alle porte di tutti, entriamo nelle case, come facevamo un tempo. Strada per strada, portone per portone. E facciamolo soprattutto lontani dai salotti buoni delle città. Torniamo a parlare con i deboli. Se vogliamo davvero ridare voce a chi non ce l’ha dobbiamo chiedergli il voto, come prima cosa. Sono sfiduciati, incazzati con noi? Hanno ragione. La nostra lista, secondo le ultime rilevazioni è più debole proprio fra i poveracci. E allora lì dobbiamo battere. Prendiamoci gli insulti, ammettiamo gli errori, proviamo a convincere quanti più elettori possibili. Vediamo se sappiamo ancora come si fa a stare nelle piazze e nelle strade dell’estrema periferia.

Anche perché, guardate che se va male sarà veramente triste: con chi ce la prendiamo nei prossimi cinque anni se non abbiamo più parlamentari da biasimare anche quando si soffiano il naso?

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