Il centrosinistra è morto il 4 marzo.
Il pippone del venerdì/69
Io credo che qualsiasi persona sana di mente dovrebbe arrivare facilmente a questa conclusione: il voto del 4 marzo ha sancito la morte del centrosinistra come lo abbiamo conosciuto dagli anni ’90 in poi. Tutte le forze che, in un modo o nell’altro, possono essere racchiuse in questo campo superano a stento i 9 milioni di voti. Il Pd, ovvero quella formazione politica che addirittura ha rappresentato il tentativo di racchiudere la galassia di centrosinistra in un solo partito supera a stento i 6 milioni di voti. Credo sia facile capire che la somma degli elettori di sinistra che ha preferito l’astensione o ha votato i 5 stelle sia più numerosa.
Non è la sconfitta di Renzi (da un lato) o di Grasso (dall’altro). E’ la fine di una stagione politica durata 30 anni. Riproporla in forme più o meno nuove, parlare della necessità di superamento delle attuali aggregazioni per riassemblarle secondo schemi conosciuti potrà anche sembrare rassicurante, ma significa non aver capito la lezione fondamentale che ci hanno dato gli elettori. In questa stagione non c’è stata una fase positiva seguita a una negativa. E’ stato un lento scivolamento verso l’irrilevanza attuale. Abbiamo fatto da sponda a tutte le tendenze peggiori. E così abbiamo accompagnato lo smantellamento dei partiti, dei corpi intermedi, la destrutturazione del mercato del lavoro. Abbiamo inseguito Bossi sul federalismo, Berlusconi sulla comunicazione, i 5 stelle sull’attacco alle istituzioni. Certo poi Renzi e il Pd hanno dato il colpo di grazia, impresso un’accelerazione decisa verso la disfatta. Questi anni hanno senza dubbio rappresentato il culmine di quel leaderismo senza partiti che però il Pd, fin dal suo statuto in cui si confonde il plebiscito con la partecipazione, aveva ben iscritto nel suo Dna.
Stabilito questo, dovremmo anche avere ben chiaro che da un lato non si può tornare indietro riproponendo all’infinito riedizioni dell’Ulivo (badate bene: non basta un nome nuovo se la zuppa è sempre la stessa), del partito dei sindaci, oppure appellandosi al “fare” contornato da un civismo finto e stanco, soprattutto se non si capisce neanche bene cosa dovremmo fare, ma dall’altro non si può neanche continuare a inseguire l’avversario sul suo campo. Non vorrei che dopo la sinistra neoliberista ci avventurassimo sulla strada scoscesa della sinistra sovranista. I sintomi ci sono tutti. Taluni provano addirittura a tirare in ballo il patriottismo di Togliatti quando basterebbe far mente locale per ricordare in quale situazione ci trovassimo allora. Che poi qualcuno mi dovrebbe anche spiegare quale sarebbe questa famosa identità nazionale italiana da difendere, visto che siamo un popolo frutto di una storia di contaminazioni. La stessa posizione geografica italiana ci dovrebbe suggerire quanto meno un po’ di cautela prima di avventurarci in dotte dissertazioni su questi temi.
Né basta stare lì mangiare i famosi popcorn evocati dal fiorentino, facendo il tifo un giorno per lo spread, l’altro per Macron e la Merkel. Ai teorici di questa tattica suicida vorrei solo rivolgere una domanda: ma una volta finiti sotto il fuoco incrociato dei mercati e ripiombati nell’ennesima crisi, che pensate che gli italiani daranno fiducia a chi faceva il tifo contro di loro?
Ribadisco la premessa iniziale, a me sembra che questi ragionamenti siano talmente semplici e confortati da evidenze talmente lampanti che non ci si dovrebbe neanche perdere tempo. Dal 5 marzo avremmo dovuto far partire un grande lavoro di ricerca e di costruzione. In questi mesi – non da solo – mi sono sgolato su questo e non ci torno più. Se non proprio dal 5 marzo, magari un mesetto dopo. E invece, mese dopo mese, mi pare che ognuno si stia rinchiudendo a casa sua. Quasi che i nostri leader fossero obbligati a ripercorrere sempre le stesse strade rifacendo sempre gli stessi errori. Basta pensare al dibattito (c’è è sotterraneo e riguarda pochi eletti, ma c’è) che continua a martoriare quello che rimane di Liberi e Uguali. Da un lato c’è chi sente fortissima l’attrazione del “ritorno a casa”, favorito dalla scesa in campo di Nicola Zingaretti nel Pd, dall’altro chi dice: facciamo pure un partito, ma lavoriamo da subito per una lista di sinistra insieme alle altre forze “radicali” per le elezioni europee. Insomma l’alternativa sarebbe fra tornare (di fatto) nel Pd, costruendo magari una lista civetta che faccia da ponte all’operazione, e mettere insieme l’ennesima lista raccogliticcia, in cui si parte dicendo che va fatta dal basso e poi alla fine decidono i soliti quattro chiusi nelle solite stanzette.
L’ho un po’ semplificato, ma il senso è questo. D’altro canto non possiamo neanche permetterci il disimpegno in attesa nell’arrivo di un quale Godot. Non ne arriveranno e anche nel caso in cui trovassimo il più capace del leader non avremmo fatto alcun passo in avanti nella soluzione del problema. E allora torniamo appunto al problema: ovvero la necessità di avere una forza politica organizzata della sinistra in Italia. Esiste in tutto il mondo non si capisce bene per quale maledizione noi non possiamo averla. Io continuo ad essere convinto che la ricetta sia una sorta di “ritorno in avanti”. Ovvero ripartire dai valori tradizionali della sinistra calandoli nella realtà di oggi. Farli vivere con azioni concrete, ricreando una comunità solidale sulla quale costruire una classe dirigente da presentare agli elettori. Una classe dirigente che si deve (ri)formare nella lotta, nell’iniziativa e nel confronto politico non nei salotti né tantomeno all’ombra di qualche leader. Quella attuale non va. I vecchi sono usurati dalle sconfitte, non si può cambiare il copione senza interpreti nuovi. E i giovani sembrano intronati, non ci sono proprio abituati a essere protagonisti, sono figli della stagione delle batterie di allevamento di polli tutti uguali. E di signorsì non ne abbiamo bisogno.
E poi sarà anche vero che la società è cambiata, i tempi sono frenetici, si discute solo sui social. Ma io credo che i nostri valori siano sempre non solo attuali, ma – e forse a maggior ragione – rivoluzionari. Tutto sta nell’abbandonare la subalternità che ci ha caratterizzato negli ultimi 30 anni e tornare a pensare, a essere popolari e non populisti. In una sola espressione, torniamo a fare la sinistra. Anche così non sarebbe lavoro di un giorno. Perché sono più facili e rassicuranti gli slogan di un Salvini, che promette panem et circenses per tutti. Ma del resto noi non eravamo quelli che “veniamo da lontano e andiamo lontano”? Tutto sta nel rimettersi in cammino senza paura. Magari ripartendo dal confronto con i Cinque stelle, lavorando sulle loro contraddizioni che stanno man mano emergendo. Non si può, del resto far finta di nulla. Un bel pezzo del nostro elettorato sta lì, facciamocene una ragione.
Un voto senza turarsi il naso. Come sempre.
Il pippone del venerdì/45
Ho sempre trovato di cattivo gusto l’invito ad andare a votare turandosi il naso. La considero una mancanza di rispetto verso la libertà democratica per eccellenza, quella di scegliere i propri rappresentanti nelle istituzioni. Cosa vuol dire turarsi il naso? Che il voto ha un odore nauseabondo? Che la lista sulla quale fare la croce puzza?
Ora, io sono uno che ha il naso molto sensibile ai cattivi odori, per cui mi dà fastidio anche la semplice idea. Detto però dal segretario di un partito a proposito della sua stessa lista, come è avvenuto nei giorni scorsi, sembra addirittura un paradosso. Soprattutto se si pensa che il segretario in questione, Matteo Renzi, quel partito lo ha modellato a sua immagine e somiglianza, con una vera e propria pulizia etnica delle minoranze. E’ come se uno dicesse: mi faccio schifo anche da solo, ma votatemi. L’invito a scegliere il meno peggio fatto addirittura dall’attore protagonista della commedia. Io non ci ho mai creduto, figuriamoci adesso. Certo, a volte il partito che ho votato, il candidato che ho scelto nel caso di elezione diretta del sindaco o del presidente della Regione, non coincideva alla perfezione con le mie idee. Ci mancherebbe altro.
Però, nella mia ormai considerevole esperienza da elettore, ha sempre votato con convinzione, scegliendo un progetto al quale affidare quella che, lo ripeto, è una delle mie facoltà a cui tengo di più. Il voto. Per me la mattina delle elezioni ha sempre un sapore particolare. Mi preparo la tessera elettorale dalla sera prima, sveglia presto. E sono nervoso fino a quando non sono dentro il seggio con la scheda in mano. I comunisti votano la mattina all’alba, si diceva un tempo, perché poi non si sa mai cosa può succedere. E ancora adesso che i comunisti non ci sono più (o almeno non ci sono sulla scheda), basta andare in qualsiasi seggio durante lo spoglio per confermare che i voti della sinistra stanno sempre sotto, sul fondo dell’urna, perché i nostri elettori sono i primi ad arrivare. E questo gesto di andare a votare la mattina presto è un po’ la rappresentazione concreta dell’importanza che noi diamo al voto alle elezioni. Di quanto teniamo all’esercizio di questo diritto democratico.
Ecco perché quella pronunciata da Renzi non è solo una delle tante frasi infelici che ho sentito in questa campagna elettorale, rappresenta una rottura (l’ennesima) con il sentire comune di quello che dovrebbe essere, lo era almeno fino a cinque anni fa, il suo popolo, il popolo del Pd. Mi chiedo se nelle urne, quando i presidenti dei seggi apriranno gli scatoloni, le schede democratiche saranno ancora in fondo oppure questa volta galleggeranno in cima, ultima testimonianza dell’avvenuta mutazione di quel progetto fallito.
Ma bando alle malinconie da fine impero e veniamo a noi. Arrivati ormai a dieci giorni dal voto la nostra campagna elettorale procede. Fra alti e bassi, ignorati dai giornali, con pochissimi mezzi a disposizione. Siamo molto social, stiamo nelle piazze, nelle città. Con pazienza, casa per casa, lentamente e in ritardo, Ma ci siamo. Avverto molto, in questi giorni, quello che ritengo il punto più debole della nostra proposta politica, il non essere un partito. Strutturato, pesante direi, usando un termine a cui si è attribuita una ingiusta valenza negativa. Avverto la difficoltà del fare politica senza sedi, con le case dei compagni adibite a magazzini provvisori di volantini e manifesti. Con gli appuntamenti dati al bar, le bandiere passate di mano in mano. Dalla sezione alla chat di whatsapp, per dirla in poche parole. Non so se il modello organizzativo funziona meglio. Di certo non si riesce a costruire quel senso di comunità che caratterizzava i partiti di un tempo.
Perdonatemi la nostalgia, ma in questi momenti, noi ormai sulla strada della vecchiaia tendiamo a essere nostalgici. E io ricordo gli anni del liceo e dell’università, il mio circolo della Fgci, la sezione di Garbatella, Ia mitica Villetta. I compagni più grandi (non ci saremmo mai permessi di chiamarli anziani) che ci proteggevano come fossimo il loro bene più prezioso. E forse lo eravamo davvero, rappresentavamo il loro futuro. E allora qualsiasi cosa ti servisse c’era il compagno che ti dava una mano. Serviva un dottore, si andava dal compagno medico. Perdita nel tubo? C’era il compagno idraulico. C’era un compagno per tutto. Magari non è che risparmiavi, ma era una garanzia di serietà. E rappresentava quell’essere comunità che è la cosa più grave che abbiamo perso.
Per cui, ridotti un po’ alla stregua di barboni della politica, in strada dalla mattina alla sera senza avere più una “casa” a cui fare riferimento, ripensare a tutto il patrimonio, materiale e di passione, che abbiamo dissipato in questi anni fa davvero rabbia. E questo è solo l’aspetto più evidente delle nostre difficoltà in questa campagna elettorale. Quello più sottile, ma anche più preoccupante, è la mancanza di credibilità politica che deriva dal nostro essere una simpatica accozzaglia, uso il termine in senso scaramantico. I cittadini sono meno disposti a darti fiducia se non sei chiaro sulle prospettive che gli offri. E il nostro essere una coalizione e non un partito non fa chiarezza proprio sulle prospettive. Per di più ci rivolgiamo a un popolo che aveva riposto grandissime speranze nel progetto del Partito democratico e adesso è profondamente scottato dal suo fallimento ormai conclamato. Quando ti bruci prima di rimettere la mano vicino al fuoco ci pensi bene.
Questo è un nostro elemento di debolezza, l’ho sempre detto fin dall’inizio. Per questo fa benissimo Pietro Grasso a ripetere tutti i giorni che Liberi e Uguali non finisce il 5 marzo, che siamo il nucleo di quello che dopo le elezioni diventerà il partito della sinistra. Fa bene perché indichiamo, ammettendo i nostri ritardi accumulati in questi anni, una prospettiva precisa facendo intravedere quell’unità, quella solidità che i nostri elettori ci chiedono. Lasciamo la porta aperta, perché non possiamo arrenderci a perdere sia i compagni che ancora stanno nel Pd, sia quelli con cui il filo di una discussione comune si è momentaneamente interrotto e hanno scelto di dare vita a Potere al popolo. Ma diciamo chiaramente che dal 5 marzo, possibilmente fin dal mattino, lavoreremo per aprire il cantiere del nuovo partito. E poco male allora se prenderemo più o meno voti di quello che ci aspettiamo. Queste elezioni sono soltanto l’inizio della storia.
E bene fa anche il capogruppo Laforgia a andare ancora oltre: indichiamo fin d’ora la data del congresso costituente. Un gesto simbolico, senza dubbio. Ma in campagna elettorale servono anche i gesti simbolici, oltre ai programmi. Non capisco la reazione fredda di alcuni. Sui giornali leggo della “paura di essere fagocitati dagli ex Pd”. Questa rappresentazione degli ex Pd (sempre che si possano definire come una categoria politica) come degli orchi pronti a succhiare le ossa dei bravi compagni della sinistra cosiddetta radicale un po’ mi irrita. Ma poi si va avanti. Io sono uno sicuro del fatto che questa sia la strada giusta. E quindi credo che sia giusto rispettare i tempi di tutti. Senza forzature. Ma sono queste proposte, sono le idee di Grasso e Laforgia che mi fanno andare verso le urne, non solo senza turarmi il naso, ma con fiducia e convinzione. Il 4 marzo, farò tre croci sul simbolo rosso di Liberi e Uguali, una per scheda non vi preoccupate non sono impazzito. E le faccio belle robuste e visibili. Non si sa mai, magari un presidente di seggio miope…
L’unico voto utile per la sinistra.
Il pippone del venerdì/42
Prima di cominciare questo mese che ci porterà alle elezioni è bene fare chiarezza sul “voto utile”. Perché questo sarà il leit-motiv che ci accompagnerà fino al 4 marzo. Non c’è solo il richiamo diretto, gli appelli dei padri nobili, quello di Prodi è solo il primo, saremo subissati di dichiarazioni simili. Basta pensare ai giornali di questi giorni, in cui tutta l’attenzione è dedicata agli scontri sui collegi. Paginate su paginate con fotine dei candidati e sondaggi a dir poco campati per aria. Tutto per creare un finto allarme sulla destra che sarebbe molto vicina alla maggioranza assoluta ma che ancora non ci arriva perché una cinquantina di seggi all’uninominale sarebbero in bilico. E allora ecco una sorta di richiamo subliminale, una chiamata alle armi contro i populisti. Se ci facciamo chiudere in questo recinto rischiamo sul serio di farci del male.
E allora proviamo a rimettere in ordine le cose. Partiamo da Liberi e Uguali. Siamo partiti bene, con le due assemblee nazionali, un clima di grande attesa, molta partecipazione, fiducia. Poi sono arrivate le spine, la questione delle alleanze sulle regionali di Lombardia e Lazio, la questione delle liste, con discussioni abbastanza consuete, ma amplificate dal fatto di non essere un partito ma – al momento – una mera aggregazione elettorale, una sorta di associazione temporanea di imprese in cui ognuno tende a salvaguardare la sua componente. E’ stato, per dirla in tutta sincerità, un mese in cui buona parte dell’entusiasmo iniziale si è spento, soffocato dalle polemiche e dalle discussioni sui candidati. In molti territori si sono aperte ferite, alcune scelte sono apparse troppo “conservative”, tese esclusivamente a salvaguardare unicamente i parlamentari uscenti. Si poteva fare meglio, senza dubbio. Ma dobbiamo tener conto anche di una legge che, di fatto, non permette alcuna competizione reale. Tutto è affidato alle scelte effettuate dai partiti, i candidati non hanno alcuna possibilità di competere realmente. Non ci sono le preferenze nella parte proporzionale, i collegi uninominali sono così grandi che difficilmente un candidato può incidere sul risultato, con le poche eccezioni, forse, di persone talmente note da rappresentare veramente un valore aggiunto. Un meccanismo infernale nel quale una formazione politica appena nata e di natura essenzialmente parlamentare come Liberi e Uguali rischiava di lasciarci le penne.
Siamo ancora in piedi. Con tutte le ferite del caso, ma siamo ancora in piedi. E abbiamo questo mese in cui non solo dobbiamo resistere ai richiami vari, ma dobbiamo rilanciare il nostro messaggio per tornare a crescere e arrivare a un risultato che ci permetta non solo di riportare una pattuglia della sinistra in parlamento e nei consigli regionali, ma anche di incidere realmente sulle scelte politiche che saranno prese nei prossimi cinque anni. Io credo che per farlo dobbiamo uscire dalla trappola del voto utile e delle sfide nei collegi. Come farlo? Provo a dire come la penso.
Intanto la definizione di voto utile. Tutte le preferenze espresse a formazione politiche che andranno a eleggere anche un solo deputato sono utili. Quindi tutti i voti dati a liste che supereranno il 3 per cento. Dunque: Forza Italia, FdI, Lega, 5 stelle, Pd, Leu. Le altre liste sono specchietti per le allodole. Servono soltanto a portare qualche decimale in più ai partiti che eleggeranno davvero deputati, grazie al meccanismo infernale previsto dalla legge: se non superi lo sbarramento i tuoi voti vengono comunque attribuiti alle altre forze con le quali sei coalizzato se hai preso più dell’uno per cento. Ecco spiegato l’accanimento del Pd nel cercare alleanze con cespuglietti apparentemente insignificanti. Oppure, nel caso delle liste che vanno da sole, servono soltanto a indebolire gli schieramenti più vicini. Liste come Forza Nuova, solo per fare un esempio, tolgono decimali alla destra, ma non arriveranno al 3 per cento.
Dunque il voto a Liberi e Uguali ha di per sé una sua utilità, non è un voto “disperso”. Perché la somma di questi voti avrà una sua rappresentanza parlamentare. Non fatevi ingannare dalle paginate sulle sfide nei collegi uninominali dove LeU non appare quasi mai. Solo un terzo dei parlamentari viene eletto con questo metodo, il resto, la grande maggioranza dei seggi, sono stabiliti in maniera perfettamente proporzionale. E questo, appunto, vale per tutti i partiti che supereranno il 3 per cento.
Resta l’altro mito da sfatare, cioè, per dirla con le parole di Casini che un “voto a LeU è un voto dato alla lega di Salvini”. Ora, intanto bisognerebbe ricordare al neo renziano Casini che lui con la Lega ci ha governato fino all’altro ieri e quindi non è titolato a parlare di sinistra e manco di centro-sinistra, ma questo mito del voto utile per evitare un governo di destra non sta in piedi. Non sta in piedi per una ragione essenzialmente matematica. E va ricordata anche a Renzi, un altro che ripete il mantra del voto utile contro LeU. Grazie alle politiche di questi anni, la partita a queste elezioni si gioca essenzialmente fra centro-destra e Movimento cinque stelle. Tutti gli altri sono staccati. Sono molto staccati. I mass media possono provare a far finta di credere che ci sia una qualche contesa in cui Renzi e la coalizioncina bonsai messa su per mascherare l’isolamento del Pd possano realmente competere. Basta fare un giro in strada per capire che non è così. Che, per le ragioni di cui abbiamo discusso ampiamente nei mesi scorsi, c’è un vero sentimento popolare contro il Pd, a favore delle destre e dei cinque stelle.
Sono due gli elementi ancora realmente aperti in questa tornata elettorale. Il primo è la dimensione della vittoria della destra, se potrà cioè esprimere una maggioranza autosufficiente in Parlamento. Il secondo, qualora questo non avvenisse è la somma dei voti fra Forza Italia e Partito democratico. Potrebbe sembrare la classica somma fra mele e pere che non può dare alcun risultato. Ma non è così: da Macron alla Merkel, il risultato che tutti si auspicano nelle alte sfere della borghesia europea è proprio questo. Un governo di larghe intese fra Berlusconi e Renzi, con l’esclusione dell’ala cosiddetta populista, da Salvini a Grillo. Le burocrazie Ue questo vogliono per anestetizzare ancora una volta il nostro Paese.
E allora è evidente come il voto a Liberi e Uguali è l’unico voto davvero utile per chi si definisce di sinistra. Perché solo riportando a votare un forte numero di astensionisti e solo con una forte affermazione si possono evitare sia la vittoria della destra che la grande coalizione marmellata alla tedesca. Solo con una forte presenza parlamentare di LeU possiamo mettere un puntello alla prossima legislatura. Altrimenti, con buona pace della parte sinistra ancora rimasta nel Pd, nascerà “finalmente” quel partito della nazione a cui si sta lavorando da anni. Non sarà a guida Renzi, non sarà a guida Berlusconi, troveranno un personaggio meno vulcanico, in grado di rassicurare banchieri e mercati finanziari. Magari quel Calenda, che tanto successo riscuote negli ultimi tempi.
Un ulteriore tassello per completare il quadro sono state le liste democratiche, dove le minoranze sono state decimate, gli uomini più autorevoli emarginati. Vana è la speranza di chi spera di aprire la strada della rivincita contro Renzi a partire dalla sconfitta elettorale. Come davvero curiosa è la posizione dei quadri delusi del Pd che minacciano di votare la lista della Bonino per “dare un segnale” al partito. Per dare questo benedetto segnale, non a Renzi, ma all’Italia, la strada è obbligata: se si vuole rafforzare la sinistra si vota la sinistra. Non certo una forza ultraliberista il cui programma essenziale è andare oltre le richieste dei potentati europei, con misure quali il blocco dei livelli di spesa nei prossimi cinque anni che porterebbero questo Paese a una nuova stagione di recessione. A me non piace una società dove il tuo datore di lavoro controlla i tuoi movimenti con un braccialetto elettronico. Per questo va ricostruita una forza che rappresenti i lavoratori. In Italia come in Europa. Il 4 marzo è solo il primo appuntamento. Importante.
E allora un ultimo appello, prima che la campagna elettorale cominci davvero: guardiamoci in faccia, scarpe comode e maciniamo chilometri. Sciogliamo il nostro “io” in un “noi” collettivo. Bandiera rossa in spalla, volantini in mano. Eppur bisogna andar.
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