Semplificare va bene, ma con regole chiare e sanzioni certe.
Il pippone del venerdì/143
Dopo i decreti che complessivamente hanno stanziato più di 80 miliardi di euro per sostenere l’economia disastrata da questi mesi di chiusura, il governo pare voler mettere mano con una certa fretta a una lenzuolata di semplificazioni.
E di certo ce n’è davvero bisogno, in un Paese sommerso da leggi, decreti, circolari e via dicendo. Basti pensare al meccanismo usato all’inizio dell’epidemia per accedere alla cassa integrazione: le Regioni esaminano le domande delle imprese, poi le inviano all’Inps, poi vengono girate alle sedi provinciali dell’Inps medesima che danno il via libera definitivo. Se c’è un errore, sia pur minimo, in tutto questo giro di pratiche, si torna alla casella iniziale. Ancor più tortuoso il meccanismo per gli altri aiuti previsti a livello nazionale, che poi si sono intrecciati con gli interventi delle Regioni e dei Comuni in un groviglio di norme che ha generato confusione e ha spesso azzerato l’efficacia degli interventi. Ora, se si fa un provvedimento in emergenza, la principale caratteristica che deve avere è quello di essere rapido. In Italia, molti delle decisioni prese non hanno ancora prodotto alcun effetto.
Ora, uno sano di mente, potrebbe anche sostenere una regola semplice: siccome siamo in emergenza, intanto ti do il contributo, poi faccio i controlli. Sembra facile, ma siccome non siamo in un paese di sani di mente, un principio di questo tipo avrebbe forse scatenato speculazioni di ogni genere.
Se c’è una cosa sicura, però, è che di semplificare una macchina pubblica a dir poco ingessata ne abbiamo davvero bisogno. Fra il dire e il fare, però, non c’è di mezzo un tratto di mare di agevole traversata.
Intanto chiariamoci sul cosa vuol dire semplificare. La destra liberista, da Reagan in poi, ha sempre inteso la semplificazione come eliminazione delle regole pura e semplice. I vecchietti come me ricorderanno, solo per fare un esempio, il disastro prodotto dal presidente-attore con uno dei primi provvedimenti, la famosa deregulation dei cieli. Azzerando, di fatto, il sistema di norme che regolava il settore del trasporto aereo si produsse non tanto un nuovo slancio per le imprese, ma un gran caos e, soprattutto, una drastica riduzione della sicurezza e delle garanzie per i cittadini.
Ecco, allora cominciamo con il dire che semplificare significa l’esatto contrario della deregulation globale che vorrebbe la destra. Vuol dire, al contrario, meno regole, ma chiare e con sanzioni certe.
Semplificare vuol dire, ad esempio, che quel sacrosanto principio che dice “l’amministrazione non può chiederti un documento già in suo possesso” deve diventare effettivo. Faccio un esempio legato alla mia attività professionale. Non so come sia la situazione adesso, ma fino a qualche anno fa registrare una testata al tribunale civile di Roma era impresa da far tremare i polsi. Ricordo che, simpaticamente, chiamavo la dirigente della sezione Nonna Papera, nel senso di una funzionaria che sembra amichevole, ma che quando si intestardisce non ti fa passare neanche una virgola fuori posto o una marca da bollo apposta leggermente al di fuori degli spazi. La dichiarazione antimafia che le aziende devono produrre, ad esempio: dovevi andare in camera di commercio, fare un’autocerficazione e ti davano un pezzo di carta dove risultavi pulito da procedimenti pendenti presso il tribunale sia di carattere penale che amministrativo. Insomma, dovevi presentare al tribunale un documento in cui la Camera di commercio certificava la tua firma su un atto in cui dichiaravi che non avevi problemi con il tribunale. Potrebbe sembrare comico, ma una roba del genere vuol dire almeno una giornata di lavoro persa.
Altro esempio: l’urbanistica. In Italia vuol dire stanzoni pieni di faldoni, leggi che cancellano altre leggi, circolari esplicative che paiono libri di filosofi incomprensibili. Tradotto nella pratica, un esercito di persone che interpreta e studia come fregare la legge. Io non credo, mi limito all’esperienza di Roma, che negli ultimi vent’anni sia stato costruito un solo edificio che rispetti al cento per cento le norme esistenti.
Insomma, ridurre il numero delle leggi è un’altra delle questioni. Meno norme, magari scritte anche in maniera comprensibile e non interpretabile.
La terza riflessione da fare riguarda il personale della pubblica amministrazione. Sempre per esperienza personale, adesso la situazione è più o meno questa. Abbiamo dipendenti con un’età media molto alta, frutto avvelenato degli anni del blocco del famoso turn over, ovvero il mancato ricambio di chi va in pensione. E questo non solo vuol dire una pubblica amministrazione che spesso ha difficoltà persino ad accendere un computer, ma anche dipendenti che sono arrivati alla conclusione della loro carriera, non hanno più ambizioni di miglioramento e il famoso “questo non è di mia competenza” è diventato la regola aurea di tutti gli uffici pubblici. Se all’interno di questo sistema hai un’iniziativa originale diventi una specie di gatto nero da evitare con cura e mettere in quarantena. Non serve meno pubblico, non bisogna ridurre la quantità dei burocrati. Serve che la pubblica amministrazione si apra a una generazione che porti innovazione positiva, una mentalità diversa.
Quarto e ultimo punto: la certezza della pena. Serve un sistema di sanzioni davvero effettivo, che faccia pagare chi froda non fra dieci anni, ma adesso. Da noi succede l’esatto contrario, la frode è certa, la punizione è talmente aleatoria che conviene fare i furbi.
Semplificare, insomma, e la finisco qui, vuol dire rendere la vita più facile ai cittadini, non “fate un po’ come vi pare”. Perché la seconda ipotesi la vita ce la rende più difficile, non migliore.
L’Italia riapre tutto senza aver imparato nulla.
il pippone del venerdì/141
Da lunedì, ormai manca soltanto l’ufficialità ma già si sa tutto, si riapre praticamente l’intero Paese. E malgrado i continui appelli alla prudenza del ministro della Salute, c’è già da settimane un clima quasi di festa. Nei parchi, almeno a Roma, sono ricominciate addirittura le partitelle a pallone, disturbate più dall’erba alta che dai controlli dei vigili, inflessibili fino a qualche giorno fa, ora tornati distratti. Quasi offesi per il potere di veto sulle nostre vite che gli è stato tolto man mano. Che poi è anche paradossale: da un lato atleti ipercontrollati devono stare a dieci metri di distanza l’uno dall’altro, mentre stormi di ragazzini scatenati dai due mesi di clausura scorrazzano indisturbati dietro la palla. Stranezze.
Non è che i dati sull’epidemia ci diano tutta questa tranquillità. Siamo stabilmente intorno al migliaio di contagiati al giorno, cifre che, quando si sono presentate nei mesi scorsi ci avevano portato a chiudere tutto e in gran fretta. Certo il verso della curva non è più verso l’alto, anzi tende a una graduale diminuzione. Ma soprattutto è un fatto psicologico.
Con buona pace sia dei prudenti che dei pasdaran, quelli che avrebbero messo l’obbligo della mascherina anche per andare dal salotto alla cucina, l’italiano medio ha deciso che l’epidemia è finita. O che almeno, visto che l’ha scampata fino ad ora, non gli toccherà neanche in futuro. C’è già la fila di prenotazioni dai parrucchieri, le mascherine per molti sono poco più che un oggetto ornamentale da portare al collo.
Il sintomo di questa normalità ritrovata è rappresentato in pieno dal ritorno in patria di Silvia Romano. Ora, non vi tedierò per troppo tempo. Ma il fatto che gli odiatori social si siano scatenati contro questa ragazza è un chiaro segnale del rompete le righe: stanchi di prendersela con il governo cattivo che non ci fa uscire, con i runner, le mamme con i bambini, i proprietari dei cani, siamo tornati a bersagli più classici. Ora, non vi tedierò neanche con ragionamenti astrusi: per me ognuno è libero di fare quello che vuole e le convinzioni religiose di una ragazza non sono affar mio. Vorrei soltanto mettere in evidenza che negli ultimi mesi ci sono stati altri ostaggi liberati, alcuni dei quali a loro volta si sono convertiti e si sono presentati senza le nostre consuete uniformi da occidentali per bene. Non mi risulta che siano stati investiti della stessa ondata di odio sociale. Ma qui stiamo parlando di una donna, per di più non andata in vacanza ma per aiutare gli africani. Ci sono tutti gli elementi, insomma, per uno scandalo vero e proprio.
Siamo tornati al nostro consueto mondo fatto di pregiudizi e razzismo. Il maschilismo neanche tanto nascosto di questi giorni lo dobbiamo inquadrare così.
E’ chiaro, almeno per me, che questa epidemia non ci ha insegnato molto. Lo scrivevo qualche settimana fa, con il mio sano pessimismo, che non ne saremmo usciti migliori. Non che voglia usare il classico “ve l’avevo detto”, non ci voleva certo un veggente per capire quello che avevamo di fronte.
Non siamo stati cambiati dal virus, siamo semplicemente gli stessi di prima. Magari avremo più paura degli innocenti pipistrelli, ma poco altro, Sarebbe da augurarsi, ma anche su questo il dubbio è quasi una certezza, di aver capito qualche lezione, almeno sulle grandi scelte che ci attendono.
Intanto: la sanità non è un costo, ma un investimento. Finiamola di trattare tutto come se fosse un’azienda. E finiamola anche con il mantra del “servono nuovi ospedali o almeno bisogna riaprire quelli vecchi”. Fatta eccezione per la Lombardia, ma lì i danni sono proprio cerebrali e quindi pressoché irreversibili, gli ospedali italiani hanno retto bene l’urto della Covid-19. I posti in terapia intensiva, pressoché raddoppiati in poche settimane non sono stati mai occupati con un tasso maggiore del 70 per cento dei letti disponibili. Abbiamo punte di assoluta eccellenza, l’istituto Spallanzani innanzitutto, che sono una garanzia assoluta. E vanno non soltanto preservate, ma rinforzate.
La sanità è innanzitutto un investimento. Per noi stessi, per la nostra sicurezza. Certo, poi gli investimenti vanno fatti nella direzione giusta. Mi chiedo ad esempio se non sia possibile un modello alternativo alle Residenze sanitarie assistenziali, le famigerate Rsa. Se non si debba puntare a servizi sanitari e socioassistenziali che puntino ad evitare l’accesso in ospedale. Anche qui, va ripetuto fino alla noia: dove la rete della medicina territoriale è stata gelosamente conservata, abbiamo retto meglio all’epidemia. Il disastro c’è stato dove la sanità è tutta centrata sugli ospedali. Un modello che non va bene in tempi normali, ma diventa addirittura pericoloso in tempi di emergenza. Perché si creano enormi potenziali focolai proprio nei luoghi dove ci sono i malati. Non sono un virologo, ma mi pare evidente che un’epidemia si limita isolando i contagiati, se li metti invece insieme agli altri malati diventa una strage.
Abbiamo imparato quanto è importante la ricerca pubblica? Senza condizionamenti del mercato? Abbiamo imparato che le università non si devono cercare gli sponsor ma devono essere finanziate dallo Stato? Non si tratta di una differenza da poco. Perché quando hai uno sponsor fai ricerca condizionata dal ritorno che il mecenate pretende di avere e quindi ti orienti su settori specifici che avranno anche una utilità immediata, ma spesso non portano a nulla dei veramente nuovo. Quello che fa andare avanti il mondo è la ricerca pura, non quella su come si migliora un detersivo.
Abbiamo imparato che il blocco del turn over nella pubblica amministrazione non ci porta né efficienza né uno stato più snello, ma semplicemente riduce il pubblico impiego a un esercito di pensionandi demotivato, che non solo non ne vuole sapere di usare le nuove tecnologie, ma le vive come un nemico ignoto? Solo soltanto spunti, si potrebbe continuare per ore.
Qualche passo compiuto dal Governo Conte in piena emergenza, penso all’aumento dei fondi destinati alla sanità ci fa anche ben sperare. Ma è adesso, che avremo a che fare con la cosiddetta nuova normalità, che vedremo se questa coalizione un po’ strampalata avrà le forze per mettere mano almeno a qualche correzione. Tornare ad esempio a una sanità uguale per tutti i cittadini sarebbe il minimo sindacale. L’importante è, lo ripeto ancora, dimenticare i sondaggi e governare davvero.
Renzi, il nostro mal di testa quotidiano.
Il pippone del venerdì/130
Ho resistito a lungo alla tentazione di parlare dell’attualità politica (se di politica si può parlare), ma alla fine cedo. Anche per rivendicare, ormai alcuni mesi fa, di aver definito l’ex segreterio del Pd un “Bertinotti moderato”. Affermazione che mi ha provocato una marea di critiche dalla presunta sinistra, ma che vedo essere entrata oggi nel lessico quotidiano di molti autorevoli commentatori. Come dire, ogni tanto ci azzecco anche io, fosse pure per sbaglio.
Quello che sta succedendo, torniamo alle cose di oggi, è divertente quanto una sfilza ininterrotta di calci nelle parti basse. E il solo leggere la rassegna stampa ogni mattina – cosa che, purtroppo, mi tocca per doveri d’ufficio – mi provoca un forte giramento delle stesse parti, con conseguente mal di testa che si palesa arrivati a pagina 5 dei principali quotidiani nazionali. Esaurite, cioè, le sfilze infinite di articolesse su retroscena, presunti responsabili che in cambio del mantenimento della poltrona sono disposti a tutto, battute e controbattute.
Ora, tutta questa roba ha l’unico scopo di riempire qualche pagina, tanto, si sa, i quotidiani dopo poche ore sono buoni soltanto a incartare le uova. Se sono online manco per questo nobile utilizzo. Di quello che succede davvero nel Paese, va ribadito, frega poco a quasi tutti. Renzi, in particolare, ha un’unica strategia: Renzi. Cito Bersani, lo confesso, uno che pur con tutte le sue contraddizioni ha una capacità di analisi non comune.
La battuta, di quelle fulminanti, racchiude in sé tutta l’essenza del rignanese, la sua forza e la sua debolezza allo stesso tempo. La sua forza perché all’italiano medio, si sa, il bullo piace. La sua debolezza perché è talmente preso da sé che alla fine si schianta sempre contro un muro che non riesce a vedere.
Entrando nel merito – si fa per dire – Renzi fa due proposte “bomba”, così le hanno definite i giornali: eliminare il reddito di cittadinanza e introdurre il cosiddetto “Sindaco d’Italia”. In pratica propone di sfasciare il governo e di avviare un percorso di revisione costituzionale che a occhio durerebbe un paio di anni. Che le due cose siano in palese contraddizione non gli interessa, vuole soltanto sparigliare le carte. Poco importa che le proposte siano, nel merito, due colossali idiozie.
Intanto, in una situazione di profonda crisi economica – e il coronavirus di certo non aiuterà – tira fuori la brillante idea di togliere qualche miliardo ai disoccupati per darlo ai padroni (si chiamano così, a me tutto sto politically correct dà il voltastomaco). Così si darebbe una forte iniezione di soldi freschi all’economia, sostiene il genio della finanza. Peccato che mancherebbe il mercato a cui rivolgersi, ma mica può risolvere tutto il rignanese, che diamine. Renzi si preoccupa soltanto di infilare un dito nell’occhio, diciamo così, ai grillini che su quel provvedimento hanno battuto da sempre. E che, del resto, segue la strada tracciata dal “Rei”, introdotto proprio dal governo Renzi. Insomma, una cosa di sinistra aveva fatto, ora la vorrebbe togliere soltanto per creare scompiglio. Servirebbe uno dei fratelli Guzzanti in gran forma, ne sentiamo davvero la mancanza.
La seconda ideona, che non c’entra nulla con la prima, è, tradotta in termini comune, l’elezione diretta del premier, al quale si affiderebbe non più un ruolo di primus inter pares all’interno del Consiglio dei ministri, ma diventerebbe un vero e proprio potere a parte. A quali conseguenze porti tutto questo, al lungo lavoro di architettura istituzionale che servirebbe, Renzi non pensa. Lui le riforme le fa in tv. Anche perché anche in questo caso, mica fa sul serio: vuole solo bloccare l’intesa, che i suoi avevano sottoscritto, sulla legge elettorale proporzionale. Perché quello sbarramento al 5 per cento lo taglia automaticamente fuori dal Parlamento. E voi ve lo immaginate un Parlamento senza Renzi? Io francamente sì, lui un po’ meno. L’idea lo terrorizza.
Come andrà a finire? Secondo me male. Perché in tutto ciò il governo resta paralizzato, bloccato da schermaglie parlamentari incomprensibili a tutti, perché il motivo è sempre lo stesso. Logorare l’esecutivo guidato da Conte. Che poi l’abbia fortemente voluto lo stesso Renzi è un particolare irrilevante.
Ma qual è, e mi avvio alla conclusione, non temete, la colpa del povero Conte? E’ semplice: potrebbe occupare lo stesso spazio a cui ambisce l’ex segretario del Pd. Quel centro politico a cui tutti ambiscono, salvo poi ritrovarsi sempre con un pugno di mosche in mano. Terre affollate di gente in cerca di poltrone, meno di elettori, che tendono a polarizzarsi sugli schieramenti maggiori. A Renzi non importa, gli basta di essere al centro dell’attenzione. Alla faccia degli italiani che non arrivano al 15 del mese.
Rientrare nel Pd non serve a nessuno.
Il pippone del venerdì/113
I commentatori, ma anche diversi leader politici a partire dallo stesso Renzi, danno per scontato che l’uscita dell’ex segretario dal Pd coincida con il rientro delle truppe “rosse” di Bersani e D’Alema. Ora a parte che dipingerli come pericolosi estremisti pare un’operazione davvero eccessiva. Stiamo parlando sempre dell’ex presidente del Consiglio che, per primo in Italia, sposò le tesi di Blair e dell’ex ministro famoso per le lenzuolate di liberalizzazioni. Due leader che nella loro carriera politica sono stati ampiamente criticati proprio da quella sinistra cosiddetta radicale che li ha a lungo osteggiati. Anche con qualche ragione. Due riformisti doc, insomma. Se poi cantano bandiera rossa (anche se l’immagine di D’Alema che canta non regge un granché) lo fanno magari per ricordare la gioventù, forse anche con qualche nostalgia, ma di sicuro per loro quella del comunismo non è una prospettiva politica. Ma questo è un altro discorso, sapete come la penso.
Detto questo, al momento, l’unica che ha annunciato la sua adesione al Pd è l’ex Forza Italia Beatrice Lorenzin. Affascinata dal carisma di Franceschini, dicono, interessata comunque a rafforzare la componente di centro che, malgrado quello che appare all’esterno, è sempre più la vera pietra attorno alla quale ruota tutto il partito. Senza Franceschini, mi pare ormai evidente, non si governa quel partito e non si vincono le primare.
Il vero ragionamento che si dovrebbe fare – qualcuno timidamente ci prova – è se l’attuale offerta politica presente in Italia rappresenti l’elettorato. E qui si può aprire un ragionamento serio. Al momento, e gli ultimi partiti nati o nascenti rappresentano bene questa situazione, vanno di moda i leader più che i partiti. E’ un po’ la rappresentazione plastica di quello che scrivevo nell’ultimo pippone la settimana scorsa. La conseguenza della vittoria della cultura berlusconiana che ha scassato i corpi intermedi si riflette nella costituzione di forze politiche in cui conta solo il leader. In suo nome nascono, dopo di lui muoiono. Il partito di Renzi, quello di Calenda, quello di Toti, ma anche se vogliamo Fratelli d’Italia della Meloni e ancor più la Lega di Salvini, contano per quello che dice il leader. All’estremo opposto stanno i 5 stelle, dove, almeno a parole, si vorrebbe praticare una sempre più spinta forma di democrazia diretta che travalica il concetto stesso di partito. Poi, alla fine, comanda sempre Grillo, ma la teoria di Casaleggio (padre) andava proprio a colpire l’essenza stessa della democrazia rappresentativa che, a suo dire, andava sostituita da una consultazione continua del corpo elettorale, rendendo superflue le forze politiche tradizionali. Semplifico, ma alla fine il concetto è questo.
Il Pd stesso, lo ha spiegato bene Renzi nell’intervista dell’addio, nasce con il presupposto del partito carismatico, dove il leader viene scelto attraverso le primarie aperte e il ruolo dei militanti viene declassato a meri cuocitori di salsicce nelle feste estive. Portatori d’acqua senza alcun diritto di scelta in più rispetto ai semplici elettori. E infatti gli iscritti calano e le feste non si fanno quasi più.
La domanda da porsi allora non è se la sinistra di Speranza e Bersani rientrerà o meno nel Pd. Anche perché non si capisce bene, in termini meramente numerici, quale spostamento a sinistra potrebbero determinare in un partito dominato dai centristi alla Franceschini, uno che con i numeri ci sa fare e parecchio. La vera domanda da porsi è se questo schema basato sui partiti personali sia la conseguenza ineluttabile del nostro modello sociale (del resto avviene un po’ in tutto il mondo) oppure se ci sia un mare aperto da navigare a patto di attrezzarsi con la barca giusta. E qui l’esperienza di D’Alema una mano vera la potrebbe dare.
Ovvero: nel mondo di oggi siamo destinati a dare unicamente la fiducia a leader che manco ci dicono cosa vogliano fare, oppure c’è una strada alternativa? Sarà anche vero che destra e sinistra non esistono più, ma rimangono – e sono sempre più drammatiche – quelle diseguaglianza che sono alla base della nascita stessa della sinistra. E’ una domanda alla quale occorre dare una risposta anche in tempi rapidi. L’argine all’avanzata delle destre estreme che in questo momento è rappresentato dal governo Conte2 regge se gli si dà un orizzonte culturale, una mission. Altrimenti, a maggior ragione dopo la scissione di Renzi, sarà un governo in balia dei voti parlamentari, una scialuppa alla mercé delle onde bizzose del leader di turno.
E in questo quadro sta alla sinistra, sia pur socia minoritaria nella maggioranza, provare a dare un timone certo alla scialuppa. Altrimenti non arriveremo mai alla terra ferma.
Quindi la domanda, alla fine, non è se valga la pena rientrare o meno nel Pd. Ma se Zingaretti riuscirà a smarcarsi dal suo ruolo di tacchino designato e diventare il protagonista di un cambiamento vero nel campo politico nazionale, aprendo una vera fase costituente. Non di un nuovo partito che rimescoli un po’ le carte esistenti. Bisogna aprire un cantiere vero che metta al centro non tanto le idee sul da farsi quotidiano, ma la costruzione di un nuovo orizzonte culturale. In questo quadro sì, allora sarebbe suicida per i vari Speranza, ma anche Fratoianni e spezzatini vari, stare alla finestra e non partecipare. Io non credo che ci siano le forze necessarie. Lo dico senza eufemismi. E francamente non me la sento di mettermi al servizio di un progetto che non abbia questa ambizione: interrompere la stagione dei partiti carismatici da nascono e muoiono in funzione del capo e riaprire un percorso di elaborazione culturale ancor prima che politica. Una grande stagione che ponga al centro i temi del socialismo e dell’ecologia che non possono essere più trattati su piani differenti e che abbia come scopo quello della costruzione di una grande forza laburista in Italia. Se si parte da questo e non dalla ricerca del leader a tutti i costi forse una speranza ce l’abbiamo anche noi. Staremo a vedere.
L’unico governo possibile, sperando che basti
Il pippone del venerdì/111
Insomma, abbiamo il governo, che non sarà un dream team, ma del resto in giro tutti questi fenomeni della politica non ci sono. Dicono che sia il governo più di sinistra nella storia d’Italia. Ora, non so se sia vero, quello che è certo è che la sinistra, ancora una volta si fa carico del Paese in un momento molto difficile.
Difficile resistere alla tentazione di dire che ve lo avevo detto, che ad agosto era meglio andare in vacanza e dimenticarsi della politica. Una lezione che farebbe bene ad apprendere il capitano Salvini, che ha messo insieme le due cose, arrivando a perdere nel giro di pochi giorni non solo tutto il potere faticosamente accumulato nel giro di anno, ma – cosa per lui ben più grave – perde il mito di invincibile che si era costruito inanellando una vittoria elettorale dopo l’altra. Regione dopo Regione, per arrivare al picco delle Europee, Salvini aveva trasformato la Lega da movimento locale a partito in grado di vincere ovunque, perfino nel profondo sud da cui, fino a pochi mesi prima, avrebbe voluto addirittura la secessione. Devono essere stati fatali i troppi cocktail.
Ha vinto troppo, si potrebbe chiosare, e si è montato la testa. Ora lo aspetta una – speriamo lunga – traversata nel deserto da cui potrebbe anche uscire come un pollo spennato. Ci vorrà tempo, ci vorrà pazienza. Bisogna tornare a governare l’Italia dopo un anno vissuto più sugli annunci, sui manifesti politico-ideologici trasformati in leggi bandiera, che sui provvedimenti in grado di incidere davvero sulla crisi del nostro Paese. Ha ragione Zingaretti, compito di questo nuovo esecutivo è chiudere la stagione dell’odio.
Sulla nuova alleanza Pd-M5s non voglio tornare neanche troppo a lungo. Da tempo – posso quasi vantare una primogenitura dopo l’intuizione di Bersani (se gli dessimo retta qualche volta…) – vado in giro dicendo che la sinistra e il Pd potevano tornare a concorrere per la vittoria soltanto spaccando a martellate l’asse fra Di Maio e Salvini e riportando il movimento fondato da Grillo alle sue origini. Origini che, pur con tinte miste di populismo e democrazia elitaria, non potevano che essere nella lunga crisi vissuta dalla sinistra italiana. La tematica dei beni comuni, i diritti sociali e civili, una nuova stagione di sviluppo legata al rispetto e alla conservazione dell’ambiente, solo per citare alcuni degli argomenti che i grillini delle origini agitavano come loro bandiera esclusiva, sono i temi con cui la sinistra in tutto il mondo sta facendo i conti. E solo uscendo dall’equivoco bastardo della mitigazione del neo liberismo si torna a essere percepiti come punto di riferimento.
Certo, si poteva fare un anno e mezzo fa. Non sto a dire è colpa di questo o di quello. Certo, dopo la disfatta elettorale delle politiche, il Pd c’ha messo troppo a metabolizzare il nuovo quadro politico. Ci si è baloccati con qualche zero virgola in più in qualche tornata elettorale, ma per tornare in campo davvero c’è voluta la cantonata agostana di Salvini. Solo quando si è aperto lo spiraglio, e anche in questo caso con tempi di reazione davvero troppo lenti, si è riusciti ad aprire lo sguardo e a capire che davvero le elezioni in questa fase era l’ultima cosa che si poteva concedere.
Del resto la politica è una cosa semplice: se il tuo avversario vuole una cosa è il caso di cercare di fare l’esatto contrario. Per capire questo principio elementare, per arrivare a quella conclusione che fra i comuni mortali era data per ovvia, c’è voluta la discesa in campo di tutti o quasi i padri nobili del Pd. E c’è voluto il via libera preventivo di Renzi, che al contrario si muove sempre con grande rapidità anche nelle conversioni a U, per mettere in moto le diplomazie e riaprire la partita.
Ora, dicevo, il Conte bis non sarà il governo dei sogni, ma segna alcuni punti secondo me molto interessanti. Il primo è il ritorno dopo tempo immemorabile di un politico puro all’Economia. Un professore di Storia, che però ha presieduto una commissione economica al Parlamento europeo e proprio per questo può essere in grado di far tornare l’Italia a quel tavolo delle decisioni europee da dove siamo stati esclusi per troppo tempo e in una fase davvero cruciale. Del resto l’Europa non potrà che guardare con occhio benevolo e attento al nostro ritorno fra i paesi che considerano l’Unione come l’unico approdo possibile. Togliere un grande paese, come siamo nostro malgrado, dalla lista di chi rema contro e si muove con minacce e ritorsioni, aiuta il processo di crescita di tutta la Ue.
Avrei voluto, lo confesso, un politico puro anche al Viminale. Ma del resto sono comprensibili le apprensioni del presidente Mattarella che ha avvertito e credo “caldeggiato” (diciamo così) la necessità di riportare alla normalità democratica un ministero delicato che in quest’anno e mezzo è diventato un po’ coatto, come diciamo a Roma. Una macchina che è andata spesso fuori giri deve tornare a lavorare normalmente. Nulla di meglio, dunque, che un prefetto esperto come Lamorgese, nota tra l’altro per le sue vere e proprie battaglie per difendere i diritti dei migranti dalle sparate leghiste, che sarà in grado di tranquillizzare i dirigenti del ministero, riportando la situazione sotto controllo senza essere vista come un corpo estraneo.
Bene anche il ritorno in campo di Leu: faccio notare che si era rotta l’alleanza sul no di Sinistra italiana a un rapporto organico con il Pd, ma appena si è intravista l’opportunità di un governo nuovo tutti i no sono spariti d’incanto. Sarebbe il caso di riprendere il percorso, ma temo che le ambizioni personali saranno ancora una volta un macigno inamovibile. Bene, ovviamente, il ministero della Salute assegnato a Roberto Speranza. Quello del rilancio della sanità pubblica era uno dei nodi centrali del nostro programma, potremo provare a fare qualcosa da attori protagonisti.
Mi lascia qualche dubbio, anche visti i suoi precedenti, lo spostamento di Di Maio agli Esteri. Sembra più che altro un premio di consolazione. Speriamo che resti ingabbiato nelle rete che si potrà costruire fra Amendola, inviato da Zingaretti agli Affari Europei, Gentiloni, che andrà a fare il commissario dell’Unione europea probabilmente con responsabilità proprio degli affari economici, e, appunto, Gualtieri che dal Mef avrà una posizione privilegiata per poter incidere sulla nostra politica estera.
Ultima considerazione su Zingaretti che, dopo aver toppato l’avvio, si è rimesso in carreggiata e ha preso pian piano il centro della scena da segretario vero. Ha delegato agli esperti (Franceschini in primis) la conduzione quotidiana della trattativa, intervenendo puntualmente per eliminare le mine che si sono presentate via via in questo travagliato mese di tira e molla continuo. Ha ceduto su alcuni punti mirando al bersaglio grosso: riuscire a costruire questo governo non con un contratto fra estranei ma con un programma comune che fa ben sperare. E ha portato a casa ministeri di sicuro rilievo. Ora si tratta di procedere giorno per giorno verso un’alleanza strutturale e non più imposta dalle circostanza.
Insomma, a Salvini gli eccessi sulle spiagge italiane potrebbero davvero costare cari. Sta al nuovo governo Conte lasciarlo a rodersi il fegato. Del resto a settembre si torna dal mare e gli stabilimenti si apprestano a chiudere. Lasciamoci alle spalle anche quest’anno e mezzo che ha spezzato le coscienze, aumentato le fratture nella nostra società e cominciamo a ricostruire. Si può fare. A patto che sia davvero il governo della discontinuità, ma non solo con il passato recente.
Una sinistra votata al suicidio.
Il pippone del venerdì/58
A raccontare questa settimana c’è da farsi venire il mal di testa. A raccontare questa settimana da sinistra c’è da diventare scemi. Il balletto di presidenti incaricati, governi che saltano in dirittura d’arrivo, veti da Berlino e via dicendo, ha di per sé del surreale. Abbiamo assistito, per la prima volta nella storia della Repubblica, a un capo dello Stato che interviene in diretta per spiegare che ha detto no a un ministro proposto dal presidente del Consiglio incaricato. E ha detto no per ragioni di divergenza politica, non di inadeguatezza acclarata come avvenuto in passato.
Complice anche la fine del campionato tutto questo è diventato chiacchiera da bar, con schiere di costituzionalisti del fine settimana schierati sull’uno o sull’altro fronte, pronti a brandire come armi gli articoli della costituzione. Ci è mancato soltanto il Var. In pochi hanno notato il precedente creato da Mattarella, secondo me parecchio scivoloso, perché da adesso i futuri presidenti della Repubblica potranno citarlo per rifiutare un ministro sgradito per divergenze politiche. E non provate a citare situazioni del passato che non hanno nulla a che vedere con il caso in questione. Quando Berlusconi propose Previti come ministro della Giustizia, non c’era un problema di linea politica, c’era l’assurdità di un presidente del Consiglio che voleva mettere in quella posizione il suo avvocato. Insomma, il presidente Mattarella, diciamola così, ha usato i suoi poteri fino al limite estremo. Sul fatto che l’abbia o meno superato i pareri dei costituzionalisti, quelli veri, non sono concordi.
Comunque sia, alla fine il governo lo abbiamo. Manca la fiducia del Parlamento, ma, vista anche l’astensione della Meloni, pare un passaggio abbastanza scontato. Diciamo pare perché ormai le sorprese sono quotidiane. Mattarella ha ingoiato Savona, Salvini ha ingoiato il fatto che non sia ministro dell’Economia, ma abbia una posizione di minor rilievo. Pari e patta, avanti tutta. Altro record della settimana: abbiamo avuto un presidente del Consiglio che viene incaricato, rimette l’incarico e alla fine ne riceve un secondo nel giro di tre giorni. Con il povero Cottarelli che prima viene messo in campo per portare il Paese alle elezioni cercando di evitare traumi ulteriori, poi viene di colpo rimesso in panchina. Con Palazzo Chigi, insomma, l’uomo dei tagli che passò un anno a studiare i conti e poi venne esautorato di colpo da Matteo Renzi, continua ad avere un rapporto difficile. Se fossimo su Facebook si troverebbe in una “relazione complicata”.
Cosa farà davvero questo governo, al di là delle parole del famoso contratto, non è dato sapere. L’asse appare molto spostato a destra, fatto salvo il reddito di cittadinanza che è il vero asso nella manica dei 5 Stelle. Hanno ingoiato di tutto pur di inserirlo nel programma. Resta da capire cosa faranno i vertici europei che in questa settimana hanno guidato la partita a colpi di spread. Al fatto che le fluttuazioni fossero opera del libero mercato non ci credono neanche i bambini. Si è trattato di una vera propria direzione operata dalla Banca centrale europea a colpi di acquisti (e soprattutto di mancati acquisti) di titoli italiani. A occhio, per dirla sinceramente, da questa commistione di diversi populismi, non arriverà nulla di buono per questo martoriato Paese. Azzardo comunque una previsione: vista la gestazione che, usando un eufemismo, si può dire travagliata, secondo me questo esecutivo durerà a lungo. Scordiamoci di avere occasioni di rivincita (si fa per dire) a stretto giro di posta.
Sia pur in estrema sintesi, è stata una settimana molto agitata, dal punto di vista istituzionale. Dal punto della sinistra, invece, è stata l’ennesima dimostrazione della nostra accentuata vocazione al suicidio. Abbiamo assistito a una bella e partecipata assemblea nazionale di Liberi e uguali, nella quale Grasso con il plauso della quasi totalità dei presenti, ha rilanciato il progetto. Con tre caratteristiche: una forza autonoma, che metta al bando i verticismi, con un forte rinnovamento – anche generazionale – nel gruppo dirigente. Sono passate 24 ore e ci siamo ritrovati in televisione e sui giornali Bersani e D’Alema a spiegare la linea (per altro non esattamente la stessa linea), i parlamentari chiusi per tre giorni in riunioni segrete per decidere il da farsi, la maggioranza di loro pronta a votare la fiducia a Cottarelli (sarebbero stati gli unici o quasi), un sostanzioso gruppo pronto ad accettare qualsiasi tipo di alleanza con il Pd, fino al listone unico del “fronte repubblicano” proposto da Calenda. Ultima assurdità: dopo tre giorni di silenzio ufficiale, rotto soltanto da improvvide iniziative di singoli, arriva il grande rilancio politico. Una lettera in cui si invitano le forza progressiste a costruire l’unità in caso di elezioni. Avranno posto precisi paletti, immagino: sui punti qualificanti del programma, sul leader. Manco per niente. Vaghi richiami alla discontinuità. Tra l’altro un appello arrivato fuori tempo massimo, quando ormai era certo il ritorno al governo cosiddetto gialloverde, e ovviamente ignorato del tutto dalla stragrande maggioranza dei media. Poche ore prima sugli stessi media era addirittura circolato lo schema che aveva in mente il Pd: una lista di centro capitanata da Calenda, una di sinistra guidata dalla Boldrini, i democratici al timone di questo nuovo campo progressista, con Gentiloni, quello degli otto voti di fiducia sulla legge elettorale, a fare da sintesi. Insomma, lo schema che voleva Pisapia un anno dopo. In tutto ciò Renzi irride all’irrilevanza del nostro 3 per cento.
Taglio corto e me ne vado al mare. Con questi non andremo mai da nessuna parte. E’ evidente come la loro strategia non abbia nulla di politico ma sia orientata soltanto alla mera conservazione del loro posto “di lavoro”. Neanche è possibile parlare di posto di potere, perché di potere non ne hanno alcuno. Mirano soltanto a conservare lo scranno in parlamento. E questa volta, nel diabolico piano dei nostri, non sarebbe servita neanche la base. Bastava essere piazzati in qualche collegio sicuro, del voto al proporzionale non si preoccupava nessuno. Tanto a superare lo sbarramento del 3 per cento non sarebbero mai arrivati. Poi si sarebbero coperti parlando di emergenza democratica, di difesa delle istituzioni, di fase cambiata. Balle.
Scampato il pericolo a breve termine, verrebbe da chiedersi cosa fare adesso, non tanto per costruire una forza politica saldamente autonoma e ancorata a sinistra, ma almeno per liberarsi da questi quattro straccioni. Io resto convinto che l’unica strada sia costruire Liberi e Uguali, fare rete, mettere radici nei territori e poi sbattere fuori l’intero gruppo dirigente che da 30 anni non ne azzecca una, io direi a calcioni ma va bene tutto, anche un cordiale “prego, accomodatevi in strada”.
Attenzione a non farli diventare eroi.
Il pippone del venerdì/57
Qua bisogna fare l’opposizione, non pensare di rivolgere contro il nuovo governo i metodi usati da loro. La ragione è semplice: se hanno funzionato contro la politica “tradizionale”, rischiano di essere un clamoroso boomerang contro i “nuovi” arrivati. L’esperienza l’abbiamo fatta a Roma, dove la disastrosa sindaca Raggi, eletta ormai 2 anni fa, vive ancora in una sorta di luna di miele infinita con buona parte dei cittadini. Che hanno sì gli occhi pieni del degrado della città, ma in testa ancora troppo vivi i ricordi di Alemanno, di Mafia Capitale e dei consiglieri del Pd che vanno alla chetichella dal notaio per sfiduciare il sindaco eletto dai cittadini. E sono ancora pronti a perdonare la sindaca bollata come “inesperta”, ma “sempre meglio dei ladri che c’erano prima”.
Vedo gli stessi rischi nelle dinamiche che si stanno sviluppando a livello nazionale. Qualche svista nel curriculum del presidente incaricato diventa una violentissima campagna di stampa. Ora, non che non sia grave, ma nulla in confronto a cosa hanno combinato i governi precedenti. Vogliamo parlare di Banca Etruria? O degli attici al Colosseo ricevuti in regalo? Siccome, poi, la campagna viene lanciata addirittura dal New York Times, rischia addirittura di sembrare la reazione dei poteri forti al cosiddetto governo del cambiamento. Ancora una volta si ripropone l’antitesi fra l’establishment – brutto e cattivo – e l’indistinto bisogno di “nuovo” che anima questo nostro confuso paese. E’ stato nuovo Berlusoni, poi è stato nuovo Renzi. Adesso il fatto che Conte sia anche uno sconosciuto ai più lo mette automaticamente in buona luce. E anche i contrasti con il presidente Mattarella sul nuovo ministro dell’Economia rischiano di essere un ulteriore tempo di questa partita che porta voti e consensi a Lega e 5 Stelle. Perché una cosa sono le prerogative del Presidente della Repubblica, tutte molto vaghe e applicate in misura variabile a seconda della forza dei partiti che ha di fronte, un’altra il sentire comune degli italiani. Ora, a me non sta particolarmente simpatico Savona, ma dire di no a Salvini per un mero dissenso politico sarebbe l’ennesimo regalo fatto alla Lega. Secondo me quasi quasi ci sperano addirittura. Il format è sempre lo stesso: vecchia politica moribonda che vuole bloccare il cambiamento. E l’immagine del morto che afferra il vivo e lo vuole portare con sé non è proprio delle migliori.
Io credo che l’opposizione sia un’altra cosa. Come era facile immaginare alla fine, con mille difficoltà e mille giravolte, alla fine un governo si sta facendo. Piaccia o non piaccia ce lo terremo a lungo. La Lega vuole prendere in pieno l’onda che la sta sospingendo sempre più in alto di giorno in giorno. I 5 Stelle hanno bisogno di mettere in campo i provvedimenti necessari a far capire che sono in grado di mettere in atto i programmi a lungo agitati come mere clave. E ricorrere ai vecchi rituali della politica per fare opposizione sarebbe un suicidio. Lo dicono i risultati delle ultime consultazioni: dal 4 marzo si è votato in 3 regioni e per la sinistra è stato un bagno di sangue dopo l’altro.
Sarà anche un test di scarsa rilevanza ma il Pd non entra nel consiglio regionale della Val D’Aosta. Dal 1946 il Pci, Il Pds e i Ds – dei quali i democratici continuano a dichiarararsi parzialmente eredi – non avevano mai avuto forza enorme ma erano sempre stati rappresentati. Meglio va alla sinistra propriamente detta che – saggiamente abbandonato il logo di Liberi e uguali, ma su questo torno dopo – ha preso il 7 per cento e tre consiglieri.
Non è questa la sede per entrare a fondo sui temi da mettere al centro dell’opposizione. Segnalo soltanto che mentre Lega e 5 Stelle stavano trattando su fisco, lavoro, ambiente, mettendo al centro del loro “contratto” i temi con cui ogni giorno gli italiani fanno i conti, il Pd svolgeva una fantascientifica assemblea nella quale l’argomento era più o meno questo: votiamo Martina come segretario fino al congresso stabilendo una data, oppure non lo votiamo e lo facciamo restare semplice reggente, sempre fino al congresso, ma senza indicare subito una data? Alla fine il principale partito dell’opposizione manco questo è riuscito a decidere, rimandando lo scontro furibondo a una successiva assemblea. Il tema era così delicato, insomma, da scomodare mille e passa delegati per ben due volte. Nelle stesse ore i leghisti spiegavano ai cittadini con gazebo sparsi per tutta Italia il programma del futuro governo. La differenza non è poca.
E meglio non va se si pensa alla sinistra propriamente detta. Anche in questo caso l’appuntamento è una assemblea nazionale che si svolgerà domani, sabato 26 maggio, in un hotel alla periferia di Roma. Ancora un luogo chiuso, quasi a simboleggiare un destino. Sui limiti di questa convocazione ho già scritto e quindi la faccio breve. Ma gli ultimi sviluppi sono esilaranti. Prima arriva una comunicazione in cui si invita chi vuole intervenire a mandare una mail. Pare che le richieste siano centinaia e questo del crescente bisogno di apparire in prima persona in ogni occasione dovrebbe essere materiale di ampia riflessione. Nulla però si sa dell’ordine del giorno dell’assemblea. Secondo le poche notizie che arrivano dai giornali anche in questo caso ci sarebbe uno scontro furibondo in atto: diciamo subito che vogliamo fare un partito o lo si fa al termine del percorso? Che partito facciamo? Unitario o federato? Che si allea con il Pd o no?
Io vi voglio bene, ma qui si sta esagerando. Io credo che sarebbe bene decidere intanto, formalmente, che faremo un partito. E poi avviare una fase di discussione, se non va bene la parola congresso perché vi pare che “escluda”, chiamiamolo anche piripicchio, l’importante è il concetto. Ma soprattutto bisogna tornare nelle piazze. Perché non lanciare, dal prossimo fine settimana, una specie di “operazione verità”? Mille gazebo in tutta Italia nei quali mandiamo deputati, dirigenti e militanti. Megafono in mano, come si usava una volta, a spiegare agli italiani perché il programma del governo andrà a impoverire tutti loro. La flat tax, la ventilata chiusura dell’Ilva, una politica suicida sull’immigrazione. Facciamo un volantino chiaro dove scriviamo – solo per fare un esempio – che la tassa uguale per tutti è un regalo ai ricchi. Senza tante perifrasi. Diciamo poche parole, ma comprensibili a tutti chiare: meno ore di lavoro per tutti, a parità di salario; patrimoniale per i ricchi, tasse più basse per i redditi medio bassi. Mi fermo, ma l’elenco sarebbe lungo.
Mi prendo, infine, poche righe per aprire un breve ragionamento sugli spazi sociali. Uno dei problemi della nostra società, credo che ormai ci siano arrivati tutti, è la mancanza di società. Non è un gioco di parole: viviamo in un mondo dove ci sono sempre più “singoli” e meno comunità. E la sinistra non può che battersi contro questo fenomeno. Ecco, credo che questo sia uno dei terreni di azione. Non basta, ad esempio, essere solidali con la Casa delle donne di Roma, minacciata di sfratto (la questione è più complessa, ma la faccio breve) perché in arretrato con gli affitti. Bisogna dire che le esperienze sociali devono avere spazi a costo zero. C’è un patrimonio pubblico non usato. Vecchie scuole, negozi, interi palazzi vuoti. Si faccia un bando: li affittiamo a costo zero a chi mi garantisce un uso sociale. Anche ai partiti, ai sindacati. Tutto quanto fa “società”, crea punti di aggregazione deve essere protetto e incentivato dal pubblico. Poi magari si controlla, si fanno verifiche sulle attività, in maniera da evitare che qualche furbetto ci si faccia il ristorante o l’albergo abusivo. La questione sarebbe complicata, magari ci tornerò.
La finisco qui, sperando che di proposte come questa si parli all’assemblea di Liberi e uguali e non di astratte alchimie. A proposito, dimenticavo: troviamo un nome e un simbolo, che dicano chiaramente chi siamo. Leu credo sia definitivamente bruciato dal 4 marzo.
Tranquilli, siamo tutti su scherzi a parte.
Il pippone del venerdì/55
Sintetizzo il quadro in cui ci troviamo. Nasce il governo più a destra nella (breve) storia della nostra Repubblica, con i voti di quelli che mai avrebbero fatto alleanze con chi “aveva rovinato l’Italia negli ultimi 20 anni”. Ora accettano perfino Berlusconi nel ruolo di badante interessata. Allo stesso tempo il capo del principale partito di opposizione, quello che, nell’immaginario collettivo, rappresenta la sinistra che fa? Chiama i suoi elettori alla mobilitazione? No, ci mancherebbe altro. Dice: adesso stiamo a vedere se siete bravi, popcorn per tutti. Intanto quelli della sinistra vera, ancora rintronati dallo scarso risultato elettorale non sanno bene se convocare un’assemblea nazionale unitaria: “Che gli diciamo ai nostri?”, è l’angosciata domanda aleggiata nel vertice di giovedì scorso. Mentre ci pensano bene, il prossimo ministro dell’Interno potrebbe essere quello della ruspa, quello che vuole cacciare gli immigrati a pedate, mentre il ministro degli Esteri potrebbe essere uno di quelli che voleva un referendum sull’uscita dall’Europa.
Sembra davvero un grande scherzo televisivo, quello ordito ai danni degli italiani. Che assistono quasi intontiti da questi due mesi di trattative. I mass media ci hanno convinto che un governo va fatto, ci hanno messo in mezzo anche gli europei, i soliti moniti sui nostri conti. Mattarella ha paventato un immediato ritorno alle urne e, come di incanto, tutto si è sbloccato. Caduti i veti dei 5 stelle, garantito Berlusconi che non partecipa al governo ma sta lì in caso di necessità. Tirano un sospiro di sollievo i 900 e passa parlamentari che temevano di restare a piedi.
Ci sono stati casi di panico acuto in questi giorni. Abbiano letto interviste drammatizzanti, ad esempio, di Roberto Speranza, autonominato coordinatore nazionale di Articolo Uno – Mdp, che preconizzava l’esigenza di un “campo largo”, di una nuova alleanza di centro-sinistra, profondamente innovata nei contenuti e nei partiti, che facesse da argine ai due contendenti veri della scena politica. E’ lo stesso Speranza che dopo il 4 marzo diceva che Leu aveva preso pochi voti perché percepita troppo in continuità con il Pd. Giovedì era pronto a farsi guidare da Gentiloni. Abbiamo letto di telefonate preoccupate di Renzi a Salvini: “Ma davvero non ce la fate a fare il governo?” Tutti presi dal panico, perché avevano ben chiaro che rischiavano la scomparsa o, quantomeno, la definitiva certificazione della loro irrilevanza.
Lasciato da parte il cinema e i popcorn, ho scritto tutto questo per arrivare a una domanda vera, la stessa che vi ripeto – lo so sono ormai a livelli ossessivi – da qualche settimana: non è che aveva ragione Nanni Moretti e che con dirigenti così non vinceremo mai? E la domanda seguente, quasi conseguente: non è che per Leu il 4 marzo sarebbe stato meglio stare sotto il tre per cento e rimanere fuori dal Parlamento? Forse era quello l’unico modo di liberarci una volta per tutte da queste mezze figure. Uno strano mix di vecchie cariatidi ferme al ‘900 e di giovani cresciuti con gli ormoni come i polli da batteria: sembrano belli e sani, ma sono soltanto gonfiati. E invece quel risultato miserello, ma sopra il quorum, ottenuto da Liberi e Uguali ci ha consegnato questo gruppuscolo di 18 parlamentari che un confronto vero con i propri militanti non ce l’ha proprio in testa.
Sabato 12 maggio è previsto il primo appuntamento pubblico di Articolo Uno. Sono passati più di due mesi dalle elezioni. Dopo una batosta simile si immagina un lavoro preparatorio, intenso, un documento nazionale discusso ed emendato a livello locale. Assemblee di base per stabilire i delegati a questa importante assemblea. E invece no. Si sono svolte le assise regionali senza manco sapere quale fosse l’ordine del giorno, né tanto meno chi avesse diritto di voto: una specie di grande seduta di autocoscienza dove ognuno ha parlato a ruota libera. Quella del Lazio, addirittura, manco si è conclusa: è stata aggiornata alla settimana prossima. E domani? Ingresso libero, solita sfilata di sedicenti leader della sinistra nelle sue varie forme, i soliti noti. Dalla Falcone, a Cuperlo, a Fratoianni, a Orlando. Un lungo elenco di bolliti che dopo aver sbagliato tutto o quasi negli ultimi decenni ci verrà a spiegare come continuare a farlo. Il congresso, Articolo Uno lo farà con calma, entro la fine dell’anno. E soltanto perché questo prevede il regolamento per ottenere i finanziamenti del 2 per mille, l’unica forma rimasta di contributo pubblico. Ancora cinema, insomma. E neanche di alto livello.
Allora che fare? Io sarei sempre per ripartire da assemblee al di fuori e al di sopra rispetto ai partiti esistenti. Che sono soggetti ridicoli, che non esistono più se non per dare un po’di medagliette da dirigente. Assemblee aperte, dove non ci si chieda da dove veniamo ma dove vogliamo andare. Non mi sembra, purtroppo, che ci sia lo spirito giusto. E allora bisogna combattere con i pochi mezzi che abbiamo, dentro questi partitini. Io lo farò, per le limitate forze che ho, dentro Articolo Uno. In questi mesi le scadenze elettorali, la necessità di fare comunque fronte comune, mi hanno indotto troppo spesso al silenzio e alla ricerca del compromesso. Da adesso, davvero basta. Lotterò, magari da solo, ma le spalle sono atte allo scopo, con pochi punti da cui partire.
- Dimissioni immediate del gruppo dirigente nazionale di Articolo Uno. Speranza per primo. Non è possibile che in due mesi non abbiano sentito l’esigenza di avviare un confronto e abbiano continuato a parlarsi unicamente tra loro. Unica preoccupazione: come garantirsi il ritorno in Parlamento in caso di un nuovo voto. Grazie, non mi interessa. Sia chiaro a tutti che quando parlano non rappresentano che loro stessi. E siccome manco vanno d’accordo, a volte neanche quello.
- Avvio altrettanto immediato dei “Laboratori della sinistra unita” in ogni quartiere. Su questo molto ho già scritto. Articolo Uno nasce un anno fa con questo scopo dichiarato. Sarebbe assurdo che proprio adesso decidesse di diventare a sua volta un partito con la propria struttura. E allora nessun tesseramento, nessun nuovo gruppo dirigente, si riparta da una forma il più aperta e inclusiva possibile, quella del “laboratorio” appunto. L’obiettivo è arrivare in tempo relativamente breve alla costruzione di un partito unitario. Non una federazione, perché sarebbe una presa in giro, una sorta di certificazione del fallimento. Semmai una forma nuova di aggregazione politica dove l’adesione possa essere sia a livello personale che collettivo. Nei laboratori si dovrà discutere e deliberare su pochi punti: la forma partito, la collocazione europea della nuova forza politica, i cardini essenziali per la stesura di una carta dei valori.
Io credo che la situazione, sempre che non sia tutto un grande scherzo, sia quasi disperata ormai per questo Paese. Sarà davvero la fine del bipolarismo destra-sinistra? C’è chi lo teorizza, quasi lo auspica, senza capire che, senza una forza che torni all’analisi marxista della società e la traduca nel mondo contemporaneo, non ci sono nuovi traguardi, c’è soltanto lo strapotere dei forti sui deboli. C’è il ritorno a una società dominata da quella élite che abbiamo combattuto dall’800 a oggi. Io credo che l’Italia sia una sorta di prova generale, siamo una specie di provetta dove i giganti della finanza sperimentano. E sarebbe bene che questo virus fosse isolato e battuto. Se ognuno di noi fa la sua parte con lo spirito che dicevo sopra ce la potremmo anche fare. Diciamolo in ogni occasione, nei partiti e nei movimenti di cui facciamo parte: non ci sono alleanza né campi da ricostruire, dobbiamo ripartire da noi stessi, dobbiamo ritrovare la capacità di parlare al nostro blocco sociale di riferimento. Prima la sinistra. Diciamolo forte, in ogni assemblea.
Un governo che ci dia felicità.
Il pippone del venerdì/53
Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia? Se lo chiedeva nel 1796 Melchiorre Gioia, esponente di spicco del giacobinismo italiano, con una lunga dissertazione nella in cui sosteneva la tesi di un’Italia libera, repubblicana, retta da istituzioni democratiche, indivisibile per i suoi vincoli geografici, linguistici, storici e culturali. Non so perché, ma in questi giorni di convulse (si fa per dire) trattative, ribaltoni bizantini, forni che si chiudono e si aprono, mi è tornato in mente questo saggio con il quale Gioia vinse un concorso, studiato negli anni dell’università. Mi è tornato in mente perché sono in molti gli studiosi della politica che attribuiscono alla mancanza di una qualsiasi forma di rivoluzione lo stato magmatico dell’Italia attuale.
Il giacobinismo, del resto, in Italia non ebbe gran seguito, occupa appena una mezza paginetta nei manuali dei licei. Non abbiamo avuto rivoluzioni politiche, né abbiamo partecipato a pieno a quelle tecnologiche. Da noi gli effetti di quello che succede nel resto del mondo arrivano sempre con decenni di ritardo, depurati dagli aspetti più traumatici e rivoluzionari. Assorbiti dalla classe dirigente che più o meno è rimasta quella dell’ottocento a essere ottimisti. Questa è la vera casta, davvero inamovibile, che ha saputo sempre adattarsi ai cambiamenti. Del resto siamo il paese del “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” come siamo il paese sempre pronto a saltare sul carro dei vincitori. E allora siamo sempre stati governati da una commistione fra grandi famiglie, ordini professionali, notabili locali, sistema delle banche. Una sorta di potere feudale che, sostanzialmente sempre uguale, è arrivato al ventunesimo secolo adattandosi alle condizioni mutate, anzi avvolgendo la realtà in una sorta di blob melmoso che tutto attenua e tutto comprime.
Certo, poi succede che un mondo sempre più globale fa in modo che i movimenti mondiali si espandano con maggior rapidità. E allora arriva il ’68, esplodono i no global. Sembra che tutto debba cambiare nel tempo di un batter di ciglia. Ma l’Italia sa sempre come trattare chi vuole tutto e subito. Basta pensare agli anni del terrorismo – si chiamavano “di piombo” – che seguirono il ’68 o a piazza Alimonda che spense la luce su quel movimento che – visto con occhi obiettivi – aveva capito gran parte dei disastri, sociali e ambientali, che la globalizzazione stava causando. Tutto deve cambiare perché tutto rimanga come è. Il ritornello è sempre lo stesso.
L’anomalia italiana, vera – lo so sono noioso e ripetitivo, ma invecchiando peggioro – nacque dopo la seconda guerra mondiale. E fu quel Partito comunista che diventò una sorta di Stato nello Stato. Una comunità con una sua etica perfino feroce, un suo scopo da raggiungere oltre i confini temporali della vita umana. Anche quella esperienza, davvero originale, è stata ormai messa definitivamente a tacere. Non rifaccio tutta la storia da Occhetto a oggi, ma nel momento stesso in cui si decise di cancellare il Pci perché bisognava arrivare al governo si mise una grossa pietra tombale sulla storia della “differenza” dei comunisti italiani.
E così arriviamo ai giorni nostri. Sono giorni in cui essere ottimisti diventa davvero difficile. La sinistra è sparita. Ora, Liberi e Uguali sarà anche un gruppo sparuto, ma comunque più consistente di partiti che ai tempi del proporzionale facevano il bello e il cattivo tempo. Basta pensare che un eventuale governo Pd-M5s al senato avrebbe appena 161 voti. Roba che il primo Turigliatto che si sveglia con la luna storta ti fa saltare il banco. Quei quattro senatori eletti con Leu, insomma, servirebbero come il pane. Eppure nulla: manco vengono consultati dall’esploratore Fico. Il Pd, dal canto suo, dorme sonni agitati, diviso fra chi vede una luce in fondo al tunnel perché proprio costituzionalmente non riesce a immaginarsi confinato all’opposizione e Renzi che pensa la politica soltanto in termini di potere personale. Faranno mai un governo?
Il ragionamento gattopardesco lo vorrebbe fortemente. Non a caso in questa direzione premono i mass media più legati alla casta del potere. Perché un governo che renda normali i 5 stelle, che depotenzi la domanda di cambiamento contenuta nel loro successo ricondurrebbe la situazione politica a un ambito noto e quindi rassicurante. E quindi mai un governo fra Di Maio e Salvini perché sarebbe una rincorsa fra estremismi differenti, ma simili nella loro radice culturale. Ben venga un governo che faccia piombare nel blob Grillo e i suoi.
E la sinistra? Viene da pensare che abbia perso il suo ultimo appuntamento con la storia. Non oggi. Il risultato elettorale del 4 marzo è solo l’ultimo effetto del logoramento quanto meno ventennale al quale siamo stati sottoposti. Dall’accettazione del capitalismo come orizzonte unico, alla globalizzazione subita e neanche mitigata. Capita la lezione si potrebbe ripensare, riorganizzare, pensare a nuove radici da far crescere nel conflitto, in quelle periferie sociali che crescono sempre più. Nulla di tutto ciò. Si continua stancamente a parlare di governo, di costruire un nuovo centro-sinistra non si capisce bene con chi. Ultimo caso il Molise. Dove tutti insieme – ma proprio tutti – si arriva al 17 per cento. Sarà un test piccolo, ma non insignificante. Il centro-sinistra ha chiuso un ciclo storico. La partita è ormai fra 5 stelle e destra. Non solo non esiste quel quarto polo vagheggiato da Sinistra italiana, ma manco il terzo che vorrebbero Bersani e soci.
I partitini di Leu si sono rinchiusi nei loro piccoli recinti, teatro di miserie umane di autoproclamati leader. Pensano ai loro piccoli tesseramenti. Alle loro piccole idee per sfangare le prossime elezioni. Alle loro piccole clientele per far felice qualche famiglia. Come ho sentito dire. Quella voce che, sia pur in maniera contraddittoria e con toni incerti, aveva cominciato a farsi sentire in campagna elettorale è scomparsa. Di Potere al popolo si sono perse le ancor più flebili tracce. Si aspetta il big-bang del Pd per rifare un partito socialdemocratico alla tedesca, in grado di tornare a quelle cifre elettorali che garantiscano tranquillità alla sua classe dirigente. E allora? Alla domanda che poneva Melchiorre Gioia alla fine del ‘700, come si può rispondere oggi?
Io credo che il nuovo paradigma debba essere quello della felicità. Capisco che è un parametro complesso da misurare, ma il benessere di un popolo è qualcosa di meno semplice rispetto al reddito. Servirebbe un movimento che si ponesse la felicità come obiettivo. Felicità in termini di esperienza comunitaria, di coesione sociale, di conservazione delle ricchezze ambientali, di mutuo soccorso. Sarebbe una rivoluzione, questa volta difficilmente riassumibile negli schemi classici. E per questo non la vedremo mai.
E comunque, buon Primo maggio a tutti. Che almeno questa sia una giornata senza lavoro.
Roma, Capitale a scartamento ridotto.
Il pippone del venerdì/31
Premessa doverosa: per una volta invidio i cittadini siciliani che domenica sono chiamati ad eleggere il presidente della Regione. Li invidio perché hanno la fortuna di poter votare Claudio Fava, uno dei miti della mia giovinezza. Uomo con la schiena dritta, non tanto un simbolo della lotta alla mafia, ma un pezzo vivente di quella lotta. Uno che, insieme al gruppo del settimanale “I Siciliani”, la mafia l’ha combattuta quando non si poteva neanche nominare. Quando i giornali di Catania rispettavano ossequiosi i quattro “cavalieri del lavoro”, Pippo Fava diceva apertamente che erano mafiosi. Insieme a lui c’era quel gruppo di giovani coraggiosi, dal figlio a Riccardo Orioles a Michele Gambino che poi ho avuto la fortuna di conoscere nell’esperienza romana di Avvenimenti. Ma fra i Siciliani e Avvenimenti c’era stato l’assassinio di Pippo Fava, le vite a rischio degli altri giornalisti, alcuni dei quali costretti a scappare all’estero per anni. Un grande giornalista ma soprattutto, lo ripeto, un uomo con la schiena dritta. La Sicilia ha bisogno di uscire dalla eterna ammucchiata dei compromessi se vuole pensare a un futuro differente. E con Fava presidente ne ha l’opportunità. Non la sprecate.
Che c’entra con il titolo? Nulla o forse molto. Perché Roma, in condizioni differenti, mi sembra avviata verso lo stesso declino a cui – lo dico da osservatore lontano, ma sempre attento a quello che succede a quelle latidunini – l’isola del sud è soggetta da troppo tempo. Le varie “primavere” siciliane rischiano di essere soltanto pallidi intermezzi. Tagliamo corto, ne ho già ampiamente parlato un anno fa, ma mi ha stimolato l’intervento di Massimo D’Alema che, concludendo una iniziativa di Articolo Uno, ha dato una definizione sferzante della situazione: “Roma – ha spiegato – rischia di non essere più la capitale d’Italia, ma la capitale del mezzogiorno”. Una definizione che è un po’ un cazzotto nello stomaco. Un cazzotto salutare, ma per sempre una botta violenza. D’Alema, in sostanza divide l’Italia in due, immagine non nuova ma che torna d’attualità, per dire che Roma non segue più la parte più virtuosa del Paese, ma si ritrova a guidare quella che arranca, quella in cui il degrado vince sulla bellezza. Quella si arrende al declino. Da un lato Milano, tornata la città rampante degli ultimi decenni del secolo scorso, in cui lo sviluppo, economico e culturale è impetuoso. Dall’altro Roma che perde pezzi come l’asfalto delle sue strade massacrate dall’incuria.
La definizione mi ha particolarmente impressionato per una ragione anche personale. Come molti sanno dal 2001 al 2007 ho lavorato come responsabile della comunicazione al gruppo dei Democratici di sinistra del Lazio, curando contemporaneamente anche la comunicazione del partito regioanel. E mi sono trovato, lavorando spesso alle relazioni del segretario, Michele Meta, a usare l’immagine di una regione al bivio, in bilico, fra le due italie. Regione e non città, perché avevamo ben chiaro che una grande capitale non è solo una città, ma è una Regione intera. Sia dal punto di vista economico e sociale che politico. Avvertivamo il rischio, insomma. E indicavamo anche le soluzioni: la città della tecnologia e della comunicazione, lo sviluppo dell’Information and communications technology, l’aerospaziale, il settore farmaceutico. E ancora: la rete della conoscenza e della ricerca basata sulla necessità di mettere a sistema le grandi istituzioni universitarie del centro-sud, il turismo, l’opportunità rappresentata dalla linea ferroviaria ad alta velocità che si stava completando in quegli anni.
Varrebbe forse la pena riprendere quella riflessione, perché rappresenta un po’ un libro delle occasioni perse. A oggi succede l’esatto contrario di quello che auspicavamo: Roma perde pezzi ogni giorni. Da Sky emigrata a Milano insieme ad altre redazioni importanti, alla ricerca farmaceutica che ha sempre meno casa a Pomezia, alla Tiburtina Valley eterna incompiuta che è persino difficile da raggiungere grazie alle strade iniziate e mai finite. Roma ha vissuto anni impetuosi dalla metà degli anni ’90 all’inizio del nuovo secolo. Era la locomotiva d’Italia, la sua economia cresceva il doppio rispetto al resto del Paese. C’erano insomma basi importanti sulle quali chi governava quei processi – ovvero il centrosinistra – non è riuscito a costruire un modello di sviluppo, quel modello che pur avevamo intuito e tratteggiato in tanti convegni.
E’ bastato il combinato disposto della crisi economica unita ad anni di amministrazioni comunali incapaci di intendere e di volere, per svelare quanto quella crescita fosse effimera. Legata a un fiume di finanziamenti pubblici che poi si sono interrotti. Ai giubilei, alle manifestazioni sportive. Ecco, in questo vedo un parallelo profondo con la situazione siciliana, una regione intera che per cento anni è vissuta così, con un flusso ininterrotto di finanziamenti dallo Stato centrale che tutto copriva e tutto metteva a tacere. Tutti avevano un posto pubblico. Un posto sicuro. Poco importa che fosse improduttivo o che, nei casi peggiori, fosse in gran a parte un territorio a gestione mafiosa. Non è un caso che a Roma la penetrazione delle organizzazioni criminali sia diventata sempre più profonda. Basta guardare le insegne dei ristoranti e dei bar.
Né la Regione, amministrata sicuramente meglio in questi anni, è riuscita a sopperire al disastro delle amministrazioni Alemanno, Marino, Raggi. Stiamo continuando a rotolare lungo una china. Nella quale il romano è tornato a essere quel personaggio un po’ indolente che Sordi ha saputo descrivere nei suoi film con tanta profondità. Indifferente, apatico, incapace persino di ribellarsi. Anche le esperienza civiche, dai comitati di quartiere alle tante realtà associative, mostrano tutti i loro limiti. Perché possono essere spalle importanti per arrivare dove una buona amministrazione non riesce ad arrivare, ma non possono sostituirsi ad essa.
Ecco, io credo che Roma possa ripartire, possa tornare a essere Capitale d’Italia e non dell’Italia di serie B, soltanto se unisce questi due fattori: una classe politica (Comune e Regione insieme) meno peracottara di quella attuale, ma soprattutto una nuova coscienza civica. Serve una vera e propria rivoluzione culturale che scuota questa città indolente. Fa impressione vedere ragazzi arrivati da lontano che puliscono le strade e chiedono in cambio qualche moneta per tirare avanti e i negozianti (ma anche i condomini) che se ne fregano se qualcuno riempie la strada davanti alle loro attività di materassi, frigoriferi e rifiuti vari. Poi servirà anche il resto, a partire da un nuovo modello di governo della città. Più decentramento vero, una dimensione non più limitata a Roma, ma che comprenda anche l’area metropolitana. Una vera rivoluzione nelle istituzioni e non la presa in giro architettata da Renzi e Delrio. Tutto vero. Ma se insieme non ci sarà una rinascita dei romani sarà l’ennesima primavera effimera. Verrà magari anche l’estate, ma poi tornerà inesorabilmente l’inverno. Se la riflessione della sinistra non riparte da qui non basteranno mille convegni. Saremo sempre una capitale a scartamento ridotto, lontani da quelle grandi realtà europee a cui guardavano Rutelli e Veltroni, gli ultimi due sindaci di Roma.
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