Questa volta non mancano le risorse.
Il pippone del venerdì/149
Quante volte abbiamo sentito dire “mancano le risorse” quando si tratta di finanziare un progetto o un’opera? Ho perso il conto. Ora, mediamente si tratta di una balla, viviamo in uno dei paesi più ricchi del mondo e le risorse le abbiamo, si tratta sempre di decidere a cosa destinarle, quali sono le priorità. E negli ultimi 20 anni almeno, non si sono mai trovati soldi per la sanità, per la scuola, per la ricerca. Ma anche facendo finta di credere a chi ti ha sempre risposto che “mancano i soldi”, adesso le risorse ci sono. Con l’accordo sul fondo europeo per la ripartenza l’Italia avrà a disposizione oltre 200 miliardi, escludendo il Mes sul quale il dibattito pare ancora lontano dall’arrivare a una conclusione. In parte, come è noto, si tratta di un contributo a fondo perduto, il resto è un prestito a tasso molto conveniente per un Paese come il nostro che ha scarsa credibilità sui mercati finanziari e che quindi quando emette titoli paga il denaro molto caro.
E 200 miliardi sono una bella dotazione. A patto che non vengano dispersi in mille rivoli, con le solite mance all’italiana.
Nelle settimane scorse il governo ha presentato alle parti sociali il suo piano per rilanciare il Paese. Un piano che contiene molti spunti condivisibili, altri meno (penso al sempre verde ponte sullo stretto di Messina).
Io credo che serviranno investimenti mirati, non ad esempio una generale riduzione delle tasse, che non portebbe a un automatico aumento dei consumi, ma al massimo del risparmio. Provo a dire alcuni ambiti di possibile investimento.
Intanto le opere pubbliche. Che sono da sempre il più grande moltiplicatore di investimenti. Lo diceva Keynes, un liberale, non un pericoloso comunista. Non credo che servano grandi opere in senso classico, ma investimenti mirati sul trasporto pubblico su ferro, sulla manutenzione del territorio, sulla digitalizzazione del Paese. Opere che servono a renderci più competitivi.
Poi ci sono istruzione, sanità e ambiente. Su questi tre filoni credo che debba andare la massima attenzione del governo. In sostanza, per essere breve, sono le chiavi per garantire un futuro all’Italia senza doversi sempre affidare al classico stellone nostrano.
Da non dimenticare tutto il capitolo delle riforme. Ora, dopo la stagione che va da Monti a Renzi fino al primo governo Conte, gli italiani quando sentono parlare di riforme tendono a blindare il didietro. Sarebbe il caso di farli ricredere. Di dimostrare che una seria riforma del mercato del lavoro può essere fatta a partire dai diritti, che vanno attualizzati ed estesi a tutti, non contro i lavoratori, che una seria riforma della pubblica amministrazione non deve per forza generare norme cervellotiche che vanno ad arricchire le agenzie di servizi e che causano nella miglior delle ipotesi un gran mal di testa al cittadino comune.
Per non parlare della giustizia. L’indeterminatezza del diritto in Italia è uno degli aspetti che più allontana gli investitori stranieri insieme all’instabilità del sistema politico. Perché chi investe ha bisogno di avere certezze, di sapere cosa è consentito e cosa è vietato. E soprattutto ha bisogno di sapere che in caso di contenzioso l’esito arriverà in un tempo compatibile con la sua aspettativa di vita. Quindi norme semplici, che, lo ripeto, non vuol dire assenza di regole, ma l’esatto contrario e applicazione rigorosa delle stesse norme.
Sono soltanto alcuni titoli, mi rendo conto. Ma faccio il giornalista e posso soltanto indicare i temi. Serve un lavoro collettivo per passare dai titoli ai contenuti. Un lavoro che coinvolga le forze sociali, alle quali non si può semplicemente presentare un documento finito, devono partecipare all’elaborazione del piano.
E serve sopratutto il coinvolgimento di tutte le forze politiche. I Paesi seri, nei momenti di emergenza fanno così. Lavorano tutti insieme. Non credo basti un semplice vertice fra maggioranza e opposizione. Il confronto deve essere pubblico e ampio. Un luogo dove possa aver luogo c’è, è quello naturale, il Parlamento. A patto che il passaggio dall’esecutivo all’assemblea non rappresenti il classico assalto alla diligenza a cui si assiste da sempre in occasione delle manovre economiche. Al contrario deve essere un’assunzione collettiva di responsabilità. E un passaggio parlamentare non soltanto è necessario per ridare centralità alla democrazia dopo il lungo stop imposto dall’emergenza. E’ necessario anche per rafforzare la posizione italiana nei confronti dei partner europei.
Al di là della eccessiva consuetidine con la polemichetta quotidiana che affligge la nostra classe politica, va ammesso che Conte ha portato a casa un risultato che in pochi avrebbero pronosticato. Averla spuntata sugli eurobond, ovvero sulla ripartizione fra tutti i paesi delle spese necessarie alla ripresa, è una svolta epocale, perché mette chi è più debole dal punto di vista dei mercati al riparo dagli affamati speculatori che già pregustavano di fare man bassa dei pezzi pregiati della nostra economia. Vuol dire in sostanza che il debito italiano, almeno in parte, diventa un debito europeo.
Non è poco, ma adesso dobbiamo dimostrare che questa apertura di credito non è un salto nel buio. E questo si fa a partire da un piano solido sostenuto da un ampio consenso, sociale e politico.
La finisco qui. Questo dovrebbe essere l’ultimo pippone prima delle vacanze, scritto con gli occhi stanchi di chi ha bisogno di staccare la spina dalle preoccupazioni di ogni giorno. E quindi dovrei dirvi: ci vediamo a settembre, ricaricatevi. Ma lascio la questione in sospeso, c’è una storiella di voucher e di rimborsi che solletica il mio istinto predatorio. Non disperate.
Le autostrade e i monopoli privati da scardinare.
Il pippone del venerdì/148
Quello della gestione delle autostrade e del ruolo della famiglia Benetton è stato sicuramente il tormentone della settimana, se non degli ultimi mesi. La conclusione non è ancora arrivata, quando si conosceranno i dettagli e l’accordo diventerà operativo se ne potranno valutare costi, rischi e benefici. Di certo si può dire che si è trovata una soluzione che, in apparenza, raggiunge il risultato voluto, riportare una buona parte delle autostrade italiane sotto il controllo pubblico, evitando gli effetti negativi che una eventuale revoca avrebbe provocato. Intanto si sarebbe mandata gambe all’aria una società che avrà anche tutte le colpe del mondo, ma non ha come unico azionista la famiglia Benetton, famiglia che in questo periodo, nell’immaginario collettivo, è diventata un po’ il simbolo del capitalista cattivo, che guadagna dalle debolezze dello Stato e poi se ne approfitta pure. Ci sono fondi di investimento, fondi pensione, migliaia di riparmiatori che avrebbero avuto la peggio, questa volta senza alcun omblrello protettivo.
Altra certezza è che il crollo del ponte Morandi, con il suo carico di vittime, doveva portare necessariamente a un cambio di gestione.
Si è arrivati a una soluzione in apparenza indolore, dove il pubblico entrerà grazie a un aumento di capitale e quindi senza nessun guadagno automatico per i vecchi proprietari, senza i traumi che una eventuale revoca della concessione avrebbe inevitabilmente provocato. Per garantire sicurezza e al tempo stesso continuità nella gestione di infrastrutture nevralgiche e complesse come le autostrade senza una società preparata e dotata delle professionalità necessarie. Poteva essere Anas Sicuramente ne avrebbe avuto le capacità tecniche, ma sarebbe servito un periodo di rodaggio che forse non avremmo potuto sopportare.
Restano alcuni punti da chiarire. Intanto, di fatto, lo Stato diventato concessionario di se stesso. In pratica investe, probabilmente attraverso Cassa depositi e prestiti, in una società che è titolare di una concessione pubblica. E questa situazione sicuramente ha dei lati oscuri. Intanto il sistema dei controlli. Nel crollo del ponte di Genova avrà sicuramente le sue responsabilità la società di gestione, ma anche chi non ha controllato a dovere. Cambierà qualcosa avendo il controllo pubblico della gestione?
Ora, non è che un sistema pubblico funziona automaticamente meglio o peggio di uno privato. Si tratta semplicemente di stabilire i ruoli che gli attori economici e lo Stato devono avere. Nel mio piccolo, con le poche reminiscenze di economia che mi derivano dall’ormai lontana università, resto convinto che le situazioni di monopolio naturale debbano essere saldamente in mano al pubblico. Per due ragioni. Intanto perché il sistema privato, in una società di natura capitalistica, può funzionare soltanto in regime di concorrenza. E anche in quel caso, per un socialista come me, sarebbe bene che, almeno, si muovesse dentro un sistema di regole certe e controlli ferrei.
Ma poi perché, lo ribadisco ancora una volta, le reti strategiche di una nazione non possono essere soggette al mercato. Si dice, beh ma in realtà le autostrade non sono neanche un monopolio perché sono soggette alla concorrenza di treni, aerei e navi. In realtà di tratta di sistemi di mobilità di natura profondamente differente e in molti casi neanche alternativi, complementari semmai. E poi bisogna anche valutare l’enorme quantità di mobilità che, in Italia almeno, si svolge su gomma. Non che questo sia un dato immutabile sul quale non si possa intervenire, ma la situazione data è questa.
Speriamo, dunque, che una grande tragedia possa portare a ridefinire la strategia pubblica nei confronti delle reti.
Ultimo punto: Goffredo Bettini, autorevole dirigente del Pd che in molti indicano come l’ispiratore della linea di Zingaretti, ha detto con parole chiare che questa vicenda segna un deciso cambio di atteggiamento della sinistra che non si piega più di fronte ai poteri forti, che poi in Italia sono poche grandi famiglie che continuano a dominare lo scenario economico. Non so se sia semplicemente un modo elegante per capitalizzare politicamente questa vicenda. Né è ben chiaro chi fosse il bersaglio della critica di Bettini. Di certo si tratta, al di là della semplificazione necessaria in un’intervista, di un’evoluzione importante nel pensiero del principale partito della sinistra moderata. Sarebbe il caso che questa linea si applicasse a tutti i campi, a partire dal mercato del lavoro.
Speriamo che si segua su questa strada, quella del ritorno del ruolo dello Stato come attore economico nei settori che si ritengono strategici per lo sviluppo del Paese.
Certo, questo comporta anche un ritorno alla definizione di una strategia a lungo termine, non soggetta agli umori dei sondaggi settimanali. E su questo permettetemi di mantenere, diciamo così, almeno qualche dubbio. Si potrebbe ripartire, ad esempio, con il dare seguito al referendum sull’acqua pubblica o sarebbe chiedere troppo?
Nell’attesa la finisco qui, un pippone estivo non può prescindere dalle gocce di sudore che, anche all’alba, tendono ad annebbiare le idee e la vista. Un’altra settimana è passata: si va verso le vacanze, seppur con mascherina e amuchina al seguito.
Ripartire davvero: lo Stato torni a fare lo Stato.
Il pippone del venerdì/144
L’Italia in questi giorni è in piena fibrillazione per la fine dell’epidemia. Siccome siamo un popolo a memoria ultracorta, i dati relativamente confortanti degli ultimi tempi hanno fatto in modo che la stragrande maggioranza degli italiani consideri il coronavirus come un fatto del passato. Non per fare l’uccello del malagurio, ma temo che avremo nei prossimi mesi amari risvegli. Di sicuro ci sono alcuni fatti incontestabili: intanto, il lungo periodo passato in clausura ha diminuito la circolazione del virus, poi, un po’ a macchia di leopardo, abbiamo imparato ad affrontarlo meglio. Si fanno tamponi più rapidamente, si tracciano e si individuano i casi sospetti. E trovare i contagiati subito provoca in automatico meno affollamento negli ospedali. Infine, anche in assenza di una cura specifica, i medici hanno acquisito maggiori conoscenza sulla malattia e sul come affrontarla.
Poi, ma questo è un altro capitolo, c’è anche chi dice che lo stesso virus si sia un po’ rincoglionito e contagi di meno. Un fatto del quale manca la pur minima evidenza scientifica, ma al quale credono ciecamente milioni di italiani. Il ragionamento è sempre lo stesso: la natura umana ci porta a credere con più facilità alle tesi che si allineano alle nostre speranze. In pratica: dopo la paura abbiamo tutti bisogno di un’iniezione di fiducia e basta il primo medico di provincia per farci esultare.
Facciamo finta che sia così, anche se resto convinto che serva mantenere alta la guardia per fare in modo che i nuovi, inevitabili, piccoli focolai non diventino per la seconda volt focolai di massa. Certo, per stare un po’ più tranquilli, bisognerebbe anche interdire il presidente della Lombardia, ma questa è un’altra storia.
Facciamo finta che l’epidemia sia davvero alle spalle, dicevo, e proviamo a buttare giù due o tre ragionamenti sulla fase che ci troviamo ad affrontare. Partendo da una domanda, essenziale: è possibile considerare la fase di grande difficoltà del sistema economico come una enorme opportunità per il nostro Paese e non necessariamente come la fine del mondo? Siccome a me questo sistema turbocapitalistico non è mai piaciuto, sarei propenso a sostenere la prima tesi.
Una prima considerazione: saremo anche in una fase di grande crisi, ma avremo, speriamo presto, anche una notevole quantità di risorse a disposizione: fra i vari fondi che l’Unione europea ha messo in campo o si appresta a varare, nei prossimi mesi il Governo si troverà fra le mani una cifra superiore ai 200 miliardi di euro. Se consideriamo che le ultime manovre finanziarie raramente hanno superato i 30, si può capire la portata della sfida che abbiamo di fronte.
La dico brutalmente: abbiamo la concreta possibilità di cambiare tutto. La debolezza del sistema economico fa sì che torni a essere importante la capacità della politica di modellarlo secondo quello che conviene al Paese e non agli imprenditori. Non sono mai stato un sostenitore della tesi di Agnelli che sosteneva un po’ sfacciatamente “ciò che va bene alla Fiat va bene all’Italia”. Direi semmai il contrario: un Paese che funziona, che si rinnova, che punta alla sostenibilità, che ha infrastrutture competitive, va bene anche agli imprenditori.
E allora la prima condizione per ripartire davvero è che lo Stato torni a fare il suo mestiere, ovvero dettare le linee dello sviluppo che ritiene utile ai cittadini. Altro che mani libere per l’economia. Il liberismo sfrenato degli ultimi anni ci porta, in ultima analisi, dritti dritti alle pandemie. Detto questo, il problema è avere un’idea di quello che si vuol fare. Vedremo se nelle prossime settimane, questa eterogenea maggioranza riuscirà a dare un indirizzo preciso alla sua azione. L’idea di Conte di coinvolgere tutti gli attori del sistema politico, economico e sociale per una sorta di stati generali funziona se ci si presenta già con linee di fondo ben delineate, altrimenti diventerà il classico assolto alla diligenza con tanto di distribuzione a pioggia, dove i privilegiati sono sempre quelli in grado di fare la voce più grossa.
Io darei priorità alla cosiddetta rivoluzione green, che deve essere il filo che unisce tutti gli interventi: una sorta di cartina di tornasole, un investimento si fa soltanto se ci porta a fare passi in avanti sulla strada della sostenibilità. Porto come esempio virtuoso proprio uno degli ultimi interventi decisi, il superbonus sulle ristrutturazioni delle abitazioni. Bisognerà aspettare i decreti applicativi (a proposito, quello di scrivere norme chiare e applicabili da subito deve essere uno degli obiettivi principali), ma sembra chiaro che verranno premiati non tanto gli interventi ad alta efficienza energetica, ma quelli che permettono un aumento dell’efficienza energetica: la dico semplice, se hai una casa in classe A++ anche se prendi l’ultimo modello di caldaia perché è più fico, non ti do una lira, se hai una casa in casse G e l’intervento proposto di permette di arrivare alla A, allora sì, ti finanzio.
Non voglio dilungarmi troppo, anche perché qualche cosa sui temi da affrontare (riforme istituzionali e semplificazione) ho già accennato nelle scorse settimane. Credo che però la vera partita sia su chi tiene in mano il pallino. Se questo torna in mano allo Stato che non solo programma lo sviluppo, ma mette mano direttamente nei settori che ritiene strategici, abbiamo davvero la possibilità di avere non soltanto un cambiamento, ma un cambiamento positivo. Se, al contrario, prevarrà la linea di Confidustria (che ha scelto per l’occasione di farsi rappresentare dalla sua parte più conservatrice) per la quale è bene che lo Stato lasci fare l’imprenditore a chi sa farlo, allora resteremo nella situazione melmosa in cui ci troviamo. Anche perché, da noi, tutti questi capitani d’industria coraggiosi e innovativi non ci sono mai stati. Si contano sulla punta delle dita. Il nostro capitalismo è sempre stato coraggioso con i soldi nostri. E di questi soldi ha restituito ben poco. E poi perché la logica non può essere quella del massimo profitto in breve tempo. Perché con questa logica ci siamo ridotti a dover persino elemosinare le mascherine in mezzo mondo. Non conveniva produrle in Italia, dicevano. E, invece, conveniva eccome.
Semplificare va bene, ma con regole chiare e sanzioni certe.
Il pippone del venerdì/143
Dopo i decreti che complessivamente hanno stanziato più di 80 miliardi di euro per sostenere l’economia disastrata da questi mesi di chiusura, il governo pare voler mettere mano con una certa fretta a una lenzuolata di semplificazioni.
E di certo ce n’è davvero bisogno, in un Paese sommerso da leggi, decreti, circolari e via dicendo. Basti pensare al meccanismo usato all’inizio dell’epidemia per accedere alla cassa integrazione: le Regioni esaminano le domande delle imprese, poi le inviano all’Inps, poi vengono girate alle sedi provinciali dell’Inps medesima che danno il via libera definitivo. Se c’è un errore, sia pur minimo, in tutto questo giro di pratiche, si torna alla casella iniziale. Ancor più tortuoso il meccanismo per gli altri aiuti previsti a livello nazionale, che poi si sono intrecciati con gli interventi delle Regioni e dei Comuni in un groviglio di norme che ha generato confusione e ha spesso azzerato l’efficacia degli interventi. Ora, se si fa un provvedimento in emergenza, la principale caratteristica che deve avere è quello di essere rapido. In Italia, molti delle decisioni prese non hanno ancora prodotto alcun effetto.
Ora, uno sano di mente, potrebbe anche sostenere una regola semplice: siccome siamo in emergenza, intanto ti do il contributo, poi faccio i controlli. Sembra facile, ma siccome non siamo in un paese di sani di mente, un principio di questo tipo avrebbe forse scatenato speculazioni di ogni genere.
Se c’è una cosa sicura, però, è che di semplificare una macchina pubblica a dir poco ingessata ne abbiamo davvero bisogno. Fra il dire e il fare, però, non c’è di mezzo un tratto di mare di agevole traversata.
Intanto chiariamoci sul cosa vuol dire semplificare. La destra liberista, da Reagan in poi, ha sempre inteso la semplificazione come eliminazione delle regole pura e semplice. I vecchietti come me ricorderanno, solo per fare un esempio, il disastro prodotto dal presidente-attore con uno dei primi provvedimenti, la famosa deregulation dei cieli. Azzerando, di fatto, il sistema di norme che regolava il settore del trasporto aereo si produsse non tanto un nuovo slancio per le imprese, ma un gran caos e, soprattutto, una drastica riduzione della sicurezza e delle garanzie per i cittadini.
Ecco, allora cominciamo con il dire che semplificare significa l’esatto contrario della deregulation globale che vorrebbe la destra. Vuol dire, al contrario, meno regole, ma chiare e con sanzioni certe.
Semplificare vuol dire, ad esempio, che quel sacrosanto principio che dice “l’amministrazione non può chiederti un documento già in suo possesso” deve diventare effettivo. Faccio un esempio legato alla mia attività professionale. Non so come sia la situazione adesso, ma fino a qualche anno fa registrare una testata al tribunale civile di Roma era impresa da far tremare i polsi. Ricordo che, simpaticamente, chiamavo la dirigente della sezione Nonna Papera, nel senso di una funzionaria che sembra amichevole, ma che quando si intestardisce non ti fa passare neanche una virgola fuori posto o una marca da bollo apposta leggermente al di fuori degli spazi. La dichiarazione antimafia che le aziende devono produrre, ad esempio: dovevi andare in camera di commercio, fare un’autocerficazione e ti davano un pezzo di carta dove risultavi pulito da procedimenti pendenti presso il tribunale sia di carattere penale che amministrativo. Insomma, dovevi presentare al tribunale un documento in cui la Camera di commercio certificava la tua firma su un atto in cui dichiaravi che non avevi problemi con il tribunale. Potrebbe sembrare comico, ma una roba del genere vuol dire almeno una giornata di lavoro persa.
Altro esempio: l’urbanistica. In Italia vuol dire stanzoni pieni di faldoni, leggi che cancellano altre leggi, circolari esplicative che paiono libri di filosofi incomprensibili. Tradotto nella pratica, un esercito di persone che interpreta e studia come fregare la legge. Io non credo, mi limito all’esperienza di Roma, che negli ultimi vent’anni sia stato costruito un solo edificio che rispetti al cento per cento le norme esistenti.
Insomma, ridurre il numero delle leggi è un’altra delle questioni. Meno norme, magari scritte anche in maniera comprensibile e non interpretabile.
La terza riflessione da fare riguarda il personale della pubblica amministrazione. Sempre per esperienza personale, adesso la situazione è più o meno questa. Abbiamo dipendenti con un’età media molto alta, frutto avvelenato degli anni del blocco del famoso turn over, ovvero il mancato ricambio di chi va in pensione. E questo non solo vuol dire una pubblica amministrazione che spesso ha difficoltà persino ad accendere un computer, ma anche dipendenti che sono arrivati alla conclusione della loro carriera, non hanno più ambizioni di miglioramento e il famoso “questo non è di mia competenza” è diventato la regola aurea di tutti gli uffici pubblici. Se all’interno di questo sistema hai un’iniziativa originale diventi una specie di gatto nero da evitare con cura e mettere in quarantena. Non serve meno pubblico, non bisogna ridurre la quantità dei burocrati. Serve che la pubblica amministrazione si apra a una generazione che porti innovazione positiva, una mentalità diversa.
Quarto e ultimo punto: la certezza della pena. Serve un sistema di sanzioni davvero effettivo, che faccia pagare chi froda non fra dieci anni, ma adesso. Da noi succede l’esatto contrario, la frode è certa, la punizione è talmente aleatoria che conviene fare i furbi.
Semplificare, insomma, e la finisco qui, vuol dire rendere la vita più facile ai cittadini, non “fate un po’ come vi pare”. Perché la seconda ipotesi la vita ce la rende più difficile, non migliore.
La fase 2 mi sembra peggio della fase 1.
Il pippone del venerdì/140
Francamente mi sarei aspettato che questa prima riapertura che viviamo ufficialmente da ormai una settimana portasse qualche giornata di sana “leggerezza”. Dico ufficialmente perché in realtà da quando il presidente del Consiglio aveva annunciato i provvedimenti che sarebbero entrati in vigore dal 4 maggio gran parte del popolo italiano ha saltato a piè pari la data e dal giorno dopo era tutto un via vai di persone.
Niente di male, per carità. Stare in casa per quasi due mesi è stato pesante e anche i controlli delle forze dell’ordine si sono gradualmente allentati.
Mi aspettavo però anche un altrettanto graduale allentamento di quella insana sorveglianza social (non è un refuso intendo proprio social, nel senso di sorveglianza che viene applicata attraverso un uso smodato della pubblica denuncia on line) che ci ha afflitto dall’inizio della quarantena. E invece no, cambiano gli obiettivi, perché ampliandosi la platea dei possibili bersagli si è un po’ attenuata la pressione sui proprietari di cani e sui runner, restano i toni apocalittici. Nel mirino adesso ci sono principalmente le famigliole che si permettono di portare i bambini a passeggiare, per giunta senza mascherina. Ci farete tornare tutti in quarantena rigida, dovete stare a casa. Questo il messaggio che gira di chat in chat, di gruppo in gruppo su Facebook. A parte il fatto che se ce ne restiamo tutti in casa non si capisce bene quale sia la differenza con la fase 1. A parte il fatto che su larghe fette (per fortuna) del territorio nazionale la mascherina va portata solo in ambienti chiusi come mezzi di trasporto e negozi. A parte tutto questo, dicevo, viene sempre da chiedersi come sia possibile che un popolo noto in passato per i suoi grandi slanci solidali sia diventato così cattivo e pronto allo schiaffo invece che a tendersi la mano. Per non parlare della facilità con cui si continua a dar credito alle teorie più strampalate.
Certo, c’è una base “sociologica” di questo comportamento. La paura, la tendenza ad aggrapparsi alle possibilità più assurde per allontanare il pensiero e l’immagine della morte, così presente in questo periodo: ci sta tutto. E non è che gli italiani siano un caso unico. Basta pensare che nella patria della tecnologia c’è chi ancora da retta alle teorie strampalate di Trump, per avere un’idea dell’estrema fragilità davvero globale del genere umano.
In Italia, però, ci mettiamo del nostro. Siamo l’unico paese al mondo dove nel pieno di una crisi davvero senza precedenti negli ultimi cento anni, sui giornali ci si diletta a parlare della possibilità di una crisi di governo. Ora, che alcuni ministri siano del tutto inadeguati si sa. Basta pensare alla confusione che causa ad ogni intervista sulla scuola l’ineffabile Azzolina per farsi un’idea. Ma per fortuna, almeno nei ruoli chiave per gestire l’epidemia ci sono politici – e sottolineo politici – preparati e con un altissimo senso delle istituzioni. Merce rara di questi tempi. L’ho già scritto ma vale la pena ripeterlo, basta ricordare che al posto di Conte potremmo avere Salvini per chiudere ogni discussione.
E, invece, no. Si continua di giorno in giorno nell’azione di logoramento continuo. Ecco, se una vera colpa questo governo ce l’ha, è quella di non aver vietato i sondaggi politici almeno fino alla conclusione dell’emergenza. Forse starebbe più tranquilla l’opposizione, farebbe il suo lavoro senza aizzare improbabili folle. Forse starebbe più tranquilla quella parte della maggioranza che ancora in questa settimana continua a cercare soltanto di avere più visibilità, preoccupata di qualche decimo di punto in meno nel potenziale consenso elettorale.
Ora, è solo una battuta, ma per chi come me sostiene da sempre che una classe dirigente non può governare con i sondaggi alla mano è logico pensare che in una grave situazione di crisi l’unico faro dovrebbe essere la Costituzione, dove è scritto chiaramente che la salute è al primo posto.
Ultimo punto, assai impopolare e poi vi lascio a questa calda giornata prefestiva. La burocrazia. Tutti, come al solito a tuonare contro. Senza accorgersi che il problema della gestione dell’emergenza non è la troppa burocrazia, ma l’aver smantellato sostanzialmente l’apparato statale nella foga liberista degli scorsi anni. Ora. Avremo anche procedure farraginose e complicate. Ma questo è dovuto al fatto che si è proceduto alla distruzione dell’apparato, assoggettandolo al potere politico, affidando al privato la gestione di servizi essenziali, distruggendo un sistema che aveva una sua funzionalità con il nulla.
Per questa settimana m fermo qui. E, per favore, se proprio dovete stare in casa, almeno evitate di sputare sentenze su chi sceglie di farsi una passeggiata al sole, a debita distanza gli uni dagli altri. Siete più contagiosi voi del coronavirus.
Il coronavirus ci ha portato oltre la crisi di nervi.
il #pippone del venerdì/131
Ho scelto di aprire questo pippone con l’immagine dei deputati alla Camera (non so chi siano) con le mascherine perché mi sembrano emblematiche di un paese che ormai è andato oltre la crisi di nervi. È il risultato non tanto del coronavirus in sé, ma allo stesso tempo dei guasti provocati da questi anni di diffusione di odio e pregiudizi a pieni mani e di una gestione della crisi che, a essere buoni, lascia perplessi.
Permettetemi, intanto, una nota sarcastica: l’immagine degli italiani respinti alle frontiere fa sorridere. Quella dei vacanzieri rispediti indietro dalle Mauritius anche di più. Fino a poche settimane fa eravamo pronti a bloccare per mesi in mare qualche centinaio di disperati perché “portavano malattie”, ora gli stessi soloni di prima si indignano perché qualche decina di nostri connazionali sono stati fatti risalire in fretta e furia sull’aereo e sono stati rimandati a casa. Perché, appunto “portano malattie”. Ci hanno trattato come pacchi postali, tuonano oggi gli stessi che fino a ieri sostenevano che i porti andavano chiusi.
E’ una specie di legge del contrappasso che dovrebbe farci capire come, soprattutto nell’era della globalizzazione, la solidarietà dovrebbe essere un obbligo. E come chiudere le frontiere sia un’illusione che può andar bene per prendere qualche voto in più, ma alla fine sempre un’illusione resta. Viviamo in un mondo interconnesso, dove se starnutisci in Cina ti prendi il coronavirus a Codogno. Facciamocene una ragione e cerchiamo di essere meno provinciali. Valga come monito per il futuro.
Il coronavirus sfata anche una leggenda: quella dell’Italia che nelle emergenze dà il meglio di sé. In questo caso è avvenuto l’esatto contrario: la drammatizzazione iniziale dell’epidemia ha prodotto un’ondata di panico insensato e dannoso, amplificato ad arte da quei giornali che prima hanno fatto il conteggio in diretta del numero dei contagiati e poi si sono affrettati a dire che in fondo è poco più di un’influenza.
Al corto circuito mediatico ha dato fiato una reazione scomposta da parte di una classe dirigente che si è dimostrata nel suo complesso inadeguata. Chi chiude i musei, chi si rintana in casa, chi chiude le scuole senza avere neanche un caso di contagio, bloccate anche le gite scolastiche all’estero non si capisce bene per quale motivo. La famosa Italia dei mille comuni ha dimostrato la sua fragilità. Si sa, che i sistemi democratici affrontano le crisi con grandi difficoltà rispetto alle dittature. Si studia sui libri di scienza della politica. Ma nelle crisi le grandi democrazie si compattano, lasciano da parte le polemiche e si mettono a lavorare senza guardare alle distinzioni politiche. Da noi ci si divide ancora di più, mostrando tutti i guasti prodotti dal regionalismo di fine secolo. Venti sistemi sanitari non funzionano in tempo di pace, figuriamoci nelle emergenze.
Noi no, insomma. Non si è mai visto un presidente del Consiglio che va a accusare gli operatori sanitari, quelli esposti in prima linea, durante un’emergenza sanitaria. Non si è mai visto un presidente di Regione che prima accetta le misure disposte dal governo e poi fa di testa sua. In piena crisi non abbiamo trovato di meglio che combattere a colpi di ricorsi al Tar.
In tutto questo poco ha potuto un ottimo ministro della Salute come Roberto Speranza, che fin dalla sua presenza fisica si dimostra uno dei pochi ad avere la testa sulle spalle. Ha il fisico del bravo ragazzo, un’aria rassicurante e pacata: due ottimi in gradienti per evitare che si scateni il panico. Ci ha provato, lavorando giorno e notte, ma alla fine, si sa, in questo Paese emerge chi fa la voce grossa, non chi lavora e parla pacatamente.
Ci mancavano gli avvoltoi che si sono avventati sul governo pronti a spartirsene le spoglie. Salvini che si dice pronto a un esecutivo di emergenza nazionale. Renzi che gli dà di spalla, salvo poi andare in tv con la faccia seria (che poi proprio non gli riesce) a dire che adesso si lavora uniti, del futuro della maggioranza si parlerà poi. Poche ore prima si messaggiava con il presidente della Regione Lombardia per esprimergli la sua solidarietà contro Conte.
Nel mezzo del dramma, creato in primo luogo da tutta questa confusione, è arrivato il dietrofront, dicevamo. Qualcuno deve essersi reso conto che un’altra settimana a conteggiare i contagiati e della nostra economia sarebbero rimaste poche briciole. Turismo a Roma a quota meno 90 per cento, solo per dare un dato. I mercati si sono incazzati e allora tutti in televisione a minimizzare, a dire che in fondo si guarisce, muoiono soltanto anziani e persone con altre patologie. Basta lavarsi le mani con il sapone e stare sereni.
Mi è sembrato un po’ come voler rimettere il dentifricio nel tubetto spremuto a fondo. Perché fino a poche ore prima impazzavano i Burioni di turno a dire: tappatevi in casa, disinfettate tutto. E fino a poche ore prima giravano immagini come questa dei due deputati alla Camera con la mascherina.
Contenti di tutto questo solo i produttori di Amuchina e roba del genere. E ora che si fa? Attendiamo l’estate, magari passa da solo. Tanto il campionato di calcio va avanti, prima o poi la gente penserà ad altro. Resto con un forte senso di nausea. Ma non temete, credo sia soltanto una reazione psicosomatica.
Renzi, il nostro mal di testa quotidiano.
Il pippone del venerdì/130
Ho resistito a lungo alla tentazione di parlare dell’attualità politica (se di politica si può parlare), ma alla fine cedo. Anche per rivendicare, ormai alcuni mesi fa, di aver definito l’ex segreterio del Pd un “Bertinotti moderato”. Affermazione che mi ha provocato una marea di critiche dalla presunta sinistra, ma che vedo essere entrata oggi nel lessico quotidiano di molti autorevoli commentatori. Come dire, ogni tanto ci azzecco anche io, fosse pure per sbaglio.
Quello che sta succedendo, torniamo alle cose di oggi, è divertente quanto una sfilza ininterrotta di calci nelle parti basse. E il solo leggere la rassegna stampa ogni mattina – cosa che, purtroppo, mi tocca per doveri d’ufficio – mi provoca un forte giramento delle stesse parti, con conseguente mal di testa che si palesa arrivati a pagina 5 dei principali quotidiani nazionali. Esaurite, cioè, le sfilze infinite di articolesse su retroscena, presunti responsabili che in cambio del mantenimento della poltrona sono disposti a tutto, battute e controbattute.
Ora, tutta questa roba ha l’unico scopo di riempire qualche pagina, tanto, si sa, i quotidiani dopo poche ore sono buoni soltanto a incartare le uova. Se sono online manco per questo nobile utilizzo. Di quello che succede davvero nel Paese, va ribadito, frega poco a quasi tutti. Renzi, in particolare, ha un’unica strategia: Renzi. Cito Bersani, lo confesso, uno che pur con tutte le sue contraddizioni ha una capacità di analisi non comune.
La battuta, di quelle fulminanti, racchiude in sé tutta l’essenza del rignanese, la sua forza e la sua debolezza allo stesso tempo. La sua forza perché all’italiano medio, si sa, il bullo piace. La sua debolezza perché è talmente preso da sé che alla fine si schianta sempre contro un muro che non riesce a vedere.
Entrando nel merito – si fa per dire – Renzi fa due proposte “bomba”, così le hanno definite i giornali: eliminare il reddito di cittadinanza e introdurre il cosiddetto “Sindaco d’Italia”. In pratica propone di sfasciare il governo e di avviare un percorso di revisione costituzionale che a occhio durerebbe un paio di anni. Che le due cose siano in palese contraddizione non gli interessa, vuole soltanto sparigliare le carte. Poco importa che le proposte siano, nel merito, due colossali idiozie.
Intanto, in una situazione di profonda crisi economica – e il coronavirus di certo non aiuterà – tira fuori la brillante idea di togliere qualche miliardo ai disoccupati per darlo ai padroni (si chiamano così, a me tutto sto politically correct dà il voltastomaco). Così si darebbe una forte iniezione di soldi freschi all’economia, sostiene il genio della finanza. Peccato che mancherebbe il mercato a cui rivolgersi, ma mica può risolvere tutto il rignanese, che diamine. Renzi si preoccupa soltanto di infilare un dito nell’occhio, diciamo così, ai grillini che su quel provvedimento hanno battuto da sempre. E che, del resto, segue la strada tracciata dal “Rei”, introdotto proprio dal governo Renzi. Insomma, una cosa di sinistra aveva fatto, ora la vorrebbe togliere soltanto per creare scompiglio. Servirebbe uno dei fratelli Guzzanti in gran forma, ne sentiamo davvero la mancanza.
La seconda ideona, che non c’entra nulla con la prima, è, tradotta in termini comune, l’elezione diretta del premier, al quale si affiderebbe non più un ruolo di primus inter pares all’interno del Consiglio dei ministri, ma diventerebbe un vero e proprio potere a parte. A quali conseguenze porti tutto questo, al lungo lavoro di architettura istituzionale che servirebbe, Renzi non pensa. Lui le riforme le fa in tv. Anche perché anche in questo caso, mica fa sul serio: vuole solo bloccare l’intesa, che i suoi avevano sottoscritto, sulla legge elettorale proporzionale. Perché quello sbarramento al 5 per cento lo taglia automaticamente fuori dal Parlamento. E voi ve lo immaginate un Parlamento senza Renzi? Io francamente sì, lui un po’ meno. L’idea lo terrorizza.
Come andrà a finire? Secondo me male. Perché in tutto ciò il governo resta paralizzato, bloccato da schermaglie parlamentari incomprensibili a tutti, perché il motivo è sempre lo stesso. Logorare l’esecutivo guidato da Conte. Che poi l’abbia fortemente voluto lo stesso Renzi è un particolare irrilevante.
Ma qual è, e mi avvio alla conclusione, non temete, la colpa del povero Conte? E’ semplice: potrebbe occupare lo stesso spazio a cui ambisce l’ex segretario del Pd. Quel centro politico a cui tutti ambiscono, salvo poi ritrovarsi sempre con un pugno di mosche in mano. Terre affollate di gente in cerca di poltrone, meno di elettori, che tendono a polarizzarsi sugli schieramenti maggiori. A Renzi non importa, gli basta di essere al centro dell’attenzione. Alla faccia degli italiani che non arrivano al 15 del mese.
Giggino se n’ è ghiuto e soli ci ha lasciato.
Il #pippone del venerdì/126
Ora, capisco che mi potreste rispondere con un classico “meglio soli che male accompagnati”, ma le dimissioni di Di Maio da “capo” del Movimento cinque stelle sono decisamente la notizia della settimana. Quando ho letto su un giornale online “Di Maio si è dimesso”, titolo secco, ho sperato per un istante che avesse lasciato il ministero degli Esteri. Ho sperato che, per un istante, avesse capito i propri limiti e, smesso il sorriso eternamente stampato in faccia, avesse dichiarato: “Ebbene sì, lo ammetto, di politica estera non capisco un tubo, meglio lasciare questa postazione ad altri, soprattutto vista la situazione internazionale così complessa”.
Manco per niente, con una mossa che potrebbe sembrare infantile lascia la guida del Movimento a 4 giorni dalle elezioni in Emilia-Romagna e in Calabria. Potrebbe sembrare infantile, dicevo, perché potrebbe essere interpretata come la volontà di scaricare la colpa della probabile débâcle dei penta stellati ad altri. Magari c’è anche questo. Secondo me, invece, questo è uno che la sa lunga, viene dalla scuola migliore dei democristiani del ‘900. Deve aver studiato con solerzia la loro storia. Perché io penso che Giggino guardi oltre questo pur importante appuntamento. O meglio, in questi due anni abbiamo imparato a conoscerlo: del destino dell’Italia e degli italiani gli interessa poco. Guarda al suo interesse personale ed è capace di tripli salti mortali all’indietro per difendere la sua poltrona. Se ne abbandona una, quella per cui si ritiene insostituibile, è perché pensa di tornarci più forte e in tempi brevi.
Secondo me, il Di Maio pensiero deve essere stato più o meno questo: fino ad ora sono stato io a prendermi pesci in faccia da tutte le parti, mediando fra le nostre correnti interne, Conte, il Pd, con Renzi sempre in agguato. Sono insostituibile in questo ruolo, ma qua sono tutti insoddisfatti. E allora me ne vado e si scannino pure senza rete di protezione. Vediamo che succede.
Il più preoccupato di tutti pare Conte, che non ha più una sponda. Non dimentichiamoci che quando si è formato il governo rosso-giallo, è stato proprio il presidente del Consiglio a spingere perché i leader del Pd dei Cinquestelle assumessero un ruolo importante, con la responsabilità di dicasteri di primo piano. Pensava che in questo modo il tasso di litigiosità di una maggioranza fatta di acerrimi nemici sarebbe diminuito. Zingaretti non poteva accettare, si sarebbe dovuto dimettere da presidente della Regione Lazio con il rischio – se non la certezza – di lasciare una delle postazioni di governo più importanti a Salvini e soci. Giggino ha subito preteso un dicastero chiave, di cui non sapeva assolutamente nulla.
Comunque sia, e questi mesi lo dimostrano, quelle di Conte erano pie illusioni. Pd e Cinquestelle, che si somigliano più di quanto potrebbe apparire dall’esterno, sono covi di serpi per di più abitati da personaggi che hanno visioni molto differenti tra loro. Sulla mancanza di amalgama dei democratici c’è ampia letteratura, sarebbe il caso di cominciare ad indagare un po’ di più anche sulla natura del movimento fondato da Grillo. Bravissimi a fare l’opposizione, disastrosi quando si tratta di governare. Rompere è più facile e meno faticoso che costruire, si sa. E’ un’affermazione persino banale che però coincide perfettamente con quello che ci ha fatto vedere in questi anni il M5s. Dalle amministrazioni locali al governo nazionale è stato un disastro. E quelli più capaci – vedi Pizzarotti – sono stati accompagnati bruscamente alla porta appena hanno provato a manifestare una certa indipendenza.
Tagliando corto, si tratta di vedere adesso l’effetto che faranno queste dimissioni. Per adesso hanno conquistato le pagine dei giornali che hanno spostato la data in cui tutto si chiarirà dalle elezioni di domenica 26, agli “stati generali” grillini, così loro chiamano il congresso.
In tutto questo fiorire di “date fondamentali”, mi permetto di segnalare che il Governo, a parte qualche diatriba e qualche provvedimento solamente annunciato, è fermo. Paralizzato dall’attesa di vedere cosa succede, prima era la sfida emiliana a rappresentare la linea di confine fra stabilità e rischio di sfasciare tutto, adesso sono i nuovi equilibri in casa grillina. E non è che il mondo resta a guardare: le crisi internazionali ci vedono sempre più spettatori distanti, l’economia va più o meno a rotoli. Soltanto i mercati sembrano dare ancora fiducia al Conte Bis, più che altro timorosi di quello che potrebbe arrivare dopo.
Lo stesso annuncio di Zingaretti di voler rifondare il Pd sembra soltanto l’ennesimo cambio di contenitore della sinistra italiana che quando non sa bene cosa fare annuncia di voler costruire “una casa più grande, in cui nessuno si senta ospite”. Partì qualche decennio fa Occhetto, poi è stato un susseguirsi di “case più grandi” e si è passati dal rappresentare un terzo degli elettori (e anche qualcosa in più) a un quinto scarso.
Qua, dal sottoscala della sinistra, c’è grande confusione e sconforto. Incrociamo le dita per domenica.
Ps: il titolo è una mezza citazione, voglio vedere chi indovina.
Ma dobbiamo per forza dare mazzate ai lavoratori?
Il pippone del venerdì/125
Intanto ben trovati. Probabilmente più che di un pippone, dopo i bagordi natalizi, di capodanno e della Befana, avreste bisogno di una robusta dieta e di qualche corsetta. Me compreso, che me ne sto invece qui davanti al computer, bolso come un cavallo spompato.
Tant’è, accontentatevi di qualche considerazione di inizio anno, tanto per riprendere l’abitudine. Sulla situazione internazionale c’è poco da dire. Anzi ci sarebbe parecchio, a partire dal ruolo sempre più marginale dell’Onu, mai come adesso in balia dei capricci delle grandi potenze e, in particolare, di un Trump che sembra sempre più usare i missili e i droni per far aumentare la sua popolarità in vista delle elezioni. Nelle ultime ore pare che possano prevalere le colombe sui falchi, ma si sente sempre nell’aria odore di polvere da sparo. Sono giorni complicati, nei quali basta un nulla perché alle diplomazie che si muovono in silenzio e lentamente possano sovrapporsi i generali pronti con il dito sul grilletto. Personalmente sento un grande senso di impotenza, come mi successe nelle ore precedenti alla guerra del Golfo. Che fare? Servirebbe la politica, una grande iniziativa europea. E invece assistiamo soltanto alle gaffe di Conte e di un ministro che di Esteri sa ben poco.
Sulla situazione interna italiana, mi pare che siano giorni di attesa. Si aspetta il voto dell’Emilia per capire se davvero questa esperienza un po’ raffazzonata possa costituire il fulcro di una possibile alleanza da contrapporre alla destra. Io credo che non sia sufficiente. Perché il Conte Bis mi pare una fotocopia del Conte Uno. Sono cambiati i programmi, abbiamo recuperato un po’ di credibilità internazionale (ma ci voleva poco), sia a livello politico che sui mercati. Ma resta un difetto di fondo: quando si alleano forze di natura differente si deve cercare una linea comune. Invece, in questi anni, abbiamo assistito a coalizioni che non si sono mai fuse, cercando la via più facile ma meno redditizia in termini di risultati: ognuno punta sui suoi cavalli di battaglia. Il risultato è che manca un progetto, una visione. E questo lo paghiamo tutti i giorni in termini di minore competitività, di decadenza di un Paese che, al contrario, avrebbe bisogno come il pane di seguire una indicazione precisa, di sapere dove si vuole arrivare e muoversi di conseguenza.
Capisco che è chiedere tanto. Ma se davvero si punta al green new deal, servono i provvedimenti necessari, senza titubanze. Non si può, ad esempio, obiettare che gli imballi in plastica li producono in Emilia e dunque va tutto rinviato in attesa delle regionali. Sarà bene che qualcuno dica con chiarezza a quegli imprenditori che sarebbe il caso che producessero altro, semplicemente perché tutta questa plastica ci sta uccidendo.
Gli esempi sarebbero tanti. E ci vorrebbe, non mi stancherò mai di dirlo, una sinistra in grado di rinnovare il suo campo di valori e muoversi di conseguenza. Visto che non è alle porte, mi accontenterei almeno di una sinistra che la finisca di dare mazzate in faccia ai lavoratori.
Lo dico con affetto al segretario del Pd: caro Nicola, non è che per tenere insieme il tuo partito devi per forza continuare a sposare i provvedimenti che hanno portato il partito stesso a un passo dall’irrilevanza elettorale. Perché ostinarsi a difendere il jobs act, che non ha prodotto nulla e ha eliminato diritti fondamentali dei lavoratori e perché ostinarsi a voler eliminare quota 100, che sarà anche una misura parziale, ma ha avuto un riflesso positivo sulle vite di decina di migliaia di persone, quelle – tra l’altro – che a parole consideri il tuo elettorato di riferimento? Credi davvero che diminuire appena un po’ la pressione fiscale sia sufficiente a far respirare i lavoratori dipendenti?
Ho l’impressione che, come troppo spesso è successo nella breve storia del Pd, il feticcio dell’unità a tutti i costi porti a cedimenti inaccettabili, che manchi quella chiarezza di linea politica che è essenziale per tornare a essere un punto di riferimento per i più deboli. Si possono anche perdere le elezioni, ma non si può perdere la propria anima, altrimenti si viene travolti dagli eventi. Il Partito democratico, malgrado tutti i suoi limiti, è ancora oggi, l’unica grande organizzazione di massa che esiste in Italia. Le altre forze politiche sono partiti del leader, legati indissolubilmente al destino del capo. E questo rende tutto il sistema Paese più debole, troppo legato ai sondaggi, troppo attento a creare bisogni e paure fittizi per evitare di dover affrontare i nodi veri che da troppo tempo abbiamo attorno al collo.
Un sistema scolastico che è stato cambiato talmente tante volte da essere ridotto ai minimi termini. L’istruzione da noi è ormai una specie di collage scombinato, in cui gli studenti annaspano e gli insegnanti sono sempre meno motivati. Le infrastrutture cadono a pezzi, letteralmente. L’amministrazione della giustizia cambia a seconda del Tribunale. Se sei a Roma hai meno diritti di chi sta a Milano. Ora sarà anche un problema grandissimo quello della prescrizione, ma sarà forse il caso di investire in strutture più efficienti, dotate di tecnologie adeguate? Quando si entra nel tribunale civile di Roma, non di un paesino ma della Capitale d’Italia, si piomba di botto nel medioevo, tutto si regge sulla buona volontà di cancellieri, avvocati e giudici. Per non parlare della sanità, dove gli squilibri territoriali sono ancora più evidenti. Negli ultimi dieci anni è stata amministrata con lo spirito dei ragionieri. L’unico obiettivo è stato quello di riportare i conti in ordine. Con il risultato che il servizio pubblico sta morendo per asfissia.
Ho indicato solo quattro temi, che secondo me sono però, un po’ la carta di identità con cui un paese si presenta. Del resto non è questo il luogo per scrivere un programma compiuto.
Sarebbe bello però avere finalmente un governo che faccia cose non dico di sinistra, ma almeno diverse dal liberismo sfrenato della destra italiana. Sono soltanto speranze di inizio decennio?
Una manovra economica da Paese normale. Ma basta? Il #pippone del venerdì/117
Al di là dei giudizi di merito, proverò a dire due o tre cose più avanti, la cosa che più balza agli occhi è che dopo i 14 mesi siamo tornati a essere un paese normale. Al di là dei tormentoni giornalistici sui vertici notturni, su presunte liti furibonde e valanghe di emendamenti in arrivo, la manovra economica questo dice. C’è una coalizione fra forze politiche che fino a pochi mesi fa stanziavano stabilmente su sponde opposte. Ma nelle pagine della manovra economica si intravede un disegno collettivo. Chi lo avrebbe detto appena ad agosto che non ci sarebbero stati scontri con l’Europa né piazze dove si annunciano provvedimenti epocali?
Zingaretti dice che “abbiamo fatto un mezzo miracolo”. E forse il miracolo è proprio questo. Essere tornati a essere un Paese normale, dove chi governa si prende le sue responsabilità senza troppa enfasi. E’ solo il primo passo. E bene fa il segretario del Pd a premere sull’acceleratore proponendo che quella che avrebbe dovuto essere un inciampo in una storia diversa diventi un’alleanza strutturale, in grado di competere alle elezioni per vincere. Siamo appena all’inizio, perché pur sempre di forze molto diverse si tratta. E poi resta l’incognita Renzi, che in molti danno come mandante di un altro ribaltone per far cadere Conte subito dopo il voto finale sulla manovra. Restiamo ai fatti. Dovrà cambiare il Pd, dovranno diventare più simili a un partito tradizionale anche i 5 Stelle, se vogliono essere davvero fattore di cambiamento e non una meteora che si brucia nel giro di una tornata elettorale. Servirà, non mi stanco di ripeterlo, una forza nuova della sinistra italiana, che non si può considerare esaurita nel Partito democratico.
Piccoli segnali di questa necessaria evoluzione ci sono. Per quanto riguarda il Pd, la proposta di un nuovo statuto fa i conti con la realtà ed elimina l’automatismo segretario/premier. L’abbiamo importata dai sistemi anglosassoni, ma da noi, con un sistema politico multipolare, non funziona. Piano piano abbandoneranno anche l’illusione della vocazione maggioritaria. Che non si significa rinunciare a crescere, ma capire che si rappresenta un blocco sociale, non l’intero corpo elettorale.
Nei 5 Stelle cominciano a spuntare voci dissonanti. E anche questo è un bene. Perché un partito ha bisogno di discussione, di dissenso. Non può essere semplicemente espressione di un leader, altrimenti dura fin quando il leader stesso resta in auge. La lezione di Forza Italia dovrebbe insegnare qualcosa.
Resta sullo sfondo, al momento, la questione di una nuova forza della sinistra italiana. Che poi è paradossale: in quasi tutte le tornate elettorali a cui abbiamo assistito, regionali o amministrative, sono state presentate liste che, in un modo o nell’altro, provano a proseguire l’esperienza di Leu. Hanno funzionato quando rappresentavano un reale radicamento sociale e non una semplice accozzaglia messa insieme per eleggere qualche rappresentante. Hanno fallito miseramente quando era evidente il contrario. Non si capisce bene perché, avendone a quanto pare tutto il tempo, non si dovrebbe continuare a lavorare in quel senso anche a livello nazionale. Questione, come spesso è accaduto in questi anni, più di piccoli egoismi che di reali differenze.
Qualche notazione sul contenuto della manovra economica. Ci sono più tasse per chi le può pagare, un progetto che va oltre l’anno sulla lotta all’evasione, si comincia a intervenire sul cuneo fiscale premiando i lavoratori e non le aziende. Si parla di investimenti sulle infrastrutture, ci sono forme di tassazione sulle produzioni più inquinanti a partire dagli imballaggi di plastica. Del resto, perché stupirsi? Viviamo in un’economia di mercato e finché le confezioni ecologiche non saranno più convenienti della plastica continueremo a beccarci le fettine confezionate una a una in vaschette e pellicola. Sarà che io sono un nostalgico dei vecchi cartocci in cui una volta ti consegnavano tutta la spesa e anche del vuoto a rendere. Insomma, non mi dispiace, il green new deal non può essere solo uno slogan.
Una manovra che lancia segnali precisi, insomma. Certo, si poteva essere più coraggiosi accelerando su alcuni punti, penso ad esempio l’uso delle carte al posto del contante. Ma già che si introducano sanzioni per i commercianti che non ti fanno usare il bancomat mi pare un grande passo in avanti, in un Paese che da sempre apprezza chi fa comizi sul cambiamento, ma poi fa le barricate anche se cambi un senso unico in una strada di campagna.
C’è un generale processo di semplificazione sulle tasse, ad esempio per quanto riguarda il regime fiscale che riguarda la casa. C’è la prospettiva di ticket sanitari più giusti, che permettano a una platea più ampia di avere garantito il diritto alla salute.
Basterà a rilanciare il nostro Paese? Io credo che più del contenuto delle norme, i mercati, gli investitori, ma più in generale anche i cittadini, guardino alla capacità complessiva di governare che avrà l’esecutivo guidato da Conte. L’economia è anche un fatto psicologico. E così se gli investitori sono attratti sicuramente da un luogo che ha miglior infrastrutture, una giustizia rapida, un contenzioso minore, è anche vero che la nostra propensione a spendere aumenta se abbiamo la percezione che il nostro futuro può essere migliore. Si compra una casa nuova non tanto e non solo perché i mutui sono bassi, ma perché abbiamo la sensazione che il nostro lavoro è stabile e abbiamo la possibilità di migliorare la nostra posizione. Per anni siamo stati bloccati dalla percezione contraria. Per anni siamo stati impegnati a odiare chi aveva meno di noi e contro i più deboli abbiamo scaricato ansie e frustrazioni.
Questo è il grande compito che deve porsi questo governo. Cominciare a cambiare la percezione che i cittadini italiani hanno del loro futuro. Basterà una manovra economica? Sicuramente no, ma qualche passo nella direzione giusta lo abbiamo fatto.
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