Ma senza informazione si può ancora chiamare democrazia?
Il pippone del venerdì/61
La chiamano disintermediazione, usando l’arte, tutta italiana, di impiegare parole incomprensibili ai più per nascondere la fregatura che ti stanno dando. Tradotta in parole povere significa che l’informazione non esiste più e tutto diventa comunicazione, propaganda. In cui non conta la notizia, il suo fondamento, ma soltanto la tua abilità nell’usare il mezzo. Vince chi strilla meglio e più forte. Non è cosa da poco conto, non è una difesa di ufficio di una categoria, la mia, quella dei giornalisti, che in Italia rischia la scomparsa. E, a dire il vero, non fa neanche molto per evitarla.
Il fenomeno è noto: la società della comunicazione, fra internet, social, mail, blog e chat favorisce la comunicazione diretta eliminando, di fatto, la necessità di una figura intermedia, quella del giornalista appunto, che faccia da “filtro” fra il soggetto che ha necessità di comunicare e il pubblico. Fin qui la teoria è nota, nulla di nuovo. Per cui ci sarebbe da immaginare una evoluzione dei mass media “tradizionali” nel senso dell’approfondimento, dell’inchiesta, del reportage, del commento. Facendo un po’ di storia è quello che è successo alla carta stampata con la diffusione di radio e televisione. Esempio classico: se la partita me la dà in diretta la televisione, che senso ha fare la cronaca il giorno dopo sul quotidiano? Ben poco. Per cui resta uno stringato riassunto dei fatti per chi non abbia visto la partita né gli infiniti programmi che ce la ripropongono in tutte le salse, ma poi si punta sull’approfondimento, dalle pagelle sui giocatori, sui retroscena, sulle prospettive per la prossima giornata di campionato. I quotidiani, negli anni, sono diventati sempre più simili ai settimanali di un tempo, insomma: meno notizie, più servizi, detta in gergo giornalistico. La notizia si prende meno spazio e si punta sull’analisi della stessa, insomma.
La stessa cosa si potrebbe pensare – coinvolgendo anche le televisioni questa volta, perché l’era social rischia di travolgere anche la maniera tradizionale di fare informazione sul piccolo schermo – in un’epoca in cui il reperimento della notizia non è più il problema. Anzi da decenni ormai il giornalista è diventato una sorta di imbuto. Permettetemi una specie di revival personale, tanto ‘sta settimana mi è presa così, non parlerò di politica in senso stresso. Ho cominciato a fare questo lavoro a Paese Sera, nei primi anni ’90. All’epoca internet era per pochi, si cominciava appena a usare il modem per trasmettere i pezzi alla redazione centrale. In quegli anni ancora dovevi rincorrere le notizie. I politici non inondavano le redazioni di comunicati. Iniziò, credo fu il primo in assoluto, un giovane consigliere comunale verde, Athos De Luca, che ti mandava un paio di fax al giorno, con notizie curiose che di solito finivano nelle “brevi”. Aiutava a riempire il giornale. Poi si unirono anche i carabinieri che ti inviavano stringate note sulle operazioni più importanti. Il resto te lo dovevi andare a cercare. Piantonavi le riunioni della giunta comunale per aspettare di sapere quali fossero le delibere approvate. Ti attaccavi al telefono per cercare i commenti di maggioranza e opposizione, degli esperti, dei comitati dei cittadini. Certo, c’erano le agenzie di informazione, ma anche queste erano una base, su cui poi lavorare. A me hanno insegnato, insomma, che se devi fare un pezzo importante, un’apertura di pagina, devi andare nei posti, parlare con le persone e guardarle in faccia.
La stessa esperienza, anzi l’esempio è anche più evidente, l’ho avuta nei giornali locali dove ho lavorato negli anni successivi. Lì, spesso, non avevi manco l’aiuto delle agenzie che ti inondano di notizie su Roma, ma di Mentana parlano una volta a settimana. E tu devi riempire cinque pagine, mica devi scrivere dieci righe. E allora sei sempre in giro. Comune, caserma dei carabinieri, pro-loco, anche il caffè al bar. Di notizie preconfezionate, se vuoi fare un prodotto che stia sul mercato, manco una.
Negli anni, lo accennavo prima, il giornalista, al contrario, è diventato sempre più un imbuto: un selezionatore di notizie più che un cercatore delle stesse. Perché la mole di comunicazione che arriva dalle varie fonti è diventata soverchiante e all’editore costa meno avere un “culo di pietra” che sta tutto il giorno davanti al computer a copiare e incollare comunicati piuttosto che assumere cronisti che vadano in giro a cercare notizie e, soprattutto, a verificarle prima di scrivere. Lasciando da parte la cronaca, provo a stringere il mio ragionamento sulla politica, perché è in questo campo che l’effetto è più evidente.
Credo che Berlusconi sia stato anche in questo “rivoluzionario”. Quando annuncia la sua discesa in campo non lo fa con una conferenza stampa, ma appronta un set, con tanto di libreria finta, si fa girare il comizio da un regista di fiducia e invia la cassetta a tutti i tg. Crea un precedente di cui in pochi intuirono la portata all’epoca. Il risultato è che non hai più la possibilità di interloquire con il politico, di fargli domande, di metterlo in difficoltà, ma diventi un semplice megafono, amplifichi il messaggio. Renzi è stato un altro punto importante di questo fenomeno. Basta pensare alle cosiddette e-news, ma anche alla settimanale diretta facebook che travalica il mezzo e viene ripresa puntualmente dalla maggior parte dei mass media. I video ormai quotidiani di Salvini e Di Maio non sono altro che l’estremizzazione della videocassetta di Berlusconi. La linea comunicativa è sempre quella: Grillo, negli anni passati, l’ha proprio teorizzata. Si comunica direttamente con i militanti e gli elettori, si evitano le trasmissioni televisive e i giornali perché sono un elemento del sistema di potere che vogliamo abbattere.
Il risultato a me sembra una sorta di ritorno all’epoca in cui la magia aveva più seguito della scienza. Il passaggio della comunicazione attraverso il giornalista non è soltanto l’imbuto che separa le notizie che si ritengono di interesse da quelle che non hanno rilevanza pubblica. Questa visione dell’informazione come una specie di trattamento rifiuti applicato alle notizie è quello che sta portando l’informazione stessa alla sua scomparsa. Il giornalista, al contrario, dovrebbe essere quello che ti mette in dubbio. Che dice: “Scusi ministro, ma quello che lei dice non è vero”. Rappresenta una sorta di verifica “scientifica” sulle notizie. La scomparsa di questa funzione, di fatto, ci riporta all’epoca della magia. Perché sui social, che – in questo sistema – tendono non solo ad essere fonte prioritaria di informazioni per molti di noi, ma fonte anche per i mass media tradizionali, non c’è il confronto, la verifica, ci sono soltanto comunità di tifosi che accettano per vere soltanto le notizie che sono più vicine al loro pensiero. Le fake news, insomma, diventano vere se sono in linea con quello che immaginiamo, se rispondono al nostro “mito magico”.
Esempio pratico: Renzi e i suoi sostengono che l’abolizione della legge elettorale sia colpa (o merito a seconda dei punti vista) del referendum costituzionale del 2016. In realtà è noto che il referendum ha riguardato la riforma costituzionale e non il cosiddetto Italicum, bocciato e corrette dalla Corte costituzionale con un atto che con la consultazione popolare non c’entrava nulla. La Corte rinviò il suo giudizio a una data successiva a quella del referendum per cortesia istituzionale, per evitare che quella sentenza potesse in qualche modo influenzare il voto. Tutto questo è facilmente documentabile, anche leggendo direttamente la sentenza, che è molto chiara. Ma volendo ci sono tonnellate e tonnellate di articoli sull’argomento. Non serve a nulla: la tesi dell’ex segretario del Pd non solo viene ripetuta di continuo, ma trova masse di “fedeli” per cui si tratta di una verità assoluta e non si fanno convincere. Siamo nel campo della magia, dell’assunto per fede e non più in quello del confronto scientifico. Il No al referendum è la causa di tutti i mali, compresi i calli ai piedi. Punto e basta.
Il vantaggio di questa situazione è che così come acquisisci con grande facilità un considerevole numero di fedeli, in maniera altrettanto facile li perdi. Anche in questo caso Renzi docet. È passato nel giro di pochi mesi dall’avere la fiducia del 70 per cento degli italiani, e addirittura il voto di più del 40 per cento di loro, a consensi sotto il 10 per cento, come è avvenuto nell’ultima tornata delle amministrative in larga parte del Paese. La società della comunicazione, insomma, crea i suoi eroi rapidamente, ma, al contrario della società magica del passato, li distrugge con rapidità addirittura maggiore.
Ma tutto questo non può essere sufficiente. Perché la corretta informazione del cittadino non è una robetta da poco, ma il presupposto stesso della democrazia. Il pluralismo delle voci non può soccombere alla voce di chi grida più forte. E bene farebbero i giornalisti e le loro associazioni a dare l’allarme con maggior forza. E bene farebbero, soprattutto, a tornare a fare il loro mestiere che non è quello di fare il collage delle dichiarazioni dei politici, di mettergli il microfono sotto il naso. Perché l’argine alla società della magia è la scienza, non inchinarsi allo sciamano di turno.
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