Ripensare il Paese, non solo l’organizzazione.
Il pippone del venerdì/137
Questo periodo di assoluta emergenza ha messo in rilievo due dati: il primo è sicuramente la grande fragilità sociale che anni di politiche neoliberiste hanno generato, il secondo è l’assoluta inadeguatezza del nostro sistema istituzionale e produttivo.
La fragilità sociale è evidente, rivendico di averlo scritto e ripetuto fino alla noia negli anni scorsi. E i consensi alla Lega, che si sono moltiplicati nell’arco di pochi mesi fino a trasformare un movimento tutto sommato marginale nell’attore principale della politica italiana, non sono la causa, sono l’effetto. E’ vero che il periodo di Salvini ministro dell’Interno è stato devastante, ma non ha causato il disagio sociale, lo ha cavalcato e moltiplicato, facendone un metodo scientifico per governare un popolo impaurito. Le radici di tutto questo vanno cercate nelle politiche degli ultimi venti anni che hanno fatto piazza pulita del sistema solidale, il cosiddetto welfare state, ovvero quel complesso di interventi che cercava di rendere meno diseguale l’Italia. Il servizio sanitario universale, in primo luogo, ma anche gli ammortizzatori sociali, la cooperazione, l’associazionismo.
E’ venuto meno, per dirla in termini novecenteschi, quel “fine sociale” dello Stato che aveva rappresentato, dal dopoguerra alla fine del secolo, il vero trait d’union che legava i partiti democratici. Al di là delle differenti posizioni, degli scontri, questo è stato il vero segno distintivo della Repubblica (non dico la prima, perché queste schematizzazioni mi danno l’orticaria). Tant’è che l’ultimo vero piano casa – nel senso di realizzazione di alloggi popolari – porta il nome di un moderato come Fanfani, non di un esponente della sinistra.
Rotto questo vincolo, si è pensato soltanto a come agevolare il mercato. Ad eliminare via via tutte le norme che cercavano di moderare la competizione fra cittadini prima che fra aziende, con il risultato finale di renderla non tanto più libera ma più violenta. Da qui nasce l’odio sociale, la necessità di trovare un nemico, uno che sta peggio di noi, per scaricare la propria frustrazione.
Come si possa uscire da questo crescendo non è un problema di immediata soluzione. Di certo con questa quarantena, confinati ognuno nel proprio egoismo, abbiamo raggiunto un picco finora inesplorato. Si è arrivati ad additare come untori i genitori che fanno fare due passi ai figli intorno a casa. Sui social si trovano discussioni assurde, cariche di una rabbia cieca che aspetta soltanto l’occasione per diventare violenza. Non scoppia soltanto perché siamo confinati dentro casa. Consiglio psicologi obbligatori insieme alle mascherine prima di avviare la famosa fase 2.
Bisogna ricominciare a fare cultura nei quartieri, serve una nuova presenza delle forze democratiche, un lavoro casa per casa. Vanno ripensate le forme di associazionismo e di volontariato. E’ il lavoro di anni, speriamo che almeno si cominci e di fare in tempo.
Il secondo punto da mettere in evidenza, che è un po’ la rappresentazione del primo sul piano istituzionale e produttivo, è che la nostra architettura organizzativa non funziona. Con la riforma della Costituzione che ha, di fatto, creato un sistema istituzionale che ha il suo fulcro nelle Regioni abbiamo posto le basi per un sistema più ingiusto, paradossalmente più lontano dai cittadini. La somma dell’attribuzione di ampi poteri, basta pensare alla Sanità, con un sistema di governo basato sull’elezione diretta del presidente, ha creato dei mostri, fonti di sprechi e non di maggiore efficienza, un moltiplicatore di diseguaglianze. Ogni Regione ha un suo sistema sanitario diverso dall’altro. E i risultati si vedono. Non è un caso, né tanto meno sfortuna, che il disastro nasca in Lombardia dove è stato smantellato il fronte territoriale, i medici di famiglia, per puntare tutto sugli ospedali, per i più privati. Tutti parlano di mancanza di posti di terapia intensiva quando, guardando i dati a livello nazionale, non sono mai stati occupati oltre il 60 per cento del totale. Quello che è mancata è una rete territoriale in grado di diagnosticare per tempo la malattia ed evitare così che sia necessario il ricovero in ospedale.
Oltre a questo va messo in evidenza come l’aver ridotto la presenza dello Stato nell’economia ci porta a essere in balia del mercato e se questo genera squilibri in tempo di pace, in caso di emergenza diventa un disastro. Non si sa chi può produrre cosa. E se l’emergenza è mondiale diventa impossibile perfino garantire l’approvvigionamento di un prodotto elementare come le mascherine o, cosa ancora più grave, i reagenti per avere i risultati degli ormai famosi tamponi, l’unica analisi in grado di rilevare il virus. Avevamo un grandissimo polo chimico di proprietà pubblica, ricordate?
Non si tratta di tornare allo Stato che produce i panettoni, ma di tornare a uno Stato che controlla direttamente i settori strategici dell’economia, strategici per lo sviluppo a cui pensa e per la sua stessa sicurezza.
Avevamo pensato che sicurezza volesse dire produrre cacciabombardieri, abbiamo scoperto che non servono a nulla se non a far vedere i nostri muscoletti in giro, abbiamo scoperto che era più sicuro produrre mascherine perché andarle a comprare in Cina sarà anche global, ma ti fa restare senza quando ne hai bisogno. Perché trovi qualcuno che le può pagare più di te.
Anche qui, come si cambia? Cominciamo con il dire chiaramente che il progetto dell’autonomia differenziata per le Regioni non esiste più. Almeno evitiamo di creare danni ulteriori. Non credo che troveremo un solo cittadino italiano disposto a difendere ancora quel disegno folle. E a chi dovesse protestare basterebbe mostrare una foto di Fontana, il presidente della Lombardia. Tu daresti ancora più poteri a questo qui? Fine della discussione.
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