L’arte di prendere per il culo il popolo.
Il pippone del venerdì/40
Lo so. A voi piace quando dedico questo spazio al taglio (spesso con l’accetta) dell’attualità politica, quando entro a gamba tesa nell’agone della quotidianità. Però il pippone non nasce per guadagnare like o portare lettori sulle mie tesi. Resta una specie di esercizio mentale che mi impongo, uno spazio nel quale soffermarmi a riordinare idee e provare a ragionare in chiave meno immediata. Si chiama pippone mica per scherzo. Vuole, anzi deve essere noioso e non sconveniente al tempo stesso.
E allora oggi vorrei partire da qui, dallo stato della politica italiana ridotta a cumulo di promesse senza senso, per capire l’origine di quanto accade. Il berlusconismo ha rotto ogni argine. Ormai “un milione di posti lavoro” lo dicono più o meno tutti, “più dentiere per tutti” sembra un ritornello di una canzonetta estiva. Insomma la gara è a chi le spara più grosse. Io non credo che sia solo questo però, il berlusconismo è l’effetto della malattia, non la causa. E’ il bubbone evidente, che va sicuramente inciso, ma l’incisione non risolve le cause profonde del degrado dell’offerta politica nel nostro paese.
Parto da un esempio concreto, ma solo per spiegarmi: ieri mattina, intervista mensile di D’Alema sul Corriere della Sera, ormai depositario dei pensieri del Max nazionale. Come al solito fa un quadro della situazione, condivisibile o meno ma sicuramente accurato, fa una previsione sul risultato delle elezioni, basato sulla concretezza sia pur effimera dei sondaggi non sulle fanfaluche della propaganda, poi spiega, in tutta crudezza che se non ci sarà, come è facile prevedere, un vincitore, servirà un “governo del presidente”, cioè un esecutivo che guidi il paese con spirito di servizio per una fase breve, con compiti limitati prima di tornare a votare. Una legge elettorale decente, ad esempio. Che magari ci dia una maggioranza alla fine dei giochi. Parrebbe una affermazione legata al buon senso. Eppure, nel giro di un battito di ciglia, si scatenano gli acefali: D’Alema farebbe meglio a stare zitto, non si dicono certe cose, siamo al solito inciucista.
Ora, non vorrei fare il solito difensore del baffetto, avranno anche ragione. Certe cose in campagna elettorale non vanno dette. Si fanno dopo. Evitando la partigianeria elettorale vorrei solo partire da qui per ragionare su come si sia estinta una cultura politica che univa al tempo stesso una visione sul futuro e la concretezza di un’analisi basata sulla realtà. La cultura dei Gramsci e dei Togliatti, ma anche dei De Gasperi e dei Nenni. Nel secolo scorso (sigh!) i partiti, non solo quelli che si rifacevano al socialismo, avevano una visione ideologica che gli dava una sorta di “cielo”, ma non dimenticavano la crudezza della situazione realtà e avevano una ricetta concreta per il presente, una specie di “terra” alla quale restare ancorati e nella quale mettere radici. Venute meno le ideologie, finite anche le visioni, ormai la dimensione della politica si è ridotta alla quotidianità. Una quotidianità alla quale manca dannatamente il cielo. Basta pensare ai giovani che sempre più si allontano dalla militanza: non hanno un sogno in cui identificarsi e i giovani hanno bisogno dei sogni, di una prospettiva visionaria, di identità. Venuti meno i grandi pensatori del ’900, i nani della nostra classe dirigente attuale hanno sostituito le idee con la pubblicità. E la politica da arte del governare è diventata arte del prendere per il culo il popolo. C’è chi lo vuole al potere e spesso schifa i quartieri che non hanno manco una sala da tè. C’è chi lo vuole felice e beota e lo rincoglionisce di termini inglesi per non fargli capire nulla. C’è chi gli promette ricchezze da mille e una notte.
Per questo i Corbyn, i Sanders sembrano giganti. Guardate che mica fanno niente di eccezionale. Parlano di socialismo, di una società del futuro che superi le ingiustizie del capitalismo e provano a rendere questo nostro cielo comune più terragno con proposte pratiche: niente tasse sull’università, ad esempio. Ha fatto discutere la riproposizione alle nostre latitudini dell’idea che in Gran Bretagna ha spopolato. Non entro nel merito, sul fatto che i diritti debbano essere universali ci sarebbe da scrivere un libro. Faccio notare che abbiamo per lo meno introdotto nel dibattito quotidiano un elemento che dà l’idea del futuro, di una nazione che non pensa solo al proprio egoistico oggi ma guarda per lo meno ai propri figli.
Ecco, tornare a coniugare sogni e realtà senza questa ipocrita confusione dei piani a cui assistiamo ogni giorno. E dunque: diritti universali – niente tasse sui diritti. Grasso, nel suo impacciato approccio mediatico, ha questa dote: farfuglia, ma ogni tanto ti butta lì un macigno. Ieri sera, rispondendo a una assurda contestazione sulla presunta irrealtà di una forte lotta all’evasione fiscale ne ha buttata lì un’altra, forse troppo in sordina: gli evasori fiscali sono ladri di diritti, ha detto. A me questo concetto piace e credo che andrebbe sviluppato. Chi non paga le tasse fa in modo che tutti noi abbiamo meno diritti, meno servizi. Non è più dritto e quindi da imitare. E’ un ladro di diritti e deve finire in galera. Chi evade ruba i tuoi diritti. Che ne dite? Funziona come slogan? Secondo me sì, molto.
Il cielo e la terra si uniscono, non si confondono.
Io continuo a sostenere che la sinistra doveva prima di affrontare l’agone elettorale ritrovare il suo cielo. Riproporre una visione sociale e soprattutto socialista. Tornare ad affrontare il tema, il nodo, del superamento del capitalismo. Tornare a dire con forza che non possiamo acconciarci al meno peggio e vogliamo una società che abbatta la forma capitalista di produzione e organizzazione politica. Solo dove l’ha fatto con coraggio la sinistra sta superando la crisi che dura dal crollo del muro. Non abbiamo avuto né il tempo né il coraggio in Italia, ancora una volta abbiamo preferito una coalizione elettorale che, purtroppo, mostra i suoi limiti appena tocca prendere una decisione. Ora bisogna, come dire, scavallare il 4 marzo. Cercando di non arrivarci con troppe ferite. Poi verrà – lo spero – il momento di fare finalmente i conti senza l’assillo di dover conservare la poltrona a qualche parlamentare.
Lo so, sono troppo dalemiano. Penso alla concretezza dell’oggi e provo a trovare la maniera di superare le contraddizioni, a vedere se si arriva a domani. con la poca lucidità di cui sono capace. Ma credo anche che di prese in giro siamo un po’ tutti stanchi, di pifferai magici ne abbiamo conosciuti tanti. Un po’ di sano realismo, secondo me, ha un suo fascino. A patto di tornare a vedere il cielo. Ovviamente biancazzurro! (E la battuta sarà anche fuori contesto, ma siamo quasi a domenica).
Le mie (poche) certezze sulle elezioni regionali.
Il pippone del venerdì/39
Sono stato fortemente tentato, lo confesso. Volevo dedicare questo pippone post feste natalizie al tema delle molestie sessuali, tornato sulle prime pagine dei giornali dopo l’appello “pro maschi” firmato, tra altre cento donne, da Catherine Deneuve. Provare a fare una riflessione al di fuori dagli opposti schematismi estremi, in un certo senso, mi incuriosisce molto. Forse incuriosisce non è il termine esatto. Io sono sempre stato disgustato dall’idea stessa di un rapporto non consensuale, quando mi occupavo di cronaca nera faticavo moltissimo a scrivere di uno stupro. Soffrivo perfino. Mi sono rifiutato di andare a intervistare le vittime. Perché mi sembrava di sottoporle a una nuova violenza solo per solleticare la morbosità di una parte dei lettori. Eppure nelle vicende di queste settimane mi riesce difficile prendere una posizione definita. Mi sembra che si stia facendo un gran calderone di storie e situazioni differenti. Mi sembra che si stia tagliando con l’accetta una discussione più sfaccettata, troppo complessa per entrare in una logica da “bianco e nero”. E mi sembra, però, che lo stesso errore lo facciano anche le firmatarie di quest’ultimo appello. Ecco, me la cavo così e torno alla politica in questi giorni troppo pressante davvero, faccio un appello io: non facciamo diventare le molestie, la violenza sessuale, materia da bar. Non dividiamoci in tifosi dell’una o dell’altra tesi.
Chiusa la parentesi, mi pare che la politica italiana, nel suo complesso, avrebbe bisogno di uno stuolo di psichiatri. Se si prova a mettere insieme un po’ delle notizie apparse sui giornali nelle ultime settimane si capisce subito la ragione di questa mia affermazione, che potrebbe apparire eccessiva. Tabacci che fa la lista con la Bonino. Berlusconi che vuole abolire – o quanto meno modificare – il jobs act. Calenda (Confindustria) che accusa Grasso di essere di destra. Gli appelli alla santa alleanza contro i barbari lanciati dagli stessi che accusano Liberi e Uguali di aiutare Salvini. Nel novero degli atteggiamenti da psichiatra ci metto anche i reiterati appelli dei cosiddetti padri nobili all’unità a tutti i costi. Prima ci hanno provato con le elezioni politiche, adesso tornano alla carica con le regionali. Ora, intanto non si capisce bene come si diventa padri nobili. C’è un concorso? Vengono eletti? No, perché almeno uno di quelli che adesso parlano e straparlano di unità della sinistra è stato quello che la sinistra la voleva morta. Ricordate Veltroni e le elezioni politiche? Ricordate Di Pietro e i Radicali sì e Bertinotti no? Ecco e allora abbiate il buon gusto di tacere, cari padri nobili.
Eppure la questione c’è, ci sta lacerando le carni in questi giorni. Se l’esito di quello che succederà in Lombardia è pressoché scontato – io derubricherei le aperture di quale esponente di Leu nel novero dei tatticismi da bassa politica – la situazione nel Lazio è sicuramente più complicata. In primo luogo perché la sinistra in questi anni ha governato con Zingaretti. Anche con silenzi troppo prolungati, se vogliamo dirla tutta. Penso al piano casa, alla sanità, innanzitutto. Ho sentito poche voci, pochi allarmi in questi anni. Hanno taciuto anche gli odierni pasdaran.
In secondo luogo perché per molti di noi Zingaretti rappresenta quella parte del Pd con cui vorremmo fare un percorso insieme in un prossimo futuro. Non prendiamoci in giro: da soli, anche andassero bene le elezioni, non si va da nessuna parte. Possiamo anche continuare a giocare e dire che tenteremo un’apertura verso i 5 stelle, ma non ci crede neanche chi lo dice. Quelli hanno un Dna diverso dal nostro. Certo, insieme alle ragioni dello stare insieme, ci sono gli argomenti, anche questi serissimi, di chi dice andiamo da soli. Al di là delle differenze programmatiche, su cui un accordo si trova sempre, sono due le obiezioni serie. La prima: mai nella stessa coalizione con la Lorenzin. E su questo mi pare che siamo tutti d’accordo. La seconda: si vota lo stesso giorno, non saremmo capiti dai nostri elettori. E in effetti chi sostiene questa tesi non ha torto. Sarà una campagna elettorale piena di schizzi di sangue. Dire che da un lato il Pd ci fa schifo e dall’altro si sostiene un suo esponente, sia pur della minoranza orlandiana, non sarebbe semplice. Né aiutano in questo senso le troppe timidezze che ha avuto Zingaretti negli anni. Si defilato per lunghe stagioni dal dibattito politico nazionale. Io credo, paradossalmente, che abbia ragione Orfini quando dice che dovrebbe assumere un profilo più politico. Ovviamente siamo in disaccordo sulla qualità del profilo politico. Il presidente del Lazio dovrebbe dire chiaramente che si candida come costruttore di una nuova stagione della sinistra, di una alleanza diversa per tornare a governare. Non solo il Lazio. Un consiglio non richiesto, dunque: esca da questa mistica della “coalizione del fare”, parli alla sinistra, ai suoi elettori. Il fare serve, ci mancherebbe, ma solo quando si ha una bussola, una agenda precisa. Torni a incarnare la famosa autonomia del gruppo dirigente di Roma e del Lazio. L’abbiamo costruita e difesa gelosamente per decennni, ci serve anche adesso.
Lo poteva e lo doveva fare nel percorso che lo ha portato dall’annuncio della sua candidatura fino ad oggi. Non lo ha fatto, ha preferito prima affidarsi a Pisapia e Smeriglio, a cui per troppo tempo ha appaltato l’esclusiva del lato sinistro della coalizione, commettendo un errore di cui paga le conseguenze adesso.
Come vedete, insomma, si tratta di una partita difficile, forse essenziale per il processo di crescita di Liberi e Uguali. Diffidate, prendete accuratamente le distanze, evitate chi ha troppe certezze. Coltiviamo il dubbio e discutiamo senza preclusioni. Anche valutando la forza di eventuali alternative. Perché nelle Regioni, non lo dimentichiamo mai, si vota in primo luogo il candidato presidente. E alle elezioni mancano ormai pochi giorni.
Una certezza però ce l’ho e vorrei fosse più diffusa e proclamata a voce alta: che alle elezioni regionali, qualunque sia la decisione che i nostri delegati prenderanno nelle prossime ore, voteremo tutti Liberi e Uguali. Non vorrei più leggere: se fate questo io me ne vado. Né voglio credere alle voci che mi parlano di liste alternative già in avanzato stato di costruzione. Liberi e Uguali è la nostra casa comune, è appena un embrione del partito che avremmo già dovuto costruire. Ma almeno questo deve essere un punto fermo per tutti noi. Indietro non torniamo. Diciamolo tutti, però.
A casa si litiga, si discute, ci si divide. Ma poi si va avanti insieme. Si trovano le strade per far prevalere le ragioni che ci fanno stare uniti. La ragione che deve prevalere, sempre, è semplice: dobbiamo ridare voce agli ultimi in questo paese. Dobbiamo portare la sinistra in tutte le sedi istituzionali. E se questa è la stella polare, dobbiamo usare, anche in maniera un po’ spregiudicata, tutte le strade utili allo scopo. Altri tentativi, lo sappiamo tutti, non ci saranno concessi. Per cui, cari compagni, discutiamo, litighiamo, prendiamoci a parolacce, che volino sonori schiaffoni. Si sceglie e poi si torna a lavorare. Per Liberi e Uguali, per riportare la bandiera rossa in Parlamento e nelle Regioni. Ci serve.
La sinistra c’è. Ora facciamo la sinistra.
Il pippone del venerdì/32
Diciamolo chiaramente: quando, era il 7 novembre, a raffica, sono apparsi il documento unitario per la lista di sinistra, le date delle assemblee delle forze politiche che hanno elaborato la bozza che andrà discussa e approvata, fino al nome (importante) di quello che potrebbe essere il futuro “presidente” di questa aggregazione, diciamolo chiaramente, molti di noi hanno aperto la bottiglia buona. Quella che tieni da parte per le grandi occasioni. Senza neanche leggere le dieci scarne paginette prodotte dal comitato dei “saggi”. E anche questa “laconicità” è una positiva novità.
Non saranno i 140 caratteri che vanno di moda oggi, ma rispetto ai programmi dell’Ulivo è una rivoluzione. Abbiamo brindato senza neanche leggere, dicevo, perché dopo mesi e mesi di messaggini criptici, di mezzi passi in avanti seguiti da ampie retromarce, di silenzi imbarazzanti sui temi fondamentali dell’agenda politica, siamo stremati. Siamo come quei naufraghi che dopo mesi di navigazione senza meta vedono uno sperduto isolotto in mezzo al mare, con un’unica palma, e gli sembra il paradiso. Poi, magari, bisognerà anche ragionare su questi mesi che ci separano dalle elezioni e soprattutto su quello che dovrà succedere dopo. Datemi tempo che ci arrivo. Ma, intanto, per una volta non facciamo i rompiscatole e prendiamoci cinque minuti di gioia pura.
Sì, gioia pura. La sinistra manca in Italia da anni. Questo lo hanno capito anche le pietre ormai. Ma oggi siamo di fronte al fatto nuovo della possibile scomparsa di qualsiasi tipo di rappresentanza degli ultimi. Non solo in parlamento, ma anche nella società. Questo è il rischio che abbiamo di fronte. Perché la prossima legislatura senza una forza di sinistra in parlamento e nella società sarà quella del colpo definitivo ai sindacati, all’associazionismo, ai corpi intermedi che sono la vera garanzia per le libertà democratiche. Sarà quella in cui famoso “piano di rinascita nazionale” di Licio Gelli troverà la sua definitiva attuazione grazie all’asse Berlusconi-Renzi. Inutile che vi incazzate. Basta leggerlo e confrontarlo con le leggi approvate negli ultimi cinque anni, compresa la riforma della Costituzione. Salta agli occhi la perfetta convergenza di intenti: passare dalla democrazia avanzata descritta dai padri costituenti a una moderna forma di Stato autoritario dove gli spazi di partecipazione si esauriscono nell’acclamazione del leader.
Ecco perché abbiamo brindato. Con la bottiglia delle grandi occasioni. Non è che quel documento e quel percorso frettolosamente delineato risolvano d’incanto tutti i problemi. Ce ne accorgeremo nelle prossime settimane. I guastatori professionisti non mancano, sono già cominciati i distinguo, le accuse di verticismo e via dicendo. Sono gli stessi che denunciavano la mancanza di iniziativa politica di questi mesi. Non ce ne curiamo troppo. Come non ci curiamo troppo dei mal di pancia di Pisapia e soci. Che restano ancora sospesi tra un’alleanza con il Pd e una convergenza nella lista di sinistra. Decideranno. Siamo gente paziente. Ci piace, però, la determinazione e la nettezza delle posizioni e delle dichiarazioni dei dirigenti delle varie formazioni politiche di queste ore. Si respingono le tardive sirene che arrivano, più per strategia della disperazione che per convinzione politica, dal Pd. Compresi gli accordi tecnici lanciati da quel Parisi che tanti danni ha prodotti negli anni passati. Si affermano con ritrovata convinzione i valori della sinistra. Scopriamo la forza e la determinazione di Pietro Grasso, sempre meno presidente del Senato e sempre più in campo con noi. La sua spigolosità, le sassate che lancia, i suoi toni sempre decisi. Niente più timidi pigolii.
Insieme, questa volta si può dire davvero. Attendiamo con ansia non tanto le assemblee del fine settimana 18-19 novembre, quando arriverà il via libera al documento dai “costituenti”, quanto l’assemblea del 2 dicembre. Perché ci siamo stancati di riunirci divisi, ognuno nella sua casetta. E poco importa se qualche maître à penser della borghesia cosiddetta illuminata parla di ritorno ai riti burocratici dei vecchi comunisti. Congressi locali, regionali, nazionali, comitati centrali, commissioni, discussioni infinite. Poco importa perché, gli editorialisti pensosi non lo sanno, quei riti sono il sale della democrazia. La partecipazione è questo: non pagare due euro e imbucare il nome di un leader scelto da altri. Democrazia è discutere faticosamente per ore in sale sempre fredde e troppo piccole. Trovare una sintesi, legittimare dal basso una linea politica e in base a quella indicare una classe dirigente. Magari fosse.
E proprio questo, esauriti i brindisi voglio provare a dire. I passi fatti in queste settimane sono soltanto l’inizio della soluzione del problema. La condizione necessaria, come dicono quelli bravi. Ora bisogna non solo arrivare alla condizione sufficiente, ma anche andare oltre la sufficienza. La dico chiara: in questo periodo ho avuto modo di contattare tanti compagni, molti dei quali tornano ad affacciarsi dopo anni di disimpegno. Il messaggio è chiaro: siccome ci siamo stancati di votare il meno peggio come ci succede da tempo, diamoci da fare. Siamo anche disposti a rimboccarci le maniche in prima persona, ma sappiate che se il risultato è il meno peggio, ce ne restiamo a casa. E allora, secondo me, abbiamo poco tempo per fare due cose.
La prima, essenziale: avviare un vero processo dal basso. Non bastano le assemblee provinciali di Mdp, di Sinistra italiana, dei “civici” del Brancaccio. Non bastano perché siamo sempre gli stessi. E non siamo sufficienti. Bisogna lanciare appuntamenti unitari in tutte le città, in tutti i quartieri. Tornare nei luoghi del conflitto, dall’Ilva occupata a Ostia Nuova regno dei clan mafiosi e della destra fascista. Tornare per restarci. Aprire sedi, luoghi di confronto, luoghi utili anche a “mettere insieme il pranzo con la cena”, come si dice a Roma. Troviamo le forme moderne delle pratiche antiche della mutua assistenza. Sporchiamoci le mani senza paura. I comitati per la sinistra unita (il primo nome che mi viene in mente) devono piantare bandierine ovunque.
La seconda: scriviamolo chiaramente, non si torna più indietro nelle nostre casette. Del resto, lo abbiamo visto, se ci si arma di buona volontà, ci si siede a un tavolo, si discute e si arriva a una posizione comune. La voglia di unità, il bisogno di ritrovarsi insieme prevale sulle ragioni che ci hanno diviso negli anni. Quello della lista deve essere il punto di partenza, non di arrivo. Non illudiamoci di chissà quale risultato mirabolante. Saranno tempi grami. Riportiamo una pattuglia agguerrita della sinistra in Parlamento e nelle Regioni dove si vota. Che siano le nostre punte avanzate, non il fine della nostra iniziativa politica, ma lo strumento che ci permetta di costruire un futuro meno gramo. Queste forche caudine delle elezioni possiamo superarle con un risultato dignitoso. Date le condizioni io sarei più che contento di un 6 per cento a livello nazionale. Ma stiamo bene attenti, che se lo scopo è solo quello di garantire qualche poltrona a un pezzo di ceto politico stanco e consumato, non solo non arriveremo al 6 per cento, ma manco al 3. Per questo dico: scriviamolo subito che indietro non torneremo. Poi troveremo le forme per arrivare gradualmente a un nuovo partito. Una federazione, forme di adesione collettiva, tematiche. Inventiamo senza paura, tanto peggio di così non si può fare? Ma l’obiettivo deve essere un partito. Si, partito. Di quelli con le sezioni, i congressi, e tutto il rito della democrazia. Saremo anche noiosi. ma per tornare a incidere nella società serve una forza organizzata, di massa, in grado di contrastare il ritorno della destra. Della destra fascista, non dei moderati.
Buona sinistra, buon vento a tutti (il riferimento velistico non è casuale, diciamo).
I populismi, i supposti argini e il vero voto utile.
Il pippone del venerdì/29
Sto leggendo in questi giorni un libro di Giorgio Amendola, trovato su ebay per pochi euro, che racconta la storia del Partito comunista italiano dal 1921 al ’43. Doveva essere il primo capitolo di un lavoro più complessivo, ma non ne ebbe il tempo. Di lui ho sempre apprezzato una grande capacità di raccontare i fatti più complessi in maniera chiara, intrecciando le vicende personali con gli avvenimenti più generali. Non freddi saggi, insomma, ma la storia che diventa concreta, che scende dalle cattedre universitarie e si colora di facce, persone, passioni. In questo suo lavoro, meno romanzato rispetto ad altri, trovo la stessa facilità di racconto, unita al solito rigore nell’analisi.
Arrivo al punto. Una cosa mi colpisce sempre quando leggo qualcosa che riguarda la storia del Pci: la distanza fra il racconto dei protagonisti e la narrazione che degli stessi avvenimenti veniva rappresentata dai mass media. Mentre nella storiografia spesso si ritrova la descrizione di un partito e un gruppo dirigente chiuso e dipendente da Mosca, sia leggendo Togliatti, che Amendola, ma anche Ingrao, si percepisce sempre, sia pur nelle posizioni spesso differenti, un sentiero comune di tutt’altra natura: il bene del Paese. Questa sorta di stella cometa ha sempre guidato il gruppo dirigente dei comunisti italiani per settant’anni. Più che il destino personale, quello del Partito, contava il destino complessivo dell’Italia. E lo stesso progresso dei lavoratori, degli ultimi, dei proletari, veniva visto come condizione necessaria per il miglioramento del Paese.
Quando quella storia, quella del Pci, finisce si perde anche questo senso comune che aveva caratterizzato quella comunità? Sicuramente non è più stato quello il filo conduttore delle forze della sinistra. Di quel pensiero si ritrovano tracce, anche importanti. Penso, ad esempio, al Bersani che sostiene Monti, convinto che andare alle elezioni senza aver prima messo in sicurezza i conti sarebbe stato un disastro per l’Italia. Non ho condiviso quella strategia, Monti non era la medicina giusta, ma quella era la ragione. Perché una parte importante della classe dirigente della sinistra quel marchio di fabbrica ce l’ha impresso nel Dna.
Per questo mi capita, in questi giorni, di chiedermi cosa convenga davvero fare oggi per il bene dell’Italia. E credo anche che sarebbe bene che partissimo proprio da questa riflessione nel processo della ricostruzione della sinistra. Questa per me è la strada per ritrovare una connessione, anche emotiva, con il nostro popolo. Perché altrimenti si rischia di essere percepiti come quelli che si mettono insieme solo per riportare qualche deputato in Parlamento. E se questo è non si raggiunge neanche questo obiettivo francamente non particolarmente attraente.
E credo anche che sia una riflessione da fare a maggior ragione in questi giorni in cui l’offerta politica italiana appare in tutta la sua miseria. C’è una destra che si unisce per ragioni di potere dietro l’effige stinta di Berlusconi, dove la voce di Salvini è sempre più forte, ci sono i 5 stelle che a parole sono rivoluzionari ma quando governano si dimostrano soltanto apprendisti pasticcioni, c’è un centro che si affida a Renzi, forse il più populista della compagnia. Si odono sinistri scricchiolii a destra con l’avanzata dei fascisti veri e propri, di cui abbiamo già parlato.
Le vicende di questi giorni non sono altro che una conferma delle riflessioni di questi anni. Renzi si proclama a parole unico argine al populismo parolaio e poi ne usa gli strumenti a piene mani. Al di là del giudizio su Visco, sicuramente non univoco, la sgrammaticata mozione del Pd rappresenta uno schiaffo alle istituzioni. Il paradosso è che chi è fra i responsabili degli scandali che hanno colpito i risparmiatori negli ultimi anni si erge a paladino degli stessi andando a mettere sotto accusa l’organismo che sulle banche ha esercitato un’azione costante di controllo, sia pure con ritardi e omissioni, evitando guai peggiori. Insomma, invece che perseguire i malfattori si perseguono i controllori. Si indebolisce la Banca d’Italia, la sua indipendenza sancita dalla Costituzione. Per qualche voto in più si mette a rischio una istituzione essenziale. La stessa cosa che rimproveravamo a Berlusconi, le stesse critiche che da sempre muoviamo a Grillo.
Anche a voler ignorare le inchieste giudiziarie in corso, questo modo di fare politica è di per sé un danno per il Paese. Perché non di discosta minimamente da quel populismo che vorrebbe combattere. Si fa forcaiolo quando il vento tira da quel lato, razzista quando le tensioni sui migranti fanno ondeggiare l’opinione pubblica, stucchevole nella sua deferenza verso i potenti, arrogante con i sindacati e gli studenti. Unico scopo è l’affermazione personale, la gestione del potere fine a se stessa.
Io resto convinto che fosse sbagliato il progetto stesso del Pd, ma ai Veltroni, ai Prodi, ai Franceschini, ai Gentiloni vorrei chiedere ugualmente: ma era questo il partito che sognavate? La famosa vocazione maggioritaria voleva dire che pur di raccattare un voto in più si può fare tutto? E pur di salvare qualche posticino in parlamento per voi e la vostra corrente siete disposti a digerire tutto?
Ecco, il bene del paese: cosa è oggi il bene del Paese? Arginare i populismi. Bene. Io credo che siano due le condizioni necessarie. Per prima cosa ricostruire un campo della sinistra. Senza altri aggettivi, radicale, di governo, riformatrice. La sinistra e basta. Quella che parte dalla cultura del bene comune e che non a caso in questi anni è stata costantemente sotto l’attacco concentrico di tutti. Per seconda cosa deve morire il Partito democratico, deve esplodere questo contenitore malato che ancora ingabbia e illude tante energie positive.
Solo ricreando una sinistra forte e autorevole e un partito che rappresenti i moderati, si può davvero mettere un argine ai populismi che sembrano oggi inarrestabili. Non è un compito che si esaurisce in due o tre mesi, lo dico da troppo tempo. Ma è essenziale che si cominci adesso a costruire un campo differente. Ognuno a casa sua. Noi dobbiamo lavorare per dare voce a quel popolo di sinistra che ormai puntualmente resta a casa a ogni elezione. I Veltroni, i Prodi devono abbandonare Renzi al proprio destino e dare vita a un nuovo progetto moderato con il quale poter interloquire.
Se ci ritroviamo su questi obiettivi è anche più facile capire cosa fare, sia a livello nazionale che a livello locale, dove bisogna lavorare per isolare il giglio magico e rafforzare le energie che in modo manifesto si dichiarano alternative, anche dentro il Pd. Questo sarà il vero voto utile.
Le elezioni, in questo quadro, sono un passaggio obbligato ma non dirimente. Un passaggio che può aiutare questo grande big-bang, questa complessiva scomposizione e ricomposizione su basi nuove che serve alla rinascita di un sistema politico che ormai è solo un danno per l’Italia, per noi tutti.
Serve una sinistra autonoma e socialista. Facciamola.
Il pippone del venerdì/28
Era il due giugno scorso, ovviamente un venerdì, e scrivevo che Pisapia rappresentava l’ultimo killer mandato a eliminare quel che restava della tradizione dei comunisti italiani. Da allora sono passati quattro mesi e la convinzione si è rafforzata, devo dire che nelle ultime settimane mi è parso di non essere più il solo a pensarla in questa maniera. Con sollievo. Scrivo questo non tanto per un classico “ve l’avevo detto”, quanto per un più incazzato “possibile che non ve ne siete accorti prima?”. Abbiamo buttato sei mesi nel secchio, con tutti i giornali che adesso ci sparano contro a pallettoni: siamo la sinistra residuale, minoritaria, mera testimonianza, litigiosa, un partitino del 3 per cento. Qualcuno parla addirittura di spaccatura in Articolo Uno, visto che un pezzo dei parlamentari iscritti al gruppo erano in realtà legati a Campo progressista. Non se ne può più. Pagine e pagine dedicate alla “scissione degli scissionisti”.
Che poi non si capisce bene: se siamo davvero così residuali da arrivare a malapena al 3 per cento, perché darsi tanta pena, mobilitare tante brillanti penne del nostro giornalismo per demolirci? Viene addirittura richiamato in servizio permanente effettivo quell’Achille Occhetto che di demolizione della tradizione comunista resta l’autorità principe nel nostro paese. Quando si richiamano in campo i pensionati vuol dire che c’è davvero una gran paura in giro.
A me sembra che i salotti che contano abbiano una gran paura di questi quattro cialtroni malmessi che riescono a stento a parlarsi fra loro e portano troppe ferite delle battaglie del passato. Il tiro a pallettoni contro D’Alema è solo l’inizio. Da qui alle elezioni ne vedremo delle belle. Quello che fa paura è l’idea che un gruppo (al momento quasi soltanto di parlamentari) possa anche solo pensare che in Italia debba esistere una sinistra autonoma. Autonoma: è questa parola che turba i sonni di chi decide i nostri destini fin dagli anni ’90. L’idea che nel nostro Paese torni a esistere una qualche forma di soggetto politico che provi a staccarsi dalla deriva liberista che ci ha portati alla situazione di oggi e che ridefinisca se stesso sui valori dell’eguaglianza e della libertà. Una formazione di natura socialista che dice con chiarezza che serve una nuova rivoluzione per ridare forza ai deboli, voce agli ultimi.
Hanno provato a fermarci in tutti i modi, Pisapia e la sua riedizione sbiadita dell’Ulivo, ci hanno portato fuori strada. Si è tentato di dividerci ancora. E continueranno a farlo. Servono nervi saldi perché adesso non si può più sbagliare. E allora un appello a tutti: fermiamoci e cambiamo registro, perché le elezioni sono pericolosamente sempre più vicine, forse anche più di quello che si dice. Insomma, si può tornare a parlare della sinistra. E bisogna farlo subito, bisogna farlo in tutti i quartieri, nei luoghi di lavoro. Perché l’attività di sabotaggio ci ha portato a un minuto dalle elezioni. Non so se la data sarà sul serio il 19 novembre. Poco importa se sarà una settimana dopo, le cose importanti sono le coordinate che dovrà avere quell’appuntamento.
Dovrà essere un appuntamento di massa nel quale dal basso si sceglie un gruppo dirigente provvisorio, un comitato di direzione, chiamatelo come vi pare, e si indicano le coordinate del percorso che dovremo fare insieme. Un percorso che, lo dico senza perifrasi, secondo me non può avere come semplice approdo un’alleanza elettorale. Dobbiamo dire chiaramente che la lista della sinistra è il primo passo, forse quello più difficile per le date ravvicinate e le reciproche diffidenze, verso un nuovo partito. Di questo abbiamo bisogno: di una casa comune nuova, nella quale nessuno si senta ospite, magari anche poco gradito. Magari si può iniziare da una forma di federazione. Ma deve essere chiara la direzione, la “cessione di sovranità” degli aderenti: un investimento verso il futuro, non una coperta di Linus per riportare in Parlamento una pattuglia di dirigenti. Qualsiasi forma partito si scelga, chiari devono essere i processi di formazione delle decisioni. Non la corsa alle tessere che tanti di noi hanno vissuto come un incubo negli ultimi anni, ma la possibilità per chi vuole partecipare di contare e portare il proprio contributo.
In quell’appuntamento dovremo scegliere carta dei valori, nome e simbolo da presentare alle elezioni. Io suggerisco di rivolgersi a un’agenzia di comunicazione diversa. Serve discontinuità anche in questo, perché gli ultimi simboli non erano un granché. E mi trattengo molto. Servono un nome e un simbolo “facili” da riconoscere ma che al tempo stesso guardino al futuro, facciano pensare non a un evento momentaneo ma a qualcosa di stabile. A me non dispiacerebbe la parola socialismo, da troppo tempo caduta in disgrazia, come non dispiacerebbe un riferimento al lavoro. Altrimenti “La Sinistra”. Secco, senza fronzoli. Magari con una stella ad accompagnarlo. Eviterei le rose, perché anche a livello europeo serve una nuova sinistra, il Pse mi sembra sulla strada del declino, neanche troppo lento.
Io non credo a un processo civico. C’è bisogno, al contrario di una formazione politica, dove le esperienze civiche abbiano piena cittadinanza. Un processo esclusivamente civico secondo me è un’illusione. Come è un’illusione quella del campo informe, del movimentismo perpetuo. Dobbiamo fare un partito politico. Senza avere paura di dirlo. La crisi della sinistra è anche la crisi dei partiti così come erano stati pensati nella Costituzione. A quello spirito dobbiamo tornare. Perché senza grandi corpi intermedi, organizzazioni di massa, non c’è democrazia, c’è solo il leaderismo che abbiamo conosciuto in questi decenni.
Queste coordinate (sinistra autonoma, socialista, valori chiari, partecipazione dal basso) dobbiamo farli vivere nei territori. Dobbiamo aprire sedi comuni, accorciare le distanze anche fisiche tra noi. Una sezione (io sono affezionato a questo nome) in ogni comune, in ogni quartiere delle città più grandi. Poi servirà anche la comunicazione via internet, la presenza sui social. Ma se non torniamo a essere presenti con forza e continuità nelle piazze e nei luoghi di lavoro abbiamo perso in partenza.
Ecco, io immagino un percorso così, non un autobus dove c’è chi guida e ci sono i passeggeri. Un percorso in cui tutti si sentano attori protagonisti. Di comparse non ne abbiamo bisogno, come non abbiamo bisogno di personalismi. Abbiamo bisogni di tanti protagonisti che sappiano fare squadra guardando al futuro. E che siano consapevoli che il futuro non sarà domani. Che le elezioni sono solo il primo passo per ricostruire una sinistra di popolo e non di palazzo. Che il tema non è tanto andare al governo, ma creare le condizioni sociali per una nuova stagione di progresso nel nostro paese. Poi ci porremo tutti insieme anche il problema di chi sia il regista. Non tanto il centravanti, ma il mediano. L’uomo solo al comando, francamente, mi ha un po’ stufato. Sono l’unico a pensarla così? Io non credo.
Sarà una traversata nel deserto. Ma non si torna indietro. In tutta Europa la sinistra guadagna consensi e torna a essere decisiva quando dice e fa cose di sinistra. Sembra semplice no? Facciamolo anche noi.
Il tormentone infinito della legge elettorale.
Il pippone del venerdì/25
Non rimaneteci male, ho deciso, intanto per una settimana ma chissà per quanto tempo: lasciamo la sinistra alle sue contorsioni e Pisapia ai suoi pigolii tentennanti. Forse se li ignoriamo i nostri (autonominati) dirigenti e leader si accorgeranno di quanto siano inutili, se non dannosi, per la causa che dicono di voler perseguire e si daranno una svegliata.
Vorrei, invece, in questo mio sproloquio settimanale, fare qualche rapida considerazione sulla legge elettorale e sull’ultimo cilindro tirato fuori dal capello del Pd. Capisco che di argomenti meno appassionanti ce ne sono pochi, ma mi pare un tema fondamentale per il futuro di tutti noi. E il fatto che si vorrebbe liquidare in poche settimane una partita così delicata ci dovrebbe far scattare subito in piedi. Non parlerò di inciucio, lo dico a beneficio dei grillini: le regole si fanno tutti insieme o almeno con una maggioranza più larga possibile, dunque parlare di inciucio è un vero e proprio ossimoro. Vorrei entrare più nel merito della proposta.
Intanto, diciamolo, viene da chiedersi chi siano i tecnici (chiamarli costituzionalisti o anche esperti di diritto pare un insulto a chi lo è davvero) che si inventano a rotta di collo sistemi elettorali da manicomio. Siamo almeno alla quinta proposta differente in pochi mesi che arriva da parte dei democratici e tutte hanno in comune due punti: per capirle ci vuole uno studio complicato e quando arrivi alla fine ti rendi conto che non sono sistemi elettorali pensati per garantire governo e rappresentanza, ma per far fuori il nemico di turno.
Il punto non è neanche tanto che con l’ultima trovata di Renzi e soci il numero dei nominati direttamente dai partiti arriva alla cifra record del 64 per cento, senza contare i collegi uninominali sicuri, altro rifugio tranquillo. Non è uno scandalo in sé, dicevo, perché se in questo paese ci fossero dei partiti, con una democrazia interna regolata da norme precise e uguali per tutti, verrebbe quasi naturale che fossero loro a selezionare la classe dirigente. E’ proprio questa, del resto, la funzione principale delle formazioni politiche. I partiti sono la democrazia che si organizza, come diceva Togliatti. E dunque nulla di strano. Peccato che ormai in Italia di partiti non ce ne siano più e dunque l’indicazione della classe dirigente spetterebbe nella sostanza a quattro leader. E visti i leader non c’è da stare allegri.
Ma a parte questo, sono altri gli aspetti inquietanti del cosiddetto “Rosatellum bis” (in altra sede ci sarebbe da disquisire sugli improbabili nomi latineggianti che cercano di coprire imbrogli degni di un magliaro di basso livello). Provo a raccontarvi come funziona questa idea su cui ci sarebbe l’accordo di Pd, Lega, Forza Italia e cespugli vari. I due terzi dei parlamentari viene eletto su base proporzionale con liste bloccate, gli altri in collegi uninominali a turno unico, chi prende un voto in più entra in parlamento. Nella parte proporzionale ci sono le liste dei partiti (devono superare il 3 per cento per concorrere alla ripartizione dei seggi) che possono unirsi e presentare un comune candidato nel collegio uninominale. Lo sbarramento per le coalizioni è del 10 per cento, ma non è previsto un programma comune e neanche un leader, ciascuna lista ha il suo “capo”. Se una lista che fa parte di una coalizione non raggiunge il 3 per cento ma ha superato l’1, quei voti vengono spartiti fra gli alleati. Una norma strana, ma che potrebbe favorire la nascita di una serie di liste civetta in grado di spingere i candidati nell’uninominale. Il voto è unico: votando la lista nel proporzionale si attribuisce automaticamente la propria preferenza anche al candidato collegato nella parte uninominale. Se si vota solo il candidato all’uninominale, il voto va (in proporzione) anche alle liste collegate.
La prima cosa che balza agli occhi è che questa legge non garantisce minimamente la stabilità del governo, perché non aiuta a formare una maggioranza e neanche farà immediata chiarezza su chi ha vinto e chi formerà il governo. Anzi, è facile prevedere che da una legge così, visto il nostro attuale sistema, non nascerà alcun governo se non una “grande coalizione dei moderati”, a patto che ci siano i numeri. Sottolineo che questi due punti (stabilità e certezza sui vincitori) sono stati per anni il tormentone che ci ha propinato mattina e sera il segretario del Pd. Ora sono improvvisamente spariti dall’agenda politica.
Il secondo aspetto che vorrei mettere in evidenza è questa bufala delle coalizioni elettorali. Il fatto che solo in Italia esistano dovrebbe accendere un campanello d’allarme. Nel resto del mondo, infatti, i partiti che hanno un programma comune non fanno coalizioni, presentano la stessa lista. Se hanno programmi differenti, invece, presentano liste concorrenti. Dopo le elezioni, questo sì, quando nessun partito raggiunge la maggioranza si formano delle coalizioni per governare fra i soggetti politici più vicini. In pratica: ci si pesa, le idee di ciascuno vengono giudicate dagli elettori e poi, solo dopo il voto, proprio in base al peso elettorale che i programmi hanno avuto, si indirizza l’azione politica del governo. L’invenzione italica delle coalizioni, invece, fa sì che partiti differenti e quindi con programmi altrettanto differenti, facciano una mediazione preventiva senza pesarsi prima. Gli elettori vengono di fatto, privati di un loro diritto fondamentale: scegliere il partito più vicino al loro modo di pensare. Nel caso di quest’ultima pensata dei democratici, non c’è manco il programma comune e dunque non si capisce per quale motivo si dovrebbero presentare insieme.
Raccontata così, è evidente come questa legge debba avere altri scopi, di certo non quello di creare un sistema politico rappresentativo del paese. Del resto, se le ultime due leggi elettorali, approvate da schieramenti opposti, sono state bocciate dalla Corte costituzionale, una ragione ci deve pur essere. Il motivo, secondo me, è evidente: non si pensa a una legge per rafforzare il sistema politico (e quindi che garantisca rappresentanza e aiuti la formazione di maggioranze), ma a una legge che favorisca alcune forze politiche rispetto ad altre. Il porcellum fu studiato da Berlusconi e soci per dimezzare la prevedibile vittoria di Prodi nel 2006, l’Italicum, secondo Renzi gasato dal 42 per cento delle Europee, doveva garantire al Pd una maggioranza solitaria. Non a caso fra le raccomandazioni del Consiglio d’Europa c’è quella di non fare leggi elettorali nell’ultimo anno del mandato delle Camere, proprio per evitare norme confezionate in base ai sondaggi del momento.
Ora, io non sono né un esperto né tantomeno un tecnico, solo un appassionato. Ma Lo scopo mi pare evidente, in questo caso: in primo luogo rendere marginale la forza del Movimento 5 stelle, che per la sua stessa natura non è disposto a partecipare a coalizioni, in secondo luogo ostacolare la formazione di una forza di sinistra che vedrebbe i suoi consensi potenziali messi a rischio dal consueto appello al cosiddetto voto utile. Supposto che la maggioranza potenziale regga alla prova del Parlamento e questa legge passi, a me sembra che Renzi, ancora una volta, abbia fatto male i suoi conti. Perché una legge con queste caratteristiche gli garantirebbe sicuramente di poter fare e disfare a suo piacimento il Pd. Ma il vero favorito sarebbe Berlusconi, che ottiene due vantaggi insieme: si può coalizzare con la Lega di Salvini ma non deve scegliere un leader, può infarcire le liste dei fedelissimi. Senza contare che già da tempo sta pensando a una serie di listarelle parallele a quelle principali cosa che, come abbiamo visto, questa proposta tende a premiare. Insomma, se lo scopo è quello di tornare a Palazzo Chigi anche come capo di un governo di grande coalizione, lo strumento non sembra essere adatto.
Ultima notazione e poi vi libero dal pippone settimanale: il voto utile. E’ un concetto che proprio non capisco. Utile a chi? Io dovrei votare un partito che di cui non condivido molto per evitare che ne vinca un altro di cui condivido ancora meno. Che poi sentire Renzi che evoca il rischio del populismo è anche divertente. Torniamo seri: l’equivoco sta nel concepire il governo come fine unico di una formazione politica. Io credo che non sia così. Sono convinto che un partito debba rappresentare interessi, organizzare un blocco sociale si sarebbe detto una volta. Arrivare al governo è uno dei modi per farlo, ma non l’unico. Continuo a pensare, ad esempio, che abbia influito di più il Pci stando sempre all’opposizione che i partiti suoi (indegni) eredi che nelle loro ragioni costitutive hanno sempre avuto scritta una vera e propria ossessione per il governo. Ecco, fossi nella testa degli (autonominati) dirigenti della sinistra sparsa, mi porrei questo come compito da svolgere per l’autunno: studiare come si fa a incidere nel paese senza per forza doversi alleare con Alfano e soci. Buon lavoro.
Cari 101 piccoli infami.
Lettera aperta ai franchi tiratori
Cari 101 piccoli infami, la razza di chi ti dice una cosa in faccia e poi ti pugnala alle spalle mi ha sempre dato fastidio. Ma poi ho imparato a riconoscervi da lontano. Siete di due specie differenti. La prima è fatta da quelli che sono i tuoi più grandi amici, quando ti incontrano sono i primi a venirti incontro,baci abbracci e sorrisi.
La seconda è fatta da quelli che non hanno ancora abbastanza pelo sullo stomaco ed evitano lo sguardo. In tutti e due casi siete persone piccole. Che di mestiere facciate il segretario di una sezione di periferia o i parlamentari, non importa. Non è la carica a qualificare la levatura morale di una persona.
Vedete, cari piccoli infami, io sono di quelli che le cose le dicono sempre in faccia. Che magari a volte esagerano. E che sanno chiedere scusa quando sbagliano. Sempre fieramente perché, mi diceva mia nonna, l’unico che non sbaglia mai è quello che non fa niente.
Insultiamoci, accapigliamoci, prendiamoci pure a parolacce, ma sempre in faccia mai alle spalle.
Voi, invece, siete quelli che inneggiate all’unità del partito, che fate la faccia schifata quando qualcuno dice la verità, magari brutalmente: “Non sono cose da dirsi, perché fanno male al partito”.
E invece, cari piccoli infami, al partito fanno male le vostre ineffabili facce di bronzo. Fanno male i vostri culi che –su questo ci metterei la mano sul fuoco – non s sposteranno mai da quelle poltrone. Perché non voi non esponete mai il petto di fronte all’avversario, tutt’altro. Ci mandate il vostro vicino di banco a combattere. Lo spronate, gli dite vai. E voi sempre imboscati. Non intervenite nelle assemblee, ci mancherebsebe altro. Non dite mai: caro compagno hai detto una cavolata. No, voi vi tirate di gomito con il vicino, con la mano davanti alla bocca per nascondere il vostro sorriso divertito.
Se siete persone, se volete dirvi degni di appartenere a una comunità politica, fatevi avanti per una volta e dite: “Sì non ho votato Prodi, mi dispiace ma non ero d’accordo”. Oddio, se lo aveste fatto stamani, magari avremmo evitato l’ennesima figura di merda, ma va bene lo stesso. Fate outing. Fateci capire perché avete messo l’ennesima pietra su un partito che soltanto nel 2008 era la grande speranza degli italiani.
Voi siete gli stessi che mentre votavano compatti per Veltroni alle primarie già cominciavano a preparare gli agguati. Siete quelli che hanno fatto cadere il governo Prodi.
Ora Bersani avrà anche fatto errori molto gravi. Ma perché non vi siete alzati in direzione nazionale? No, ma ti pare che fate vedere le vostre facce da becchino dell’800? No, mentre votavate sì, già pensavate: ”Tanto un mesetto e lo cuociamo”.
Adesso basta, cari piccoli infami. Non vi meritate la nostra passione. Le notti passate a discutere, le mattinate al freddo nelle cento campagne elettorali che abbiamo fatto. Non vi meritate manco i due spesi per votarvi alle primarie, figuriamoci le alzatacce all’alba per permettere a tutti di votarvi. Fatevi vedere. E, una buona volta, andatevene. Perché non ne possiamo più.
Ora per vincere serve il Pd. In campo per davvero
Finita la giostra delle primarie, bisogna dire che mediamente gli elettori del centrosinistra sono migliori di noi. Il quadro dei candidati in campo, dal Comune ai Municipi mi sembra complessivamente credibile, rinnovato, con alcune punte di eccellenza. Poi non tutto va come uno vorrebbe, ma la perfezione si sa…
Parto dal candidato Sindaco. Ripeto quanto ho detto in tutta la campagna per le primarie e provo ad andare oltre. Secondo me Marino da solo non basta per vincere Roma. Sicuramente ha il merito di averci evitato Sassoli – e non è poco – ma da oggi gli avversari si chiamano Berlusconi e Grillo. Sperando che il livello nazionale non ci sommerga, avremo i due leader schierati a Roma per un mese.
Sicuramente Marino è un candidato che ci garantisce su un fronte importante: moralità e trasparenza. Quell’aria da bravo ragazzo, la sua pacatezza nel rispondere, il modo di sorridere, sono gli elementi che ne fanno un candidato che buca nell’opinione pubblica. In primarie tutte concentrate sui municipi (una sorta di guardarsi l’ombelico e pensare che sia l’universo) c’è stato meno voto organizzato sul livello comunale. Il leit-motiv era: vota tizio per il municipio, per il Comune fai quello che credi. E se si confrontano seggio per seggio i risultati dei candidati municipali “sassolini” con il risultato al Comune di Marino, il tema è evidente. Marino capovolge i rapporti di forza delineati nei municipi.
La sua storia, il suo modo di fare politica, un po’ da esterno senza mai però alzare troppo i toni, ne fanno un candidato credibile per l’elettorato di centro sinistra. Si può ipotizzare un recupero di quel voto che alle politiche è andato a Grillo ma che, a distanza di pochi secondi, si era già indirizzato su Zingaretti.
Si dice: vabbeh ma Roma è la capitale del cattolicesimo. Faccio notare che alle Regionali del 2010 Emma Bonino, ovvero una sorta di Satana in gonnella, a Roma portò via il 54 per cento dei voti. Quindi non mi sembra questo il tema vero.
Il dato delle primarie ci dice Marino sfonda nelle periferie, proprio lì dove Grillo alle politiche è stato primo partito ovunque. E sfonda in quelle periferie che spesso sono state accusate di essere la patria del voto di scambio. Devo dire, è solo un inciso, che a me sono sembrate primarie generalmente corrette. Molto più che in passato. Abbiamo imparato a limitare ed emarginare i fenomeni clientelari che pur esistono. Si può ancora migliorare, ma siamo sulla strada giusta.
Il punto, secondo me, è che Marino, per vincere non deve essere solo e deve essere capace di allargare il campo. Bene, insomma, il suo essere personaggio civico più che politico. Ma adesso servono le idee, le persone, una squadra che, tutelando queste caratteristiche preziose, lo accompagnino in una sfida complessa, lunga. Roma è una città difficile. Che ti ama e ti odia. Ti coccola e ti prende a calci nel sedere. Non basta dire di amarla, devi imparare a sentirne il respiro, a capire in anticipo quale sarà l’emergenza di domani. Credo che Veltroni in questo fosse straordinario. Serve un campo di forze ampio, non tanto in senso politico, ma sociale. Serve un blocco che senta Marino come il proprio candidato. E questo si fa mettendo in campo, da subito una squadra larga, rappresentativa di questa città. Si fa uscendo dall’etichetta di candidato della sinistra e basta, mettendo le mani nei problemi quotidiani di questa città. Per fare il sindaco dei romani devi andare oltre. Altrimenti c’è il rischio di andare lindi e puliti contro un muro. A posto con la coscienza ma irrimediabilmente perdenti.
Marino deve dire cosa vuole fare sui grandi temi, dall’urbanistica, alla mobilità. Ricordandosi sempre, però, che questa è una città che ha fame. Che manca il lavoro. Che la disoccupazione giovanile è un livello intollerabile. Deve saper parlare al cuore della sinistra, deve far tornare in campo anche alle elezioni “vere” quel voto di opinione senza il quale si perde. Sempre. Ma deve dare anche risposte alle ansie quotidiane dei cittadini, dalle buche, ai rifiuti, agli autobus scalcinati. Al lavoro, lo dico ancora una volta.
Io credo che per fare questo serva l’unione fra forze sociali e partiti della coalizione. E serva innanzitutto il Pd. Che non si deleghi, ancora una volta, la campagna elettorale ai soli candidati al consiglio comunale. Mettiamo al servizio del candidato sindaco le nostre idee alle quali abbiamo lavorato in questi anni e le nostre persone migliori. Scelga lui. In assoluta libertà chi crede sia più utile a costruire un progetto per Roma. Ce la facciamo a fare questo? Questo, malgrado sia un po’ scassato, resta un partito grande, forte e generoso. Ricco di intelligenze. Mettiamole in campo.
I Municipi
Quello del voto municipale è l’aspetto che, diciamo la verità, ci ha occupato di più in tutta la campagna per le primarie. I risultati mi sembrano positivi, con una squadra di candidati, nel complesso, giovane, rinnovata e soprattutto all’altezza della sfida che ci attende.
Alfonsi, Torquati, Santoro, Veloccia, Marchionne. Cito solo quelli che conosco un po’, nessuno si offenda. Mi soffermo, in conclusione sul risultato del VII Municipio (ex IX e X) dove le cose sono state complicate dall’accorpamento “a freddo” deciso dalla destra proprio alla vigilia delle primarie. Io credo che possa rappresentare un modello di cosa il Pd non deve fare. Nessuna selezione delle candidature, troppi candidati competitivi. Non è un giudizio di valore. Ma faccio notare che, soltanto limitandosi ai due candidati ex Ds, Franco Morgia e Fabrizio Patriarca, la somma dei loro voti doppia il risultato della candidata vincente, Susanna Fantino di Sel. Che ha avuto una buona affermazione, ma che sarebbe rimasta lontana dal primo posto se fossimo riusciti a fare sintesi. Mi ci metto anche io, anche se ho provato fino all’ultimo a trovare una soluzione più unitaria. Non ci sono riuscito e quindi sono parimenti responsabile rispetto agli altri.
In sintesi e per non annoiarvi oltre, Io credo che di quella squadra larga i primi attori debbano essere proprio i candidati presidenti. Sono loro che sentono il respiro della città più da vicino. Mettiamoli in condizione di lavorare da subito per il nostro Bene Comune, Roma.
Con Bersani e Zingaretti.
E con Flavia alla Regione
Brutta o bella che sia stata, ormai la campagna elettorale è agli sgoccioli. Due sole notazioni su questo. A Roma è stata l’ennesima campagna elettorale dove il partito è stato quasi del tutto assente. La campagna elettorale è stata come di consueto subappaltata ai candidati alla Regione. Come si sono comportati? Un po’ meglio rispetto al solito. Ma neanche tanto. Invasioni di manifesti, mega cene. Il tutto in calo rispetto al passato, ma c’è stato. Andava eliminato alla radice, secondo me, perché quando si spendono centinaia di migliaia di euro per essere eletti alla Regione, oltre ad essere fuorilegge, si dovrà anche rispondere ai finanziatori. E quindi, almeno questa volta, si potevano evitare le cene da duemila persone, le centinaia di migliaia di manifesti affissi in tutta Roma e Provincia, le pubblicità ossessive sulle fiancate degli autobus. Si poteva e si doveva evitare perché se magari porterà qualche preferenza in più all’aspirante consigliere, al tempo stesso ce ne fa perdere fra le tante persone che sono stanche di una politica dai costi milionari. Qualche commissione di garanzia prima o poi dovrà capire quanto si spende in una campagna per le regionali. Magari prima che lo faccia qualche procura.
Serviva il partito, serviva una regia romana e regionale che, come avviene ormai da anni, è mancata.
I dirigenti si sono limitati a partecipare alle iniziative dei candidati. Non può bastare. Soprattutto con lo sguardo rivolto agli appuntamenti che ci aspettano nei prossimi mesi. Riuscirà il Pd di Roma a mettere in piedi un ragionamento collettivo, una campagna di comunicazione comune, oppure si limiterà a tirare la volata a qualcuno? Riuscirà a porsi alla testa di un movimento di popolo per liberare la città da questo sindaco deprimente?
Detto questo, ci siamo. Fra poche ore si vota. E, con tutte le nostre pecche abbiamo la concreta possibilità di cambiare, sia in regione che a livello nazionale. Da ragazzino mi emozionavo quando Pajetta finiva i comizi del venerdì dicendo: Ricontattate gli incerti, telefonate a tutti i vostri amici e parenti. Ricordate che bisogna continuare a lavorare fino alla fine, perché anche un voto può essere decisivo.
Nessun messaggio può essere più efficace in queste ore.
Cosa votare e come votare: Senato e Camera solo una croce sul simbolo del Pd. Alla Regione una croce sul simbolo vale anche come voto a Nicola Zingaretti. E poi si può esprimere una preferenza, badate una sola, altrimenti si rischi di annullare la scheda.
A chi dare questa benedetta preferenza?
Francamente non mi permetto di dirvi chi votare, chi sarebbero i presunti migliori. Ognuno di noi ha la testa per scegliere. Vorrei, più umilmente, dire chi ho scelto e perché.
Fin dall’inizio di questa avventura ho lavorato e sostenuto Flavia Leuci. Per tre ragioni.
La prima è che di Flavia mi fido. La conosco da anni, siamo stati spesso dalla stessa parte della barricata, ma anche quando non siamo stati d’accordo è sempre stata leale e trasparente. E in Regione di lealtà e trasparenza ne abbiamo davvero bisogno.
La seconda è che la l’esperienza necessaria per poterci rappresentare in Regione. E quando dico rappresentare intendo un rapporto continuo con militanti e cittadini che riporti questo ente così distante a una dimensione umana. Dico l’esperienza perché chi vi propone il rinnovamento e basta in un ente complesso come questo vi racconta una emerita baggianata. Il rinnovamento si fa nei municipi, nei comuni. Lì ci si deve fare le ossa, lì va selezionata la classe dirigente che poi verrà candidata a livelli più alti. Arrivare in Regione senza aver fatto “la gavetta” significa fallire il proprio compito, quello principale di un partito: mettere i migliori candidati possibili a ogni livello. Flavia ha fatto la consigliera in circoscrizione, poi è stata dieci anni in Provincia. E’ una che conosce, approfondisce i problemi e quando non capisce chiede consiglio. Ha l’esperienza e l’umiltà necessaria per essere una buona consigliera.
La terza è che è una donna. Ora, come è noto io sono un maschilista doc, del resto diffidate dai maschi che vi dicono di avere la cultura delle donne. Vi stanno per fregare. Ma anche da maschilista mi rendo conto che in una società in cui le donne sono più del 50 per cento è ridicolo pensare con nel gruppo del Pd non ci sia neanche una donna. E guardate che il rischio c’è tutto. Basta leggere la liste provinciali per capire come siano state costruite così, per avere tutti uomini. Io credo che Flavia sia l’unica donna che ha la concreta possibilità di essere eletta.
Le altre candidate saranno anche rispettabili e brave ma non ce n’è una che abbia la militanza e le capacità di Flavia Leuci. Anche la storia di partito. E io che sono vecchio voglio una consigliera che risponda al suo partito e ai suoi elettori, non che vada a fare la battitrice libera.
Ce la possiamo fare, dicevo. Sarebbe una vergogna, dopo il successo delle donne nelle primarie un gruppo Pd fatto di soli maschi. Ce la possiamo fare, basta ricordarselo domenica e lunedì. E ricordarlo a tutti i nostri contatti. Prendere le agendine, le rubriche sul palmare, sull’ipod, sull’ipad, su quello che vi pare, ma attaccatevi al telefono. C’è tempo fino a lunedì. Per far vincere Bersani e Zingaretti. E anche, se vi avanza tempo, per far eleggere una donna, una compagna vera, nel consiglio regionale del Lazio.
Buone elezioni a tutti.
Questo è il tempo per costruire
Le primarie nazionali ci dicono cose importanti. La prima, non mi stancherò di ripeterlo, è che c’è un popolo che guarda a noi come l’unica speranza di cambiamento per questo Paese. In un periodo di disgusto verso la politica, vedere migliaia di persone, milioni, che si registrano, si mettono in fila e pagano addirittura per poter esprimere il loro contributo dà un’iniezione di adrenalina fortissima. Che ti permette di superare la stanchezza delle settimane passate al circolo, delle alzatacce, delle polemiche inutili e faziose.
A questo popolo, vero, non teleguidato, non comandato dagli “apparati” come hanno provato a far credere, noi dobbiamo sincerità e concretezza: ci hanno dato fiducia e ci hanno rimesso al centro della scena politica. E’ chiaro a tutti che senza la coalizione di centro sinistra, questa volta, non sarà possibile nessun governo. Il popolo delle primarie ci ha dato questa forza. Un patrimonio immenso. Non disperdiamolo, facciamo vedere loro che la fiducia è ben riposta.
La seconda è che le campagne fatte tutte “contro”, tutta polemica e poco sostanza, alla lunga non pagano. A me lo hanno insegnato da piccolo. Mi dicevano i “vecchi”: anche quando fai un volantino ci devi mettere i no ma anche i per. Altrimenti non va bene, siamo all’opposizione ma vogliamo costruire non distruggere. Ecco penso che Renzi abbia sbagliato questo. Ha cercato di fare la parte di quello che mandava tutti a casa, di quello giovane e brillante, una sorta di Obama bianco, che avrebbe rimesso l’Italia a posto in quattro e quattr’otto. “Io ho contro l’apparato, ma ho il consenso dei cittadini”. In realtà del mago Zurlì non ne abbiamo bisogno, le sue ricette sono vecchie, affondano le radici in un neoliberismo bocciato dalla storia. E il popolo del centro sinistra, che condivide sicuramente una parte del suo messaggio, ha dimostrato di aver capito che si serve una persona seria, un lavoratore come Bersani, un centromediano alla Oriali, per rimettere insieme i cocci e ripartire. Per cui alla fine Renzi è stato bocciato proprio da quel voto di opinione su cui aveva puntato la sua campagna elettorale tutta fuochi d’artificio e lustrini televisivi. Verrebbe da dire che non è più tempo di format ma di concretezza. E la concretezza emiliana di Bersani, che magari non avrà un grande carisma, ha avuto la meglio. Come fu per Prodi contro Berlusconi.
Eppure di Renzi dobbiamo tener conto. Dobbiamo tener conto della voglia di rinnovamento che c’è nella gran parte di quel voto. Dei tanti che l’hanno scelto, magari non conoscendo nulla delle sue proposte, ma che esprimono un’ansia e una preoccupazione vera. Ci dicono chiaramente che non si può continuare sulla strada degli anni passati. Ci dicono che anche noi, anche il centrosinistra deve andare oltre i suoi vecchi schemi di pensiero e proporre persone diverse. C’è un tempo per tutti. E questo non è più il tempo delle vecchie facce. Qualcuno l’ha capito e si è messo a disposizione. Altri sgomitano per restare in pista. Bersani adesso ha la forza, la legittimazione necessaria, per promuovere una classe dirigente nuova e preparata. Non serve la rottamazione, non serve la delegittimazione di un partito che, nelle sue mille e mille contraddizioni, ha dimostrato ancora una volta tutta la sua forza.
Serve un lavoro di promozione di quei dirigenti, giovani e non, che in questi anno sono cresciuti, nell’amministrazione, nel partito. Sono tanti, questo è il loro tempo.
E questo va fatto, non solo in Parlamento. Va fatto nelle Regioni che vanno al voto, a partire dal Lazio, va fatto nella scelta dei candidati a tutti i livelli.
Il caso Roma
Entro più nello specifico del caso Roma. Emigrato Zingaretti verso la conquista della Regione si è aperta una voragine. E’ mancato un lavoro di sintesi da parte del gruppo dirigente che si è fidato troppo delle primarie prossime venture. Ai cittadini dobbiamo presentare una sintesi, candidati in grado di governare una città umiliata dagli anni di Alemanno. Non dobbiamo presentare un campionario delle nostre debolezze, ma delle nostre energie migliori. Deve essere una sfida in positivo per far tornare a correre la Capitale. Ecco che allora i vari Sassoli, Gentiloni, Prestipino, Marroni, non sono sufficienti. Serve un sindaco, non un ex giornalista emigrato a Bruxelles o un ex assessore della giunta Rutelli. Neanche la candidatura del capogruppo in consiglio comunale, che in questo quadro è sicuramente la più legittima, quella che segue un percorso logico, secondo me è sufficiente a rappresentare una svolta per Roma. Nomi non ne faccio, perché questo corsa che si scatena ogni volta ci fa soltanto male. Segnalo però un’esigenza, un’urgenza: che il gruppo dirigenti largo del Pd romano si faccia carico di trovare questa sintesi: non lasciamola ad altri, perché quando Roma ha rinunciato alla sua autonomia si sono prodotti disastri.
Il X Municipio e mezzo
Chiudo queste brevi considerazioni sulla situazione del territorio dove faccio politica tutti i giorni o quasi. Con l’accorpamento annunciato fra X Municipio e una parte del IX, questa diventa una città da oltre 200mila abitanti. Ci sono capoluoghi di Regione più piccoli in Italia. Una grande città che continua a crescere e ha problemi diversi dal suo “centro” alla sua periferia. Per quanto riguarda il X io ribadisco che la sinistra, il PD in primo luogo, ha la necessità di chiudere la negativa esperienza dell’ultima consiliatura di Medici e di guardare oltre. Ho in passato ampiamente spiegato perché ritengo sia un’esperienza da chiudere al più presto.
Le candidature presentate al momento non sono sufficienti. Su un versante abbiamo una continuità preoccupante con il malgoverno di questi anni, dall’altro manca la “brillantezza” che serve per fare una battaglia vera, non di testimonianza. Se non altro almeno da questa parte c’è la consapevolezza della necessità di ampliare il quadro e di non presentare una candidatura slegata da un percorso condiviso.
Da luglio in poi non ho sostanzialmente più parlato del X Municipio, rispondendo con i fatti alla richiesta che il gruppo con cui ho lavorato in questi mesi mi ha fatto. Non ho portato avanti quel programma di rottura radicale che avevo abbozzato, con la proposta di una mia candidatura. Eppure sono ancora molti – e non solo nel partito – che mi chiedono di mettermi in gioco in prima persona. Da quelli che non considerano il PD locale e il suo attuale gruppo dirigente un interlocutore credibile, a quelli che avvertono, come me, il bisogno di una rottura non solo generazionale, ma di contenuti. Di una cesura netta. Che vogliono parlare di qualità della vita e non di nuove costruzioni. Di smart city, di raccolta differenziata, di zone pedonali e non di nuove inutili strade.
Non nascondo che l’avventura non mi dispiacerebbe affatto. Del resto bastano 750 firme fra i cittadini per candidarsi alle primarie del centro sinistra. Come dire: una mezza giornata con tre banchetti nelle zone di maggior aggregazione.
E questo, lo ripeto, è il nostro tempo. Non è il tempo delle candidature “conservative”. E’ il tempo di osare, di provare sul campo una nuova classe dirigente.
Eppure sento che una mia candidatura sarebbe insufficiente. Sento che non è il momento delle avventure, degli uomini soli al comando. E’ il tempo, anche nel X Municipio e mezzo, di fare squadra. Di proporre agli elettori, un candidato presidente, ma soprattutto una squadra unita, al di là e oltre le correnti, per fare una rivoluzione democratica anche in quella città che si distende fra Ponte Lungo e Vermicino. A questo lavorerò nelle prossime settimane: alla costruzione di un percorso condiviso, che porti non solo e non tanto a un candidato in netta discontinuità con il passato, ma alla costruzione di una nostra squadra che rappresenti a pieno il percorso fatto in questi anni e che dica chiaramente queste sono le nostre idee per fare del X Municipio e mezzo la casa della trasparenza e della partecipazione.
Perché questo viaggio va fatto assieme. Non c’è un uomo solo al comando.
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