Ricordare Falcone e Borsellino,
perché nessuno resti più solo
Quel giorno, anzi quei mesi, Falcone il 23 maggio, Borsellino il 19 luglio. Quelle immagini, la voragine di Capaci, via D’Amelio sconvolta. All’epoca ero un giovano cronista di Paese Sera. Mi ricordo in particolare il 23 maggio. Ricordo che in redazione, un luogo dove colpi di stati, omicidi, stragi vengono trattati di solito con il cinismo che ti serve a tirare avanti, quando il caposervizio lesse il primo flash di agenzia ci fu un momento di silenzio istantaneo. Il direttore che sbianca improvvisamente. Minuti prima che qualcuno si svegli dal torpore e cominci a lavorare per rifare il giornale. C’era la consapevolezza della stagione che si stava aprendo.
Il 19 luglio lo sapevamo, invece, lo sapevano tutti, anche lo stesso Borsellino. Era già morto. E comunque tirò dritto, con la fronte alta e nessuna esitazione. La paura c’era, non l’hanno mai nascosta. Ma c’era la consapevolezza che lo Stato non si deve piegare. E loro non erano magistrati, erano lo Stato in quella terra straziata. E insieme a loro gli agenti delle scorte, gli uomini semplici che li seguivano non per fedeltà, ma per rispetto. Falcone, Borsellino, ma anche Pio La Torre, Chinnici, caduti in una guerra, assassinati non fa chi ha messo le bombe e ha sparato, ma da chi li ha lasciati soli. Per questo il ricordo è importante e non rituale. Perché nessuno degli uomini che lottano tutti i giorni contro le mafie resti più solo.
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