La manovra che certifica il declino.
Il pippone del venerdì/75
Io credo che questa manovra economica del governo sia una sorta di bollino blu che certifica in maniera inequivocabile il declino del nostro Paese. Il cosiddetto governo del cambiamento ha messo insieme qualche norma raccogliticcia su una specie di sussidio di disoccupazione, una mezza truffa sulle pensioni, un condono davvero paradossale che riguarda il terremoto a Ischia, l’aumento di imposte varie (un must quella sulle sigarette) e poco altro. Anzi, dimenticavo, c’è la norma sulla terra in omaggio a chi fa il terzo figlio. Ora, allo stato attuale delle cose, siamo sempre la secondo potenza manifatturiera d’Europa. E vi pare che questi possano essere i provvedimenti che ci portano fuori dalla crisi economica? Anche il Pil alla fine ha certificato che la stentata crescita tanto sbandierata dai governi degli ultimi anni era mera illusione. Siamo tornati alla stagnazione. Allo zero per cento. Gli osservatori più avvertiti, a dire il vero, lo avevano già spiegato, che i dati con un pallido segno più che ci avevano illuso erano un mero riflesso della ripresa avvenuta a livello mondiale. Il nostro declino, invece, è continuato imperterrito, al di là del Pil che si conferma indice insufficiente a valutare lo stato di salute dell’economia, tanto meno di un Paese intero.
Al di là dei numeri: l’Italia è un paese che frana alle prime piogge, che ha paura delle diversità, dove la povertà che si sta diffondendo invece che protesta sociale diventa rabbia nei confronti dei più deboli. Questa è la fotografia che abbiamo di fronte. Dal punto di vista industriale abbiamo regalato in giro per il mondo i pezzi pregiati della nostra industria, perché i famosi capitalisti nostrani si sono rivelati capaci di andare avanti soltanto con i contributi dello Stato. Una volta finiti quelli hanno fatto cassa e sono scappati con il malloppo. Tutti intenti a speculare sui titoli, guai a investire nel Paese. E per convincerne qualcuno i governi non hanno trovato di meglio che regalare a quelli più amici i resti del fu sistema delle partecipazioni statali: abbiamo cominciato con Telecom, proseguito con Alitalia e concluso le autostrade. Io capisco che lo Stato non deve fare i panettoni, non deve produrre auto, non deve occuparsi del latte. In realtà capisco poco anche questo, ma non è la sede per aprire un dibattito sull’economia socialista. Qualcuno mi deve però ancora spiegare come può un governo rinunciare ad avere sotto il controllo pubblico settori strategici come la mobilità, i collegamenti, le comunicazioni. Il che non significa che necessariamente debbano essere pubblici i provider di internet, ma la rete sì. Lo dicevo quando un governo di centro-sinistra svendette Telecom, figuriamoci adesso: le grandi reti infrastrutturali sono la chiave per la crescita di un territorio. Non si può lasciarli in mano privata, magari neanche italiana.
Addirittura a Roma fra una settimana voteremo sulla privatizzazione del trasporto pubblico locale. Atac fa schifo, mettiamo tutta a gara, basta con il monopolio pubblico dicono i promotori, Partito radicale e Partito democratico. Ora, il ragionamento potrebbe anche essere sensato se il trasporto pubblico, per la sua stessa natura, non fosse un monopolio. Che facciamo mettiamo diversi gestori su una stessa linea? Ovviamente no. E allora, va detto con chiarezza, mettere a gara il servizio di trasporto pubblico vorrebbe dire far diventare monopolista un imprenditore privato, o magari una società pubblica di altri paesi, visto che in tutta Europa le grandi capitali hanno gestione interamente pubblica di questo essenziale servizio. Unica eccezione di rilievo è Londra dove si sono amaramente pentiti. Altro tema sarebbe quella di creare una vera Agenzia della mobilità con il compito di programmare e monitorare il servizio. Quando ancora c’erano forze di sinistra di questo parlavamo.
Questa fissazione del privato che funziona meglio del pubblico è sbagliata nel suo stesso presupposto. Funziona meglio (forse) dove c’è concorrenza, nei settori dove invece la concorrenza non è possibile, al contrario, il privato punta a massimizzare i suoi profitti, senza dover offrire un servizio in grado di reggere il confronto con altri operatori dello stesso settore. Di prove, anche tragiche, ne abbiamo sotto gli occhi a dozzine. In realtà, poi, il pubblico negli altri paesi europei funziona bene e si espande anche: basta pensare a Parigi, dove Ratp, la società che gestisce i trasporti locali, è talmente forte che può permettersi di andare a gestire servizi anche fuori dai confini francesi. Chissà che non ci provino anche a Roma. Del resto, proprio nella capitale, un esempio di ente comunale che non solo funzionava, ma garantiva profitti costanti all’amministrazione lo avevamo: Acea. Poi, pur con un ruolo di minoranza, sono stati fatti entrare soci privati. I profitti sono diminuiti e il servizio è peggiorato. Certo, lo sfacelo complessivo di Roma ci mette del suo, ma anche la fornitura di elettricità e – soprattutto – acqua non è più ai livelli che aveva prima della quotazione in borsa.
Ovviamente di tutto questo la sinistra non parla. Mi sarei aspettato una campagna casa per casa sulla manovre economica. Alla vecchia maniera: gazebo in tutte le piazze, manifesti e volantini. Magari anche un minimo di campagna sul referendum romano. Nulla di tutto questo. Facciamo girare un po’ di materiale sul web, spesso confuso e pieno di errori. Senza capire che sui social ci parliamo e ci convinciamo fra di noi. Non si va oltre che rinforzare le tifoserie.
Siamo però tutti impegnati a capire in quale forma ci si dovrà presentare alle prossime elezioni europee. Perfino il timido Speranza alla fine si è accorto che il tempo stringe. Al coordinatore nazionale di Mdp verrebbe da dire: caro Roberto, bastava una telefonata a un qualsiasi elettore di Liberi e Uguali, te lo avrebbe detto mesi fa che il tempo stringe. Adesso, io credo invece che il tempo sia proprio scaduto. Non abbiamo alcuna credibilità, alcun progetto di lunga portata. A che serve l’ennesimo autobus per portare qualche parlamentare in Europa? Lo dico subito, io su quell’autobus non ci salgo.
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