E domani si torna in piazza: per fare la sinistra.
Il pippone del venerdì/17
E domani si torna in piazza: per fare la sinistra. <br>Il pippone del venerdì/17
Mettetevi seduti che ve la dico brutale: secondo me ha ragione Renzi. I ballottaggi delle elezioni amministrative di domenica scorsa dimostrano una cosa semplice: la formula del centrosinistra che è in voga dal 2007, ovvero Pd più liste civiche e cespuglietti della sinistra, non funziona più. Le conclusioni del neosegretario del Partito democratico, insomma, sono esatte, anche se muove da un’analisi del voto completamente errata. E’ falso, infatti, che non ci sia bisogno in Italia di un’aggregazione che unisca le forze progressiste – mi piace chiamarle così perché centrosinistra mi sa tanto di politichese – e che rappresenti un’alternativa credibile al liberismo della destra e al sovranismo che tanto va di moda anche in spezzoni della sinistra. Tutt’altro. Non solo ce ne è bisogno, ma è essenziale. Quello che è finito, al contrario, è un modello di alleanza dove c’era un soggetto centrale, il Pd, che con la sua forza attrattiva faceva da traino agli alleati, deboli, subalterni, utili soltanto a rappresentare quella foglia di fico necessaria per arrivare a vincere i ballottaggi. E non funziona più per un semplice motivo: il Partito democratico, da elemento attrattivo è diventato una sorta di veleno che inquina i pozzi, anche quelli dove andiamo a bere noi. Basta guardare i miseri risultati delle liste di sinistra quando si alleano con i renziani. E anche quelli delle liste che fanno dell’antirenzismo il loro unico punto politico, paradossalmente, non paiono un granché. Vanno bene, al contrario le esperienze che partono dal basso, dalle realtà locali (ecco, io eviterei il termine liste civiche perché serve soltanto a generare confusione). E dove la sinistra si presente in maniera autonoma non solo raggiunge risultati considerevoli, anche oltre il 20 per cento, ma riesce a trascinare il Pd alla vittoria al secondo turno. Padova è un esempio, ma ci sono tanti realtà più piccole sparse per il Paese.
Di questo processo si sono accorti anche autorevoli esponenti del Pd che si affrettano a invocare un nuovo tipo di coalizione, con un forte connotato civico. Che, tradotto dal politichese, vuol dire più o meno due cose:
1) Renzi può restare segretario del Pd ma non può essere lui il nostro candidato premier, serve un leader meno consumato dalle sconfitte a ripetizione;
2) Bisogna mascherare un marchio che non tira più, quello democratico appunto, dietro una qualche aggregazione che si tinga di civico. E torna ancora questa parola che adesso sembra diventata magica.
Ancora una volta io non sono d’accordo. Servono due cose. Intanto serve una sinistra forte, che rinasca dal basso, unendo le diverse esperienze cresciute in questi anni, da quelle politiche, a quelle sociali, alle forze sindacali. Non una coalizione civica. Serve una forza politica, molto politica. Che riparta dalle analisi degli economisti della sinistra europea, di quelli che hanno archiviato la terza via blairiana per tornare a parlare il linguaggio della sinistra. E quindi una forza che dica chiaramente di essere contro i privilegi, per l’uguaglianza, per i diritti dei lavoratori, per una scuola pubblica e democratica, per un nuovo stato sociale costruito sulle comunità e non sul dirigismo statale e regionale, per la riconversione ecologica dell’economia. Poche cose dette in maniera netta. Questa forza deve essere costruita nelle strade e nelle piazze delle città. Non in convegni chiusi dove si ritrova sempre la compagnia di giro dei reduci di mille sconfitte. E deve parlare alle forze sociali organizzate, dalle associazioni ai sindacati. Deve parlare ai sindaci indipendenti, da Orlando a De Magistris a Coletta (per restare nel Lazio). E deve essere una forza plurale, che rompa la logica maggioritaria dell’uomo solo al comando per valorizzare una classe dirigente diffusa, per tornare a formare una classe dirigente fatta di persone indipendenti e non di portaborse.
E poi serve la capacità di allargare il campo, di dettare i temi dell’agenda politica e non subirli. Di affermare i nostri valori anche quando i sondaggi te lo sconsigliano. Guardate che sembra semplice, ma non è così: da Berlusconi in poi non abbiamo più scritto noi la il menu, ma lo abbiamo solo letto e subito. Quella che Gramsci chiamava l’egemonia, l’abbiamo subita. Altro che storie.
Io credo che il primo luglio, la manifestazione lanciata da Articolo Uno e da Pisapia, possa essere la giornata giusta per lanciare un progetto di questo tipo. Mi sembra che l’impostazione iniziale, troppo centrata sulla presunta esigenza di individuare un leader sia stata corretta. A quanto si capisce dai quotidiani, mi pare anche che l’asse politico dell’iniziativa sia stato riportato sull’esigenza di una forza politica che sia autonoma, alternativa e in concorrenza con il Pd.
Gli elettori hanno, insomma, ci hanno dato una mano. Hanno spazzato via le incertezze e le titubanze di questi mesi. Mai come in questa occasione si è resa evidente la frattura fra il Pd e quello che era il suo popolo. E’ evidente. Perché ai ballottaggi sono rimasti a casa, ci sono città dove l’affluenza alle urne supera a stento il 30 per cento. Il caso Genova, città medaglia d’oro della resistenza, città ribelle, è emblematico: neanche l’aver contro un candidato della Lega ha fatto uscire di casa gli elettori di sinistra. Riportarli alle urne non sarà il lavoro di un giorno. Ci vorrà il lavoro di una generazione non tanto per mettere qualche toppa, ma per varare una nuova nave. Parliamo di Genova, uso una metafora portuale.
E allora bisogna lavorare su due fronti: quello immediato, in cui serve un’alleanza credibile, larga, in grado di porre argine alla destra che torna forte. Un terzo polo, credibile, che possa rappresentare un’alternativa sia ai moderati di Renzi e Berlusconi che ai populisti di Grillo e Salvini. Una forte rappresentanza in Parlamento ci servirà se vogliamo davvero diventare un punto di riferimento politico per quel pezzo di società che in questi anni si è sentito orfano.
Al tempo stesso serve un lavoro di lungo periodo, con due obiettivi. Intanto definire quale sia l’identità della sinistra. Di una sinistra che parte dalle sue radici ma che ha i piedi ben piantati nel presente e lo sguardo al futuro. Serve una identità nella società liquida? Io direi che serve a maggior ragione. Serve un’ancoraggio forte per resistere ai marosi di un oceano in tempesta.
I programmi li sappiamo fare bene, magari ci vengono un po’ lunghetti, ma siamo bravissimi. Quello che manca è un tratto identitario, in cui riconoscersi. Una nuova utopia, verrebbe da dire. Con il crollo del muro, nell’89, non è venuta già solo l’idea comunista. E’ venuta a mancare la nostra capacità di suscitare passioni, la speranza per chi è più debole di farsi gigante con gli strumenti della politica. Senza un orizzonte non si resiste alle intemperie di una destra che, al contrario, una sua identità ce l’ha e sa adattarla alle condizioni che cambiano.
Secondo: bisogna trovare una forma partito che esca dalla tradizione novecentesca. Io su questo punto sono davvero convinto che la tradizionale piramide, dalla sezione di quartiere alla direzione nazionale non sia più sufficiente. Le sezioni territoriali erano già morte nei Democratici di sinistra, il Pd ha solo rappresentato l’evoluzione di una crisi irrisolvibile. Non erano più da tempo punti di riferimento locali. E adesso i circoli sono “personali”, basta vedere i risultati dell’ultimo congresso romano per averne la prova. Non più luoghi di confronto, di iniziativa politica, di partecipazione e formazione, ma solo aggregazioni dietro un boss locale, a sua volta referente di un boss regionale e così via. E’ questa involuzione, la vera grande trasformazione genetica della principale forza organizzata della sinistra, che ha permesso l’affermazione di avventurieri vari, di cui Renzi è solo l’espressione più alta ma di certo non l’unica. Un modello organizzativo dove si annida spesso il malaffare, dove la corruzione può divenire strumento di affermazione personale. Servono soldi, tanti, per sfamare i clienti.
Veltroni, di cui spesso non ho condiviso il percorso ma che resta una personalità di spicco, l’aveva capito. Quando propose il partito liquido, dove non contavano tanto gli iscritti ma gli elettori, aveva in mente una maniera per scavalcare questa organizzazione basata sul potere personale di piccoli cacicchi locali. Un tentativo fallito, perché alla fine, controllare gli elettori (quando la base si restringe) diventa anche meno faticoso e costoso. Un votante alle primarie costa due euro, un iscritto ne costa una quindicina.
E allora va messo a punto un modello di organizzazione politica che metta in rete, che tenga conto delle diverse identità, che non sia necessariamente individuale, che dia la possibilità di emergere alle personalità più forti, alle competenze, finanche agli eretici, categoria della quale si sente un gran bisogno. Una nuova classe dirigente ci serve. Molto. Sarà utile se nascerà dal conflitto, dalla lotta politica. Se avremo l’ennesima covata di polli da batteria avremo perso la nostra battaglia. Ci serve la partecipazione. Meglio un vaffanculo che un ossequiosa leccata. Rete, partecipativa e democratica. Io sarei anche per scegliere i contenuti più che le persone. Se si ragiona prima di politica, se si costruisce iniziativa, le persone, i dirigenti vengono naturali. La forma con cui ci si organizza, insomma, è sostanza politica. Non semplice sovrastruttura. E che nessuno pretenda che altri si sciolgano da un giorno all’altro, le fusioni hanno bisogno di tempi.
Sono noioso, ripeto le stesse cose a ogni occasione possibile. Speriamo che questa sia la volta buona per uscire dai buoni propositi e cominciare a lavorare sul campo.
Ci vediamo domani. In piazza.
Il pippone del venerdì /16.
Salvate il soldato D’Alema
D’Alema di’ qualcosa, D’Alema di’ una cosa di sinistra. Ve lo ricordate Aprile? Quella frase che poi è diventata un tormentone? Beh, che dire, Moretti sarebbe stato contento. Perché di cose di sinistra, ieri, D’Alema ne ha dette tante. Ci voleva un caldo pomeriggio di fine giugno una iniziativa semiclandestina organizzata da un’associazione cattolica, nel centro di Roma. Si parla di povertà e diseguaglianze sociali, con religiosi, studiosi, politici. Uno strano parterre. Niente giornalisti, niente assillo della quotidianità. E un D’Alema assoluto mattatore. Quindici, venti minuti. E ti racconta il mondo. Le diseguaglianze, la finanza come generatore di ricchezza fuori da ogni forma di controllo sociale. Il ritrarsi delle masse degli esclusi dal protagonismo sociale e politico. La povertà viene sezionata: fenomeno economico, ma anche sociale. Si sentono le vite di scarto di Bauman che aleggiano nella sala. Ci sono Stiglitz e gli economisti francesi quando D’Alema parla della necessità di una tax autority internazionale per sottoporre a un nuovo controllo sociale le ricchezze che ormai hanno una dimensione non più nazionale.
Ma c’è anche tanta sinistra e tanta innovazione nell’analisi finale del. Due cose da fare per combattere la diseguaglianza: recuperare la funzione degli Stati, una dimensione pubblica di intervento e al tempo stesso favorire un nuovo stato sociale, un nuovo sistema di protezione, che veda protagoniste le persone e le comunità locali.
“C’è una tema enorme di fronte a noi – racconta chiudendo la sua relazione – nei prossimi anni, l’automazione crescente porterà alla perdita di milioni di posti di lavoro. L’Europa non può permetterselo. Che fare?” La risposta è di quelle che non ti aspetti da chi, qualche anno fa, era un alfiere della terza via e di Tony Blair. “Serve un taglio drastico dell’orario di lavoro a parità di salario. Se diminuisce il tempo di lavoro necessario – come lo definiva Marx – o calano gli occupati o si tagliano le ore e quelle ore devono essere messe a disposizione della comunità”. Occhio che in questa frase c’è tutto un programma politico. C’è la piena occupazione, c’è il tema del tempo del non lavoro, c’è il tema di un nuovo umanesimo che deve permeare la sinistra. C’è la convergenza, questa volta sui fatti non nella fusione di gruppi dirigenti, della cultura cattolica e di quella marxiana. C’è la liberazione dallo sfruttamento della catena di montaggio per arrivare a una concezione del lavoro che diventa, almeno in parte, una sorta di servizio civile permanente.
Ora, facciamo un salto, io non sono mai stato dalemiano. A Roma era infestato da una pletora di cortigiani che hanno approfittato del prestigio e del potere che quel nome portava con sé per creare una corrente che si muoveva con grande agilità in un intreccio grigio di politica e affari. Tutto (o quasi) lecito, per carità, ma meglio tenersi ben lontani da quelli che all’epoca chiamavamo “Talebani” o “Dalebani” che dir si voglia. Quando il potere è finito i dalemiani doc sono diventati renziani al mille per cento. Tutti, nessuno escluso. Dai Minniti, Latorre, Velardi, Rondolino fino al ragazzo di bottega, quel Matteo Orfini passato con un triplo salto carpiato dall’oscura segreteria di una sezione dei Ds di Roma a fare il capo corrente prima e il presidente del primo (o secondo) partito italiano. Tutti Talebani doc. Tutti pronti a ridere alle battute del capo, tutti pronti a correre al minimo battito di ciglia, anzi al minimo arricciarsi del baffo.
Insomma D’Alema, diciamolo, non ha avuto un gran fiuto nel selezionare i suoi collaboratori. Gente passata dal nulla a grandi quote di potere che adesso manco lo saluta se lo incontra per strada. E di errori, in generale, ne ha fatti davvero tanti. Li elenca lui stesso, anche perché non ama che lo facciano gli altri. L’esperienza di governo, quella passione per il new labour di Blair. Io ci metto anche una dimensione politica troppo legata alla contingenza del momento e poco tesa alla prospettiva, all’analisi.
Per questo dico che oggi sta vivendo una sorta di seconda giovinezza. Nel 2012 decide (lo fa da solo, non viene rottamato da Renzi come ripetono i costruttori di leggende prezzolati) di non ricandidarsi in Parlamento. Si dedica allo studio, alla sua fondazione, agli esteri. Nella lotta politica quotidiana appare poco. Fa la sua parte di militante, come ama definirsi, ma lo fa con un distacco quasi snob. Sono quasi cinque anni. Un’eternità. Poi ricompare impetuoso: il No al referendum del 4 dicembre, un ruolo importante nella scissione del Pd. Dice cose di sinistra, torna a essere “il Migliore”, l’erede ultimo di quella tradizione togliattiana che ha saputo essere egemone nella cultura politica italiana dal dopoguerra agli anni ‘90.
E subito riparte la caccia al D’Alema. C’è un accanimento decennale nei suoi confronti. Neanche il suo distacco dalla quotidianità lo ha cancellato. Erano solo in “sonno”. Pronti a ripartire. E gli ritirano fuori i presunti complotti contro Prodi, la Bicamerale, il patto della crostata, le bombe “illegittime” su Belgrado. Poi ripartiranno i dossier: dalle barche, al golfino, alle scarpe, al vino. La stagione di caccia è riaperta. Perché il Baffo è tornato. Non importa che non ricopra cariche. Non importa che non sia in Parlamento. Non importa che emani una naturale antipatia per quel suo essere volutamente scostante. Perfino quando dice “sono diventato buono”, ha una voce tagliente. E’ diventato nuovamente il nemico da abbattere numero uno. Ecco allora che parte la vendetta politica per cui in mezza Europa si lavora per toglierli la carica di presidente delle fondazioni del Pse. Ecco che si scatenano i giornalisti da cortile in fantastici retroscena in cui si raccontano – fonti certe ci mancherebbe altro – di dissidi continui con Bersani che starebbe manovrando per non riportarlo in Parlamento.
Ci si mettono anche quelli della sinistra cosiddetta radicale che quando sentono parlare di D’Alema usano perfino le parole di Renzi per attaccarlo. Tutti d’accordo.
Ora, io che dalemiano non lo sono mai stato, questo grido d’allarme posso lanciarlo senza tema di essere tacciato di cortigianeria. La mia stima è testimoniata dalla foto che apre questo pippone. Mi feci tutta la grande manifestazione del Circo Massimo con quel cartello al collo: “Liberate Baffino dai Talebani”. Un successone, devo dire. Ma una foto che testimonia anche la mia distanza. Eppure, ragazzi, ora che è libero, ci serve come il pane. Perché, sia pur senza cariche, è l’unico leader rimasto alla sinistra italiana. Abbiamo tanti dirigenti capaci, da Bersani, a Rossi, a Speranza, a Fratoianni, a Civati, alle new entry Falcone e Montanari. Abbiamo giovani che scalpitano e ai quali bisogna lasciare spazio. Ma di leader a tutto campo non ne abbiamo. Gli anni, le sconfitte, gli imporranno anche un ruolo di seconda fila. Di padre nobile, per così dire. Ma non ne abbiamo altri con la sua capacità di analisi, coraggiosa e ritrovata. Ci serve la sua passione, la sua volontà di unire, la sua capacità di immaginare una nuova sinistra, alternativa al Pd, perno di un altrettanto nuovo centrosinistra.
In questi mesi la navigazione non è stata facile, per usare una metaforica marinara che ci sta tutta. La barchetta sulla quale siamo saliti traballa parecchio. E i prossimi mesi saranno ancora più complicati. Mi chiedo però cosa sarebbe successo se non ci fosse stata l’iniziativa costante del soldato D’Alema. Quel pungolo, quell’assillo unitario che lo ha riportato in campo. D’Alema si deve o meno ricandidare? Si facciano le primarie che ha chiesto lui stessi a gran voce (primarie della sinistra, non del Pd, sia chiaro). E’ bene che i politici tornino a misurarsi con la ricerca del consenso. Nei mercati e nelle piazze. Che sia un oscuro comitato di garanti a decidere le nostre candidature mi sembra un’idea ottocentesca, lo dico sinceramente. Bene liste costruite nei territori, bene che siano liste giovani. Ma senza polli da allevamento.
Il soldato D’Alema ci serve, cari compagni. Non ha bisogno di essere salvato, si potrebbe dire, ci pensa bene da solo. Ecco, lo so, ma io credo, che ricordarci tutti l’importanza della solidarietà fra di noi sia di per sé un passo in avanti nella ricostruzione non tanto della sinistra, ma di quella comunità politica che negli anni abbiamo perso.
Per cui, senza esitazioni: guai a chi tocca il soldato D’Alema.
Lettera aperta alla Sinistra
Edizione straordinaria del “pippone”
Scena prima, una strada di Roma, giugno, volantinaggio di Articolo Uno.
Passante: “Ma che è?”
Militante: “E il nuovo movimento della sinistra, con Bersani, Speranza, D’Alema”.
Passante: “Bravi, ce l’hanno fatta a lasciare Renzi. Però mica farete un altro partito. Dovete stare tutti insieme, sennò io me ne rimango a casa”.
Militante: “Hai ragione pure tu, ma insieme con il Pd? Con Renzi?”
Sguardo truce del passante: “Ma de che? Insieme sì, ma la sinistra”.
Scena seconda, sfoglio dell’organo di stampa di un grande gruppo editoriale.
“Pisapia: no alla sinistra rancorosa. Tutti insieme, ma serve il centrosinistra, non un partito di testimonianza, dobbiamo puntare al governo. Con quelli del 18 giugno abbiamo un’altra visione”.
“Il primo luglio nasce Insieme, appuntamento a Roma. Prodi non ci sarà, ma in futuro potrebbe arrivare la sua benedizione. Letta non ci sarà ma si sente vicino. Cuperlo tentato. Sul palco Boldrini, Bersani e Pisapia. Obiettivo: dividere Bersani da D’Alema. Prodi incontra Renzi: farò da collante”.
Scena terza, dibattito sui social.
Militante di Sinistra italiana: “Eh no però, con chi ha votato Sì al referendum non ci voglio stare insieme. E poi D’Alema ha bombardato Belgrado. E Bersani che vuol dire che lui è liberale?”
Militante di uno dei partiti comunisti: “Ah, ma noi siamo comunisti, non ci interessano le istituzioni, siamo per la lotta nel lungo periodo”.
Militante di Articolo Uno: “Ma noi siamo per unire la sinistra, ma contro l’accozzaglia. Vi sento un po’ rancorosi oggi. E poi voi non siete neanche un prefisso telefonico”.
Sostenitore di Pisapia: “Bisogna tornare allo spirito dell’Ulivo, ma mica rivorrete fare l’Unione. E poi con il Pd, ma senza Renzi, bisogna dialogare”.
Insomma, qua non abbiamo capito nulla. Non abbiamo capito il grido del passante, a cui l’idea di un ritorno in campo di una sinistra piace anche, ma che nel guazzabuglio di gruppetti dirigenti, nei giochetti parlamentari non ci si ritrova proprio. Non vi capisce, cari presunti leader della sinistra. Non capisce cosa vi divide. E soprattutto, le elezioni amministrative ne sono l’ennesima riprova: non vi vota. Ritorna in campo solo quando vi presentate insieme e lo fate con un progetto radicato nella città e credibile. Alternativo e autonomo. E allora? Nel mio piccolo ci provo, con questa mia lettera-appello. Copiatela, condividetela, scrivetene una vostra, ma diamoci tutti (tutti tutti) da fare.
Lettera aperta alla Sinistra
Cara Sinistra,
da ragazzo, appeso davanti al mio letto, avevo un grande poster. C’era un Pasolini in bianco e nero, con accanto la sua poesia secondo me più bella: “Alla bandiera rossa”. Parla di una bandiera che era stata la speranza di milioni di persone e si sta sbiadendo, sta diventando un ricordo. Il poeta non era uno di quelli che te la mandava a dire, la conseguenza era drammatica, le parole impietose: “Chi era coperto di croste è coperto di piaghe, il bracciante diventa mendicante, il napoletano calabrese, il calabrese africano, l’analfabeta una bufala o un cane”. Quando guardavo quel poster, quando leggevo quelle parole, mi venivano sempre le lacrime agli occhi. Un po’ perché era un regalo di mia madre. Un po’ per quelle parole, violente, di Pasolini. Ecco, cara Sinistra, tu oggi sei come quella bandiera rossa.
Ti sei sbiadita dietro i giochi in Parlamento, ti sei nascosta nei retroscena dei giornali. Ti perdi ogni giorno di più nelle divisioni, nella frantumazione, nelle votazioni “tattiche” alla Camera e al Senato. E mentre tu ti sei persa, gli altri, le destre, mica stanno a aspettare. Siamo il paese con più diseguaglianze d’Europa. Fra lo stipendio di un manager e quello della sua segretaria passano vite intere. Dodici milioni di cittadini non si curano più. Non hanno i soldi e lo Stato pensa a dare i buoni ai figli dei ricchi. Invece di diminuire le tasse ai poveracci, cara Sinistra, chi governa in tuo nome, le ha diminuite ai padroni, non gli tassa neanche i villoni, quelli con la recinzione alta due metri, messa lì perché non si possa neanche vedere quello che c’è dentro.
Cara Sinistra, ti sei persa fra le righe dei comunicati stampa, dietro al dialogo via tuitte. In quei 140 caratteri maledetti che non ti fanno pensare. In quella gara a chi fa la battuta più fica, non ti abbiamo più ritrovato. Ti sei persa perché ai cancelli delle fabbriche non ti sei fatta più vedere. Ormai ci va soltanto, pensa un po’, Papa Francesco. Sei prigioniera nei gruppi parlamentari. Ti sei persa da quando non solo non vieni più ad ascoltare i compagni e i cittadini, ma pretendi pure di insegnar loro come devono vivere.
Cara Sinistra, io te lo dico con grande affetto: ci hai un po’ rotto le palle a tutti. Noi siamo quelli che ci sono sempre, che stanno alle cucine alle feste, che fanno i rappresentanti di lista estate e inverno, che riempiono le sale quando arriva il deputato. Quelli che votano, cercano le preferenze, si sgolano per strada e si prendono i pesci in faccia per te. Quelli che si incazzano, discutono, Quelli che ci hanno sempre creduto e sono sempre stati iscritti al Partito. Con la P maiuscola.
Ecco, proprio voi, cari militanti ignoti della Sinistra dispersa: qua ci stanno mandando a sbattere, gruppi dirigenti senza popolo, leoni da tastiera che non alzano la faccia dal computer. Serve una ribellione unitaria. E nel mio piccolo ci provo. Con questa lettera-appello, rivolta alla Sinistra ma ancora di più a voi. Ribellatevi, ribelliamoci. Inondiamo di mail i nostri parlamentari, facciamoci sentire ogni volta che convocano un’iniziativa, ma, ancora di più, facciamola da soli, la sinistra. Telefoniamoci, messaggiamoci, fissiamo incontri tra noi, militanti ignoti frantumati per motivi ancor più ignoti. Convochiamo noi assemblee (caseggiato per caseggiato) con un solo slogan: Unità. E invitiamo i parlamentari, i dirigenti, li facciamo sedere in platea e li costringiamo, per una volta, ad ascoltare noi. E se ancora non capiscono prendiamoli e chiudiamoli in una stanza.
Cara Sinistra, insomma, non servono le cose complicate. Nome: La Sinistra. Simbolo: Una stella rossa, una sola mi raccomando. Un bel cerchio, con un altro slogan: Uguaglianza è democrazia. No, cara Sinistra, non è uno sbaglio. Volevo proprio usare il verbo essere. L’accento è giusto. Perché la democrazia, se il tuo padrone guadagna mille volte più di te è una presa in giro. Senza uguaglianza le libertà democratiche sono una chimera. Cara Sinistra, chiama un grafico bravo, fatti fare un simbolo chiaro, di quelli che sulla scheda si vedono bene Il partito unico? Lascia perdere, cara Sinistra: siamo un arcipelago, costruiamo intanto una rete. Non una piramide, hai capito bene: una rete. Fatta da tutti i partiti e i movimenti esistenti, dalle liste civiche, dalle associazioni, dai singoli militanti ignoti.
Cara Sinistra, parla anche con i sindacati e spiegagli che si devono dare una mossa anche loro, perché hanno cominciato con l’articolo 18 e la “Buona scuola”, ma mica hanno finito. Non fate i buoni, neanche voi. Scendete in campo, aiutateci, non pensate che la contesa politica sia altra cosa, che non vi riguardi.
Insomma, cara Sinistra, non perdere altro tempo, torna nelle piazze, torna dalla parte del torto, con i migranti, con i pezzenti, torna a fare la Sinistra.
Come diceva Pasolini, cara Sinistra “ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli”.
Il pippone del venerdì/14
Di tatticismo si muore, Articolo Uno rompa gli indugi
Mentre in Gran Bretagna i laburisti, con un programma di sinistra, guadagnano seggi per la prima volta dal 1997, in Italia quelli che sono sempre stati in vita loro in un partito del 3 per cento, spiegano a D’Alema come non fare un partito del 3 per cento. Sullo sfondo l’ennesimo disastro renziano: salta l’accordo sulla legge elettorale, il voto segreto fa emergere tutta la doppiezza dei grillini. Che saranno anche gli apriscatole del Parlamento, ma poi, quando si trovano a dover decidere, si comportano come la peggiore Democrazia cristiana: comandano le correnti. Succede nelle amministrazioni locali, dove non v’è traccia della trasparenza e della partecipazione dei cittadini. Succede alla Camera dove fanno finta di fare l’accordo e poi lo bruciano con manine che dovevano restare segrete e, invece, sono apparse sul tabellone elettronico di Montecitorio. Ma tutto questo è cinema. Torniamo al filone principale.
Ora, dicevamo la settimana scorsa: la sinistra guadagna voti quando fa il lavoro suo, difende i deboli, elabora programmi di riscatto sociale, parla ai lavoratori, agli studenti, ai pensionati. E’ successo in Grecia, in Spagna, in Portogallo, in Francia. Succede proprio in queste ore in Gran Bretagna. Il vecchietto Corbyn che tutti davano per defunto prende il 40 per cento. E allora come prendere voti e tornare a contare qualcosa anche in Italia? La risposta è facile. Copiamo dal resto del mondo. E invece no. Da settimane ci stiamo lambiccando sulla formula da adottare: rifare la sinistra, rifare il centro sinistra, no serve un sinistra centro. Ma poi ci mettiamo il trattino o no? Serve un centro-sinistra discontinuo. Sì, ma niente ammucchiate arcobaleno. E questa, lo dicevamo in apertura, è la più bella.
Andiamo con ordine. Che succede nel 2008? Caduto il governo Prodi, anche grazie ad alcune uscite improvvide sulla vocazione maggioritaria del Pd da parte del segretario Walter Veltroni, il Partito democratico decide che il centro-sinistra che aveva vinto le elezioni precedenti non serve più e che alle elezioni andrà da solo. Uno scontro frontale con Berlusconi. Bertinotti, allora leader di Rifondazione comunista, la principale formazione a sinistra dei democratici, dice che va bene e dà vita alla sinistra arcobaleno, raggruppando tutti i frammenti di quella variegata galassia: dai vari partiti comunisti, a quella parte dei vecchi Ds che non aveva aderito al Pd, ai verdi. Non aveva calcolato, il rivoluzionario dei salotti bene di Roma, due cose. La prima: andare alle elezioni con un simbolo nato dal nulla pochi mesi prima non era una grandissima idea. La seconda: il maggioritario tende a polarizzare lo scontro fra i due contendenti principali. Morale della favola la sinistra arcobaleno rimase fuori dal Parlamento e iniziò una lunga traversata nel deserto. Una batosta dalla quale, pur con risultati meno disastrosi, non si è più ripresa: la diaspora è proseguita, le aggregazioni che si sono succedute negli anni sono sempre state accordi fra gruppi dirigenti, lontani dagli scontri veri in atto nel paese.
Che succede da qualche mese a questa parte? Qual è la vera novità? Che un pezzo di gruppo dirigente del Pd abbandona Renzi, dice che quella non è più la sua casa, troppo personalismo, troppi elementi di destra nell’azione del governo e dice: tocca ricostruire un soggetto politico plurale e unitario al tempo stesso, che possa dare rappresentanza a tutto quel popolo che non sa più chi votare. E si è rivolto perfino, negli ultimi anni, a un movimento populista e demagogico come i 5 stelle. Come fare? Ripartiamo dal basso. Insomma, le tesi che da qualche anno, non da solo, provo a sostenere. Chi ogni tanto legge le mie farneticazioni, lo sa bene cosa intendo: vedo la sinistra come tante isole disperse nell’oceano. Non parlo tanto delle tante (troppe) sigle di partiti e partitini, ma della sinistra diffusa, delle associazioni, dei movimenti. Di tutte quelle esperienze di resistenza sociale che, nel vuoto della politica, hanno tenuto duro in questi anni. E non hanno rappresentanza. Facile? Tutt’altro.
Non è per niente un compito facile. E diventa ancora più complicato se ci mettiamo a fare l’analisi del Dna a ciascuno di noi. A rispondere “no tu no” a chi dice “vengo anche io”. I veti reciproci, il rinvangare errori di vent’anni fa, non ci porterà da nessuna parte. Ora si parla di un nuovo Ulivo, di un nuovo centro sinistra, chi è stato protagonista della stagione della sinistra arcobaleno parla con terrore di quella esperienza. E lo venite a dire a noi? Guardate che abbiamo ben chiaro che non serve la somma delle siglette della sinistra. Non serve un’operazione di conservazione di ceto politico. Bisogna parlare a quelle mille isole disperse, bisogna dirgli che devono uscire dal guscio, che devono mettersi in gioco direttamente. Non delegare a una classe dirigente stanca e usurata dalle sconfitte, ma farsi classe dirigente in prima persona. Non aspettare che noi ricostruiamo una casa dove anche loro possano riconoscersi, ma costruirla insieme. Altro che sinistra arcobaleno, altro che somma di partitini inesistenti. Esperienze di questo genere, questa rincorsa minoritaria, non sono nel nostro Dna. Diciamolo una volta per tutte: non si prendono lezioni da chi in formazioni irrilevanti ha passato gran parte della sua storia politica. Che ognuno faccia i conti con la sua storia, con le sue sconfitte e le sue vittorie.
Il punto da cui partire, la base comune, non può che essere, a mio avviso che uno: applicare la Costituzione italiana. Io credo che dire il nostro riferimento è il no al referendum del 4 dicembre, sia insufficiente. Intanto perché chi ha votato sì con molti mal di pancia, per mera disciplina di quello che all’epoca era il suo partito, non può essere crocifisso nei secoli a venire. Ma anche perché non si parte da un no, non ci si definisce per contrarietà. “Noi siamo quello che non vogliono”. Capite la debolezza di questa frase? Noi siamo quelli che, dopo un referendum che ha salvato la Costituzione da un attacco senza precedenti, ora vogliono farla vivere, vogliono che i principi scritti nella prima parte della Carta diventino azione politica quotidiana. Credo sia una prospettiva più solida, più attrattiva.
Punto secondo: le diseguaglianze. Io resto convinto della necessità di superare il capitalismo. Sarò vintage, ma sono rimasto legato alla prospettiva indicata da Togliatti prima e Berlinguer poi. Le libertà democratiche, i diritti civili e sociali, dicevano, sono nulla, diventano parole vuote, se non ci si aggiunge una libertà più importante, la libertà dal bisogno, dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Nel paese che ha accumulato negli ultimi vent’anni più diseguaglianze che nel resto d’Europa messa insieme, queste frasi sono fondamentali, la parola “uguaglianza” assume una valenza rivoluzionaria. E quindi lavoro, investimenti, sanità di qualità per tutti, una scuola pubblica più forte e più democratica. Non so se sono parole vecchie, antiche dice qualcuno. A me sembra che siano di gran moda in tutto il mondo.
Ultima notazione, la vicenda del leader di questo schieramento. Un sondaggio apparso nei giorni scorsi sul Fatto Quotidiano, attribuisce a una forza unita della sinistra percentuali intorno al 10 per cento. Con punte del 16 a seconda del leader. Saviano, per dirne uno, è quello che attira più consensi, a seguire Rodotà e Bersani. Io credo sempre che, più che sulla ricerca di una figura carismatica, dovremmo concentrarci di più su cosa vogliamo fare e metterci a farlo. Casa per casa. Poi le formule verranno da sole e i leader cresceranno. Alcuni errori, però, vanno evitati con accuratezza.
1) Basta con i tatticismi politicanti. Non ci capisce nessuno se ci definiamo in maniera differente a seconda del modello elettorale in voga durante la settimana. Credo che sia persino insufficiente e fuorviante definirsi come forza “alternativa” al Pd. Perché una forza non si definisce in relazione ad altri. Quella che dobbiamo costruire non è una forza alternativa a qualcuno, ma una sinistra autonoma, dal punto di vista culturale innanzitutto.
2) No al raggruppamento dei reduci. In queste settimane abbiamo dato tutti un’occhiata ai nomi che girano e che garantirebbero, nella mente di chi li fa filtrare, un profilo del tipo ulivista alla nuova formazione politica. Da Prodi, a Tabacci, a Letta. Fino a De Mita che le cronache danno in fase di grande attivismo. Tutte figure significative che hanno avuto un ruolo importante nella nostra storia. Ed è positivo sapere che ci guardano con attenzione. Ma non possono essere il nostro riferimento. Anche perché poi lo stesso Prodi ci fa sapere che si è accampato con la tenda e aspetta. Non si sa bene cosa. Noi di tutto abbiamo bisogno meno che di gente che aspetta.
3) Nessuno pensi che basta definirsi leader per esserlo. Lo dicono proprio i sondaggi. Non basta avere il via libera da parte di qualche salotto buono. Neanche se di quel salotto fanno parte editori, capitani d’industria e importanti intellettuali. Quando si va a votare, il loro voto sempre uno conta. Il leader, o meglio il gruppo dirigente si sceglie con un processo di partecipazione. Primarie, assemblee diffuse, decidiamolo insieme.
4) Basta con le posizioni dette a metà. Dobbiamo essere netti. Diritti: bisogna reintrodurre l’articolo 18. Punto, senza mediazioni a monte. Scuola: abolire questa vergogna dell’alternanza scuola lavoro. Tasse: paghino i ricchi, noi abbiamo già dato. Guardate che i Melenchon, i Corbyn i voti lo hanno presi così. Fra i giovani, mica fra i sessantenni.
5) Basta con le convocazioni in contrapposizione: prima si fa l’assemblea di quelli del No, poi si fa quella di Pisapia e soci. Articolo uno, che nasce proprio con la vocazione di riannodare i fili spezzati, non può essere semplice spettatore, infrastruttura a disposizione come dicono alcuni con un’espressione orribile. No, tutt’altro. Dobbiamo essere noi il motore della barca. Dobbiamo fare il giro delle isole, non aspettare che si spostino da sole.
Il pippone del venerdì/13
La sinistra, breve storia (triste) di un suicidio di massa
Punto primo: la sinistra vince, o meglio resiste, quando fa la sinistra. Perde quando si sposta al centro e sposa i vari liberismi, magari tentando di mitigarne gli aspetti più estremi. Succede in tutto il mondo.
Punto secondo: il centro, in politica, non esiste. E’ una finzione che ci siamo inventati in Italia, in tutto il mondo i partiti si schierano sull’asse progressisti/conservatori. Possono essere più o meno orientati verso uno dei poli, ma un partito neutrale rispetto a questa contrapposizione non esiste in natura. E anche quando qualche movimento politico proclama la sua neutralità è solo per mascherarsi.
Il ragionamento sarebbe ovviamente più complesso e articolato. La contrapposizione progressisti/conservatori appare a volte più o meno netta. I fattori che entrano in gioco vanno spesso oltre la contrapposizione di classe dell’800. Anche se, lo dico per onestà, io trovo che capitalisti contro proletari, in fondo in fondo, funzioni bene anche adesso, se ampliamo l’orizzonte a livello mondiale. Al netto delle semplificazioni, che ammetto, io credo che queste coordinate siano vere, questi due punti fermi rappresentino bene la situazione politica. Tranne che in Italia. Paese nel quale c’è ancora il fattore k.
Riassumiamo brevemente, non me vorrete per la rozzezza dl racconto. Nel dopoguerra in Italia si crea una situazione del tutto originale, rispetto al resto dell’Europa occidentale: c’è un blocco moderato, conservatore, che ha il suo fulcro nella Democrazia cristiana, non c’è un blocco progressista che possa competere per la conquista del potere, perché la sinistra è rappresentata essenzialmente dal Pci, partito che arriverà nelle stagioni migliori a due milioni di iscritti e al 34 per cento dei voti. Una forza considerevole, ma non spendibile per il governo. Perché l’Italia, nella spartizione del mondo fra Usa e Urss che avviene dopo la seconda guerra mondiale, fa parte dell’occidente. E, malgrado l’evoluzione democratica avviata da Togliatti e conclusa da Berlinguer, resta la pregiudiziale: il Pci può amministrare Comuni e Regioni ma non può partecipare al governo del paese. Lo chiamano fattore K. E quando con Moro si profila una convergenza fra Dc e Pci, il famoso compromesso storico, ecco che il dirigente democristiano viene rapito dalle Brigate rosse e ucciso. Un rapimento dietro il quale c’è chiaramente la mano dei servizi segreti. Non solo italiani.
E allora che succede? Quale è il senso di questa storia? Complice il fattore K, in Italia ci siamo inventati il centro: la Democrazia cristiana da partito conservatore diventa un grande contenitore in cui sono presenti sia la destra che la sinistra. E tutto ruota intorno alla balena bianca: si allea con le forze moderate, poi si apre ai socialisti che si allontano dal Pci. Quando servono ci sono i voti del Msi, la destra fascista, voti in frigo, ma a disposizione. Una grande ammucchiata. La sinistra comunista, un terzo del Paese è bene ricordarlo ancora una volta, resta esclusa. Fino a tangentopoli. Siamo all’inizio degli anni ’90. Il Pci, finita l’Unione sovietica, ha cambiato nome, crollano gli altri partiti tradizionali. Sembra arrivato il momento per avere un governo progressista. E invece che succede? Salta fuori Berlusconi, aggrega la destra, parte della vecchia Dc e del Psi, tira fuori dal frigo il Msi, diventato nel frattempo An, e rimanda i nipotini di Togliatti all’opposizione. Servirà Romano Prodi, un ex democristiano per portare i progressisti al governo. Insomma, il fattore K passa dall’essere elemento di esclusione totale a elemento di “necessità di tutela”: potete governare ma non troppo, vi controlliamo comunque noi. Perfino quando un ex comunista diventa presidente del Consiglio, succede con Massimo D’Alema dopo la caduta di Prodi in Parlamento, la gestione del potere, la stanza dei bottoni vera, ha un forte ancoraggio occidentale. Il suo governo tira avanti grazie alle truppe di Francesco Cossiga, l’ex presidente della Repubblica regista di gran parte delle trame anticomuniste dei tempi della guerra fredda. E D’Alema per dimostrare la sua fedeltà all’occidente, dovrà perfino far partire i bombardieri contro la ex Jugoslavia. Una sorta di sindrome dell’ultimo arrivato che deve dimostrare al gruppo quanto è fico.
E che si fa? La sinistra, per risultare ancora più digeribile al potere economico in Italia, si annacqua ulteriormente: nasce il Partito democratico. Lo guida il meno comunista degli ex comunisti, Walter Veltroni. E manco così va bene. Ci prova Pierluigi Bersani, esponente della sinistra del fare, ex presidente dell’Emilia Romagna. Insomma, uno che vuole aiutare l’economia capitalista, non trasformare l’Italia in un paese socialista. E niente, non va bene neanche lui. Quando la vittoria sembra a un passo gli piazzano Mario Monti, presidente del Consiglio di un governo chiamato a salvare il paese dall’emergenza economica. E gli dicono: lo devi sostenere, altrimenti l’Italia va verso la bancarotta. Probabilmente non è vero, malgrado la cura liberista siamo ancora un paese troppo importante economicamente. Ma il Pd ci crede. Più di un anno di agonia. Non sto a fare l’elenco, perché i provvedimenti decisi dai tecnici sembrano la trama di un film dell’orrore. Tutti sappiamo come è finita, la vittoria non vittoria, i 101 contro Prodi, le dimissioni di Bersani, le nuove primarie.
Qui si chiude il cerchio della storia del dopoguerra. Renzi, giovane virgulto democristiano con entrature importanti in ambienti finanziari e in oscure lobby, diventa il “capo” degli ex comunisti. E cosa ti fa fin dal primo giorno di lavoro? Lavora per farli estinguere. Questa è la famosa rottamazione, altro che storie: non il pensionamento di uno o due leader politici consunti dagli anni, ma la rottamazione di un’intera cultura politica italiana, la cultura comunista italiana che ha continuato, in varie forme a essere cervello e gambe della sinistra nel nostro paese. Lo fa, o almeno prova a farlo, perché la trova nel momento più basso della sua storia. I dirigenti sono consumati dalle sconfitte, sotto di loro c’è una classe di giovani rampanti che, il giorno dopo l’elezione di Renzi, provano già a salire sul carro del vincitore. E il ragazzotto fiorentino, magnanimo, li accoglie, ma lascia loro i posti più scomodi e marginali, non entrano mai nella vera stanza dei bottoni. In cambio pretende fedeltà assoluta. Una roba che neanche negli anni in cui il centralismo democratico era regola assoluta per la vita del Pci. Perché lì almeno si discuteva prima di decidere. Adesso il leader decide e hai una sola opzione: dire di sì. Chi contesta, educatamente, diventa gufo, rosicone, parruccone, rema contro. Succede all’interno del partito, succede con i giudici che bocciano le leggi del governo, succede con i – rari – intellettuali che provano a gridare che “il re è nudo”.
Il resto è storia di oggi. Una parte, piccola o grande si vedrà, di quella tradizione, di quella cultura comunista italiana, prova a rialzare la testa, se ne va dal Pd e dice: “Ragazzi, si riparte”. E scatta subito il fattore K. Questa volta assume le sembianze di un timido avvocato milanese, un esponente della cosiddetta borghesia illuminata che si autonoma leader federatore, prende le redini della baracca e dice: bisogna rifare il centrosinistra. Anzi più che dice, pigola. Perché fra un tentennamento e l’altro questo Pisapia sembra più un pulcino spaventato – il pulcino Pisapio appunto – che un capo politico. Ma al di là delle battute, quello che vorrei provare a spiegare è l’errore di fondo su cui si basa questa operazione, alla quale, a quanto pare, tutti stanno accodandosi in buon ordine.
Immaginatevi questa scena: per vent’anni vi danno da mangiare biscotti con olio di palma. Poi a un certo punto si scopre che l’olio di palma fa male. Lo eliminano dai biscotti e lo sostituiscono con il burro di palma. Non è che fa male anche quello no?
Insomma, provo a dirla semplicemente, da qualche anno oramai mi sono fatto questa convinzione: non è che il progetto originario del Pd è fallito. Era proprio questo il progetto originario, ovvero rendere inoffensiva una famiglia politica, una cultura che tanto aveva rappresentato nella storia del ‘900. E la cura qual è? Ne facciamo un altro, ma più piccolo. Invece di Franceschini ci mettiamo Tabacci che almeno è simpatico. Guardate che se la raccontiamo a un cittadino di un altro stato ci prende per matti. Non è che gli altri lavorano per farci scomparire, non è il destino cinico è baro: stiamo facendo tutto da soli. Siamo noi che lavoriamo alla nostra scomparsa. Ora, io passo per essere realista. E dunque, prima di tutto bisogna pensare alla sopravvivenza. Va bene tutto. E quindi Pisapia, che uso come personificazione di una sinistra moderata, può essere parte di un progetto in due fasi: a) sopravviviamo alle elezioni; b) abbiamo cinque anni di tempo per riorganizzare la sinistra. Ma non può essere che per far ripartire la sinistra ci facciamo scegliere il capo da qualche gruppo editoriale italiano al quale non siamo mai stati particolarmente simpatici.
Dunque, che fare? A me convince molto lo schema indicato da D’Alema, non a caso indicato come il cattivo da abbattere: si parta da assemblee quartiere per quartiere, sui programmi, per ritrovarsi, per ricostituire una comunità politica che altri hanno diviso. Poi si facciano le primarie per scegliere i candidati alle Camere (che altrimenti saranno tutti nominati, con la legge elettorale che stanno discutendo in parlamento) e soprattutto per scegliere il leader di questa alleanza. Di sinistra, di centrosinistra… ha ragione chi sostiene di essere stanco di nominalismi. Io sarei anche per evitare di indicare un leader unico, sarei per dare la sensazione di una squadra ampia e rinnovata, ma dicono all’epoca della comunicazione sfrenata ci serve. Magari non lo lasciamo solo. Mettiamoci i contenuti, mettiamoci facce nuove. Di gente che viene dalla vita reale, non dai salotti. Il tempo dei polli di allevamento è finito.
Il pippone del venerdì/7.
Sinistra, c’è una luce in fondo al tunnel (?)
Sala in centro di Roma, arrivo presto e conto le sedie. Circa 300. Non una folla, ma neanche poche. Quando entra Bersani si riempie in un attimo, restano una cinquantina di persone in piedi. Descrizione del pubblico: molti over 50, una quindicina di ragazzi estremamente giovani (diciamo sui vent’anni a occhio), una robusta presenza di quarantenni. Uno spaccato della società italiana, con tendenza alla prevalenza degli anziani.
E’ la “prima” di Articolo Uno a Roma. Il movimento che vuole ricostruire un nuovo centrosinistra in Italia, dopo un lungo peregrinare in giro per l’Italia arriva anche qui. E già il fatto di non partire da Roma è significativo. Incontro con Bersani, recita la locandina.
In realtà l’ex segretario del Pd concluderà soltanto un pomeriggio con interventi di professionisti, lavoratori, esponenti del mondo sindacale e del terzo settore. Si parte dall’ascolto. La platea, a occhio mi sembra un curioso mix di quadri di partito, dirigenti politici locali e intellettuali. Capita così di vedere seduti fianco a fianco Roberto Zaccaria, ex presidente Rai poi parlamentare di Margherita e Pd, e il segretario di un circolo Pd della periferia romana. Mancano, sempre a occhio, i militanti di base. Il livello si ferma ai quadri di partito. Il “popolo della sinistra”? Bersani risponderà che va riconquistato. E proverà a dire anche come, con quali parole d’ordine.
Prima notazione politica: avevo in testa il Bersani stanco della campagna elettorale del 2013, poi quello “sballottato” dalle vicende successive alle elezioni. Non l’avevo più sentito da allora, se non in dichiarazioni di pochi secondi. L’ho trovato differente. Meno metafore, non manca la concretezza emiliana ma viene meno banalizzata in immagini, questa volta. Più analitico. Parla più di un’ora e – per usare una metafora – ti mette le mutande al mondo. Poi forse restano un po’ strettine, per come la vedo io. Ma era da tempo che non ascoltavo un ragionamento così. Analisi, racconto, soluzioni. Mi dirà un collega, giornalista e compagno: “Guarda che quelli delle agenzie di stampa hanno preso il primo appunto dopo cinquanta minuti di intervento, quando ha nominato Renzi”. E’ la maledizione di esce dal Pd: per il mondo dell’informazione conta solo la contrapposizione al leader democratico. E poi Bersani non è tipo da 140 caratteri. Ma ci serve un tipo da 140 caratteri? Basta questo? Io non credo, non vorrei un altro partito del leader.
Seconda notazione politica: l’ex segretario del Pd capisce, lo dice chiaramente, di essere un reduce: fa un po’ lo stesso ragionamento di D’Alema. Noi ci siamo per dare solidità a questa nuova avventura. Ma non guardate a noi come ai futuri leader. Chiede – a se stesso e a tutti – un atto di generosità: siamo a disposizione, ma bisogna fare spazio. Mettiamo dunque al bando – questo il ragionamento – tatticismi e personalismi, non siamo un partito, ma un movimento, disposto a confrontarsi, nel merito, con tutti quelli che ci stanno. “E il rapporto con il Pd? – si chiede retoricamente Bersani – Costruiamolo noi il nuovo centrosinistra, poi sarà il Pd a dover decidere cosa fare”. Mi sembra convincente: un movimento, un raggruppamento di forze culturalmente autonomo che si pone l’obiettivo, non l’ossessione, del governo. Poi le alleanze verranno.
Terza e ultima notazione politica: nel suo intervento Bersani ha criticato duramente la globalizzazione e l’atteggiamento di quella sinistra che ha fatto spallucce continuando a proporre ricette di destra. “Ora – si chiede ancora retoricamente – arriverà il conto di questi anni in cui si è detto che tutto andava bene e il tema vero è: chi lo paga? Io avevo provato a dirlo nella campagna del 2013, forse non sono stato capito. Ma per me resta questo il discrimine fondamentale. Paghi chi ha di più”. Per chi è ossessionato dalle “cose di sinistra” questa è una. Bella chiara.
E ora vediamo ai punti dolenti. Non entro nella polemica di chi dice “eh ma che ve ne siete accorti adesso?”. Ci sarà stato anche qualcuno più bravo che ci era arrivato prima, senza dubbio, ma non ha lasciato grandi tracce della sua esistenza. Mi ci metto anche io, nel mio piccolo. Quello che mi interessa è l’aver finalmente capito la fase che sta vivendo il mondo, capito i problemi e capito quali sono stati gli errori della sinistra a livello mondiale. Non la faccio tanto lunga: “Mentre la destra – ha argomentato Bersani – ha cambiato radicalmente la sua ricetta passando dal liberismo sfrenato di Reagan e della Thatcher al sovranismo e al protezionismo di oggi, noi non abbiamo capito il cambio di fase”. E quindi la crisi della cosiddetta globalizzazione porta alla luce anche gli errori del passato, quando la sinistra ha vinto in tutto il mondo proponendo soltanto un modello un po’ più umano. Adesso invece spuntano fuori quelle che l’esponente di Articolo Uno chiama le spine: finanza senza controlli, diseguaglianze diffuse, attacco ai diritti, umiliazione del lavoro. Fin qui tutto bene, la parte che mi sembra debole nel ragionamento di Bersani è quella delle soluzioni al problema. Posto che la risposta che abbiamo dato fin qui, almeno in Italia, ovvero sostanzialmente assistere inerti alla deindustrializzazione del nostro paese, è del tutto inadeguata e ci porta dritti nel baratro, non basta ripartire dai tre classici capisaldi europei, ovvero diritti dei lavoratori, stato sociale universalistico e fiscalità progressiva. Non basta neppure aggiornando i contenuti.
Mi piace però ripartire, da due belle definizioni che ha dato nell’appuntamento romano. La prima: “Se l’Europa non è un’idea per il mondo non potrà mai farsi Europa”. La seconda: “La sinistra è quella cosa che esiste perché non gli piace il mondo così com’è”.
Io le stamperei e le attaccherei in tutte le sezioni, circoli, comitati o come diamine si chiameranno le articolazioni locali di Articolo Uno. Perché lì dentro ci sono le nostre radici e il nostro futuro. C’è la necessità impellente di trovare strade nuove, di dare risposte a quella fortissima crisi che sta vivendo l’idea stessa di democrazia rappresentativa. La risposta di Renzi è “più potere con meno consenso”. Ha ragione Bersani, questo volevano dire Italicum e riforma della Costituzione: spazzare via i corpi intermedi, smantellare il sistema della rappresentanza vuol dire avere meno democrazia. E la famosa democrazia diretta tanto decantata dal movimento 5 stelle vuol dire un sistema autoritario dove i cittadini non contano più nulla.
Rimango ai tre punti di cui ha parlato Bersani. Della questione del lavoro, ovviamente centrale, ho già parlato, ampiamente, qui. Vorrei soffermarmi, invece, nel “pippone” di oggi sulla questione delle diseguaglianze, che ieri sono state ridotte, in sintesi, alla necessità di garantire un welfare di natura universalistica. E’ importante porsi nuovamente questo tema, uscendo finalmente dalla retorica del merito. Ma credo che sia un errore limitarsi a questo ragionamento. E anche limitarsi a descrivere il tema delle diseguaglianze come tema interno a un paese. Fra gli stipendi dei supermanager e i vaucher, tanto per usare la semplificazione di Bersani. Chi vuole definirsi di sinistra non può continuare a leggere le diseguaglianze solo all’interno degli anacronistici confini nazionali. E allora la differenza è fra gli stipendi dei supermanager italiani e lo stipendio di un operai africano o cinese. Qua stanno le diseguaglianze, qua sta la vera lotta di classe del nostro tempo. Altrimenti continuiamo a essere prigionieri della contrapposizione fra migranti e proletari “interni”. Giochiamo la partita nel terreno di gioco scelto dalle destre. Continuare a parlare di stati e di nazioni, insomma, ci condanna a una visione miope e alla sconfitta. E allora che fare? Io credo che dobbiamo, ad esempio, mettere in discussione seriamente la casa del Partito socialista europeo. E usare il “metodo Bersani” anche a livello internazionale. Una cosa del tipo: “Guardate ragazzi che ognuno per sé mica reggiamo più, qua tocca mettersi insieme davvero”. Potrebbe sembrare eccessivamente ambizioso: non riusciamo a rimettere in piedi una sinistra italiana e ci preoccupiamo del livello europeo? Io credo sia essenziale, limitarsi ai patri confini sarebbe un errore tragico. Tornare a produrre, come Europa, idee che siano modello per tutti, sui grandi temi che abbiamo di fronte. Da quelle diseguaglianze che sono il concime per tutti i fondamentalismi, ai temi ambientali, a quelli economici, della produzione, della finanza. Io credo che una delle riflessioni che dobbiamo fare sia su questo.
Abbiamo di fronte un’ondata di destra senza precedenti, non basta chiudersi nei confini nazionali, non basta una strategia di difesa dei diritti del novecento. Occorre riaprire davvero la partita, sfidare le destre e i populismi, sfidare le paure di un occidente che si sta accartocciando sempre più su se stesso. Ancora una volta, come è ovvio, mi limito ai titoli. Non sono in grado di fare di più. Serve un vero e proprio intellettuale collettivo per un’elaborazione compiuta su questi e altri temi. Ma secondo me la strada da percorrere, la direzione da prendere è segnata.
Ecco, se cominciamo a fare questo possiamo dire che in fondo al tunnel in cui si è cacciata la sinistra, non solo italiana, c’è una luce. Senza punto interrogativo. Neanche fra parentesi.
Il pippone del venerdì/4
Immigrazione e contorsioni della sinistra
I giorni scorsi, i frequentatori più affezionati dei gruppi social di sinistra ne avranno avuto un qualche sentore, sono stati caratterizzati da un’aspra polemica sull’immigrazione. Un peso, un problema che si scarica sui ceti più deboli, hanno sostenuto alcuni, partendo da un’intervista di un dirigente di Sinistra italiana. Che evito di nominare per non personalizzare la discussione. Forse così si potrà ragionare serenamente senza scatenare gli ultras di ogni parte. Secondo me, tra l’altro, si è soltanto espresso male. Sarebbe bastata una precisazione per chiudere la discussione. Così non è stato. Dopo un timido tentativo ho evitato di intervenire, vista la virulenza dei toni, ma credo che sia un tema fondamentale per capire dove va la sinistra italiana. Poi è arrivato anche il decreto Minniti che, in fondo, segue la stessa logica dell’immigrato che va punito in quanto tale.
Io credo, la dico semplice e precisa, che sia una posizione sbagliata. Perché questo concetto dell’immigrazione come problema, che per giunta pesa sulle condizioni dei ceti più deboli, è un’impostazione di destra. Con una venatura nazionalista e razzista.
Primo punto di divergenza. Io sono cresciuto con l’utopia di un mondo senza confini. E mi piacerebbe conservare quel sogno, quella visione. Non tanto per un attaccamento nostalgico alle suggestioni giovanili, ma perché credo, a maggior ragione nella situazione attuale, che sia un assurdo pensare a un mondo dove la semplice nascita, ovvero un fatto del tutto casuale, possa dar luogo a qualche diritto esclusivo.
La faccio semplice: se sono nato in Italia non ho più diritto a stare qui di uno nato in un qualsiasi altro paese del mondo. Provate a spiegarmi perché questa sarebbe casa mia, perché avrei qualche diritto in più di Miguel piuttosto che di Azizi. Se è un furto la proprietà privata lo sono a maggior ragione le frontiere. Gli stati nazionali, del resto, sono una costruzione recente e stanno diventando sempre più drammaticamente vecchi di fronte a un mondo reso più piccolo dalla comunicazione e da un’economia a dir poco globale. I capitali non hanno frontiere, ma le impongono agli uomini perché proprio sulle divisioni politiche basano gran parte della loro forza.
E’ dunque un controsenso, se questa è la visione, dare un connotato negativo alle migrazioni (sarò snob ma mi piace parlare di migrazioni, senza indicare il “verso”). Non sono un problema. Sono un semplice dato di fatto. Se sono libero di spostarmi, come posso essere un problema? Diventa un problema se si stabilisce, come succede in Italia che migrare è addirittura un reato e si creano i “clandestini”. Un altro ragionamento, più profondo, andrebbe fatto sulle cause delle migrazioni. Intervenire sulle guerre che creano milioni di profughi, lavorare sulla diffusione dei diritti e delle libertà civili, intervenire sugli intollerabili squilibri che sono alla base delle migrazioni per necessità. E tornare a ragione in termini non localistici, non nazionali. Questo, non solo secondo me, è il limite della politica e del sindacato negli ultimi decenni: continuare a pensare in termini nazionali, non essere riusciti a trovare quella dimensione più grande che forse permetterebbe di governare un’economia che quei confini non li considera proprio più. E addirittura oggi c’è chi teorizza che bisogna uscire dall’Europa. Serve più Europa, non meno. E se la politica, la sinistra in particolare, non vuole essere un semplice strumento di cui il potere economico indica limiti e compiti deve tornare a ragionare oltre i confini delle nazioni.
Il secondo aspetto che non condivido è considerare le migrazioni come un fattore che tende a far peggiorare le condizioni di vita dei più deboli. I più intellettuali hanno addirittura scomodato il vecchio con la barba e la sua definizione di “esercito industriale di riserva”. I meno intellettuali hanno invece invitato chi faceva notare qualche contraddizione nel ragionamento ad andare a verificare quello che succede nelle periferie delle nostre città. Lo hanno fatto ovviamente comodamente seduti nei loro salotti del centro. Insomma, secondo questa visione, la banalizzo, gli immigrati rubano il lavoro agli italiani.
Due considerazioni. Marx, con una delle tante intuizioni geniali che ritroviamo nel “Capitale”, individuava un paradosso per cui gli operai producendo plus valore tendono a rendere eccedente il proprio stesso lavoro. Il capitalista, infatti, una volta abbassato il salario fino ai livelli di sussistenza, per aumentare il proprio profitto investe nell’automazione rendendo il lavoro dell’operaio meno necessario. E la massa dei disoccupati crescente (l’esercito di riserva) contribuisce a mantenere lo status quo, ovvero il continuo peggioramento delle condizioni di vita dei proletari. Ho sintetizzato molto.
Ora, anche a voler mutuare pari pari, senza la dovuta cautela, l’analisi marxiana, considerando gli immigrati come l’esercito industriale di riserva di oggi (ma vedremo quanto sia problematica una simile trasposizione) permettemi di rilevare che Marx non ha mai detto che i “disoccupati sono un problema per i ceti meno abbienti”. Chi era – ed è – un peso sono i capitalisti che sfruttano questa situazione per massimizzare il loro profitto, senza curarsi delle condizioni di vita di strati sempre più larghi della popolazione. Con questo vorrei provare a sostenere una tesi differente. Quello che voleva fare Marx (e che dovrebbe provare a fare la sinistra) era creare una coscienza di classe, spiegare che il conflitto fra occupati e disoccupati era proprio quello che serviva ai padroni per mantenere gli operai in condizioni disumane. Insomma, banalizzando il concetto, la sinistra oggi non può dire che gli immigrati rubano il lavoro agli italiani. Intanto perché non è vero. E poi perché queste cose le fa la destra, le fanno i Salvini di turno e sono anche più credibili.
Io sono convinto che la sinistra abbia un altro compito, più alto. Intanto deve tornare davvero nelle periferie. Perché a guardarle dalle terrazze borghesi del centro storico di rischia di avere una visione distorta dalla lontananza. E il risultato è la disfatta delle scorse amministrative. E ve lo dice uno che abita a Magliana, in una zona dove le etnie si mescolano e accanto all’odore del ragù della domenica senti le spezie profumate dell’oriente. Tocca alzarsi dalle poltrone dei salotti bene. E bisogna tornare in periferia con una proposta chiara, con una visione chiara. A dire via gli immigrati ci pensano Salvini e Casapound.
Io credo che dovremmo andare a spiegare nelle periferie che il problema non sono i profughi in fuga dagli orrori. Non sono i migranti che occupano casolari abbandonati. Non sono quelli, più “fortunati”, a cui qualche italiano per bene affitta letti accatastati l’uno sull’altro a cifre esorbitanti. Non solo loro il “nemico di classe”. E bisognerebbe tornare a praticare la solidarietà di classe, non la carità cattolica, perché oggi nelle periferie non ci sono due povertà, due debolezze da mettere in competizione. C’è una sola grande questione. Baumann le chiamava “le vite di scarto”, i prodotti di risulta della società globale. Ed è qui il ruolo di una sinistra che fa la sinistra. Tornare a prendere in mano la bandiera degli ultimi. Tornare a pensare la politica come quello strumento che serve a rovesciare i rapporti di forza, quello strumento che fa delle moltitudini un popolo. E questo va fatto con azioni concrete. Dobbiamo aprire sedi, nelle periferie. Spazi aperti, utili, delle moderne case del popolo, grande e originale esperienza italiana. Case di tutti, italiani vecchi e nuovi. Nuovi italiani, mi piace questa definizione.
Detto questo, permettetemi però un passo indietro: io credo che sia proprio sbagliato l’assunto. Punto primo. L’apporto dei migranti sul mercato del lavoro non fa aumentare la disoccupazione, non c’è questa concorrenza di cui si favoleggia. Sono gli stessi imprenditori a chiedere un aumento delle quote previste da quella sciagurata legge Bossi-Fini : perché non trovano italiani disposti a determinati lavori. Punto secondo: anche dal punto di vista del welfare, non solo la presenza dei migranti non riduce in maniera rilevante le risorse a disposizione per lo stato sociale, ma i contributi versati da loro, contributi dei quali non usufruiranno mai, permettono di pagare le pensioni a quegli italiani che vorrebbero cacciarli. Altro che pippe mentali, altro che esercito industriale di riserva.
E allora diciamolo forte. Ci servono i migranti e campiamo bene proprio sul loro sfruttamento, vera schiavitù moderna. E una sinistra che fa la sinistra va nelle periferie e lo scrive sui muri. Altro che timidezze da salotto borghese. Una sinistra che fa la sinistra fa non uno ma mille cortei non per, ma insieme ai migranti. E mette in rete le debolezze, non aizza la guerra fra gli ultimi.
Insomma, la sinistra torni a essere internazionalista. Torni a battersi per un mondo senza confini. Che sarà anche un’utopia, ma sono le utopie che fanno muovere il mondo, non le catene del realismo.
Io la vedo così.
Articolo Uno, si può fare. I motivi della mia adesione
Sono stato molto indeciso nelle settimane scorse. Rimanere a casa, continuare a fare il semplice commentatore o tornare a impegnarmi in prima persona? La tentazione di restare ai margini è forte. Mi diverto molto a stare seduto sulla riva del fiume a contare i cadaveri di quelli che sempre sicuri che non sbagliano mai.
E poi si sta comodi. Intanto perché, chi mi conosce sa quanto sia vero, sono un pigro, iperattivo ma molto pigro. E dunque l’idea di rimettermi al lavoro, per giunta riprendere una sfida sostanzialmente da zero, senza strutture, senza sedi… da un lato stimola il mio lato iperattivo, ma dall’altro atterrisce il mio lato pigro.
Ma l’idea di ricostruire una casa insieme a tante persone di cui ho stima mi piace. Lentamente prende il sopravvento. E nei giorni scorsi, andando a curiosare in riunioni private e pubbliche, ho provato questa sensazione, perduta da tempo, di aver ritrovato la mia comunità politica. Poi magari mi sbaglio, magari come dice qualcuno fra tre mesi ci ripenso. Può darsi, non per calcolo personale. Qualcuno troppo abituato ad applicare agli altri i propri schemi pensa che si partecipi a un movimento politico solo in base agli incarichi che ti vengono garantiti. Io dalle scissioni della mia vita c’è sempre rimesso, devo essere strano. E non ho incarichi da pretendere. Militante semplice è pure troppo. Anche perché ho sempre pensato che le medagliette non servono a nulla. Sono state dirigente dei Ds del Lazio, poi del Pd, è tempo che forze fresche conducano la baracca, io se serve posso attaccare i manifesti.
Una casa, da costruire, dicevo, senza sentirsi ex di qualcosa. Ma parte di un progetto che guarda al futuro. Un progetto che va oltre i nostri destini personali e guarda alla realizzazione delle libertà della costitutuzione.
Ecco, Articolo Uno mi piace. Ho sempre letto con commozione quelle parole. La prima parte della Costituzione. Ho sempre cercato di difenderla e di renderla più vera, concreta. E credo che questo possa essere il compito della sinistra in Italia. Perché nella Costituzione abbiamo scritto i nostri valori, dopo settanta anni sarebbe il caso di renderli anche concreti, di farli vivere nella realtà disastrata del nostro paese. Questo, insomma, è il tempo di ripartire. Di costruire non un recinto, ma un villaggio senza mura accanto, che possa essere un punto di riferimento per chi è in viaggio e cerca un nuovo approdo, Un movimento, dunque, dove tutti, anche quelli che arrivaranno fra un po’ si sentano a casa e non ospiti. I
Questo è ancora il nostro tempo. Ripartiamo da Articolo Uno.
Lo spiegone del lunedì/3
La legge elettorale in vigore: genesi e prospettive
Dopo anni di tentativi di dialogo sono arrivato alla triste conclusione che i renzini non sono umani e quindi discutere con loro è abbastanza inutile. Con gli ultras – di tutte le razze – non c’è dialogo possibile. O ci fai a botte, oppure sei d’accordo con loro. E’ pur vero che si possono avere opinioni differenti, ma a raccontare bugie si finisce dritti dritti all’inferno. Siccome, però, siamo buoni e alle loro anime ci teniamo, proviamo a ricapitolare.
Cosa dicono i nostri eroi? E’ presto detto: per loro il no al referendum ha provocato il ritorno al proporzionale e dunque il proliferare di partiti che ci porterà all’ingovernabilità. Aggiungono indomiti: dove sono finite le riforme che D’Alema aveva annunciato? Non aveva detto che le faceva in sei mesi?
Andiamo con ordine. Cosa si è votato il 4 dicembre, con il referendum? Si è votata la riforma costituzionale proposta dal governo Renzi e approvata a colpi di canguro dalle camere. Cosa prevedeva? Molte cose. In sintesi: trasformazione del senato in organo nominato dai consigli regionali, con meno poteri (non era più, fra l’altro titolare della fiducia al governo), ridisegnava i poteri di governo e regioni, aboliva il Cnel. Una riforma molto complessa alla quale quasi il 60 per cento degli italiani ha detto no. Cosa ha provocato questo no sul piano della legge elettorale? Assolutamente nulla, vediamo perché.
Dopo il referendum è rimasto in vigore lo stesso sistema zoppo derivante da due fatti: la bocciatura da parte della corte costituzionale del vecchio porcellum (2014) che aveva sostanzialmente consegnato al Parlamento un sistema proporzionale (con uno sbarramento molto alto al senato) e la nuova legge elettorale approvata nel 2015, il cosiddetto Italicum approvato nel maggio del 2015.
Tale situazione è cambiata in seguito alla sentenza della Corte costituzionale della fine del gennaio scorso che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’Italicum su due punti: il ballottaggio e la possibilità di chi è candidato in più collegi elettorali di scegliersi il seggio dopo le elezioni. Eliminando il ballottaggio la sentenza ha creato, di fatto, un sistema proporzionale. Resta, infatti, il premio di maggioranza (alla Camera) per la lista che supera il 40 per cento dei voti, ma in un sistema politico in cui avremo almeno 4 o cinque liste che andranno oltre il 10 per cento diventa maticamente molto complesso. Senza contare che la maggioranza sarebbe limitata a una sola Camera.
Appare evidente, dunque, e questo è un fatto, non un’opinione, che l’attuale sistema elettorale non deriva dal referendum del 4 dicembre, ma da due distinte sentenze della Corte costituzionale, che, come è ovvio, basta leggerle, con l’esito del referendum non hanno nulla a che vedere.
Punto secondo: la riforma proposte da D’Alema. Riporto i tre punti per chiarezza con le stesse parole di D’Alema: «Solo tre articoli, il primo riduce sia deputati che senatori, 400 i primi e 200 i secondi. Articolo due: fine della navetta parlamentare adottando il sistema degli Usa. Articolo tre: il rapporto di fiducia del governo è solo con la camera».
Chiaro e semplice. Si vuole fare? D’Alema non ha incarichi né di partito né tanto meno istituzionali, complicato dunque dargli la colpa di una mancata iniziativa legislativa. Che spetta, come è ovvio, a chi ha la maggioranza del Parlamento, ossia al Pd. Dunque avete i numeri sia per approvare una riforma costituzionale davvero utile che per approvare una nuova legge elettorale. Siete d’accordo con il ritorno all’Italicum? Avete la maggioranza per proporlo e approvarlo in tempi rapidi. Sicuramente è una legge che rispetta la Costituzione, sicuramente aiuta la governabilità senza comprimere troppo la maggioranza. Ma c’è davvero da parte di Renzi, che resta il padrone del Pd anche in questa fase congressuale, la volontà di dare all’Italia una legge elettorale seria e funzionale? Lo vedremo nei prossimi mesi.
Tutto questo per la precisione.
Io la vedo così
Quante carogne da tastiera!
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