Ripartire davvero: lo Stato torni a fare lo Stato.
Il pippone del venerdì/144
L’Italia in questi giorni è in piena fibrillazione per la fine dell’epidemia. Siccome siamo un popolo a memoria ultracorta, i dati relativamente confortanti degli ultimi tempi hanno fatto in modo che la stragrande maggioranza degli italiani consideri il coronavirus come un fatto del passato. Non per fare l’uccello del malagurio, ma temo che avremo nei prossimi mesi amari risvegli. Di sicuro ci sono alcuni fatti incontestabili: intanto, il lungo periodo passato in clausura ha diminuito la circolazione del virus, poi, un po’ a macchia di leopardo, abbiamo imparato ad affrontarlo meglio. Si fanno tamponi più rapidamente, si tracciano e si individuano i casi sospetti. E trovare i contagiati subito provoca in automatico meno affollamento negli ospedali. Infine, anche in assenza di una cura specifica, i medici hanno acquisito maggiori conoscenza sulla malattia e sul come affrontarla.
Poi, ma questo è un altro capitolo, c’è anche chi dice che lo stesso virus si sia un po’ rincoglionito e contagi di meno. Un fatto del quale manca la pur minima evidenza scientifica, ma al quale credono ciecamente milioni di italiani. Il ragionamento è sempre lo stesso: la natura umana ci porta a credere con più facilità alle tesi che si allineano alle nostre speranze. In pratica: dopo la paura abbiamo tutti bisogno di un’iniezione di fiducia e basta il primo medico di provincia per farci esultare.
Facciamo finta che sia così, anche se resto convinto che serva mantenere alta la guardia per fare in modo che i nuovi, inevitabili, piccoli focolai non diventino per la seconda volt focolai di massa. Certo, per stare un po’ più tranquilli, bisognerebbe anche interdire il presidente della Lombardia, ma questa è un’altra storia.
Facciamo finta che l’epidemia sia davvero alle spalle, dicevo, e proviamo a buttare giù due o tre ragionamenti sulla fase che ci troviamo ad affrontare. Partendo da una domanda, essenziale: è possibile considerare la fase di grande difficoltà del sistema economico come una enorme opportunità per il nostro Paese e non necessariamente come la fine del mondo? Siccome a me questo sistema turbocapitalistico non è mai piaciuto, sarei propenso a sostenere la prima tesi.
Una prima considerazione: saremo anche in una fase di grande crisi, ma avremo, speriamo presto, anche una notevole quantità di risorse a disposizione: fra i vari fondi che l’Unione europea ha messo in campo o si appresta a varare, nei prossimi mesi il Governo si troverà fra le mani una cifra superiore ai 200 miliardi di euro. Se consideriamo che le ultime manovre finanziarie raramente hanno superato i 30, si può capire la portata della sfida che abbiamo di fronte.
La dico brutalmente: abbiamo la concreta possibilità di cambiare tutto. La debolezza del sistema economico fa sì che torni a essere importante la capacità della politica di modellarlo secondo quello che conviene al Paese e non agli imprenditori. Non sono mai stato un sostenitore della tesi di Agnelli che sosteneva un po’ sfacciatamente “ciò che va bene alla Fiat va bene all’Italia”. Direi semmai il contrario: un Paese che funziona, che si rinnova, che punta alla sostenibilità, che ha infrastrutture competitive, va bene anche agli imprenditori.
E allora la prima condizione per ripartire davvero è che lo Stato torni a fare il suo mestiere, ovvero dettare le linee dello sviluppo che ritiene utile ai cittadini. Altro che mani libere per l’economia. Il liberismo sfrenato degli ultimi anni ci porta, in ultima analisi, dritti dritti alle pandemie. Detto questo, il problema è avere un’idea di quello che si vuol fare. Vedremo se nelle prossime settimane, questa eterogenea maggioranza riuscirà a dare un indirizzo preciso alla sua azione. L’idea di Conte di coinvolgere tutti gli attori del sistema politico, economico e sociale per una sorta di stati generali funziona se ci si presenta già con linee di fondo ben delineate, altrimenti diventerà il classico assolto alla diligenza con tanto di distribuzione a pioggia, dove i privilegiati sono sempre quelli in grado di fare la voce più grossa.
Io darei priorità alla cosiddetta rivoluzione green, che deve essere il filo che unisce tutti gli interventi: una sorta di cartina di tornasole, un investimento si fa soltanto se ci porta a fare passi in avanti sulla strada della sostenibilità. Porto come esempio virtuoso proprio uno degli ultimi interventi decisi, il superbonus sulle ristrutturazioni delle abitazioni. Bisognerà aspettare i decreti applicativi (a proposito, quello di scrivere norme chiare e applicabili da subito deve essere uno degli obiettivi principali), ma sembra chiaro che verranno premiati non tanto gli interventi ad alta efficienza energetica, ma quelli che permettono un aumento dell’efficienza energetica: la dico semplice, se hai una casa in classe A++ anche se prendi l’ultimo modello di caldaia perché è più fico, non ti do una lira, se hai una casa in casse G e l’intervento proposto di permette di arrivare alla A, allora sì, ti finanzio.
Non voglio dilungarmi troppo, anche perché qualche cosa sui temi da affrontare (riforme istituzionali e semplificazione) ho già accennato nelle scorse settimane. Credo che però la vera partita sia su chi tiene in mano il pallino. Se questo torna in mano allo Stato che non solo programma lo sviluppo, ma mette mano direttamente nei settori che ritiene strategici, abbiamo davvero la possibilità di avere non soltanto un cambiamento, ma un cambiamento positivo. Se, al contrario, prevarrà la linea di Confidustria (che ha scelto per l’occasione di farsi rappresentare dalla sua parte più conservatrice) per la quale è bene che lo Stato lasci fare l’imprenditore a chi sa farlo, allora resteremo nella situazione melmosa in cui ci troviamo. Anche perché, da noi, tutti questi capitani d’industria coraggiosi e innovativi non ci sono mai stati. Si contano sulla punta delle dita. Il nostro capitalismo è sempre stato coraggioso con i soldi nostri. E di questi soldi ha restituito ben poco. E poi perché la logica non può essere quella del massimo profitto in breve tempo. Perché con questa logica ci siamo ridotti a dover persino elemosinare le mascherine in mezzo mondo. Non conveniva produrle in Italia, dicevano. E, invece, conveniva eccome.
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