C’è ancora vita fuori dal centrosinistra?
Il pippone del venerdì/92
Sapete tutti come la penso: per me parlare ancora di centrosinistra come unica possibilità per battere le destre è pari allo sbattere ostinatamente la testa contro il muro. I risultati di tutte le elezioni amministrative da un paio di anni a questa parte e delle elezioni politiche dell’anno scorso hanno un segno costante e ormai definito con chiarezza: non si va da nessuna parte con la vecchia formula della sinistra che si annacqua e finisce per sposare le tesi neoliberiste dandogli una pennellata di diritti civili. I cittadini alla fine fanno i conti con le proprie tasche. E se gli togli l’articolo 18, gli togli la sanità pubblica, gli fai a pezzetti il sistema scolastico, alla fine non ti sopportano più. Certo tutti contenti per i diritti garantiti alle coppie di fatto, ma votano per chi gli promette di invertire la rotta.
Non per fare quello che dice “te l’avevo detto”, ma fin dal 2015, quando sono tardivamente uscito dal Pd, cerco di far passare la tesi che per battere la destra serva innanzitutto una forza di sinistra forte, autonoma e autorevole. Che torni a essere riferimento per le masse popolari. Una forza socialista, femminista ed ecologista. Questo per me doveva essere Liberi e Uguali e ancora mi chiedo perché non abbiamo avuto la forza di imporlo a gruppi dirigenti riottosi e miopi. Una forza così poi non può definirsi alternativa a tutto il resto, ma potrebbe avere la forza per creare alleanze di tipo nuovo, che rovescino le politiche che hanno caratterizzato gli ultimi 20 anni di governo. Di destra e di centrosinistra.
Leggendo l’intervista di Fratoianni sul Manifesto di ieri ho capito perché questo progetto sia sostanzialmente fallito. Il segretario di Sinistra italiana, in realtà, parte anche benino, si vede che ha studiato, si impegna, ma poi sbaglia clamorosamente la soluzione del problema: una bella lista della sinistra radicale alle Europee. Una roba che solo a pensarci uno sbadiglia di noia. La solita lista con Rifondazione, prova a obiettare l’arguta intervistatrice. Mal gliene colse. Il prode Fratoianni si inalbera: “Saremo molti di più”, dice. E fa un elenco impressionante. Da Diem 25, a L’Altra europa, agli autoconvocati di Leu (senza Grasso), a Possibile. E non pago parla anche di personalità di spicco citando ad esempio Elly Schlein. E poi, ormai senza freni, punta dritto verso il sol dell’avvenire ormai a un passo e si scatena: serve una lista che “stringa una relazione positiva con le coalizioni civiche delle città”. E poi il tocco davvero rivoluzionario: basta con le nomenclature, le donne siano protagoniste. Tutte capoliste.
Immagino che sia bastato questo annuncio per scatenare manifestazioni di giubilo in tutte le città italiane. Che le masse siano già in marcia per conquistare i palazzi del potere con il ragazzo pisano alla testa della rivoluzione. Se così non fosse, però, ci sarebbe da chiedersi cosa non va in tutto questo ragionamento. Aggiungiamoci anche che i Verdi hanno deciso di andare da soli con i civici di Pizzarotti e che anche Possibile (pare stiano decidendo tutti gli iscritti in queste ore a casa di qualcuno) potrebbe aggregarsi.
Intanto, la dico così, en passant, mi pare chiaro perché non siamo riusciti a fare Leu. Uno dei leader che avevano firmato il patto elettorale già pensava ad altro. Le sirene incantatrici di Rifondazione lo hanno costretto a un ritorno repentino all’antico. Perché di antico, senza manco una ripitturata, si tratta, non prendiamoci in giro. Ora, io resto convinto che servisse un partito della sinistra, come già detto e ribadito. Posto che non ci siamo riusciti, mi convinceva molto l’idea lanciata da Speranza alla scorsa assemblea nazionale: una lista delle forze socialiste e ambientaliste. Speranza ci includeva anche il Pd, presenza secondo me troppo ingombrante e al tempo stesso ancora in fase calante malgrado Zingaretti. Ma la proposta aveva una sua grammatica e una sua sintassi. Non l’accozzaglia di Calenda, non l’accozzaglia opposta di Fratoianni e De Magistris, ma una lista che avesse cardini programmatici ben precisi, quanto meno una comune visione sull’Europa e sull’economia. Al momento Zingaretti pare più affascinato da Calenda e Pisapia, recuperato in extremis in qualche giardinetto milanese. Leggo che il coordinatore di Articolo Uno la ripropone dopo un incontro con il socialista Nencini e il radicale ortodosso Turco. Bene, meglio così che presentarsi come indipendenti nelle liste democratiche. Ma mi sembra che ormai siamo al piano C. Ovvero a un tentativo disperato di dimostrare almeno la propria esistenza in vita in vista delle future elezioni politiche. Fatto non disprezzabile in assoluto, ma solo se lo consideriamo un passaggio verso la costruzione di un partito.
E qui torno alla domanda del titolo. A me pare che arrivati a pochi giorni dalla elezioni europee, allo stato delle cose l’unico soggetto non di destra che avrà una sua significativa presenza dopo le elezioni sarà il Pd. C’è ancora vita fuori dal Pd? A forza di veti e controveti, di contese a chi fa il segretario, a forza di calcoli su come si elegge chi, ci hanno portato davvero all’inconsistenza. Faccio un facile pronostico: le due o tre liste (tutte unitarie e tutte di sinistra) che saranno presenti sulla scheda faticheranno ad arrivare al due per cento. Se ne faranno una ragione i parlamentari europei uscenti, le mogli escluse, i trombati della scorsa tornata che ritenteranno la sorte. Soltanto i militanti con lo stomaco ormai roso dai litri di digestivo ingoiati negli anni riusciranno a farci una croce sopra.
Siamo ancora in tempo per fare una cosa diversa? Che serva davvero a costruire una visione diversa sull’Europa? A me presentare una lista per racimolare qualche voto per poi sedersi al tavolo dove si spartiscono i posti per Montecitorio francamente non interessa molto. Vedremo se avremo la forza di mettere le basi per un partito che guardi avanti. Al momento i segnali di vita nell’elettroencefalogramma della sinistra sono davvero flebili. In ultimo ripropongo la domanda che ormai da settimane agita le mie notti insonni: ma Grasso che fine ha fatto?
E’ Natale, a sinistra è ora di parti plurigemellari.
Il pippone del venerdì/81
La cosa più chiara, come spesso gli accade, l’ha detta di recente Bersani: data la situazione in Italia sarebbe auspicabile una sorta di big-bang alla fine del quale l’attuale centro sinistra si scomponesse in tre diversi filoni: il partito di Renzi, un nuovo partito della sinistra cosiddetta riformista, un partito della sinistra cosiddetta radicale. E’un po’ quello che vado auspicando da anni anche io. Il Pd, nella attuale conformazione, resta un grande equivoco che elegge moderati (più bravi con le preferenze) con i voti della sinistra. E allo stesso tempo condanna le altre forze progressiste a un ruolo decisamente subalterno. Un equivoco parecchio ingombrante che sta lasciando macerie ovunque. E sta portando la sinistra nel suo complesso a essere quasi “odiata” dagli elettori. E in un sistema democratico potrebbe essere un problemino non di poco conto. Le ultime elezioni insegnano: la caduta renziana, paradossalmente, ha travolto anche quelli che più si erano battuti contro di lui.
La cosa che Bersani non può dire è come arrivare a una disposizione simile delle forze in campo, disposizione che, forse, potrebbe far ritornare competitivo il fronte progressista, sia pur in una situazione di difficoltà a livello mondiale. Non può dirla perché non è nei suoi poteri provocare la scomposizione che lui si augura. E poi non è che basta rimescolare la minestra nel pentolone. Servirebbe un serio lavoro sui valori, nuove forme partito più aderenti alla società di oggi , ma allo stesso tempo in grado di farci tornare in mezzo al popolo. Servirebbero anche luoghi dove pensare tutto questo. Serve, intanto, un punto fermo da cui partire.
Due appuntamenti romani nel fine settimana, il convegno per i 20 anni di Italianieuropei (sabato ore 10, Nazionale Spazio Eventi, via Palermo 10) e l’assemblea nazionale di Articolo Uno (Domenica ore 9.30, auditorium Antonianum, viale Manzoni 1) possono essere utili in questo senso. Prima di tutto riflettere. Ci serve una elaborazione forte e l’elenco dei relatori, in ambedue i casi, fa ben sperare, ci serve una nuova casa da cui partire. Vedremo se, dopo tante false partenze, sarà la volta buona. Perché se ha ragione, come credo, Bersani, nel disegnare la prospettiva dei tre partiti, da qualche parte bisognerà pur cominciare. La cultura politica che viene dal Pci e più in generale dal socialismo del ‘900 deve ritrovarsi in un luogo, deve darsi una sua identità forte, ma aperta al tempo stesso alle contaminazioni necessarie per restare attuali.
E così, ad esempio, l’ambientalismo che Marx non aveva in testa, ora serve eccome se non vogliamo arrivare in pochi anni all’estinzione della specie umana. E allo stesso tempo le battaglie delle donne devono stare nel patrimonio genetico della sinistra che serve in questo Paese. Così come va ricostruito un vero e proprio cordone ombelicale con il sindacato. Non saremo più ai tempi della famosa cinghia di trasmissione (anche allora, in realtà, considerare la Cgil una mera appendice del Pci era una bestialità), serve un rapporto paritario, ma molto stretto sia pur nel rispetto della reciproca autonomia.
Ora, Articolo Uno, dalla sua fondazione ormai quasi due anni fa ha commesso senza dubbio molti errori: la rincorsa a Pisapia prima, più in generale la ricerca del papa straniero come leader, l’attesa degli alleati dopo le elezioni del 4 marzo. Senza dubbio c’è una difficoltà, direi, di reazione. Pur azzeccando spesso l’analisi, a Speranza e compagni, troppo spesso, è servito un tempo troppo lungo per arrivare a prendere una qualsiasi decisione. Ma la ragione sociale con cui era nato il movimento era quella giusta: costruire una casa della sinistra, riunire non tanto le sigle ma le persone, i militanti che si sono allontanati negli anni, tornando a essere attrattivi al tempo stesso verso quei giovani che sembrano una specie di terra promessa che non riusciamo da tempo a raggiungere. Le elezioni del 4 marzo, in minima parte, avevano rappresentato una limitata inversione di tendenza: Leu ha preso più voti (sia in valore assoluto che in percentuale), alla Camera rispetto al Senato. Non succedeva da anni.
Era un piccolo segnale che la crisi progressiva della sinistra non è ineluttabile, che la tendenza si può invertire. Basterebbe puntare su parole chiare e impegni precisi su scuola, università, lavoro. In Inghilterra così hanno fatto. Nessuna bacchetta magica e nessun Messia. Corbyn parla un linguaggio semplice e lo accettano addirittura ai concerti rock. Visto che siamo esterofili e anglofili da sempre, per una volta proviamo a copiare quello che di positivo arriva dall’isola oltremanica.
Insomma, pur nel mio pessimismo ormai abituale, mi aspetto un finesettimana in cui si parli di politica, di idee, non di siti, adesioni e organizzazione delle truppe. Le delusioni, anche negli ultimi mesi, non sono mancate di certo. Il fallimento di Liberi e Uguali, le nuove divisioni che hanno superato ogni livello che avevamo immaginato. Eppur bisogna andare, verrebbe da dire. Chi, come dovrebbero essere i militanti della sinistra, soffre per le ingiustizie del mondo, non può adeguarsi allo stato delle cose esistente.
Forse, se prendiamo le cose dal verso giusto, ovvero ripartendo dalle idee, dai valori, dalla politica in una parola sola, sarà anche più semplice dirimere eventuali divergenze e provare a costruire qualcosa di duraturo. Poi discuteremo magari di cosa fare alle amministrative, alle europee. L’appuntamento lanciato da Articolo Uno si chiama Ricostruzione. Speriamo che non sia l’ennesimo buco nell’acqua. Non ci serve un gruppo dirigente senza popolo, di quelli che abbiamo a iosa. Ci serve un percorso di partecipazione democratica, in cui i due livelli – base e altezza – entrino di nuovo comunicazione fra di loro. Sembra semplice. In realtà è una strada stretta e piena di buche. Vabbeh, i romani sono avvantaggiati.
Renzi che va, Renzi che viene.
Il pippone del venerdì/80
Non cambia molto se Renzi fa il suo partitino. Ci sarà solo da aggiornare il conto delle formazioni politiche personali. E del resto mica era possibile che fosse soltanto la sinistra a sfaldarsi, è proprio questa società che non tiene più. Le varie diaspore politiche sono la conseguenza. La politica non può che essere lo specchio fedele di un paese, della situazione sociale, delle evoluzioni dei costumi. E se un società diventa sempre più individualista, cattiva ed escludente, la politica non può che ripercorrere questi tratti. Il settarismo va di gran moda, il “meglio comandare in una casa piccola che stare insieme ad altri in una più grande” oramai è una sorta di mantra che si sente in ogni angolo.
E comunque, si diceva, non cambia molto se Renzi fa il suo partitino. Almeno per quelli come me che sono convinti che l’errore, anzi direi l’equivoco, stia nell’esistenza stessa di una formazione politica che riunisce due culture distinte. Non si mescolano, al massimo una prova a cancellare l’altra. Come è successo con la famosa rottamazione, che non era la semplice sostituzione di una classe dirigente. Non era un salutare scontro generazionale. Tutt’altro: era la fase finale della cancellazione di una cultura politica, quella che, con una semplificazione necessaria alla salute dei lettori, oserei definire “togliattiana”. La rottamazione era la fine di quell’idea di partito e di funzione del partito nella società che era stata definita nel Pci del dopoguerra e perfezionata con Berlinguer.
Cambia qualcosa se il segretario sarà Zingaretti? Con tutta la stima che ho da sempre per il presidente della Regione Lazio, credo di no. Intanto perché secondo me Zingaretti la sua occasione vera l’ha persa alle primarie del 2009. Un ampio fronte, quello si davvero generazionale, gli chiese di mettersi alla guida di un processo di rinnovamento del partito e candidarsi alle primarie che non potevano risolversi in una conta fra Bersani e Franceschini. Una sfida che sembrava guardare più al passato che al futuro. Zingaretti disse di no, spiegò che il suo impegno era tutto teso alla riconquista di Roma (salvo poi ritirarsi per candidarsi alla Regione). Sappiamo come è andata la storia del Pd da quel momento in poi.
Resto convinto anche dieci anni dopo che quella fosse l’occasione di fare del Pd un partito e non una federazione di correnti personali. Ora è tardi. E’ tardi per due ordini di ragioni. Intanto perché quel simbolo ormai viene associato indissolubilmente a una stagione, quella delle leggi contro i lavoratori, quella delle leggi truffa, quella della riforma costituzionale. Ma è tardi soprattutto perché quel partito ha consumato il legame “empatico” non solo con i suoi elettori, ma con i suoi militanti. C’è stata una rivoluzione genetica che ha cancellato una comunità. Non basta il cambio di un segretario né tanto meno basta invocare una generica discontinuità. Tanto più che appostati dietro di lui c’è la fila di quelli che hanno lavorato strenuamente per arrivare alla situazione odierna. Da Franceschini in giù. Nel Lazio, tanto per dirne una, il candidato di Zingaretti alla segreteria regionale era Bruno Astorre, uno che si vantava pubblicamente di “comprare” migliaia di tessere.
Insomma, per non farla troppo lunga, il presunto partitino di Renzi rappresenterebbe sicuramente una novità, ma non la soluzione del problema. Con Zingaretti, ovviamente, sarà possibile aprire un dialogo. Ma si potrà fare solo se avverrà da pari a pari. Soltanto se, nel frattempo, saremo riusciti a dare una casa aperta e stabile allo stesso tempo a quello che resta della sinistra italiana. Resto molto pessimista, la tentata nascita dell’altro partituncolo personale, quello annunciato da Grasso, è un altro ostacolo in un percorso già travagliato. Credo però che prima o poi dovremo fermarci e contare fino a dieci. Ormai ho la certezza che il problema non siano le divaricazioni programmatiche, su quelle una via di mezzo siamo bravissimi a trovarla. Il vero problema è la sopravvivenza dei diversi gruppi dirigenti. Per fortuna le prossime elezioni europee spazzeranno via quello che ne resta. Sarebbe bene capirlo prima e attrezzarsi, ma mi pare che gli egoismi prevalgano. Le liste della sinistra all’appuntamento di maggio saranno almeno quattro e prima si voterà in 4 regione e 4.200 Comuni. Serviranno a confermare l’irrilevanza di ognuno. Né il pur generoso tentativo di Speranza e soci sembra nascere sotto i migliori auspici. Staremo a vedere.
Eppure avere una solida e autonoma formazione alla sua sinistra aiuterebbe anche Zingaretti a tenere a bada i suoi alleati di oggi, accoltellatori seriali che non vorrei mai avere alle mie spalle. Ridefinire un’alleanza progressista in grado di opporsi alle destre è sicuramente una priorità. Ma non funziona un campo – uso questo termine che va tanto di moda – in cui ci sia un partito e tante liste civetta. Funziona uno schieramento vero, con una base culturale comune che viene tradotta in un programma di governo. Se si uniscono, insomma, strategia e tattica. E per fare questo serve una sinistra che esca dall’abbaglio del neoliberismo e torni a essere popolare. Che si occupi, la finisco qui perché so di essere noioso e ripetitivo, delle condizioni materiali del suo blocco sociale, che dia rappresentanza ai tanti movimenti che proprio in questi mesi tornano a far sentire la propria voce. Mettiamo l’orecchio a terra e guardiamo avanti. Forse ne usciamo vivi.
La sinistra sono io e voi non siete un…
Il pippone del venerdì/79
Girando e curiosando fra le varie fasi costituenti di questi giorni mi sono reso conto di alcuni elementi che potrebbero sembrare particolari irrilevanti, ma con cui, in realtà, secondo me dovremmo fare bene i conti. In primo luogo abbiamo un po’ tutti la tendenza a ritenerci depositari della verità assoluta. Un po’ come quando esisteva il Pci e dicevamo che non poteva esistere nulla a sinistra del Partito. Che non a caso aveva la P maiuscola. Solo che allora, il fatto non è da poco, c’era – appunto – il Pci. Ovvero un partito che aveva quasi due milioni di iscritti e arrivava a dodici milioni di voti. Anche all’epoca, in realtà, l’affermazione era almeno presuntuosa, però aveva un suo fondamento: nel momento in cui c’era una casa comune dei comunisti italiani, da Amendola a Ingrao, era lecito guardare con sospetto a chi si chiamava fuori. Adesso, nel suo complesso, il campo della sinistra italiana non arriva al 10 per cento dei voti. Gli iscritti ai vari micro partiti sono meno, sempre nel complesso, di 100mila. Non a caso, di anno in anno, le costituenti, i cantieri che si aprono, i campi larghi da esplorare, sono sempre di più ma si svolgono in sale sempre più intime. E ultimamente neanche troppo piene.
Il secondo dato è che, anche all’interno della stessa formazione politica siamo come monadi separate, dove non solo tutti parlano male di tutti. Al chiacchiericcio che ha sostituito la sana battaglia politica ormai ci siamo abituati. Il dramma vero è che nessuno ascolta più gli altri, né si sente rappresentato da altri. Assistito a riunioni dove se i presenti sono venti intervengono tutti e venti, con ragionamenti completamente slegati fra loro. Una specie di seduta di autocoscienza continua. Il bisogno di apparire, di affermarsi personalmente, ha ormai sostituito il riconoscimento delle capacità dell’altro. Sarò anche questo un frutto avvelenato della nostra società sempre più individualista?
Il terzo dato è la scomparsa del “popolo”. A parlare, sempre più spesso, sono sedicenti intellettuali, esperti di non si sa bene cosa, portatori di non si capisce bene quale messaggio superiore. E pretendono sempre di insegnarti qualcosa, di spiegare al muratore come si fa un muro, all’idraulico come si monta un rubinetto, allo sfruttato come bisogna lottare per i propri diritti. E’ qualcosa che va oltre la spocchia, è una superiorità aristocratica conclamata. Non ci si interroga, non si ascolta. Si proclama. Noi siamo, noi spieghiamo, noi vogliamo. Ora, in Italia la sinistra funzionava quando era fusione di popolo e intellettuali, quando i lavoratori parlavano del lavoro, gli intellettuali si confrontavano con loro e da lì nasceva la “linea”. Quando abbiamo cominciato a imporre le riforme dall’alto, quando abbiamo perso le nostre radici, non ne abbiamo più azzeccata una. La lezione, almeno questa, dovremmo averla imparata. E invece no. L’operaio, il precario, sono soltanto figurine che si mettono sui palchi perché fa tanto fico. Un po’ come avere l’amico gay qualche anno fa. Ma ci si ferma lì. E così andiamo a salvare naufraghi nel mediterraneo – cosa sacrosanta per carità – ma siamo lontani mille miglia dai tanti naufraghi che abbiamo nelle metropoli cattive che abbiamo costruito. Il popolo non ci vota perché non siamo popolo.
E allora di cosa avremmo bisogno? Io continuo a sostenere che servirebbe un grande sforzo culturale di analisi riprendendo nel cassetto i “vecchi” arnesi marxiani che sarebbero tanto utili nella società di oggi. Non solo dovremmo essere alternativi al neoliberismo che di danni ne ha fatti anche dalle nostre parti, ma tornare ad essere alternativi al modello di sviluppo capitalistico, perché è il capitalismo stesso a generare quel mondo dispari che ci ritroviamo nelle mani.
Non pretendo tanto. Se dici certe cose ti dicono che sei un comunista e se gli rispondi “certo” si sconvolgono. In una situazione come la nostra anche erigere una barricata sufficientemente alta per ripararci dall’onda nera che ci sta travolgendo sarebbe un miracolo. Cosa hanno fatto da altre parti? Perché in altri paesi la sinistra resiste, in alcuni casi torna addirittura a essere egemone? In Italia l’ultima esperienza di sinistra con una certa consistenza è stata Rifondazione Comunista, tutti gli attuali partitini nascono da lì, da un soggetto politico che aveva una discreta consistenza, una buona organizzazione, una attività militante diffusa. Poi più nulla. Altrove, penso alla Francia, alla Spagna, ma anche agli inglesi, la sinistra resiste se: 1) riesce a rinnovarsi radicalmente, 2) trova un leader convincente in grado accompagnare il rinnovamento, 3) trova delle forme organizzative che garantiscano un po’ di continuità. Non fanno, insomma, una fase costituente al giorno.
Noi un leader convincente non ce lo abbiamo. Facciamocene una ragione. E anche l’idea del “papa straniero”, al decimo fallimento consecutivo, dovrebbe essere rapidamente accantonata. Se facciamo l’elenco, da Prodi fino ad arrivare a Grasso, dovremmo capire che forse è proprio sbagliata l’idea in sé, che la sinistra dovrebbe formare la sua classe dirigente nella lotta politica e poi proporla e sperimentarla, non creare leader in laboratorio, incoronarli con un applauso con l’illusione di riuscire poi a controllarli. Poi questi si montano la testa e finisce male. Sempre.
Quanto al rinnovamento, faccio notare che ormai alle riunioni ci si conosce un po’ tutti. Perfino i ragazzi, pochi, che ogni tanto compaiono sembrano meri cloni dei più anziani. Con tutti i loro difetti, con tutte le loro debolezze. E poi c’è questa cosa che a me mi fa impazzire: il rinnovamento va bene, ma mai per se stessi. Sono sempre gli altri, nel segno della rottamazione continua a doversi fare da parte. E così ci ritroviamo ultrasessantenni con un onesto passato nelle retrovie della prima repubblica che ti diventano all’improvviso i paladini acerrimi del rinnovamento. Altrui.
L’altra cosa che trovo insopportabile è la società civile. Serve la società civile, basta con i partiti, le energie presenti nella società da valorizzare. Ma che noia questa stanca ripetizione di ricette fallite. Ora, le energie ci sono davvero, lo vediamo nel movimento delle donne, degli studenti, nelle manifestazioni contro il razzismo. Ma ai movimenti serve una sponda politica, un luogo dove le istanze che rappresentano diventano stabili, diventano patrimonio comune. Altrimenti, è la natura stessa dei movimenti a dircelo, si accendono, divampano e poi si spengono senza lasciare sedimenti significativi.
E allora che fare? Costruire una casa stabile, che non cambiamo ogni tre mesi, che non abbia come orizzonte soltanto le prossime elezioni, ma nella quale trovare riparo. Io resto convinto che almeno questo si possa realizzare in tempi brevi: dare alla sinistra un luogo di confronto di elaborazione, di selezione della classe dirigente. Come? Non dal basso, o almeno non soltanto. I partiti non nascono mai solo dal basso o solo dall’alto. Nascono seguendo esigenze storiche, fondendo militanza e classe dirigente. Sono processi più complessi. Ma per essere credibile e stabile il partito che ho in mente deve valorizzare la partecipazione e il metodo democratico. Non è che abbia la pretesa di essere maggioranza, tra l’altro mi succede di rado, ho però la pretesa di poter discutere le proposte, di poter contribuire a eleggere la classe dirigente. Dove non ci possono essere più “nominati”, quelli che ci sono sempre “di diritto”.
Insomma, continuerò a partecipare, per quanto mi sarà possibile, a tutti gli appuntamenti in cui si parlerà di questi temi. Secondo me ci sono ancora le condizioni per costruire un percorso che non rappresenti un ritorno al passato, che aggreghi e non divida ulteriormente. Un po’ meno spocchia e più umiltà da parte di tutti non guasterebbe. Ma è merce rara.
Cinquantuno sfumature di rosso.
Il pippone del venerdì/78
Un autorevole commentatore alcuni giorni fa ha spiegato che la crisi della sinistra sta tutta nel non aver metabolizzato la trasformazione del sistema dei partiti in sistema dei leader. Ovvero, la società di oggi sarebbe di per sé incompatibile con un sistema politico basato sulla partecipazione, la semplificazione della quale siamo tutti vittime nei campi più disparati richiederebbe la delega totale a un leader. E noi invece, secondo l’autorevole commentatore, ci ostiniamo a pensare di organizzarci in partiti.
A dire il vero, a me pare che la sinistra questo cambiamento lo abbia metabolizzato da tempo, semmai viene da pensare che non si metta d’accordo sul leader. In questi giorni sono in corso almeno quattro processi costituenti di altrettante formazioni politiche che potranno comodamente incoronare altrettanti fascinosi segretari. Tutti e quattro i “cantieri” saranno aperti, unitari, inclusivi, perché “non vogliamo fare il solito partitino del 3 per cento”. Il sindaco di Napoli, in una intervista dei giorni scorsi, ha spiegato addirittura che fare il leader è il suo destino naturale e che si candiderà a tutte le elezioni prossime venture. Abbiamo trovato un nuovo Lenin e non ce ne eravamo accorti. Che culo!
Quelli messi peggio, anche se nessuno ormai si accorge di loro, sono i compagni di Possibile, passati dalla battaglia senza se e senza ma contro Zingaretti a fare da comparsa in una lista (sempre unitaria, aperta, inclusiva e che non sarà un partitino del 3 per cento) capitanata da Boldrini e Smeriglio, sotto l’ala protettiva proprio del presidente della Regione Lazio. L’ala sinistra della futura alleanza immaginata dall’aspirante segretario piddino. Poco più che una lista civetta, insomma. Chissà come mai quelli che sono per la lotta dura senza paura me li ritrovo sempre a fare da giullari a corte.
I moderati, dal canto loro, non stanno messi meglio: il Pd ha addirittura sette candidati segretari. Tutti aspiranti leader. Dei quali si conosce a malapena la faccia, ma non è dato sapere quali siano le ragioni programmatiche e ideali che li hanno spinti al grande passo. Che poi, io non sono un fautore delle quote rosa, ma che diamine: fra costituenti, congressi e convegni, stiamo parlando complessivamente di una quindicina di persone: tutti uomini, salvo l’ex presidente della Camera. Quasi che il concetto di leader, declinato nella forma contemporanea, fosse solo possibile al maschile.
Di sicuro la sinistra è stata protagonista della fine del sistema dei partiti in Italia. Anzi ne siamo stati l’avanguardia. Fin dall’89. Per me la data maledetta è sempre quella in cui Achille Occhetto stabilì che la risposta alla crisi del comunismo mondiale era sciogliere il Pci e trasformarlo in partito qualsiasi. Da lì è venuta meno una comunità, una maniera di stare insieme, di condividere non solo la passione politica ma un pezzo della propria vita. Certo, poi negli ultimi anni il sassolino rotolando lungo il fianco della montagna è diventato valanga e ha travolto tutto. Ma l’origine è sempre quella lì.
E le stesse divisioni, anzi ormai si dovrebbe parlare di moltiplicazioni a ripetizione multipla, avvenute in questi anni, in realtà hanno origine proprio da quel vulnus: se manca una base ideale comune non è possibile neanche rinunciare a un pezzo della propria visibilità e identità personale nel nome del bene collettivo. Anzi, lo stesso concetto di bene collettivo vacilla e viene sostituito sempre più dal mero tornaconto personale. Temo che le discussioni dentro Liberi e Uguali di questi mesi siano proprio la rappresentazione estrema di questo: ci si divide per preservare il proprio pezzettino di potere, che, per quanto sia piccolo, non si è disposti a cedere. Manca una base ideale, manca un figura capace di mettere tutti d’accordo, perché restare insieme? Ognuno a casa propria, poi ci si aggregherà di volta in volta nel tentativo – vano – di superare qualche sbarramento elettorale. La cosa più divertente di tutte è che tutti quelli che si candidano lo fanno sempre dicendo che bisogna superare “l’io e tornare al noi”. Intanto si candidano, però.
Resta da capire se davvero sia proprio impossibile fare un partito-comunità adesso e ci si debba per forza accontentare di battere le mani a qualche polletto allevato in batteria che si crede un gallo di qualità. Io resto convinto che si debba tornare all’antico, sia pur innovando le forme dell’organizzazione, i modi di partecipazione e il meccanismo di selezione della classe dirigente. Per questo credo che valga la pena di continuare a spendersi. Certo, non è una sfida che possiamo vincere oggi. Ormai toccherà farsene una ragione. Sarò al teatro Ghione domani mattina, sabato 24 novembre, per l’appuntamento organizzato dai comitati di Liberi e Uguali. E mi auguro non solo che vada bene, ma anche che gli aspiranti leaderini si rendano conto che insieme si sta meglio, soprattutto se bisogna costruire un argine a quello che ormai sembra un fiume in piena, l’ascesa della nuova destra di Salvini e soci.
Credo però – sarò anche pessimista, a me sembra sano realismo – che sia inutile farsi troppe illusioni. Basta girare un po’ e ci si accorge che ormai sono scattati gli ultras delle varie parti in causa e quanto parte la rissa la cosa migliore da fare è tenersene accuratamente alla larga. Intanto è bene continuare a coltivare i semi, le reti che ognuno di noi ha costruito in questi mesi. Che le diverse sigle non siano scuse per perdersi di vista. Perché guardate che, i leaderini se ne accorgeranno, non sarà facile farci tornare docili docili in casette che non sentiamo più nostre.
Sciogliere Leu? Non capisco e non mi adeguo.
Il pippone del venerdì/77
Allora, di solito non mi adeguo per ragioni di opportunità neanche quando capisco, figuriamoci quando non capisco. Riassumo per gli amanti del brivido. Il 4 marzo si è presentato alle elezioni politiche un raggruppamento elettorale di sinistra, Liberi e Uguali, nato dall’unione di tre partiti: Sinistra Italiana, Possibile e Mdp. I tre rispettivi leader, nel momento stesso in cui hanno individuato in Pietro Grasso la figura guida di Liberi e Uguali, hanno dichiarato solennemente che quel cartello elettorale, subito dopo le elezioni, sarebbe diventato un partito unitario. Per la prima volta da decenni, insomma, a sinistra si metteva in campo un processo di aggregazione. Il risultato elettorale non ha premiato questo tentativo: il 3,4 per cento ottenuto è un risultato quantitativamente inferiore alle attese, non qualitativamente. Perché puoi prendere il 5 o il 3 ma conti sempre poco se non consideri quei voti una base su cui costruire un futuro più consistente. Così non è avvenuto. Evidentemente Leu era considerato un semplice autobus per confermare un gruppetto di parlamentari. L’elettorato lo ha capito e non ci ha premiato.
Il 5 marzo, malgrado le promesse, si sono sfilati immediatamente i compagni di Possibile, subendo a loro volta una scissione. Ancora prima l’ex presidente della Camera, Laura Boldrini, aveva dato vita a un suo movimento. A maggio l’assemblea nazionale di Liberi e Uguali ha deciso di continuare comunque la costruzione del partito, dandosi delle precise scadenze. Poco dopo è stato nominato, non si sa bene con quali criteri e proposto da chi, un comitato promotore nazionale, in molte città sono nati i comitati locali, è stata avviata una campagna di pre-adesione. Io, a oggi, sono iscritto a Liberi e Uguali.
Da lì, il nulla. Prima si è chiamata fuori Sinistra Italiana dando la colpa a Grasso e a Mdp, poi Mdp ha annunciato che, visto che era finita l’esperienza di Leu per colpa di Si e di Grasso avrebbe dato vita, a sua volta, a una fase costituente. Appuntamento il 16 dicembre. In tutto questo non c’è stato un solo momento collettivo in cui poter discutere. Anche l’ex presidente di Lega Ambiente, Rossella Muroni, nel frattempo, ha annunciato, nel frattempo la volontà di costruire un suo partito, i nuovi verdi.
In mezzo al guado, a partire dal mese di ottobre, alcuni comitati locali di Leu hanno cominciato a parlarsi, a incontrarsi e hanno lanciato l’idea di vedersi tutti quanti a Roma il 24 novembre. Per discutere insieme, appunto, e vedere se ci sono le condizioni per proseguire. Al momento, gli unici ad aver risposto presente fra i dirigenti sono Grasso e Laforgia, senatore, ex capogruppo di Mdp alla Camera.
Tirando le somme, allo stato attuale, tralasciando alcune figure minori e patrioti vari, allo stato attuale da Liberi e Uguali rischiano di nascere almeno 6 partiti. Si fa per dire. Diciamo che rischiano di nascere 6 segreterie nazionali. Alle elezioni europee, per essere concreti, nella migliore delle ipotersi potremmo dover scegliere fra il partito di Grasso e Laforgia, la formazione di Boldrini e Smeriglio, il nuovo raggruppamento fra Sinistra Italiana e Rifondazione, il partito rosso-verde annunciato da Speranza. In più avremo Pap, i soliti sei, sette partiti comunisti, Possibile da qualche parte si andrà a collocare. Una roba che viene voglia di metter su casa nella foresta amazzonica, altro che nel bosco di bersaniana memoria.
Fin qui la descrizione della situazione, mi perdonerete la rozzezza delle semplificazioni, ma altrimenti servivano due pipponi. Ora provo a dire la mia. Intanto non capisco. Ma davvero, non è una provocazione. Non capisco la differenza fra la fase costituente che propongono Grasso e Laforgia e quella che propone Speranza. L’unica differenza che percepisco chiaramente è che si tratta di due progetti distinti. Per quali ragioni non è dato sapere. A meno che non si voglia davvero sostenere che ci si divide sul metodo da adottare per prendere le decisioni: solo online? Solo nelle assemblee fisiche? Sono problemi seri che attanagliano il Paese intero. Almeno Sinistra Italiana e Mdp sembrano avere differenze di prospettiva: a quale gruppo aderire una volta eletti nel Parlamento europeo? Presentare o no la lista di Leu alle elezioni? Certo, ci sarebbe piaciuto dire la nostra, ma capiamo che praticare sul serio un percorso di partecipazione democratica è più complesso che annunciarlo. Invece tra Speranza e Grasso le divisioni sono davvero incomprensibili. L’unica cosa certa è che le opposte tifoserie sono già al lavoro. E quando partono gli ultras tutto è perduto. Non c’è più il ragionamento, non c’è più il confronto, tutto si riduce al “serrate le file” della propaganda.
Io credo, però, che possiamo ancora fermarci a riflettere e creare le condizioni per il rilancio di una forza che abbia una forte tensione unitaria. Il tempo non è ancora esaurito. E credo che l’occasione, l’ultima, possa diventare proprio l’assemblea nazionale lanciata dai comitati locali per il 24 novembre. Le condizioni per farla diventare un appuntamento costruttivo sono chiare, ma non semplici. Intanto bisogna arrivarci con la mente aperta, non con i paraocchi del tifoso. E poi bisogna invitare tutti, ma proprio tutti. Da Lotta Comunista fino alla sinistra del Pd, direi tanto per chiarire il campo a cui secondo me dovremmo provare a rivolgerci. Dovremmo guardarci in faccia e capire che il momento è talmente grave che non si può stare a sottolineare le virgole che ci differenziano. A me sembra che un buon punto di partenza per la discussione sia il documento proposto da Grasso. Non è perfetto, ma è una base che non mi sembra si distanzi in maniera così profonda da quello consegnato sabato scorso al coordinamento nazionale di Mdp. Assumiamo quel documento, facciamo ripartire un movimento unitario con quel percorso che avevamo immaginato. Creiamo in ogni città dei luoghi in cui discutere unitariamente, non per partiti separati. E da lì diamo la spinta necessaria a superare le difficoltà. In parallelo si può eleggere (non nominare per carità) una commissione nazionale che prepari poche e semplici regole per adesioni e percorso congressuale. Il tutto entro gennaio.
C’è il rischio, lo sento già molto presente nelle discussioni online, che, invece, l’assemblea del 24 novembre diventi il luogo in cui ci si limiti a sancire le divisioni e si fa nascere non Liberi e Uguali, ma l’ennesimo partitino senza prospettiva. E’ perfino facile: si parte con le accuse ai gruppi dirigenti inadeguati, ci si autointesta la rappresentanza esclusiva della base, si affibbiano colpe a destra e a manca. Basta un attimo e ci si ritrova intruppati al seguito di qualche aspirante leader. La prospettiva francamente non mi alletta un granché. Come si dice a Roma: peppa per peppa mi tengo peppa mia. Eppure, prima di prendere la strada della foresta, secondo me vale la pena di fare l’ultimo tentativo. Parliamoci con sincerità, ascoltiamoci con attenzione e valutiamo insieme. Ci sarà tempo per creare un gruppo dirigente nuovo, mettendo alla prova tutti noi nel processo unitario.
Non mi adeguo, lo ribadisco. E, lo spero davvero, credo che il 24 novembre saremo in tanti a non adeguarci.
E io me ne vado a Cuba.
Il pippone del venerdì/73
Nei giorni scorsi, nel corso di una chiacchierata, mi sono trovato a dover illustrare a mio figlio diciassettenne l’esistenza in Italia di un Pci, un Pc, un Prc. Ovvero, per i non addetti ai lavori, tre partiti che si ispirano al comunismo. In realtà le sigle che contengono la parola magica sono molte di più, ma siccome non siamo provvisti di microscopio elettronico ci siamo limitati alle tre più note. Ovviamente non mi sono addentrato sulle ragioni dell’esistenza di forze comuniste distinte, ma solo a una descrizione statica. Né ho provato a spiegargli perché Potere al popolo e Liberi e Uguali, liste nate prima delle scorse elezioni con la medesima ambizione di creare una nuova voce unitaria della sinistra, si siano presentate separate, né, tantomeno, perché adesso siano a loro volta sull’orlo di una nuova spaccatura. Potere al popolo si è addirittura diviso sulle modalità con cui le proposte di statuto sono state pubblicate sul sito. Alla votazione, per dovere di cronaca, hanno partecipato circa 4mila persone su 9mila iscritti complessivi. Ora Rifondazione, si vocifera, potrebbe bloccare l’uso del simbolo.
La discussione dentro Liberi e Uguali (sempre per partiti separati, non sia mai che ci si vede tutti insieme) nel frattempo prosegue con un irrisolvibile tira e molla fra chi vuole allearsi con Potere al popolo e De Magistris e chi guarda al Pd di Zingaretti. Nel Lazio, dove siamo sempre un passo avanti, un nutrito gruppo di dirigenti e amministratori vari è già salito sul carro del presidente della Regione, con la benedizione dell’assemblea di Mdp. Mi auguro che qualche zelante funzionario non mi chieda di fare i nomi, basta usare google e leggere i documenti approvati. Per farla breve: secondo quelli di Sinistra italiana Leu non si farà per colpa di Mdp, per quelli di Mdp Leu non si farà per colpa di Sinistra italiana. Tutti d’accordo solo nel dire che le colpe maggiori le ha Grasso. Che magari non sarà proprio un leader di prima grandezza ma, francamente, mi sembra meglio della marmaglia assetata di strapuntini che lo attornia. Liberi e Uguali, diciamolo, è morto.
Insomma, la situazione è al limite della farsa. Unica nota positiva di questi giorni è che le grida di allarme e di dolore che sento sono (forse) meno isolate e, con molta lentezza, si stanno mettendo in rete. Diverse zone di Roma, della provincia, il coordinamento milanese, molti compagni toscani hanno cominciato ad agitarsi in forma meno isolata e stanno provando a costruire un appuntamento comune. Un primo tentativo ci sarà a Roma il 20 ottobre (cliccando qui trovate il documento), ma sono molti gli spunti interessanti che si trovano in rete, come la petizione lanciata dal coordinamento del VII Municipio. Il percorso sarà lungo e l’esito è davvero non scontato. Siamo appena ai preliminari. L’importante è partire avendo, secondo me, poche ma chiare coordinate. La prima è spazzare via questi gruppuscoli dirigenti che ormai guardano soltanto alla propria salvezza e non riescono ad avere uno sguardo oltre l’oggi. Non sono cattivi, sono proprio poca cosa. Archiviamoli con decisione.
Resto pessimista e resto convinto che bisogna darsi un orizzonte lungo, evitando accelerazioni elettorali. E magari anche aprendo un confronto con quello che resta di Potere al popolo. Anche loro, se si sbarazzano davvero della zavorra di Rifondazione, sono un soggetto con il quale mi piacerebbe discutere. Da pari a pari. Sono anticapitalisti e antiliberisti, hanno in mente una forma di soggetto politico interessante, dove l’agire va di pari passo rispetto all’elaborazione ideale. Insomma una sorta di Syriza all’italiana. Perché non avviare un percorso comune di confronto per valutare se ci sono le condizioni per buttarsi alle spalle qualche divisione artificiosa? Io resto convinto che tutte le divisioni di questi anni siano il risultato di dirigenti litigiosi che appena vedono venir meno il loro ruolo si fanno il proprio partitino personale. Sarebbe il caso, lo so sono ripetitivo ma serve, di lasciarli a parlare da soli. Manco se ne accorgono secondo me. E di finirla con il classico “io con quelli mai perché vent’anni fa…”. Parlandosi potremmo scoprire di essere meno diversi di quello che sembra guardandosi da lontano.
Credo anche che nelle prossime settimane, però, si avrà un po’ di chiarezza in più. Inutile dilungarsi oltre adesso. E allora per questa volta la faccio davvero breve e vi lascio alle vostre beghe italiche. E’ molto dura abbandonare questo momento così effervescente e brillante dal punto di vista intellettuale, ma il dovere mi chiama: preparo le valigie e me ne vado a Cuba. Dove spero di non sentire parlare di voi. Ci vediamo fra 15 giorni.
Alle prossime Europee? Tutti al mare.
Il pippone del venerdì/71
In queste settimane apparentemente silenziose in realtà la sinistra italiana si sta accapigliando per trovare una soluzione al tema dei temi. Non si parla di ambiente, di immigrazione, di politica della casa o dei trasporti, non vi preoccupate, ma semplicemente di come garantire la sopravvivenza di qualche parlamentare europeo. L’idea brillante è di fare una lista, ma alla fine vedrete che ne saranno almeno due, ovviamente unitarie, antagoniste, anticapitaliste. Non è una novità, quella dell’ammucchiatina dei residuati bellici degli anni ’90 da assemblare in contenitori dei quali si magnificherà per qualche mese il futuro unitario per poi dividersi il giorno dopo le elezioni. E come al solito saremo costretti a leggere l’ennesima sfilza di pensosi interventi di dirigenti e intellettuali che cercano di spiegarci per quale motivi gli elettori non ci votano.
C’è chi vuole fare una lista con Varoufakis, chi con Mélenchon, chi resta ancorato al Pse. Si cercano possibili leader, ora va di moda il sindaco di Napoli De Magistris, che dopo molti tentennamenti si sarebbe deciso a scendere in campo in prima persona, forse convinto dall’avvicinarsi della scadenza del suo secondo e ultimo mandato. Da parte mia, ho passato la scorsa domenica alla festa nazionale di Mdp. Ho ascoltato due dibattiti e il comizio di Speranza. Ne ho tratto due o tre impressioni che vi racconto come mi sono arrivate, senza troppe rielaborazioni. La prima: c’era molta gente ai dibattiti, zero nel resto della festa. Oddio non che ci fosse molto da vedere, giusto qualche stand per altro molto “essenziale”. Però è esattamente il contrario di quello che succede di solito nelle festa in piazza: molta gente a mangiare oppure nella parte commerciale, meno quelli interessati alla politica. Insomma, un appuntamento per soli addetti ai lavori. La seconda: proprio nel giorno in cui Grasso sui giornali parlava di stato di “stallo” di Liberi e uguali, il coordinatore nazionale di Mdp, nel comizio conclusivo della festa non ha nominato né Grasso né tanto meno Leu. Cancellati. La terza è che, delle discussioni a cui ho assistito, quella più attuale e legata alla concretezza dell’oggi è stata quella sul valore di Marx oggi, il dibattito, insomma, che avrebbe dovuto essere più intellettuale. E sicuramente è stata un’ora di buon livello, con spunti di livello universitario da parte degli oratori, ma è stata anche la più utile se ci si vuole calare nella realtà e tornare a fare iniziativa.
In estrema sintesi, comunque, tutti d’accordo nel porre l’accento sulla gravità della situazione attuale, nessuna indicazione o proposta per mettere un freno alla destra, per dare qualche segno di esistenza in vita. Il gruppo dirigente della sinistra nelle sue varie forme, dal 4 marzo in poi è intronato. Non trovo forme più eleganti per definirlo. Non che prima fossero poi tanto più svegli. Ma oggi il tracciato cerebrale è tendente al piatto assoluto.
L’analisi più lucida l’ho letta in una lettera al Manifesto di un gruppo di giovani, la sintetizzo così: non siete riusciti a fare un partito decente, non siete riusciti ad avviare un po’ di ricambio della classe dirigente, non siete nemmeno riusciti a fare un’analisi delle ragioni della sconfitta, adesso manco riuscite a mettere in piedi un’opposizione decente al governo sempre più Salvini e sempre meno Di Maio. Conclusione secca: dimettetevi in blocco, pensionatevi. Dieci minuti di applausi.
Ora, nessuno probabilmente li ascolterà. Non si prenderanno neanche la briga di dare una risposta. Continueranno nell’insulso dibattito fra dirigenti che non riusciranno mai a trovare un minimo comune denominatore. Io sono convinto che sarebbe semplice: basterebbe partire dalle questioni su cui ci si trova tutti d’accordo e lasciare aperte quelle in cui non si arriva a una posizione unitaria. E invece non vogliono trovare un accordo che ponga le basi per un nuovo partito. Nel Pd, che secondo molti resta l’unica scialuppa da non abbandonare, fra Renzi e Zingaretti si dibatte all’ultimo sangue per stabilire chi dei due sia più antigrillino. Per le europee si parla di un fronte unico da Macron a Tsipras (che ha già detto no) e Renzi che come al solito si porta avanti con il lavoro firma il manifesto del leader francese. Nell’arcipelago variegato extraPd si dibatte su chi bisogna escludere per fare una lista di sinistra vera. Con tutti gli “anti” del caso.
Personalmente mi annoio e penso sinceramente che forse sarebbe il caso di prendere la famosa strada del bosco. E questa volta niente tenda, che si ha una certa età e di inverno fa pure freddo e c’è molto umido. Si fa una bella casetta di legno, con tanto di camino. Comincio a pensare che forse sarebbe bene stare fermi un giro, eliminando l’ansia da prestazione elettorale, la corsa al seggio verso Strasburgo, la lettura affannosa dei sondaggi che ti danno sempre in bilico sul quorum. Questa volta probabilmente non lo supereremo, tra l’altro. Eliminata l’urgenza, forse, ci si potrebbe dedicare a questa scomposizione e riaggregazione della sinistra di cui tutti parlano ma che nessuno ha il coraggio di cominciare visto il prossimo appuntamento elettorale. Certo, si lascerebbe libero il campo alla destre e a Grillo, ma viene il dubbio che forse con due o tre liste raccogliticce non solo il suddetto campo sarebbe altrettanto libero, ma anche arato e pronto al raccolto per Salvini e soci.
Forse, il dubbio me lo consentirete è legittimo, sarebbe bene cominciare a piantare qualche seme che vada oltre l’urgenza elettorale. Sarebbe bene mettere qualche radice più forte, far crescere una pianticella nuova. Vi lascio con questa domanda. Non credo che nessuno abbia la risposta, ma secondo me è più interessante rispetto allo stabilire se Zingaretti sia un argine ai Cinque Stelle o no.
Nel frattempo il governo Salvini si prepara a una legge di stabilità pericolosa: aumenta il deficit, la nota di aggiornamento del Def parla del 2,4 per cento, con buona pace del ministro Tria costretto alla resa. Sarebbe anche interessante se le risorse in più fossero destinate agli investimenti. E invece no, tutto sulla spesa corrente. Dei tagli agli sprechi, dei fondi per mettere in sicurezza il territorio nessuna traccia. Ci vorrebbe un partito che facesse opposizione sociale. E invece pensano a garantire qualche poltrona. Auguri.
Indovina chi viene a cena?
Il pippone del venerdì/70
Anche diversi autorevoli commentatori, perfino qualche maître à penser, dopo una lunga e approfondita analisi si sono accorti della fase di implosione che sta vivendo il Pd. I più acuti sono perfino arrivati alla conclusione che non è tanto questione di questo o quel segretario, ma che proprio non si tiene insieme. Ci tengo a far notare come noi, che siamo comuni mortali e non abbiamo lunghi titoli accademici, c’eravamo arrivati tempo fa. Senza farla troppo per le lunghe, per chi quel partito l’ha vissuto a lungo, perfino con ruoli dirigenti, non è stato troppo difficile capire che due culture politiche così differenti possono allearsi ma non riescono a convivere nello stesso contenitore. Non è soltanto una questione di linea politica, di essere più o meno di sinistra, ma di cultura. Basta pensare al tesseramento. Alle tessere fatte a pacchetti per contarsi ai congressi rispetto a quello che era l’iscritto al Pci. Acqua e olio, si potrebbe dire. Anche se il paragone in realtà regge poco perché nel nostro caso la cultura politica ex dc ha inglobato fino a farla sostanzialmente scomparire la cultura politica ex comunista.
Insomma, non servivano menti così elevate, né analisi epistemologiche approfondite per arrivare a questa conclusione. Se in più ci si mette il corto circuito creato dal renzismo, che in un certo senso è riuscito a riunire il peggio delle due culture, si capisce anche come, oltre all’amalgama impossibile, si sia arrivati alla attuale farsa delle cene contrapposte. Che poi, questa abitudine di fare i patti politici a cena non mi ha mai convinto. A cena si mangia e si beve. Gli accordi sarebbe bene farli nelle sedi proprie. Si potrebbe anche finire qui, lasciando all’oblio della cronaca che si cancella nello spazio di un click, questa ridicola vicenda delle cene contrapposte. Non prima, però, di aver rilevato quanto fosse “antipatizzante” l’originale proposta di Calenda, perfetta esemplificazione del cosiddetto “partito ztl”: ci vediamo in quattro ai Parioli e decidiamo per tutti. ‘Na roba che ti fa perdere un paio di centomila voti solo con il titolo dei giornali. C’è da dire però che anche la risposta di Zingaretti (prendo qualche idealtipo e lo metto a tavola in trattoria) è sembrata un po’ raccogliticcia. Lo staff che segue la comunicazione dell’aspirante leader del Pd deve cercare di fare di meglio che riciclare format che già con Veltroni suonavano un po’ finti.
Archiviamo dunque il Pd e le sue cene? Magari. Ci vorrà anche qualche mese, ma forse alla fine anche i suddetti commentatori ci arriveranno: non solo il Partito democratico non riuscirà mai a essere unitario per la sua stessa natura, ma la sua esistenza stessa impedisce, di fatto, che in Italia ci possa essere una sinistra realmente competitiva con la destra.
Le ragioni sono essenzialmente due. La prima è evidente: quel partito, con tutti i suoi difetti e la sua crisi irreversibile, comunque sia è un contenitore da sei milioni di voti. Un grande inganno, insomma, che tiene prigioniero un bacino elettorale ancora decisamente di sinistra. Una sorta di sindrome di Stoccolma su scala italiana, in pratica. A torto o a ragione, non è questo il dato importante, l’elettore italiano ritiene che quella sia l’unica esperienza di sinistra credibile e in grado di essere sfidante nei confronti della destra. Non dico che questa situazione sia irreversibile, anzi il progressivo travaso di voti dai Democratici verso l’astensione e – forse ancora di più – verso i 5 stelle, ci dice il contrario. Eppure restano quei 6 milioni di cittadini, secondo me ancora legati da un voto ideologico per il quale il “Partito” si vota comunque. Con questa realtà tocca farci i conti.
La seconda è forse più sottile. Il Pd, in realtà, resta anche il partito di riferimento di chi lo critica da sinistra. Basta guardare con occhi attenti la vicenda di Mdp. Quel pezzo di gruppo dirigente che si è separato dai Democratici oramai quasi due anni fa, in realtà si considera ancora una corrente interna. Poco importano le parole o le sigle messe in campo. Siccome sono convinti che il problema fosse Renzi, aspettano soltanto che il fiorentino venga messo da parte una volta per tutte. Magari non torneranno subito a casa, magari si acconceranno a fare qualche listarella civetta per far finta di aver fatto un nuovo Ulivo. Ma la strada per loro è segnata. Proprio non ci riescono a immaginarsi autonomi, liberi di percorrere strade differenti. Aspettano comunque di capire cosa succederà nel Pd. Poco importa che i democratici che si definiscono più di sinistra, Zingaretti ad esempio, li considerino quasi un peso, preferendo affidare il lato “radicale” della coalizione a figure considerate più attraenti, come Boldrini e Smeriglio. Loro stanno lì, seduti sul loro strapuntino ad aspettare un cenno, un segnale di benevolenza. E intanto, come in un gioco degli specchi con il Pd, non si rendono conto di offrire un altro contributo alla disperazione di quel popolo di sinistra che si è rotto le scatole di essere considerato “carne da elezioni” o poco più.
Questo, diciamolo con chiarezza, ha piombato le ali di Liberi e uguali fin dall’inizio. Non solo e non tanto l’essere percepiti come troppo vicini al Pd, ma l’essere, di fatto, una sua succursale costruita soltanto in attesa di tempi migliori. Nel nostro piccolo questo rischio lo abbiamo denunciato per tempo, non da soli. Ma l’attuale gruppo dirigente di Mdp questo è in grado di fare, non altro. Né, del resto, si va più lontano con quelli di Sinistra italiana, abituati anch’essi a definire se stessi in funzione del Pd. Non dimentichiamo che Sel (più o meno la provenienza è quella) non nasce come soggetto autonomo ma come gamba sinistra della coalizione. Le origini quelle sono, non se ne esce. E ha ragione Grasso a dirlo chiaramente: i dirigenti non vogliono la trasformazione di Leu in un partito, contro quello che pensa buona parte della loro base.
Per dirla in breve, tutti noi, tutti insieme, non saremo in grado di fare una cosa davvero differente fino a quando l’implosione dei democratici non sarà completa. Allora, solo allora, si libereranno le energie necessarie e ripensare una forza di sinistra. Inutile, quindi, agitarsi troppo, questa la drammatica conclusione a cui volevo arrivare, basta mettersi a sedere, sperando che Salvini e soci facciano in fretta a spazzare via quello che resta. Sarò anche cinico, ma, come sempre ve la dico come la penso. Una cena alla volta, non ci vorrà molto tempo. Nel frattempo studiamo, documentiamoci, lavoriamo sui territori, teniamoci allenati, torniamo magari a parlare di questioni comprensibili ai più e non solo dei villini liberty da difendere a tutti i costi. C’è un popolo che non riesce più a mettere insieme il pranzo con la cena. C’è un paese che crolla letteralmente. La sinistra esca dal ghetto dorato dei centri strorici: deve tornare in sintonia con il sentire profondo di questo Paese, tornare ad essere popolare. Invece delle cene con le posate d’argento, invece dei tavoli a invito, tocca ripensare alle tavolate di un tempo.
Meglio andare al mare, che fa caldo.
Il pippone del venerdì/65
La situazione è questa: nel Mediterraneo si continua a morire mentre Salvini mostra i muscoli a chi annega. Nel frattempo ci ritroviamo uno che fino a poche settimane fa era dipendente di Mediaset alla presidenza della commissione di vigilanza sulla Rai con i voti di Lega, Forza Italia e Pd. E per finire, per alleggerire il decreto dignità, tanto vacuo ma comunque inviso a Confindustra talmente assuefatta ai governi scendiletto da non poter sopportare alcuna regola in favore dei lavoratori, quasi certamente torneranno i voucher, ovvero la schiavitù con un nome più corretto.
In tutto questo dove siamo? Protestiamo su facebook, ci facciamo coraggio tra di noi e ne usciamo con le nostre convinzioni ancora più forti. Il Pd riunisce la sua segreteria nazionale nelle periferie più disagiate di Roma, Napoli e Palermo, dibatte con grande ruvidezza sulla data in cui svolgere le primarie e sta bene così. Articolo Uno celebra clandestinamente un congresso senza senso alcuno e sta bene così. Liberi e Uguali agonizza, tra nomine come al solito calate dall’alto e silenzi imbarazzanti che continuano a essere la nota caratteristica di questo “soggetto politico”. Poi alla prossima assemblea nazionale magari si ripresenteranno a chiedere scusa. I sondaggi, per la cronaca ormai danno Salvini-Di Maio oltre il 60 per cento e se non ci diamo una mossa alle prossime elezioni la sinistra non concorrerà proprio. Perché quando gli elettori hanno la percezione che siano altri i protagonisti della partita il voto tende a polarizzarsi, ormai dovremmo averlo capito.
Eppure si può anche fare di peggio. Basta leggere le due proposte contrapposte – ma in fondo uguali – che arrivano da Laura Boldrini e Nicola Fratoianni. Due che, badate bene, sono stati eletti in Parlamento nelle liste di Leu con l’impegno, va sempre ricordato, a costruire un partito unitario a partire dal 4 marzo. In questa situazione, dai due più barricaderi leader della sinistra multipla uno si aspetterebbe chiamate in piazza anche alla fine di luglio. Niente da fare. Si ha piuttosto la sensazione che si trovino su qualche terrazza a discettare sorseggiando aperitivi esotici. L’ex presidente della Camera lancia un’ideona per le elezioni europee: la lista di tutti i progressisti (in sostanza Pd e Leu), un’alleanza doverosa, a suo dire, per contrastare i populismi. Il segretario di Si fa la proposta opposta (e per questo, in fondo, uguale): una bella lista unitaria di tutta la cosiddetta sinistra radicale. Rifondazione, De Magistris, Altra Europa, Sinistra italiana: tutti insieme appassionatamente. Dico che si tratta di due proposte opposte ma in fondo uguali perché hanno una nota comune se ci pensate bene: tutte e due prevedono la fine di Liberi e Uguali. Quelli che vengono dal Pd ritornino nel Pd, o in un listone simile. Quelli che vengono dalla sinistra radicale tornino con gli altri pezzettini di quell’area. E vissero felici e contenti. Quelli delle varie destre ovviamente.
L’ho scritto tempo fa, ma oggi mi sembra ancora più attuale. Sembra di vivere una specie di film di quelli dove ogni giornata si ripete uguale all’infinito. Cambiano i protagonisti, ma gli errori restano sono sempre gli stessi. E così dopo il nuovo Ulivo pensato da Pisapia per ripetere i fasti – e i disastri – di Prodi arriva addirittura la lista unita della coraggiosa Boldrini. Con quali riferimenti culturali, con quali alleanze a livello europeo non si sa. L’unica cosa che conta è far fronte comune contro i barbari che ormai non solo sono alle porte ma sono proprio dentro casa. Poco importa che il Pd guardi a Macron e continui a rivendicare le politiche liberiste adottate dai suoi governi. L’importante è stare insieme. E così, come un novello Bertinotti, incurante del pericolo, arriva il Fratoianni e lancia la nuova accozzaglia radicale. Obiettivo dichiarato eleggere i soliti due, tre europarlamentari. Perché di questo stiamo parlando. E’ dimostrato che gli elettori non la votano questa roba.
E di tutto quello che succede fuori? Se ne interessa qualcuno? Pare di no. Abbiamo un coraggioso deputato che si è imbarcato sulla nave di una Ong del Mediterraneo. Ogni tanto arriva qualche comunicato di Fassina che osanna le tesi del maestro Savona. Poco altro. Tutti a dibattere su cosa fare alle elezioni europee. Che poi sarebbe anche un tema interessante se si affrontassero i nodi veri che abbiamo di fronte. Intanto come si ricostruisce una casa della sinistra anche a livello europeo, andando oltre gli steccati di adesso. Perché oggi come oggi io non mi sento troppo vicino al Pse, o almeno a buona parte dei suoi dirigenti, ma mi sento stretto anche nella Gue, che appare come una formazione residuale, senza la capacità di incidere davvero. E infatti, gli altri, in tutto il continente, di questo stanno ragionando. C’è il tentativo di Diem25, c’è stato il documento firmato da Mélenchon, Podemos e dai portoghesi del Bloco de izquierda. Ci sono movimenti anche nel Pse, dove gli spagnoli non sono proprio uguali ai tedeschi. Non si parte dal contenitore, nel resto di Europa di parla delle questioni che abbiamo di fronte. Gente strana.
Si ha la sensazione, insomma, che l’Italia sia un’isola a sé, chiusa a tutto quello che le avviene intorno, dove protagonisti vecchi al di là dell’età anagrafica tendono a riproporre formule ancora più stanche con l’unico scopo di salvare qualche posticino. Spero di essere smentito ovviamente. Magari a settembre il gruppone di nominati da Grasso nel comitato promotore di Leu ci stupirà producendo un bellissimo manifesto fondamentale del nuovo partito che dia una base solida alla discussione. Magari avremo finalmente un percorso nel quale si parte dai quartieri e non da assemblee provinciali finto democratiche dove prevalgono necessariamente le vecchie consorterie e si riesce a stento a parlare. Cinque minuti, mi raccomando i tempi.
Intanto – e per oggi la finisco – meglio andare al mare, che fa caldo. Incrociamo le dita che di agosto la sinistra di solito è in grado di dare il peggio del peggio. L’idea del Pd, solo per fare un esempio, nacque proprio in agosto, da un appello di Prodi ai partiti dell’Ulivo per fare una lista unitaria in vista delle elezioni europee che si sarebbero state l’anno dopo. Insomma, tutti al mare, con le dita incrociate. Quello che ci aspetta a settembre, mai come quest’anno, non è dato saperlo. Per ancora un paio di settimane vigilo da qui.
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