Costruiamo ponti, non steccati
Il 15 luglio del 2015, forse un po’ paradossalmente, conclusi così l’intervento con il quale annunciavo al direttivo del circolo Pd Capannelle le mie dimissioni da segretario e dal Pd stesso: “Dobbiamo, anche in questa fase, avere sempre l’obiettivo di costruire ponti e non steccati”. Paradossale perché anche in quel momento, di rottura, facevo riferimento al bisogno di trovare le forza di proseguire un dialogo, anche se una storia comune si interrompeva. Il bisogno di continuare a esplorare insieme terreni sconosciuti. La risposta fu più che uno steccato: la commissaria di zona, una sorta di Orfini un po’ più arrogante, ordinò di cambiare immediatamente le chiavi del circolo e mi diffidò via mail dall’entrare in quelle stanze. Come dire: mi hanno sbattuto le serrande in faccia. Poco male.
Da allora mi è sempre rimasta in testa quella frase, quell’obiettivo. E per questo ho lavorato da subito, quando il gruppo di compagni con cui avevamo lavorato in quei mesi, mi propose di essere il “referente romano” (nome un po’ bizzarro che vuol dire coordinatore) di Futuro a sinistra, l’associazione a cui aveva dato vita Stefano Fassina, anche lui appena uscito dal Pd.
Costruire ponti era la mia ossessione perché vedevo con forte preoccupazione quello che stava succedendo: invece di provare a lavorare per riunire il campo disgregato della sinistra italiana, ognuno coltivava soltanto il proprio orticello. Troppo sigle, poco popolo. La dico così in sintesi. Tutti gruppi tesi ad alimentare esclusivamente la sopravvivenza del proprio gruppo dirigente. Dove si parla di partecipazione e poi manco ti comunicano le decisioni, le leggi sui social. Troppi recinti, troppe casette magari rassicuranti e protettive per chi sta dentro, ma poco attrattive e poco utili se non ci si vuole accontentare di sopravvivere. Settarismi, si sarebbe detto un tempo, che non portano da nessuna parte.
L’ho detto ogni volta che ho potuto. Non chiudiamoci, inventiamoci forme nuove per stare insieme. E anche quando è stato avviato il percorso che poi ha portato alla nascita di Sinistra italiana, ho sempre insistito sulla necessità che non fosse un partito classico, ma un arcipelago di mille isole, autonome, con la propria identità, ma messe in rete. Perché non bisognava escludere nessuno. Anzi.
Per questo ho proposto, dove mi è stato concesso, che si partisse da un manifesto, pochi punti chiari. E su questo si avviasse un processo costituente dal basso, che non fosse un accordo fra gruppi dirigenti ma un processo che, al contrario, si aprisse a quanto è nato e cresciuto in questi anni nelle città e nei quartieri. Non serviva che qualcuno scrivesse la storia per noi, che qualcuno scrivesse in qualche bel documento che “bisogna ridare centralità al lavoro, tornare a parlare al popolo della periferia”. Serviva che il lavoro e le periferie tornassero a essere protagonisti nella scrittura di una storia comune.
Nell’appello con cui lanciammo Futuro a sinistra a Roma scrissi: “La sinistra a cui pensiamo nasce dal basso, non dalla fusione di ceti politici. Non vogliamo essere i reduci delle sconfitte dell’ultimo ventennio che si mettono insieme alle rinfusa dimenticando le divisioni e le ragioni che le hanno prodotte. E’ una sinistra nuova, inclusiva, plurale e che raccoglie anche culture differenti. Una forza di governo e riformatrice”.
Poi sono arrivate le dimissioni di Marino, il notaio, insomma la vicenda è nota. E tutto è precipitato. A Roma si è decisa non si capisce bene dove, la candidatura di Stefano Fassina a sindaco. Ho espresso timidamente a chi mi prospettava questa eventualità le mie perplessità. Per il profilo nazionale di Fassina, per la sua storia politica complessa, per la mancanza di un legame con la città.
Una volta tratto il dado, sono fatto così, ho sostenuto la sua candidatura con tutte le mie energie. In campagna elettorale servono gli eserciti, i soldati, non le discussioni.
Ho cercato comunque di portare le mie idee e di calarle in questo percorso, troppo breve. E qui ho trovato muri robusti. Tutto si è deciso in stanzette anguste. In riunioni di pochi. E invece bisognava davvero ascoltare la città, chiedere a Roma di mettersi in gioco insieme a noi. Di non delegare, ma esporsi in prima persona. Ho proposto di fare le primarie delle idee, quartiere per quartiere. Grandi assemblee con tutta la sinistra diffusa, i lavoratori, le associazioni locali, le forze disperse di una sorta di sinistra sociale che in questi anni di vuoto si è organizzata fuori dai canali tradizionali e li ha anche sostituiti. Non, insomma, le primarie sulle persone, ma un confronto vero sui temi. Da cui poi nascesse il confronto sulle persone da scegliere. C’erano energie che sono state disperse. Tante energie. E invece si è scelta la strada del “tavolo fra le forze politiche”. Interminabili trattative fra partitini inesistenti per decidere chi andava candidato. Esponendosi alle azioni di disturbo di chi ci vedeva come il fumo negli occhi.
Avendo manifestato una forte contrarietà per il metodo e anche per le persone scelte mi è stato prima proposto di candidarmi, nell’ordine: al Comune, come presidente in VII e in VI Municipio. La cosa non mi entusiasmava particolarmente, ma mi misi, come si dice, a disposizione. Poi furono fatte altre scelte, che lessi sui giornali.
Contro di me e contro gli altri compagni che avevano osato dissentire cominciarono a girare le letterine infami. Una sorta di riflesso staliniano che porta chi si sente attaccato a rivolgersi al capo cercando la sua benedizione. La faccio breve perché ho ancora molto da dire: siamo gente con le spalle grosse, le lettere e gli infami ci scivolano addosso.
E in silenzio mi sono fatto tutta la mia campagna elettorale, pacchi di volantini, strada per strada, casa per casa. Strade e case di quella periferia che i leader invocano, ma da rassicuranti distanze. Salvo poi stupirsi se in quelle strade dilagano i diversi populismi. Vi faccio un promemoria: non ci sono soli i 5 stelle, Casapound sta diffondendosi con una rapidità e una profondità impressionante nelle periferie romane. Poi non dite che non lo sapevate.
Continuando in questo racconto, i risultati delle elezioni li sapete. Per la nascente sinistra è stata un risultato rovinoso, altro che storie. Gli eletti si contano sulla punta delle dita. E non è una metafora. Fuori da quasi tutti municipi, salvo che, guarda caso nel centro della città e a Garbatella, dove si ricandidava il presidente uscente, evidentemente molto radicato. Ho provato ad analizzare serenamente il risultato con una lunga lettera inviata ai miei compagni di viaggio, ribadendo il mio giudizio su una campagna elettorale nata male e proseguita peggio. Unica risposta ricevuta, da Fassina: abbiamo fatto il massimo data la situazione.
Ora, sia chiaro, una sconfitta elettorale ci sta. Non hai una forza politica definita e riconoscibile dietro, paghi lo scotto della mancata chiarezza sui valori, sulle prospettive future. E però devi capire dove hai sbagliato e cercare di cambiare strada. E invece che si fa? Si chiude ancora di più il recinto: la coalizioncina elettorale che aveva sostenuto Fassina diventa un’associazione fatta dagli ex candidati, che si scelgono anche un coordinatore e un coordinamento. Tutto questo lo apprendo su Facebook. Nel frattempo lo stesso Fassina riunisce Futuro a Sinistra di Roma e nomina un nuovo coordinatore.
E di Sinistra italiana? Si perdono le tracce. Della costituente dal basso che tutti avevano giudicato come necessaria non se ne parla più, dell’unione con altri partiti e movimenti neanche. Non si fa neanche la fusione tra gruppi dirigenti. C’è solo Sel più alcuni esponenti ex Pd. C’è un comitato esecutivo nazionale, li si discute e si decide. Nulla più.
Io me ne vado in vacanza, dove maturo la decisione, sofferta, di abbandonare l’impegno politico. Definitivamente? Mai dire mai. Ma questo anno vissuto così, la delusione, le speranze disattese, la fiducia che – come è evidente – ho riposto nelle persone sbagliate… insomma mi sono sentito svuotato. Troppa cattiveria per poter portare avanti le proprie idee. Non che la battaglia mi abbia mia spaventato. Ma mica puoi guerreggiare sempre, anche dentro casa. Sono talmente distaccato che mi scordo pure di togliere “militante del Pd” da questo blog. Sta ancora lì.
Insomma ho scelto il distacco totale. Seguendo da osservatore lontano e disincantato le vicende delle sinistre. Da un lato Sinistra Italiana che ha rinunciato a un processo costituente vero e proprio e ha scelto di fatto di fare solo un congresso nazionale per eleggere un segretario. E si sono persi per strada metà o più dei parlamentari. Ai congressi provinciali hanno partecipato, se ho capito bene, circa 8mila persone. Un condominio o poco più. Poi c’è il nuovo campo di Pisapia. In divenire.
E c’è questa vicenda della scissione (forse ci siamo) del Pd. E qui devo fare un po’ di autocritica. Ho sbagliato a lasciare il partito nel 2015. Non perché mancassero le ragioni: continuo a ritenere che andarsene oggi sia una scelta tardiva e poco comprensibile. Ma perché uscendo da solo mi sono auto isolato da quella comunità con cui avevo percorso un tratto importante del mio impegno politico e – in ultima istanza – della mia vita. Un errore, senza dubbio.
Incontrarli di nuovo, all’assemblea che si è svolta sabato a Testaccio mi ha fatto piacere. Non mi sono sentito ospite, la dico così.
E ora che succede? Io sono sempre convinto che non serva un nuovo partito della sinistra italiana. O meglio. Sono convinto che quello debba essere l’obiettivo da raggiungere, ma aprendo l’orizzonte. Facendo rete fra le realtà che ci sono e che vogliono rappresentare la loro identità, la loro specificità. E riprendere un cammino comune non è facile se si chiede di annullarsi. Ancora una volta torna il tema dei ponti. Un movimento plurale dove ci sia spazio per tutti. Non una casa dove si entra bussando, ma un cantiere dove per entrare nessuno ti chiede da dove vieni, cosa hai fatto, quanti globuli rossi hai nel sangue. Perché stare insieme significa arricchirsi se si considerano le storie, le esperienze, le forme organizzative e le diverse intelligenze come parti da esaltare e non come semplici cellule che devono uniformasi. Un partito non si creare fondendo gruppi parlamentari, insomma. Anche se i gruppi parlamentare servono eccome.
Si potrebbe finirla, ad esempio, di dire: il Pd è un alleato naturale oppure mai con il Pd. Io credo che Si debba riannodare un rapporto con l’Italia che la sinistra, nelle sue diverse forme, non ha più. Scuola, lavoro, movimenti, sindacati, un ceto medio sempre più marginalizzato. Chi ci parla più con questi mondi? Chi li ascolta. Da sempre, faccio un esempio, ho ritenuto che lo scontro con la scuola fosse l’inizio del declino del Pd. Perché la scuola rappresenta tutto il paese. Scontrarsi con famiglie, studenti, insegnanti vuol dire litigare con l’Italia. E come ci rimettiamo in sintonia adesso? Non è che bastano i social o le televisioni. O ancora le periferie. Come tornare a metterci piedi e cuore dentro? Come tornare a essere percepiti come un interlocutore utile e non come la peste da evitare? Come si torna a essere presenti nei luoghi del conflitto, come ci si sta dentro e non ci si limita più a descriverlo?
Invece di preoccuparsi delle alleanze, le sinistre si devono preoccupare di ricostruire un rapporto, un intesa con la loro base sociale. Poi le alleanze serviranno. Perché io a essere condannato a essere minoranza non ci sto, non fa parte della mia cultura politica. Alleanze sulle cose, non sulle sigle. Guardando alla realtà non al curriculum. Possiamo dialogare se tu ti fai un giro di campo sui ceci. A me queste cose fanno impazzinre. E dai su, smettiamola di dare giudizi sugli altri e sediamoci ad ascoltarci. Si torni a fare politica. Non comizi, ma luoghi di confronto.
E come si organizza questo movimento? Con quali strumenti di partecipazione? Le primarie modello Pd, altro abbaglio che ho preso anni fa, hanno distrutto la partecipazione, riducendo il partito a un seggio. E adesso che fare? Quale forma dare all’impegno? Come si seleziona, oggi, una nuova classe dirigente? Vogliamo puntare ancora sulla fedeltà al capo? Occhio che così si producono i Rondolino e gli Orfini.
Pongo domande, non credo che nessuno abbia la risposta. Di certo c’è bisogno di un luogo dove si provi a darne qualcuna di risposte. In questo luogo, se mai ci sarà, metterò la mia passione e la mia intelligenza.
Questo è il tempo per costruire
Le primarie nazionali ci dicono cose importanti. La prima, non mi stancherò di ripeterlo, è che c’è un popolo che guarda a noi come l’unica speranza di cambiamento per questo Paese. In un periodo di disgusto verso la politica, vedere migliaia di persone, milioni, che si registrano, si mettono in fila e pagano addirittura per poter esprimere il loro contributo dà un’iniezione di adrenalina fortissima. Che ti permette di superare la stanchezza delle settimane passate al circolo, delle alzatacce, delle polemiche inutili e faziose.
A questo popolo, vero, non teleguidato, non comandato dagli “apparati” come hanno provato a far credere, noi dobbiamo sincerità e concretezza: ci hanno dato fiducia e ci hanno rimesso al centro della scena politica. E’ chiaro a tutti che senza la coalizione di centro sinistra, questa volta, non sarà possibile nessun governo. Il popolo delle primarie ci ha dato questa forza. Un patrimonio immenso. Non disperdiamolo, facciamo vedere loro che la fiducia è ben riposta.
La seconda è che le campagne fatte tutte “contro”, tutta polemica e poco sostanza, alla lunga non pagano. A me lo hanno insegnato da piccolo. Mi dicevano i “vecchi”: anche quando fai un volantino ci devi mettere i no ma anche i per. Altrimenti non va bene, siamo all’opposizione ma vogliamo costruire non distruggere. Ecco penso che Renzi abbia sbagliato questo. Ha cercato di fare la parte di quello che mandava tutti a casa, di quello giovane e brillante, una sorta di Obama bianco, che avrebbe rimesso l’Italia a posto in quattro e quattr’otto. “Io ho contro l’apparato, ma ho il consenso dei cittadini”. In realtà del mago Zurlì non ne abbiamo bisogno, le sue ricette sono vecchie, affondano le radici in un neoliberismo bocciato dalla storia. E il popolo del centro sinistra, che condivide sicuramente una parte del suo messaggio, ha dimostrato di aver capito che si serve una persona seria, un lavoratore come Bersani, un centromediano alla Oriali, per rimettere insieme i cocci e ripartire. Per cui alla fine Renzi è stato bocciato proprio da quel voto di opinione su cui aveva puntato la sua campagna elettorale tutta fuochi d’artificio e lustrini televisivi. Verrebbe da dire che non è più tempo di format ma di concretezza. E la concretezza emiliana di Bersani, che magari non avrà un grande carisma, ha avuto la meglio. Come fu per Prodi contro Berlusconi.
Eppure di Renzi dobbiamo tener conto. Dobbiamo tener conto della voglia di rinnovamento che c’è nella gran parte di quel voto. Dei tanti che l’hanno scelto, magari non conoscendo nulla delle sue proposte, ma che esprimono un’ansia e una preoccupazione vera. Ci dicono chiaramente che non si può continuare sulla strada degli anni passati. Ci dicono che anche noi, anche il centrosinistra deve andare oltre i suoi vecchi schemi di pensiero e proporre persone diverse. C’è un tempo per tutti. E questo non è più il tempo delle vecchie facce. Qualcuno l’ha capito e si è messo a disposizione. Altri sgomitano per restare in pista. Bersani adesso ha la forza, la legittimazione necessaria, per promuovere una classe dirigente nuova e preparata. Non serve la rottamazione, non serve la delegittimazione di un partito che, nelle sue mille e mille contraddizioni, ha dimostrato ancora una volta tutta la sua forza.
Serve un lavoro di promozione di quei dirigenti, giovani e non, che in questi anno sono cresciuti, nell’amministrazione, nel partito. Sono tanti, questo è il loro tempo.
E questo va fatto, non solo in Parlamento. Va fatto nelle Regioni che vanno al voto, a partire dal Lazio, va fatto nella scelta dei candidati a tutti i livelli.
Il caso Roma
Entro più nello specifico del caso Roma. Emigrato Zingaretti verso la conquista della Regione si è aperta una voragine. E’ mancato un lavoro di sintesi da parte del gruppo dirigente che si è fidato troppo delle primarie prossime venture. Ai cittadini dobbiamo presentare una sintesi, candidati in grado di governare una città umiliata dagli anni di Alemanno. Non dobbiamo presentare un campionario delle nostre debolezze, ma delle nostre energie migliori. Deve essere una sfida in positivo per far tornare a correre la Capitale. Ecco che allora i vari Sassoli, Gentiloni, Prestipino, Marroni, non sono sufficienti. Serve un sindaco, non un ex giornalista emigrato a Bruxelles o un ex assessore della giunta Rutelli. Neanche la candidatura del capogruppo in consiglio comunale, che in questo quadro è sicuramente la più legittima, quella che segue un percorso logico, secondo me è sufficiente a rappresentare una svolta per Roma. Nomi non ne faccio, perché questo corsa che si scatena ogni volta ci fa soltanto male. Segnalo però un’esigenza, un’urgenza: che il gruppo dirigenti largo del Pd romano si faccia carico di trovare questa sintesi: non lasciamola ad altri, perché quando Roma ha rinunciato alla sua autonomia si sono prodotti disastri.
Il X Municipio e mezzo
Chiudo queste brevi considerazioni sulla situazione del territorio dove faccio politica tutti i giorni o quasi. Con l’accorpamento annunciato fra X Municipio e una parte del IX, questa diventa una città da oltre 200mila abitanti. Ci sono capoluoghi di Regione più piccoli in Italia. Una grande città che continua a crescere e ha problemi diversi dal suo “centro” alla sua periferia. Per quanto riguarda il X io ribadisco che la sinistra, il PD in primo luogo, ha la necessità di chiudere la negativa esperienza dell’ultima consiliatura di Medici e di guardare oltre. Ho in passato ampiamente spiegato perché ritengo sia un’esperienza da chiudere al più presto.
Le candidature presentate al momento non sono sufficienti. Su un versante abbiamo una continuità preoccupante con il malgoverno di questi anni, dall’altro manca la “brillantezza” che serve per fare una battaglia vera, non di testimonianza. Se non altro almeno da questa parte c’è la consapevolezza della necessità di ampliare il quadro e di non presentare una candidatura slegata da un percorso condiviso.
Da luglio in poi non ho sostanzialmente più parlato del X Municipio, rispondendo con i fatti alla richiesta che il gruppo con cui ho lavorato in questi mesi mi ha fatto. Non ho portato avanti quel programma di rottura radicale che avevo abbozzato, con la proposta di una mia candidatura. Eppure sono ancora molti – e non solo nel partito – che mi chiedono di mettermi in gioco in prima persona. Da quelli che non considerano il PD locale e il suo attuale gruppo dirigente un interlocutore credibile, a quelli che avvertono, come me, il bisogno di una rottura non solo generazionale, ma di contenuti. Di una cesura netta. Che vogliono parlare di qualità della vita e non di nuove costruzioni. Di smart city, di raccolta differenziata, di zone pedonali e non di nuove inutili strade.
Non nascondo che l’avventura non mi dispiacerebbe affatto. Del resto bastano 750 firme fra i cittadini per candidarsi alle primarie del centro sinistra. Come dire: una mezza giornata con tre banchetti nelle zone di maggior aggregazione.
E questo, lo ripeto, è il nostro tempo. Non è il tempo delle candidature “conservative”. E’ il tempo di osare, di provare sul campo una nuova classe dirigente.
Eppure sento che una mia candidatura sarebbe insufficiente. Sento che non è il momento delle avventure, degli uomini soli al comando. E’ il tempo, anche nel X Municipio e mezzo, di fare squadra. Di proporre agli elettori, un candidato presidente, ma soprattutto una squadra unita, al di là e oltre le correnti, per fare una rivoluzione democratica anche in quella città che si distende fra Ponte Lungo e Vermicino. A questo lavorerò nelle prossime settimane: alla costruzione di un percorso condiviso, che porti non solo e non tanto a un candidato in netta discontinuità con il passato, ma alla costruzione di una nostra squadra che rappresenti a pieno il percorso fatto in questi anni e che dica chiaramente queste sono le nostre idee per fare del X Municipio e mezzo la casa della trasparenza e della partecipazione.
Perché questo viaggio va fatto assieme. Non c’è un uomo solo al comando.
Fatevene una cazzo di ragione
Alla vigilia della direzione regionale del Pd di oggi, permettetemi alcune considerazioni su quello che è successo in questi giorni. Mi sembra di poter dire, intanto, che non abbiamo capito la lezione. Ci si divide fra chi vorrebbe ricandidare solo alcuni dei consiglieri regionali uscenti, chi vorrebbe azzerare il tutto e chi sostiene che il gruppo del Pd alla Pisana, pur avendo sbagliato in passato ha fatto una opposizione rigorosa e, in fondo, ha mandato a casa la Polverini. Read more »
Benessere e qualità della vita nei Municipi di Roma
Benessere e qualità della vita nei Municipi di Roma, un’interessante elaborazione dell’università Roma Tre (LA TROVATE QUI), che mette a confronto i dati dei diversi territori di Roma. Read more »
Diritti civili, un referendum
fra gli iscritti al Pd
Ho letto che attenzione il documento approvato ieri dall’assemblea nazionale già alcune settimane fa. Io lo trovo molto debole, frutto di uno di quei compromessi interni che sta uccidendo gradualmente il progetto del Pd. Io credo che sia ora di dire parole chiare, anche pensando alle future alleanze elettorali. Mi chiedo, infatti, come si possa pensare ad un’alleanza con Casini e pensare allo stesso tempo di introdurre quei diritti civili che porterebbero l’Italia a livello di un qualsiasi paese civile.
E, allora, la soluzione c’è: basta con le timidezze e con gli ordini del giorno presentati in assemblee dove manco te li fanno votare con scuse burocratiche che manco nel Pcus. Si chieda con forza un referendum fra gli iscritti. Anzi se ne chieda più di uno dico io: sui diritti civili, ma anche sui diritti sociali, altro tema che spacca i cosiddetti organismi dirigenti del partito. Continuano a ripeterci che manca il regolamento applicativo dello statuto per i referendum interni. se aspettiamo che una qualche commissione lo produca facciamo a tempo a cambiare quattro o cinque partiti. I dirigenti della cosiddetta “area laica” del Pd lancino una raccolta di firme fra gli iscritti. Vediamo se poi hanno la forza di dire di no a migliaia e migliaia di firme.
E che nessuno dica che si tratta di questioni marginali, che bisogna pensare alla crisi: io credo che la laicità debba essere un tratto fondante del Pd, non un fatto marginale da discutere alla fine di un’assemblea a fine luglio. E lo dobbiamo dire con chiarezza anche ai futuri alleati: noi siamo questo, se volete stare con noi questo è il nostro programma. Fosse che magari, per una volta, anche gli elettori apprezzerebbero?
Ps: il 18 alla festa di Roma c’è Rosy Bindi. Io sono contro le contestazioni, i fischi, le piazzate. Ma costringiamo la presidente del partito a discutere di questi temi. Andiamo al dibattito, in tanti e alziamo tutti la mano per chiedere la parola. Civilmente, con calma. Se siamo in tanti non potranno non darci la parola.
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