Note dal ritiro: sul Pd e la formazione dei gruppi dirigenti

Nov 22, 2011 by     No Comments    Posted under: il pd






Mentre anche nel sottoscala della Pisana è arrivato l’inverno e l’umidità ti entra nelle ossa, mi accingo a partire per un fine settimana e Londra, ben contento di avere una ragione incontestabile (il biglietto prenotato) per non partecipare all’assemblea regionale di sabato.Però, facendo parte – ormai mio malgrado – di quella comunità politica, mi arrivano commenti, riflessioni, oltre ovviamente a pettegolezzi e retroscena vari.Nel merito della contesa io la vedo così: una disfida fra ex Dc che davvero non mi appassiona. Non vedo cosa ci sia di nuovo in nessuna delle due candidature, Gasbarra e Bachelet. Sicuramente persone rispettabili, dirigenti autorevoli, ci mancherebbe altro. Ma i però sono molti. Intanto sono tutti e due parlamentari. Ed essendo stato fra i protagonisti di una battaglia contro la duplicazioni degli incarichi e la socrapposizione dei ruoli mi sembrerebbe contradditorio sostenere l’una o l’altra candidatura. Poi qualcuno nel corso degli anni tende a cambiare idea a seconda della propria convenienza, ma questa è un’altra storia.

 

Le candidature in campo

Le due candidature, al di là delle apparenze, mi sembrano inoltre buttate là senza un progetto politico condiviso. Una, quella di Gasbarra, nasce dai cosiddetti caminetti, l’altra si ammanta di una sorta di nepopulismo, ma poi, alla resa dei conti viene buttata nella mischia con l’unico scopo di contrastare la prima.

Per questo la vicenda mi appassiona ben poco. Mancano le condizioni per invertire quella tendenza che ha portato il Pd del Lazio ad essere sempre più un partito di notabili, una sorta di partito ottocentesco e non quel moderno movimento di massa che servirebbe alla nostra Regione.

 

Ma conta solo il metodo?

Né mi appassiona più di tanto l’altra disputa di questi giorni. Ovvero, in che modo lo eleggiamo questo segretario? Intanto, essendo per mia natura precursore dei dinosauri, secondo me a questo partito servirebbe un congresso. Non una di quelle robe a cui siete stati abituati negli ultimi vent’anni, in cui non si discute nulla e si vota. Ma una roba giurassica: con le tesi politiche che si confrontano, si emendano, si approvano, si eleggono i delegati e questi votano il segretario, la segretaria e la direzione. Come conclusione di un percorso politico che doti questo sgangherato partito di una “visione” sulla Regione in base alla quale articolare poi l’iniziativa politica.

In secondo luogo, perché credo sia un falso problema. Mi spiego meglio. In questo partito abbiamo sperimentato vari modelli di elezione degli organismi dirigenti. Con le primarie aperte a tutti gli elettori, con l’elezione diretta da parte degli iscritti, con l’elezione in assemblea.

Il primo caso è stato quello usato per l’elezione di Veltroni e Bersani al nazionale, nonché di Mazzoli. Fermo restano il mio giudizio positivo sull’azione che sta portando avanti Bersani, non mi sembra che il consenso che ha ricevuto dalle primarie sia sufficiente a determinare quella uinità di azione e quella incisività che gli elettori ci chiedono per poter rappresentare un’alternativa di governo credibile. Sul fallimento di Veltroni abbia già ampiamente detto. Su Mazzoli parlano i fatti.

Abbiamo eletto con il voto degli iscritti, tra gli altri, Marco Miccoli a Roma. Non mi sembra che, al di là di una pur importante ripresa organizzativa, il PD della Capitale sia riuscito in questo anno a mettere in campo gli strumenti necessari per tornare a vincere, ma soprattutto per governare davvero la città. Siamo in campagna elettorale e, al di là di qualche convegnuccio di facciata, le attenzioni di tutti sono orientate al toto candidati oppure, peggio, addirittura al totoassessori. Faccio sommessamente notare che questo errore l’abbiamo già fatto una volta e ci ritroviamo Alemanno sindaco.

Con il metodo dell’assemblea è stato eletto Roberto Morassut al regionale, dopo le dimissioni di ZIngaretti. Ci provò, difficile negarlo. Ci mise la consueta passione e intelligenza, salvo confessarsi agli intimi “stremato dalla continua pratica del compromesso su tutto”.

 

La funzione della sinistra

Da questa frase bisogna ripartire. Può funzionare un partito chiuso a compartimenti stagni, dove gli eletti hanno il potere di decidere in perfetta solitudine i cardini della loro azione nelle istituzioni? Può funzionare un partito dove esisti soiltanto se sei simpatico ai mass media, a loro volta sempre a caccia del fenomeno da sbattere in prima pagina, del rottamatore di turno?

Può funzionare un partito senz’anima, scollegato dal suo popolo, che non ha radici nella società che non siano quelle della spartizione correntizia e senza qualità di qualsiasi strapuntino a disposizione?

Ecco questo è il punto. Io credo che sia inutile stare a arrovellarsi il cervello su statuti e regolamenti che tanto poi nessuno rispetterà, se non si rifonda la ragion stessa della presenza di un partito di sinistra nella società italiana di oggi.

A me appassiona molto la discussione sui “beni comuni”. Credo che sia una delle chiavi più avanzate di analisi che oggi possiamo usare. A me piacerebbe discutere su come si forma un gruppo dirigente, non su come va eletto. Su come si legittima, sulla forza e sull’autorevolezza che non derivano da forme di elezione più o meno drogate, ma dal lavoro e dall’elaborazione.

Ecco, perdonate la rozzezza del ragionamento, ma non voglio annoiarvi ulteriormente. A me di questo piacerebbe discutere. Di come si gestiscono i beni comuni, di come, in un paese in crisi, si dà spazio all’innovazione. Di come un partito può mettere radici in quella che viene chiamata la società liquida. Di quali funzioni ha la sinistra oggi. Di come, in definitiva, la politica torna ad essere uno strumento utile ai cittadini e non utile soltanto a se stessa. E detto questo torno in silenzio nel sottoscala. Buona assemblea a tutti.








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