I magnifici anni ’80 del capitano smemorato.
Il pippone del venerdì/145
Nei giorni scorsi, aspettando che intervenisse un dirigente politico di cui mi interessava ascoltare il parere e le proposte, mi è capitato di imbattrmi nelle dichiarazioni di Matteo Salvini, detto il capitano, anno di nascita 1973. Ora, sintetizzo e quindi brutalizzo un po’ le sue parole, ma il senso è più o meno questo: l’Italia deve tornare a essere la grande nazione degli anni ’80 del secolo scorso, periodo in cui contava eccome a livello internazionale, cresceva impetuosamente, mica come adesso. Dei giornalisti presenti soltanto il direttore della Stampa, Massimo Giannini, ha provato, in maniera forse po’ blanda, a spiegargli due o tre cosette su quel periodo. Ma il capitano aveva la faccia un po’ scocciata di quelli che hanno già capito tutto e non sopportano le lezioncine.
Permettetemi una considerazione che non c’entra nulla su questo modello di talk show, che va di moda da qualche tempo, in cui i politici e gli imbonitori alla Salvini fanno una sorta di staffetta e non si confrontano mai. A parte che a me piace il confronto diretto e non a distanza. Perché non è attrattiva una trasmissione in cui quello che viene dopo ribatte all’ospite precedente che non ha la possibilità di alcuna replica, non c’è ritmo. Ma il format potrebbe anche essere interessante, perché dà, forse, più la possibilità di argomentare con calma. Solo a una condizione però: che in studio ci siano giornalisti in grado di incalzare l’ospite e non gente accondiscendente. Altrimenti non sono interviste, ma comizi. Suggerirei ai conduttori di studiare le tribune politiche condotte da Jader Jacobelli, a cui, mediamente partecipavano i direttori dei giornali schierati contro il protagonista della trasmissione e non amici indicati dallo stesso con cui, a volte viene anche questo “sospetto”, magari si concordano anche le domande.
Veniamo alla questione anni ’80. Ora Salvini aveva 7 anni nel 1980, io cinque in più, ma al contrario del capitano qualche libro l’ho frequentato e lo aggiungo ai ricordi personali. Quelli sono stati gli anni dell’inflazione in doppia cifra, del referendum sulla scala mobile, che abolì definitivamente il meccanismo di adeguamento automatico dei salari al costo della vita. Sono stati gli anni dei mutui con tassi che spesso sfioravano il 20 per cento. Salvini magari ricorda i cartoni animati di Mila e Shiro, le prime cotte adolescenziali, la disco-music, il periodo del ginnasio trascorso evidentemente con scarso profitto. Quelli con qualche anno in più sulle spalle ricordano la svalutazione continua della lira, che ci ha portato non soltanto a dover pagare i debiti di quel periodo in cui abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, ma anche a una bolletta energetica che di giorno in giorno saliva alle stelle. Si faceva il pieno di benzina alla macchina perché dopo qualche ora il prezzo dell’oro nero sarebbe salito ancora di più. Ricordano i mutui in Ecu (per i più giovani: una sorta di predecessore virtuale dell’euro) che proprio grazie alla svalutazione continua della lira portarono sul lastrico centinaia di migliaia di famiglie. Ricordano anche la svendita del patrimonio pubblico, le aziende di proprietà dello Stato regalate ai capitalisti “d’assalto” nostrani, l’Alfa Romeo che passa alla Fiat per un tozzo di pane, solo per fare uno degli esempi più clamorosi. Ora, forse in quegli anni lo Stato metteva anche troppo le mani sull’economia, ma controllava i settori strategici, si poteva fare una politica industriale: il polo siderurgico, quello chimico, le telecomunicazioni. Gioielli svenduti ben al di sotto del loro valore per aiutare le solite potenti famiglie italiane. Tutto svanito grazie alla sbornia liberista che proprio negli anni ’80 del nostro capitano nostalgico cominciava a gettare le basi del futuro disastro. Che poi, va ricordato, le famose grandi famiglie italiane quel capitale immenso lo hanno usato per fare cassa. Il risultato è che adesso quei settori strategici sono controllati da grandi multinazionali.
Sì, dice Salvini, ma l’Italia era forte e aveva un grande prestigio internazionale. Su una cosa concordo con lui: di sicuro la classe politica di allora aveva un’altra autorevolezza, lui al massimo avrebbe fatto il segretario di una sezione locale di un partito della destra. Ma fu anche una classe politica miope, che ha caricato di debiti i nostri nipoti. Saranno stati anche autorevoli ma hanno sbagliato quasi tutto. Del 1985, tanto per fare un altro esempio, è stato il primo condono edilizio, con talmente tante domande che gli uffici comunali le stanno ancora esaminando. Certo, venivamo dagli anni del cosiddetto abusivismo di necessità. Quelli in cui i poveracci si tiravano su da soli la casetta in borgata. Ma c’era anche la grande speculazione. E comunque la soluzione non era certo quella di monetizzare gli abusi, legalizzando cementificazioni assurde. Paghiamo ancora anche il prezzo di quelle scelte, in termini di dissesto idrogeologico, di quartieri senza logica né servizi, dove le strade girano intorno alle case messe qua e là a caso e le fogne sono arrivate, non sempre, decenni dopo.
Sarebbe il caso, insomma, che tutti parlassimo di cose che conosciamo, ma mi rendo conto che anche questo è davvero un obiettivo troppo ambizioso. Certo, l’operazione che prova il capitano, in grande difficoltà in questo periodo, è chiara: punta sulla nostalgia di un tempo in cui, un po’ ciecamente, molti si illudevano che il progresso ci avrebbe, alla fine, fatto stare tutti meglio. Quell’illusione, però, l’abbiamo caricata sulle spalle delle generazioni future. Fa comodo contrapporre la nostalgia della lira all’euro cattivo. I bei tempi in cui giravamo con le banconotone fieramente italiche nel portafoglio. I bei tempi in cui alle brutte si stampavano più soldi. Peccato che quei soldi valevano ogni giorno di meno. E dopo gli anni ’80 è partito lo smantellamento del sistema pensionistico, dello stato sociale, del servizio sanitario pubblico. Insomma una sbornia che alla fine ha pesato sulle condizioni di vita dei più deboli. Peccato che a Salvini gli effetti di quella o di altre ubriacature non sembrano ancora passati.
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