Il caso delle Rsa, il modello sociale da costruire.
Il pippone del venerdì/138
L’Organizzazione mondiale della sanità ci dice che in Europa la metà dei morti per coronavirus è avvenuta nelle case di cura per anziani. Un dato drammatico che deve porci interrogativi, intanto sul modello socio-assistenziale, ma soprattutto su come provare a cambiare la nostra società, una volta che questo tsunami sarà passato.
Da parte mia mantengo il mio sano pessimismo, già questa prima “riapertura graduale” prevista per il 4 maggio ha prodotto un clima da “liberi tutti” che non fa presagire nulla di buono. Quelli che stavano alla finestra a fotografare runner e proprietari di cani hanno ripreso a circolare liberamente, con la falsa sicurezza generata dalle mascherine e dai guanti. Ho visto con i miei occhi persone tutte bardate che a un certo punto si calano la mascherina per parlare al cellulare o per accendersi una sigaretta. A poco valgono le spiegazioni che ci bombardano ogni giorno: una volta messa la mascherina non va neanche sfiorata e mai toccarsi il viso con i guanti, che da protezioni diventano facilmente uno strumento di contagio. Nulla da fare: l’italiano medio, a quanto si vede in giro, è convinto che la parte da proteggere sia il mento, non la bocca né tanto meno il naso. Insomma, ognuno di noi ha un suo personale concetto di sicurezza ed è convinto che sia il migliore. Se non riparte il campionato di calcio, ma bastano anche gli allenamenti, siamo davvero messi male.
Al di là di queste effimere considerazioni, c’è un dato che dobbiamo provare a interiorizzare: il 4 maggio non avremo sconfitto il virus, avremo – nella migliore delle ipotesi – reso l’epidemia compatibile con il nostro sistema sanitario. I livelli di contagio, insomma, saranno tali da consentire l’individuazione e la cura con risultati meno disastrosi di quelli lombardi, tanto per essere chiari.
Resta intatta l’emergenza e resta intatta la necessità di organizzare la nostra società in maniera, come dice il troppo spesso inascoltato ministro Speranza, da convivere con il virus.
E quindi abbiamo una settimana o poco più per riorganizzare il modello organizzativo di fabbriche e uffici, ma ancor più dei trasporti, se non vogliamo morire imbottigliati in un unico grande ingorgo che non si vedeva dai tempi del celebre film.
E dobbiamo farlo, cosa per noi del tutto inedita, ripensando complessivamente il sistema. Non basta dire che bisogna aprire uffici e negozi in maniera sfalsata se al tempo stesso non aumentiamo la portata dei trasporti pubblici. Né è sufficiente la ricetta della sindaca di Roma (vi regalo una bicicletta) che per fortuna in questo periodo ha parlato poco, anche se nel suo silenzio ha continuato a produrre danni. Vediamo cosa produrranno i famosi esperti.
Apro una parentesi. Siccome siamo un popolo di dissociati, abbiamo prima sparato sul governo perché non aveva un piano, poi quando abbiamo scoperto che fin da gennaio si lavorava a uno studio sui possibili effetti della penetrazione del virus in Italia, abbiamo gridato allo scandalo perché esisteva niente di meno che un “piano segreto” di cui ci hanno tenuto all’oscuro per non generare il panico. Cito testualmente dal Corriere della Sera, il giornale più letto in Italia. Allo stesso modo prima abbiamo invocato una cabina di regia fatta da persone competenti per programmare la riapertura – e in questo caso è Repubblica che ci ha fatto una testa tanta per settimane – e adesso invece si scopre che sarebbero troppi gli esperti al lavoro. Stessa storia per la app, per i vaccini, per tutto. Viene voglia di arrendersi ai cinesi, ma sono troppo tetri e allora propongo di dichiararsi provincia di Cuba.
Chiusa la parentesi, resta tutto intatto il problema che ponevo nell’incipit di questo pippone. In una società in cui la vita media tende, per nostra fortuna, ad allungarsi sempre di più abbiamo costruito un modello di assistenza basato essenzialmente sull’ospedalizzazione, spesso abbiamo fatto la fortuna dei grandi gruppi privati. E i nostri anziani non autosufficienti li abbiamo costretti al deposito nelle cosiddette Residenze sanitarie assistenziali, che poi sono camere ardenti ante mortem. Il coronavirus, scusate il mio realistico cinismo, ha soltanto accelerato il processo: entri in una Rsa, ti danno da mangiare e ti accompagnano solo alla morte.
Ora fanno tutti gli scandalizzati, ma come funzionano quei posti lo sapevano tutti. Non c’era bisogno di ispezioni delle Asl per sapere che l’igiene è assente, l’assistenza è soltanto dichiarata sulla carta. O meglio ce ne sarebbe stato bisogno di quelle ispezioni, ma prima dell’emergenza, non durante. Deposito carissimo, tra l’altro, se è vero che una degenza costa circa 90 euro al giorno, di cui la metà a carico del servizio sanitario e il resto versato dai parenti.
E allora, questo delle Rsa diventa secondo me davvero una specie di simbolo di come va riorganizzato il sistema sanitario che deve essere sempre più territoriale e socioassistenziale. E una parola la vorrei dire anche a tutti quelli che in questi mesi hanno puntato sempre e soltanto sugli ospedali. Riaprite il Forlanini, hanno tuonato all’unisono le destre romane unite in una poi non tanto strana alleanza con quello che resta di Potere al popolo. Facciamo un ospedale alla Fiera, ha deciso il sempre brillo Fontana, finendo per avere bella e pronta una struttura senza più avere pazienti da metterci.
Faccio notare che nel punto massimo della crisi i pazienti in terapia intensiva non hanno mai superato i cinquemila, ovvero il numero di posti disponibili normalmente, che nel frattempo erano diventati novemila. Sarebbe bastato un sistema sanitario su base nazionale e non dato in pasto agli egoismi locali dei cosiddetti governatori per non avere alcuna carenza di posti di letto.
La verità è che, anche nell’emergenza, serviva più assistenza territoriale. Lo ha scritto chiaro il ministero della Salute nelle prime linee guida, chiedendo alle Regioni di creare subito unità speciali per l’assistenza a domicilio. Almeno una per ogni distretto sanitario. Alcune Regioni lo stanno facendo soltanto adesso, in altre si continuano a costruire ospedali destinati a restare vuoti.
E allora, riusciamo a fare tesoro anche di questi errori e ripensare il nostro modello sociale partendo dalle esigenze dei più fragili. Penso agli anziani, all’assistenza, ma anche ai bambini. Possibile che pensiamo a riaprire le fabbriche, uno dei luoghi da dove è partito il contagio, ma delle scuole se ne parla, forse a settembre?
E’ questione di priorità. Di quelle priorità del capitalismo che sarebbe il caso si sovvertire: il profitto viene sempre prima, ma se poi devi stare chiuso in casa perché se esci rischi di crepare a che serve il profitto? A che serve avere la Ferrari, se tuo figlio non può neanche fare una passeggiata liberamente? Ripensare una società per gli anziani e per i bambini, non per i capitani d’industria che tanto quelli i loro capitali li tengono in giro per il mondo e magari chiedono anche i 600 euro del Governo. Perché una società costruita dai capitani di industria fa questa fine qui. In un mondo costruito per gli anziani e i bambini staremmo meglio tutti. Ma magari il problema è proprio questo.
A proposito: buon 25 aprile a tutti, quest’anno più di sempre, domani alle 15 tutti sui balconi a cantare Bella ciao. E chi non lo capisce… lasciamolo in quarantena.
Ripensare il Paese, non solo l’organizzazione.
Il pippone del venerdì/137
Questo periodo di assoluta emergenza ha messo in rilievo due dati: il primo è sicuramente la grande fragilità sociale che anni di politiche neoliberiste hanno generato, il secondo è l’assoluta inadeguatezza del nostro sistema istituzionale e produttivo.
La fragilità sociale è evidente, rivendico di averlo scritto e ripetuto fino alla noia negli anni scorsi. E i consensi alla Lega, che si sono moltiplicati nell’arco di pochi mesi fino a trasformare un movimento tutto sommato marginale nell’attore principale della politica italiana, non sono la causa, sono l’effetto. E’ vero che il periodo di Salvini ministro dell’Interno è stato devastante, ma non ha causato il disagio sociale, lo ha cavalcato e moltiplicato, facendone un metodo scientifico per governare un popolo impaurito. Le radici di tutto questo vanno cercate nelle politiche degli ultimi venti anni che hanno fatto piazza pulita del sistema solidale, il cosiddetto welfare state, ovvero quel complesso di interventi che cercava di rendere meno diseguale l’Italia. Il servizio sanitario universale, in primo luogo, ma anche gli ammortizzatori sociali, la cooperazione, l’associazionismo.
E’ venuto meno, per dirla in termini novecenteschi, quel “fine sociale” dello Stato che aveva rappresentato, dal dopoguerra alla fine del secolo, il vero trait d’union che legava i partiti democratici. Al di là delle differenti posizioni, degli scontri, questo è stato il vero segno distintivo della Repubblica (non dico la prima, perché queste schematizzazioni mi danno l’orticaria). Tant’è che l’ultimo vero piano casa – nel senso di realizzazione di alloggi popolari – porta il nome di un moderato come Fanfani, non di un esponente della sinistra.
Rotto questo vincolo, si è pensato soltanto a come agevolare il mercato. Ad eliminare via via tutte le norme che cercavano di moderare la competizione fra cittadini prima che fra aziende, con il risultato finale di renderla non tanto più libera ma più violenta. Da qui nasce l’odio sociale, la necessità di trovare un nemico, uno che sta peggio di noi, per scaricare la propria frustrazione.
Come si possa uscire da questo crescendo non è un problema di immediata soluzione. Di certo con questa quarantena, confinati ognuno nel proprio egoismo, abbiamo raggiunto un picco finora inesplorato. Si è arrivati ad additare come untori i genitori che fanno fare due passi ai figli intorno a casa. Sui social si trovano discussioni assurde, cariche di una rabbia cieca che aspetta soltanto l’occasione per diventare violenza. Non scoppia soltanto perché siamo confinati dentro casa. Consiglio psicologi obbligatori insieme alle mascherine prima di avviare la famosa fase 2.
Bisogna ricominciare a fare cultura nei quartieri, serve una nuova presenza delle forze democratiche, un lavoro casa per casa. Vanno ripensate le forme di associazionismo e di volontariato. E’ il lavoro di anni, speriamo che almeno si cominci e di fare in tempo.
Il secondo punto da mettere in evidenza, che è un po’ la rappresentazione del primo sul piano istituzionale e produttivo, è che la nostra architettura organizzativa non funziona. Con la riforma della Costituzione che ha, di fatto, creato un sistema istituzionale che ha il suo fulcro nelle Regioni abbiamo posto le basi per un sistema più ingiusto, paradossalmente più lontano dai cittadini. La somma dell’attribuzione di ampi poteri, basta pensare alla Sanità, con un sistema di governo basato sull’elezione diretta del presidente, ha creato dei mostri, fonti di sprechi e non di maggiore efficienza, un moltiplicatore di diseguaglianze. Ogni Regione ha un suo sistema sanitario diverso dall’altro. E i risultati si vedono. Non è un caso, né tanto meno sfortuna, che il disastro nasca in Lombardia dove è stato smantellato il fronte territoriale, i medici di famiglia, per puntare tutto sugli ospedali, per i più privati. Tutti parlano di mancanza di posti di terapia intensiva quando, guardando i dati a livello nazionale, non sono mai stati occupati oltre il 60 per cento del totale. Quello che è mancata è una rete territoriale in grado di diagnosticare per tempo la malattia ed evitare così che sia necessario il ricovero in ospedale.
Oltre a questo va messo in evidenza come l’aver ridotto la presenza dello Stato nell’economia ci porta a essere in balia del mercato e se questo genera squilibri in tempo di pace, in caso di emergenza diventa un disastro. Non si sa chi può produrre cosa. E se l’emergenza è mondiale diventa impossibile perfino garantire l’approvvigionamento di un prodotto elementare come le mascherine o, cosa ancora più grave, i reagenti per avere i risultati degli ormai famosi tamponi, l’unica analisi in grado di rilevare il virus. Avevamo un grandissimo polo chimico di proprietà pubblica, ricordate?
Non si tratta di tornare allo Stato che produce i panettoni, ma di tornare a uno Stato che controlla direttamente i settori strategici dell’economia, strategici per lo sviluppo a cui pensa e per la sua stessa sicurezza.
Avevamo pensato che sicurezza volesse dire produrre cacciabombardieri, abbiamo scoperto che non servono a nulla se non a far vedere i nostri muscoletti in giro, abbiamo scoperto che era più sicuro produrre mascherine perché andarle a comprare in Cina sarà anche global, ma ti fa restare senza quando ne hai bisogno. Perché trovi qualcuno che le può pagare più di te.
Anche qui, come si cambia? Cominciamo con il dire chiaramente che il progetto dell’autonomia differenziata per le Regioni non esiste più. Almeno evitiamo di creare danni ulteriori. Non credo che troveremo un solo cittadino italiano disposto a difendere ancora quel disegno folle. E a chi dovesse protestare basterebbe mostrare una foto di Fontana, il presidente della Lombardia. Tu daresti ancora più poteri a questo qui? Fine della discussione.
Il coronavirus ci ha portato oltre la crisi di nervi.
il #pippone del venerdì/131
Ho scelto di aprire questo pippone con l’immagine dei deputati alla Camera (non so chi siano) con le mascherine perché mi sembrano emblematiche di un paese che ormai è andato oltre la crisi di nervi. È il risultato non tanto del coronavirus in sé, ma allo stesso tempo dei guasti provocati da questi anni di diffusione di odio e pregiudizi a pieni mani e di una gestione della crisi che, a essere buoni, lascia perplessi.
Permettetemi, intanto, una nota sarcastica: l’immagine degli italiani respinti alle frontiere fa sorridere. Quella dei vacanzieri rispediti indietro dalle Mauritius anche di più. Fino a poche settimane fa eravamo pronti a bloccare per mesi in mare qualche centinaio di disperati perché “portavano malattie”, ora gli stessi soloni di prima si indignano perché qualche decina di nostri connazionali sono stati fatti risalire in fretta e furia sull’aereo e sono stati rimandati a casa. Perché, appunto “portano malattie”. Ci hanno trattato come pacchi postali, tuonano oggi gli stessi che fino a ieri sostenevano che i porti andavano chiusi.
E’ una specie di legge del contrappasso che dovrebbe farci capire come, soprattutto nell’era della globalizzazione, la solidarietà dovrebbe essere un obbligo. E come chiudere le frontiere sia un’illusione che può andar bene per prendere qualche voto in più, ma alla fine sempre un’illusione resta. Viviamo in un mondo interconnesso, dove se starnutisci in Cina ti prendi il coronavirus a Codogno. Facciamocene una ragione e cerchiamo di essere meno provinciali. Valga come monito per il futuro.
Il coronavirus sfata anche una leggenda: quella dell’Italia che nelle emergenze dà il meglio di sé. In questo caso è avvenuto l’esatto contrario: la drammatizzazione iniziale dell’epidemia ha prodotto un’ondata di panico insensato e dannoso, amplificato ad arte da quei giornali che prima hanno fatto il conteggio in diretta del numero dei contagiati e poi si sono affrettati a dire che in fondo è poco più di un’influenza.
Al corto circuito mediatico ha dato fiato una reazione scomposta da parte di una classe dirigente che si è dimostrata nel suo complesso inadeguata. Chi chiude i musei, chi si rintana in casa, chi chiude le scuole senza avere neanche un caso di contagio, bloccate anche le gite scolastiche all’estero non si capisce bene per quale motivo. La famosa Italia dei mille comuni ha dimostrato la sua fragilità. Si sa, che i sistemi democratici affrontano le crisi con grandi difficoltà rispetto alle dittature. Si studia sui libri di scienza della politica. Ma nelle crisi le grandi democrazie si compattano, lasciano da parte le polemiche e si mettono a lavorare senza guardare alle distinzioni politiche. Da noi ci si divide ancora di più, mostrando tutti i guasti prodotti dal regionalismo di fine secolo. Venti sistemi sanitari non funzionano in tempo di pace, figuriamoci nelle emergenze.
Noi no, insomma. Non si è mai visto un presidente del Consiglio che va a accusare gli operatori sanitari, quelli esposti in prima linea, durante un’emergenza sanitaria. Non si è mai visto un presidente di Regione che prima accetta le misure disposte dal governo e poi fa di testa sua. In piena crisi non abbiamo trovato di meglio che combattere a colpi di ricorsi al Tar.
In tutto questo poco ha potuto un ottimo ministro della Salute come Roberto Speranza, che fin dalla sua presenza fisica si dimostra uno dei pochi ad avere la testa sulle spalle. Ha il fisico del bravo ragazzo, un’aria rassicurante e pacata: due ottimi in gradienti per evitare che si scateni il panico. Ci ha provato, lavorando giorno e notte, ma alla fine, si sa, in questo Paese emerge chi fa la voce grossa, non chi lavora e parla pacatamente.
Ci mancavano gli avvoltoi che si sono avventati sul governo pronti a spartirsene le spoglie. Salvini che si dice pronto a un esecutivo di emergenza nazionale. Renzi che gli dà di spalla, salvo poi andare in tv con la faccia seria (che poi proprio non gli riesce) a dire che adesso si lavora uniti, del futuro della maggioranza si parlerà poi. Poche ore prima si messaggiava con il presidente della Regione Lombardia per esprimergli la sua solidarietà contro Conte.
Nel mezzo del dramma, creato in primo luogo da tutta questa confusione, è arrivato il dietrofront, dicevamo. Qualcuno deve essersi reso conto che un’altra settimana a conteggiare i contagiati e della nostra economia sarebbero rimaste poche briciole. Turismo a Roma a quota meno 90 per cento, solo per dare un dato. I mercati si sono incazzati e allora tutti in televisione a minimizzare, a dire che in fondo si guarisce, muoiono soltanto anziani e persone con altre patologie. Basta lavarsi le mani con il sapone e stare sereni.
Mi è sembrato un po’ come voler rimettere il dentifricio nel tubetto spremuto a fondo. Perché fino a poche ore prima impazzavano i Burioni di turno a dire: tappatevi in casa, disinfettate tutto. E fino a poche ore prima giravano immagini come questa dei due deputati alla Camera con la mascherina.
Contenti di tutto questo solo i produttori di Amuchina e roba del genere. E ora che si fa? Attendiamo l’estate, magari passa da solo. Tanto il campionato di calcio va avanti, prima o poi la gente penserà ad altro. Resto con un forte senso di nausea. Ma non temete, credo sia soltanto una reazione psicosomatica.
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