Fatevene una ragione: la sinistra alle elezioni ci sarà.
Il pippone del venerdì/33
Come avevamo previsto (non ci voleva di certo Nostradamus), una volta avviato il percorso per arrivare alla lista unitaria della sinistra si sono messi immediatamente in azione gli sfasciatori di professione. Quelli specializzati – perdonate la volgarità – nella martellata continue sugli attributi (i propri) senza sbagliare un colpo. Mai.
Ultimo, ma solo in ordine di tempo, è arrivato Bertinotti. Una sorta di specialista del genere. Ha pontificato dall’alto dei suoi successi indiscussi: “La sinistra alle elezioni non si deve proprio presentare”. Non ho letto, francamente, le spiegazioni, sicuramente alte, sicuramente filosofiche. Prima di lui era partito alla carica il duo del Brancaccio annullando la prevista assemblea del 18: colpa dei partiti cattivi. Poi, una volta che si è precisato il percorso e il regolamento delle assemblee locali che precederanno l’appuntamento nazionale del 2, sono scattati quelli della virgola. E il regolamento non va bene, non si garantisce la partecipazione popolare, è tutto appaltato ai partiti: serve il civismo. Spunta perfino un nuovo appuntamento convocato per il 18 dicembre, firmato Potere al popolo. No comment. Intanto riappare sulla scena perfino Ingroia. Si è dato all’ippica, sarà contento Crozza.
Dall’altro lato è partito il tentativo del mediatore culturale (la definizione non è mia, la prendo in prestito dal mitico compagno D’Avach). Renzi ha preso da parte Fassino gli ha detto: con quelli parlaci tu che sei di sinistra. Fassino si è attaccato al telefono. Speriamo per lui che abbia un abbonamento di quelli tutto compreso. Si sa già che, se gli va bene, convincerà al massimo un pezzetto del campetto di Pisapia, ma va bene così: l’unico scopo di tutta l’operazione è dimostrare quanto siamo settari, trinariciuti e perfino un po’ zozzoni. Lo chiamano il gioco del cerino, da quei fiammiferi in uso lustri fa, famosi perché ti bruciavano le dita perché erano flessibili e molto corti.
Ora, poi magari proverò anche a entrare nel merito seppur l’esercizio sia abbastanza ozioso, ma una domanda mi si agita nelle viscere prepotentemente: ma di tutto questo chiacchiericcio, se si escludono tre o quattro tastieristi da social network, interessa a qualcuno? Io direi di no. Al massimo può ingrossare, per noia, le già pingui file degli astensionisti.
La cosa che vorrei evidenziare è un’altra: i critici del progetto unitario, sia quelli del genere A che quelli del genere B, dicono che su quella strada non andremo da nessuna parte. E allora perché tanto affanno, perché mobilitare tanta intellighenzia, quasi una tenaglia che quotidianamente tenta di tagliare i fili che, pazientemente, stiamo provando a trasformare in rete? Io credo che tutto questo, con le sue contraddizioni, i suoi limiti, faccia paura. La mia tesi la conoscete: sono decenni che un pezzo di sistema politico-imprenditoriale lavora per eliminare la cultura “comunista italiana”, sintetizzo così che capiamo tutti cosa intendo. E il lavoro continua senza sosta. Appena proviamo a rialzare la testa, avete presente il gioco con gli scoiattoli e il martellone? Beh, succede la stessa cosa. Mazzate.
Provo a rimettere due o tre ragionamenti in fila. La partita che stiamo giocando non solo è uno spareggio per accedere al campionato. Ma è anche l’ultima occasione che abbiamo. Per recuperare quella credbilità perduta negli anni. Dalla improvvida svolta della Bolognina a quando abbiamo subappaltato a Prodi e Parisi i nostri destini. Fisso questi due momenti per comodità. Ma se vogliamo essere meno didascalici direi: da quando abbiamo rinunciato alla nostra autonomia culturale e ci siamo piegati a rincorrere i paradigmi che ci imponevano le forze capitaliste. Abbiamo accettato di combattere sul loro campo da gioco. Chiusi nella difesa delle conquiste del passato. E la palla non l’abbiamo toccata mai o quasi.
Autonomia culturale. Per me la chiave per ricostruire un partito (dico partito perché a me sta storia dei campi – democratico o progressista che dir si voglia – non mi convince proprio) è questa. Il percorso, che avrà nell’assemblea del 2 dicembre il suo punto di partenza e non di arrivo, a questo deve mirare. E avrà anche tutte le incertezze e le magagne che derivano dalla debolezza di chi lo avviato. Ma teniamocelo stretto questo percorso. E poi magari rendiamolo coinvolgente e democratico. Ma non affossiamolo.
Che poi, visto che io dal 2015 propongo i caucus – le assemblee decidenti – come mezzo democratico alternativo alle primarie, non mi dispiace neanche lo strumento proposto. Provo a entrare nel merito, appena un po’: si fanno le assemblee provinciali, dove possono partecipare tutti, sottoscrivendo il documento programmatico unitario e versando un contributo. Si interviene, si discute, si emenda. Poi, in ragione del numero di abitanti si eleggono i delegati. Sono previste sostanzialmente due forme. La presidenza (una sorta di commissione elettorale da vecchio congresso) prova a elaborare una lista unitaria. Se non ci riesce, si raccolgono le firme (almeno il dieci per cento dell’assemblea) e si presentano liste alternative. Io credo che ci sia lo spazio per rappresentare ampiamente non solo i partiti firmatari, ma anche esperienze locali, associazioni, movimenti. Basta rappresentare qualcosa, avere un minimo di consenso. Io non credo ci sarà bisogno di arrivare alla classica “conta”, che poi, se ragionate bene, è la sconfitta della politica, certifica l’incapacità di trovare un equilibrio attraverso il confronto.
Quanto invece al tentativo del grissino torinese, la tentazione di ricorrere a un classico ciaone è molto forte. Perché tanto l’esito non potrà che essere quello. C’è troppa distanza non tanto programmatica, ma culturale (si, lo so sono fissato) tra noi e il Pd. Il che non vuol dire che non ci si possa alleare né ora né mai. In politica sarebbe meglio evitare le dichiarazioni assolute. Vuol dire semplicemente che due culture politiche differenti, due proposte politiche distanti hanno il dovere di presentarsi agli elettori per verificare la loro solidità e il consenso che generano. Tutto qua. Questo porterà a perdere le elezioni? A consegnare il paese alle destre? Se avranno la maggioranza degli italiani ce ne dovremo fare una ragione. La democrazia funziona così. Non sarà un’alleanza basata soltanto su una ipotetica convenienza elettorale a cambiare il risultato delle urne. Un risultato provocato dalle politiche seguite in questi anni. Uniti si perde, Bersani lo ha spiegato con grande chiarezza, non ci torno su.
Del resto ci abbiamo provato. Ci siamo turati il naso e siamo andati insieme in decine di Comuni. Li abbiamo persi tutti. E anche questa volta io credo che la separazione non sarà generale. Nelle situazioni locali dove ci saranno le condizioni, politiche e programmatiche, e dove si troveranno gli uomini adatti a unire, non ci tireremo indietro. Non siamo sfascisti, non abbiamo la cultura minoritaria del tanto peggio tanto meglio.
Ma a livello nazionale serve un grande bagno elettorale. C’è l’esigenza per tutti di lavarsi le vesti nel grande mare delle urne. Vedremo se la nostra proposta sarà così residuale come dicono. Io sono convinto che ci sia lo spazio per un risultato importante, che costituisca la base solida per costruire un nuovo partito. Di sinistra. Socialista direi. Per il momento va bene qualsiasi nome, anche il banale Libertà e uguaglianza circolato nei giorni scorsi. Magari facciamo il contrario, Uguaglianza e libertà, che almeno non è cacofonico e si riesce a pronunciare bene. Io avrei scelto “La sinistra”. Con l’articolo davanti a rafforzare il concetto. Ma siccome non sono uno di quelli delle virgole: fate voi.
Come si dice a Roma, le chiacchiere stanno a zero: stampiamo bandiere e volantini con poche proposte radicali e chiare. E riempiamo con le nostre bandiere (spero ci sia una robusta dose di rosso) le strade di ogni città. Dal 3 dicembre questo va fatto. Assemblee in ogni quartiere, comitati unitari, tornare nelle fabbriche, nelle scuole. E poi, come diceva un grande comunista, compagni al lavoro e alla lotta. Casa per casa.
Fatevene una ragione. La sinistra ci sarà.
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