Ci piace la Spagna ma ci tocca la Sicilia.
Il pippone del venerdì/99
Non saranno il toccasana di tutti i mali, ma i risultati delle elezioni spagnole rappresentano una boccata di ossigeno. Anche perché sono l’ennesima riprova di come la sinistra quando fa il suo lavoro i voti continua a prenderli. Certo, poi c’è un insieme di elementi che ha permesso al Partito socialista spagnolo di arrivare quasi al 30 per cento, dopo anni di declino: c’è un leader credibile, c’è stato un periodo di governo in cui le idee nuove dei socialisti hanno potuto confrontarsi con la concretezza quotidiana e non hanno sfigurato. C’è stata anche una buon campagna di comunicazione, con messaggi secchi e incisivi.
Ma al di là di questo mix di ingredienti, che sicuramente aiuta a raggiungere un buon risultato, si verifica ancora quello che abbiamo visto in Inghilterra con Corbyn, in Portogallo, perfino negli Usa alle elezioni di middle term: non è più tempo di corsa al centro – del resto in Spagna ben presidiato da due formazioni politiche – la sinistra torna a vincere quando si rimette i suoi vestiti, quando aggiorna le sue idee alle nuove condizioni sociali, difende i più deboli, parla ai lavoratori e non ai finanzieri. Le proposte sono semplici e le avevano già inserite nella legge finanziaria la cui bocciatura ha portato poi alle elezioni anticipate, ne ricordo alcune: una patrimoniale sui redditi più alti, aumento della tassazione delle rendite finanziarie, 50 milioni per contribuire alle spese scolastiche delle famiglie in difficoltà, aumento del 25 per cento del salario minimo, pensioni indicizzate all’inflazione, interventi contro il cambiamento climatico, poteri ai sindaci contro le bolle speculative sugli affitti. Fanno i socialisti, insomma.
La ricetta è talmente semplice che ci è arrivato anche Cacciari, per il quale permettetemi di nutrire una rispettosa ma decisa antipatia. Al filosofo basterebbe ricordare come Bersani ‘sta cosa qui la ripete da qualche anno. E anche lui ci è arrivato un po’ per scossoni e per contrarietà, come direbbe Guccini. Insomma, anche in Italia si dovrebbe tornare a fare la sinistra da posizioni non marginali: costruire una nuova forza popolare di massa. Peccato che poi tutti lo dicono ma nessuno lo fa.
Escludendo le cosiddette sigle della sinistra radicale che – uso una frase sentita spesso da ragazzo – hanno perso l’appuntamento con la storia e restano subalterne al Pd, chi può fare questa operazione? Articolo Uno, con tentennamenti e troppe incertezze, questa strada l’ha indicata. Di sicuro non ha le forze per arrivarci in solitudine. Il convitato di pietra resta il Pd che non si rende conto di come la sua funzione, se non sceglierà da che parte stare, sia di fatto esaurita.
Perché nello stesso giorno in cui in Spagna vince Sanchez e i dirigenti vari della sinistra italiana inneggiano al leader iberico, qualcuno parla di vento cambiato, altri stappano lo spumante, lo stesso esatto giorno, dicevo, succede che in gran parte della nostrana Sicilia il Pd si allea con Forza Italia. E non si dica che si tratta di elezioni locali, che non hanno significato politico: lì c’è ormai una vera e propria alleanza strutturale tra Faraone, il boss ultrarenziano locale, e Miccichè, storico luogotenente isolano di Berlusconi.
Ora, non dico che sia ovunque così, ma il caso siciliano mi sembra perfetto esempio di come il Pd di Zingaretti non sia né carne, né pesce. Siamo ancora all’equivoco della cosiddetta vocazione maggioritaria, ovvero il marchingegno con cui Veltroni ha eliminato tutti gli alleati, riducendoli all’irrilevanza, salvo poi accorgersi che in questa maniera vince sempre la destra. Siamo ancora a un partito indeciso su tutto: la campagna elettorale per le Europee né è un altro esempio: messaggi confusi, a volte incomprensibili, a volte scopiazzature banali dei laburisti di Corbyn.
Mentre in Sicilia Faraone fa gli inciuci con i berlusconiani, Martina, avversario di Zingaretti alle primarie sta in Spagna per festeggiare con Sanchez. Ecco, questa roba non funziona più. Non si possono mettere nella stessa lista per le europee i socialisti e gli uomini di Confidustria. Gli elettori non capiscono l’ambiguità, non ti premiano se non capiscono dove vuoi andare a parare. E’ un principio base della comunicazione: per prima cosa devi scegliere il tuo target, il tuo blocco sociale di riferimento si sarebbe detto una volta. E mettere insieme gli operai con i padroni non funziona.
E allora che si fa? Si torna all’Ulivo e alle decine di liste alleate che litigano subito dopo? Il sistema politico italiano non è più lo stesso di un tempo. Prima c’erano due poli che aggregavano una miriade di forze politiche differenti. Ora ci sono sostanzialmente tre poli, ma il numero dei partiti in assoluto è diventato più piccolo. A destra ne abbiamo tre, nel campo del centro sinistra c’è sostanzialmente solo il Pd, poi ci sono i cinque stelle. Manca ancora una forza di sinistra, come la intendono da tempo Bersani e adesso anche Cacciari. Manca perché lo spazio è ancora occupato dal Pd che vorrebbe fare due o tre parti in commedia e alla fine le fa tutte male. Che scelga il suo ruolo, finalmente. Lasciando spazio per costruire la famosa seconda gamba del centro sinistra, necessaria per poter tornare a essere concorrenziali. Che almeno, se proprio non riescono a sposare a pieno le idee del socialismo “radicale” ed ecologista, che i democratici scelgano se vogliono o meno un’alleanza con Forza Italia o ricostruire un campo ampio della sinistra. Saperlo aiuterebbe a scegliere alle Europee.
Insomma, per farla breve: in Italia non ci sono le condizioni per dire “è cambiato il vento”. Anche perché per prendere il vento bisogna mettere le vele nella posizione giusta. A me sembra, al contrario, che siamo ancora un po’ tutti in balia di tatticismi incomprensibili. Non solo non abbiamo preso il vento, non abbiamo neanche issato le vele.
Questo 25 aprile e il bisogno di una nuova Europa.
Il pippone del venerdì/98
Premessa doverosa, sono dovuto rimanere a casa, a causa di un po’ di influenza e anche – diciamolo – del nuovo arrivo in famiglia: una cucciolotta di due mesi, ancora un po’ spaesata, 8 chili di pelo e tenerezza. Questo per dire che non sono potuto andare alla manifestazione del 25 aprile come tutti gli anni. C’era mio figlio, per la prima volta. E questa è una buona notizia. Forse è solo cresciuto e quindi anche questo corteo fa parte del suo percorso di maturazione e di impegno politico, che seguo a rispettosa distanza. Ma forse – e leggendo i commentatori più attenti questa sensazione ne esce rafforzata – è il segno di una nuova generazione che lentamente si sta appropriando della politica e anche del 25 aprile, per anni frequentato solamente da vecchi arnesi come noi.
Ne abbiamo visti tanti, invece, di ragazzi nelle piazze negli ultimi mesi: c’erano alla manifestazione unitaria dei sindacati, c’erano ai cortei del movimento delle donne, ci sono soprattutto alle marce per combattere il climate change. Un tema che noi intorno ai 50, forse un po’ egoisticamente, vediamo con distacco, ma che i nostri figli sentono sulla loro pelle. Certo, rivedere tanti ragazzi in piazza per il 25 aprile non me lo aspettavo, lo confesso. Soprattutto a Roma, dove il corteo di Porta San Paolo negli ultimi anni è stato ricordato soprattutto per le polemiche. Che non sono mancate neanche stavolta, soprattutto per i fischi alla sindaca Raggi. Saranno stati anche scortesi, perché le istituzioni nate dalla Resistenza devono essere rispettate. Ma certo, se il tuo partito governa con quel Salvini che ha sbeffeggiato l’antifascismo e ha disertato il 25 aprile mettendolo addirittura in competizione con la lotta alla mafia, beh che una piazza molto di sinistra ti regali qualche fischio te lo devi aspettare. La Raggi si è presa comunque anche i suoi applausi. Roba di poco conto, insomma, rispetto a una nuova generazione che, almeno in parte si appropria di questa data ormai lontana.
Si sa che i giovani tendono a vedere il passato come roba vecchia e quindi è doppiamente significativo. E credo che a Roma sia stato ancora più importante perché hanno potuto sentire Aldo Tortorella, comandante partigiano durante la guerra di Liberazione, poi uno dei massimi dirigenti del Pci. Da sempre uno a cui piace parlare ai giovani e lo fa, malgrado i suoi 93 anni e la sua grande cultura, da paria pari. Senza nessuna pretesa di insegnare, come un nonno che racconta ai nipoti. Se ne è andata Tina Costa, da sempre anima del 25 aprile e dell’Anpi di Roma, di partigiani “veri” ne rimangono sempre meno. Questa generazione è l’ultima che ha la fortuna di sentire il racconto di quella stagione dai protagonisti. E avrà anche il compito di trasmettere questo patrimonio inestimabile alle generazioni future.
Io credo che la memoria sia sempre importante. Ancora di più se riguarda una stagione drammatica ma anche gloriosa come quella della guerra di Liberazione dal nazi-fascismo. E lo è a maggior in questi anni dove i fascisti hanno rialzato la testa, conquistato una sorta di diritto di cittadinanza a cui – la ripetizione è d’obbligo – non hanno invece alcun diritto. Ormai, ovunque, trovi gente che si definisce orgogliosamente fascista. Non sono solo frange estreme del tifo organizzato. A me è capitato, sui social, di interloquire con persone impegnate in politica, addirittura con cariche istituzionali, che non considerano una cosa scandalosa definirsi fascisti.
Che quindi ci sia una reazione, soprattutto nelle nuove generazioni è una cosa importante. Resta sempre il tema che a questi ragazzi che dimostrano sempre di più di essere in cerca di una sinistra credibile bisognerebbe dare una sponda politica, per dare continuità e solidità al loro impegno. Non riapro la ferita, perché volevo, invece, legare questo 25 aprile al bisogno di una nuova Europa. Che c’entra? Io credo che i due temi siano strettamente connessi: perché le istituzione europee furono pensate proprio come antidoto ai totalitarismi e alle guerre che avevano devastato il nostro continente. Dopo la seconda guerra mondiale si pensò che la strada per dare concretezza a quel “mai più” dichiarato da tutti i governi dell’epoca fosse quella di passare dalla coesistenza meramente geografica a istituzioni comuni.
La strada era quella giusta. E la crisi di credibilità e di consenso dell’Unione a cui abbiamo assistito negli ultimi anni non può avere come conclusione il ritorno alla dimensione nazionale. Perché è proprio nella dimensione nazionale che prosperano i fascismi e i populismi che diciamo di voler combattere. Semmai l’errore è stato quello di fare l’Europa dei governi e delle banche centrali. Io credo che la crisi di consenso della Ue derivi proprio dall’aver puntato e potenziato l’Unione economica e non quella politica. Potrà sembrare solo uno slogan ma serve davvero l’Europa dei popoli. E non come entità astratta: i cittadini devono poter eleggere un Parlamento europeo vero, che controlli il governo europeo e decida sui bilanci. Solo così avremo la possibilità di continuare ad avere un peso nella competizione globale e, soprattutto, diffondere una cultura fatta di pace e di democrazia. Valori che non si esportano con le guerre, ma con l’esempio.
Ecco, al di là della contesa elettorale, sulla quale come ampiamente detto non mi esprimo, io credo che il voto del 26 maggio sarà un voto utile se andrà a una delle formazioni italiane che sostengono questa tesi. Intanto incrociamo le dita per le elezioni spagnole di domenica. Anche lì, a guardare l’incertezza dei sondaggi, si trovano di fronte a un bivio. Vedremo se dalle urne uscirà ancora una situazione confusa come nelle ultime tornate o, al contrario, avremo un governo più tradizionale. Di certo la campagna elettorale è stata caratterizzata non dico da un’alleanza a sinistra fra i socialisti e Unidas Podemos, ma almeno da un tasso di conflittualità molto basso fra i possibili futuri alleati. Un’affermazione di queste due forze, tutte e due, è la condizione di poter continuare nella politica innovativa che, seppur con una maggioranza risicata, ha garantito al Psoe un nuovo slancio. Come dicevo: incrociamo le dita, potrebbe essere il primo segno di una inversione di tendenza.
Concludo con un ricordo di Pina Cocci. Non sono abituato a farlo e poi in fondo sta su tutti i giornali. Ma se non salutassi Pina che ci ha lasciato proprio ieri mi sentirei in colpa. Non la vedevo ormai molto spesso. Ma so che mi leggeva sempre e ogni tanto avrà anche smadonnato. Vorrei avere ancora l’occasione di prendermi i suoi rimbrotti severi che si concludevano sempre con un sorriso e un “Mo però abbracciami”. Ecco, ho la presunzione di credere che vedesse in me la stessa passione che aveva lei. E questo riconoscimento che mi regalava sempre mi mancherà davvero. Ti abbraccio comunque, compagna Cocci.
Liste per le Europee, la grande truffa
Il pippone del venerdì/97
Se volete incazzatevi pure e ditemi che uso termini violenti, ma secondo me è una vera e propria truffa. Mi ero ripromesso di non parlare di elezioni europee, di astenermi dalla bagarre fratricida di una campagna elettorale che si preannuncia, come ormai d’abitudine, tutta basata sull’individuazione del nemico (che è sempre il vicino di casa) e non sulla propria proposta. Siccome mi sono stancato di dire che ci vorrebbe una sinistra unita, che non servono a nulla i listoni che poi diventano listini, come non servono le ospitate in liste altrui, avevo deciso di tacere fino al 26 maggio, compreso. Seduto sulla classica sponda del fiume. Con la consapevolezza che il 27, comodamente appollaiato su quelle sponde, ci sarà da divertirsi.
Ma una cosa mi ha fatto salire la mosca al naso, pur in un periodo di grande calma interiore: la presa in giro sulla composizione delle liste. Ho avuto la ventura di seguire un po’ di conferenze stampa di presentazione, di leggere comunicati, commenti sui social dei soliti ultras che si sono già scatenati a più di un mese dal voto. E sono disgustato. Andrebbero denunciati per violenza di genere. Perché trovo che sia violenza l’uso delle donne che viene fatto in questi giorni. Tutti parlano di liste aperte alla società civile, liste femministe. C’è addirittura chi rivendica il fatto che “nella nostra testa di lista non ci sono segretari di partito ai primi posti, ma tante donne”.
Violenza di genere e raggiro dell’elettore. Perché questa volta l’essere in testa alla lista non conta nulla, se non fare da specchietto per le allodole. Si vota con le preferenze, non con le liste bloccate come alle politiche. Dunque l’ordine di presentazione serve soltanto a far vedere quanto è bella, aperta, civica e femminista una determinata formazione politica. Le magagne stanno sotto, fra i nomi messi in mezzo, di cui non ti accorgi fino a quando non arrivano i risultati degli scrutini. Sempre che poi si arrivi al 4 per cento, ipotesi in molti casi ben lontana dalla realtà. Senza quel famoso quorum tutto è vano: puoi mettere anche il nuovo Carl Marx in persona come capolista.
So che è roba da addetti ai lavori, ma provo a spiegarmi meglio: la campagna per le europee è una delle più complesse, anche se si possono esprimere più preferenze. Perché la circoscrizione elettorale è molto ampia. Quella dell’Italia centrale comprende Toscana, Lazio, Marche e Umbria. Per conquistare consensi, insomma, non basta essere la presidente di una favolosa onlus che però nessuno conosce o l’attivista di qualche movimento. Quello serve soltanto a guadagnarsi qualche titolo sui giornali radical chic. Bisogna avere una struttura ramificata, nei partiti più grandi bisogna essere sostenuti da una corrente di peso e, soprattutto, avere una grande disponibilità economica. Che nessuno provi a dire che al tempo di oggi si può costruire una campagna su internet quasi a costo zero. E che internet, per chi vuole usarla in maniera professionale, è gratis? Gli staff che studiano strategie e che poi ti seguono i social giorno e notte che lavorano per la gloria?
Che poi, scusate ma che male vi hanno fatto i vostri segretari di partito? Perché dire “questa volta non candidiamo i segretari”? Siete iscritti a quei partiti, che vi vergognate delle persone da cui siete diretti? E’ paradossalmente più apprezzabile Berlusconi che ci mette la faccia in proprio, magari esagera un po’ e fa il capolista quasi ovunque, ma non si nasconde dietro candidature civetta. La verità è che nessuno vuole fare spazio a una nuova classe dirigente, cerca solo di proteggere quella esistente. Da destra a sinistra la musica non cambia. I campioni della preferenza ci sono tutti, già schierati ai nastri di partenza, pronti a triturare i nomi nuovi in una gara crudele. Gli unici nuovi che emergeranno davvero sono quelli scelti dalle correnti per il fisiologico ricambio che avviene a tutte le consultazioni. Gli altri sono una truffa, lo ripeto.
Se ci pensate bene, tra l’altro, ma che senso ha sbattere in Europa uno che non ha mai fatto politica nelle istituzioni? Già la nostra natura estremamente provinciale fa sì che spesso l’europarlamento sia visto più o meno come un parcheggio di lusso in attesa di tornare nell’agone politico nazionale. Mandiamoci pure uno che non sa nulla di come funzionano le istituzioni e siamo a posto.
Io ho da sempre un’idea vecchia della politica, nella quale la selezione della classe dirigente comincia nei quartieri dove i giovani si devono sporcare le mani e poi piano piano vengono promossi e inseriti nelle istituzioni. E da lì si percorre una vera e propria carriera, perché la politica deve tornare a essere una professione. Una professione controllata, prima ancora che dalla magistratura, dal partito a cui appartieni. Un tempo questa forma di controllo funzionava. Parlo sempre della mia esperienza, ma fino a qualche anno fa in campagna elettorale si parlava dei programmi del Partito (che per noi aveva decisamente la P maiuscola), ai candidati era addirittura vietata la campagna elettorale personale. E per scoprire le mele marce non c’era bisogno di aspettare le sirene e gli avvisi di garanzia. Fino alla fine degli anni ’80, non secoli fa.
L’ho già scritto più volte e lo ripeterò fino alla noia: servono i partiti per far funzionare la democrazia. Partiti veri, con regole trasparenti, dove ci si confronta, ci si scontra e si decide. Si partecipa. Luoghi di formazione e lotta. Altrimenti continueremo a ritrovarci una stuolo di incompetenti ma onesti, farabutti molto capaci, ladri e pure inetti. E non so quale sia l’ipotesi peggiore. A leggere le cronache di questi giorni spesso le categorie si sovrappongono.
Siamo quasi a Pasqua e ormai avrete tutti la testa alla tornata di pranzi e scampagnate che vi aspetta fra poche ore. Quindi vi lascio prima del solito, questa settimana. Non fatevi fregare da questi ominicchi, e dalle vetrine scintillanti: scegliete un candidato capace, visto che c’è la preferenza multipla, fate almeno una coppia uomo donna, siate sordi agli appelli ai voti utili, il voto davvero utile è il voto scelto con la testa. Dal 27, poi, si potrà ricominciare a ragionare di politica.
Se si votasse oggi e altre quisquilie.
Il pippone del venerdì/94
La dico brutalmente: una simulazione basata sulla media dei sondaggi attuali ci spiega che, se si votasse oggi per le politiche, una coalizione formata da Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia arriverebbe a 383 seggi alla camera. Ben oltre la maggioranza. Ci beccheremmo, insomma, cinque anni di Salvini, senza sconti della pena.
Ecco, secondo me, qualsiasi considerazione politica deve partire da questo assunto. Non c’è al momento un recupero del centrosinistra tale da mettere in discussione quest’esito nefasto. Le ripetute sconfitte subite alle corse regionali, ultima la Basilicata domenica scorsa, sono soltanto la prova che i sondaggi non mentono. Non c’è – almeno al momento – un “effetto Zingaretti”. Il Pd viene dato in lieve recupero, è vero. Ma questo recupero non è sufficiente a tornare competitivo. Possiamo continuare a raccontarci stupidaggini, ma il centrosinistra non è in grado di vincere. E’ in grado di lottare per il secondo posto con i 5 stelle, ma questa non è una partita dove conta la medaglia di argento. Con quelle percentuali chi arriva primo si prende tutta la torta.
Fin qui siamo nell’ambito delle certezze, dei dati. Poi passiamo alle congetture. Ora, è facile immaginare che dopo le Europee la situazione politica tenda a precipitare. Sia nel caso di un risultato molto a favore della Lega che nell’ipotesi di un esito che faccia intravedere una possibilità di rimonta del centrosinistra, infatti, qualsiasi persona che abbia un minimo di conoscenza di tattica elementare capisce che a Salvini converrebbe dare la mazzata finale all’avversario, piuttosto che dargli tempo per riprendersi. Anche perché, con i dati sull’economia che peggiorano giorno dopo giorno, è facile prevedere la necessità di una manovra correttiva. Avrà, questo governo profondamente diviso su questioni fondamentali, la fermezza per attuare misure impopolari? Io credo che i soci pro tempore che hanno firmato il contratto di governo converranno che sia meglio tornare a dare la parola agli elettori.
Per essere prudenti diciamo che si voterà comunque entro primavera del 2020. Con questa linea di confine abbiamo a che fare e questo dobbiamo tenere presente nei nostri ragionamenti e nelle nostre prese di posizione. Altro elemento certo, le elezioni regionali dimostrano chiaramente due cose: la prima è che l’elettorato non crede al rinnovamento del Pd. Anche dopo le primarie, quando si esce dai sondaggi e si contano i voti, non si segnala alcun recupero. Anzi. Difficile dargli torto, del resto, basta leggere i nomi che compongono la direzione per capire quanto l’intento annunciato da Zingaretti (Cambiamo tutto) sia al momento al massimo una buona intenzione per il futuro. Se gli attori restano gli stessi difficile pensare che cambi davvero qualcosa. E del resto lo stesso neo segretario ha professato una sostanziale continuità con i governi Renzi e Gentiloni sulle questioni più calde. Lavoro e riforme istituzionali innanzitutto. Il secondo dato che emerge è che senza una seconda gamba della coalizione non si concorre a nulla. Nella migliore delle ipotesi, quella di un Pd intorno al 20 per cento, mettendo insieme tutti, ma proprio tutti, gli altri protagonisti della scena politica a sinistra si raggiunge a stento il 30 per cento.
Questo poteva essere il compito di Liberi e Uguali: mettere insieme una “massa critica” tale da diventare fattore di attrazione degli elettori delusi, dare una sponda politica ai tanti movimenti che sono tornati protagonisti in questi mesi. E poi andare a verificare con il Pd le condizioni di una alleanza di tipo nuovo. Guardate, la questione non è tanto di formule. E’ di idee: serviva una forza che dichiarasse apertamente la necessità di superare la stagione liberista e tornare a formule socialiste, a partire da tre temi fondamentali: lavoro, ambiente, stato sociale. Su questi temi non siamo in grado da anni di dire una parola di sinistra. E non bastano le battaglie, pur giuste, sui diritti civili, se non parliamo di questioni che toccano le tasche e le pance dei nostri concittadini. Un esempio su tutti: la questione migranti, come si smina? Con il “buonismo” – perdonatemi la semplificazione – alla Boldrini? No, si smina unendo la solidarietà necessaria a ricette serie per migliorare la condizione di vita degli italiani. Che non è che siano diventati razzisti all’improvviso. Hanno cominciato a rifiutare i disperati che vengono da noi, tra l’altro spesso soltanto di passaggio, nel momento in cui hanno visto sgretolate le proprie certezze. E hanno creduto al mantra populista che recita: “Stiamo peggio per colpa dei migranti, a cui vengono destinate le risorse che sarebbero necessarie per migliorare la situazione degli italiani”. Non è vero, ma non basta dirlo, occorre lavorare per ricostruire quelle certezze. Su lavoro e stato sociale innanzitutto.
Una forza di sinistra, insomma, aveva il compito di spostare l’asse della coalizione riportandolo vicino ai più deboli. Questo serviva e questo serve ancora. Le classi dirigenti dei vari partitini esistenti non lo hanno capito perché dedite soltanto a preservare le proprio certezze, fossero anche soltanto la segreteria di una forza che non ha i voti necessari manco per eleggere un amministratore di condominio. Ma da qui, secondo me, sarà necessario ripartire, quando, una volta passata la sbornia delle europee si potrà ricominciare a ragionare.
Nel frattempo cosa fare a maggio? Il richiamo unitario lanciato da Zingaretti è forte, inutile prenderci in giro. Perché nel popolo degli elettori che si dichiarano di sinistra il richiamo all’unità va di pari passo con quello alla necessità di un cambiamento profondo. E la sinistra dispersa non avrà la forza per opporsi. Perché quell’antidemocratico sbarramento al 4 per cento farà saltare qualsiasi buon proposito. Vedremo se il Pd e il suo segretario saranno in grado di mettere sul serio in campo un progetto unitario e non una lista di partito con qualche ospite illustre. Io avrei visto bene una lista che presentasse orgogliosa la rosa nel pugno dei socialisti europei. In quella casa, credo, c’è ancora lo spazio per progettare la sinistra che serve al nostro continente. La voglio dire ancora più chiaramente anche parlando ai vertici di Articolo Uno, in questi giorni in mezzo al gorgo: una cosa è una lista unitaria, un’altra è essere ospiti neanche tanto graditi nella lista del Pd. Un progetto di questo tipo, non una lista estemporanea dove l’unica cosa su cui si discute sono i candidati, potrei anche decidere di votarlo. Altrimenti torno all’ipotesi A: voto Salvini. Ma questa ve la spiego un’altra volta.
Mica ho capito tutta ‘sta esultanza per l’Abruzzo.
Il pippone del venerdì/88
Vabbeh che siamo alla canna del gas per cui qualsiasi pallido segnale di esistenza in vita diventa un grande successo, ma io davvero non capisco le dichiarazioni che sono uscite in questa settimana dopo l’ennesima sconfitta elettorale del cosiddetto centrosinistra. Certo, in Abruzzo siamo arrivati secondi e non terzi come succede spesso. Come dire, invece che perdere 4 a zero abbiamo preso soltanto due gol. Sempre “zero tituli” fanno, volendo rimanere nell’ambito delle citazioni calcistiche.
Il risultato delle elezioni regionali in Abruzzo è l’ennesima prova del fatto che usando questo schema siamo condannati a perdere. Al massimo ad arrivare secondi. Ma la distanza con la destra, sempre più a trazione leghista, resta abissale. “Beh, ma abbiamo recuperato”, dicono. E in effetti tutti insieme, ma proprio tutti, arriviamo al 30 per cento. Alle politiche era poco più del 20. Il Pd arriva appena all’11 per cento, Leu si ferma al 2,8. Più 0,1 rispetto a un anno fa. Il resto lo raccolgono liste civiche. Non credo di essere lontano dal vero se scrivo che allo stato attuale delle cose questo schieramento non è più maggioranza in nessuna regione italiana. Temo che ne avremo la riprova a breve, in Sardegna prima e in Basilicata poi. E il voto in fuga dai 5 stelle torna di corsa nell’astensione, se va bene, altrimenti si sposta direttamente sulla Lega. Non c’è nessun recupero in vista.
E questo avviene in una competizione dove l’unico candidato credibile era il nostro Legnini. Ha vinto Marsilio, di Fratelli d’Italia, noto più che altro per le sue frequentazioni romane, di Colle Oppio per la precisione, catapultato in Abruzzo per equilibri fra i partiti a livello nazionale. Insomma, non ci votano proprio in nessun caso. Sarebbe forse il caso di chiedersi perché, invece di esultare e inneggiare a non si capisce bene quale futuro di vittorie.
Per quanto mi riguarda resto convinto di alcuni elementi. Anzi questa tornata elettorale rafforza ancora di più queste mie personalissime convinzioni. Intanto, al netto delle liste civiche che comunque non sono automaticamente sommabili ai partiti nazionali, il declino del Pd continua inesorabile. Anche in un periodo di sovraesposizione dovuta all’infinito congresso che stanno svolgendo. Non faccio raffronti con le precedenti regionali, perché sarebbero davvero impietosi, ma anche rispetto alle politiche siamo quasi a meno 3 per cento. Se qualcuno pensava avessero toccato il punto più basso possibile, insomma, si mettesse l’anima in pace. E lo stesso appeal di Zingaretti, ormai sicuro vincitore delle prossime primarie, non sembra in grado di smuovere le masse popolari.
Il secondo dato che a me pare evidente è che dobbiamo smetterla di pensare a costruire coalizioni raccogliticce e pensare a noi stessi. Ricominciare da una forza di sinistra, ecologista e socialista, che non sia l’ennesimo cespuglietto senza popolo, ma sia in grado, al contrario, di essere polo attrattivo nei confronti della galassia di partitini esistenti. E questa forza non potrà essere un partito tradizionale, ma dovrà necessariamente tenere conto del tempo che viviamo. Faccio un esempio concreto: la grande manifestazione sindacale della settimana scorsa. Sicuramente ci ha fatto bene. Ma come viene tradotta quella spinta in rappresentanza politica? Possiamo ancora permetterci di ragionare per compartimenti stagni (da un lato i sindacati, dall’altro i partiti) o dovremmo abituarci a pensare nuove forme di connessione, organizzazioni ibride, come ha scritto giustamente Michele Prospero? Costruire un partito, dunque, ma con l’obiettivo di costruire una rete sociale ampia.
Il dato dei voti a sinistra resta miseramente ancorato al risultato di Leu alle politiche. Anche questo in realtà è sorprendente. Dopo quasi un anno di disastri c’è ancora qualche ostinato che ci dà fiducia. Malgrado noi, viene da dire. Roba da Tso. E’ evidente però che senza una forte “gamba” di sinistra, qualsiasi alleanza futura si possa ipotizzare è destinata alla mera partecipazione. Di vincere non se ne parla proprio.
In ultimo resto molto dubbioso se sia proprio necessario riproporre ogni volta il famoso centrosinistra. La formula non è sufficiente. Facciamocene una ragione. Non lo è quando si vota con il doppio turno, perché anche se arriviamo al ballottaggio si coalizzano tutti contro di noi. Non lo è, come in questo caso, quando si vota con il turno unico perché arriviamo secondi, se va bene. Non lo è a maggior ragione quando si vota con il proporzionale perché in quel caso le alleanze si fanno dopo il voto, non prima. Sarebbe, infine, il caso di pensare bene, proprio perché si vota con il proporzionale puro, a cosa facciamo per le Europee. Nel mio piccolo ribadisco fin d’ora che un listone da Calenda a Bersani non lo voto neanche sotto tortura. Credo non lo votino neanche Calenda e Bersani, tra l’altro.
L’unica strada, con questi numeri, è riaprire un dialogo con il M5s. Saranno lontani da noi come cultura politica, il loro fideismo ci urta il sistema nervoso centrale, sta cosa della lotta alla kasta non si può sentire… Però se i nemici da battere sono il liberismo e la derivata nostrana in salsa leghista, credo che il programma originario dei grillini non sia neanche tanto lontano da quello che pensiamo noi. Lo stesso reddito di cittadinanza, sia pure fatto male, è una forma di redistribuzione della ricchezza alla quale non possiamo continuare a dire solo no. E fra le colpe del Pd ci metto anche aver consegnato una forza con la quale si poteva davvero lavorare nelle mani di Salvini.
Detto questo: sabato e domenica vado a “Ricostruzione”, ovvero il lancio della nuova formazione proposta da Speranza e soci. E’ poco, con troppe ambiguità e troppe timidezze. Ma da un punto fermo bisognerà pur partire. Vediamo che succede.
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