Mica ho capito tutta ‘sta esultanza per l’Abruzzo.
Il pippone del venerdì/88
Vabbeh che siamo alla canna del gas per cui qualsiasi pallido segnale di esistenza in vita diventa un grande successo, ma io davvero non capisco le dichiarazioni che sono uscite in questa settimana dopo l’ennesima sconfitta elettorale del cosiddetto centrosinistra. Certo, in Abruzzo siamo arrivati secondi e non terzi come succede spesso. Come dire, invece che perdere 4 a zero abbiamo preso soltanto due gol. Sempre “zero tituli” fanno, volendo rimanere nell’ambito delle citazioni calcistiche.
Il risultato delle elezioni regionali in Abruzzo è l’ennesima prova del fatto che usando questo schema siamo condannati a perdere. Al massimo ad arrivare secondi. Ma la distanza con la destra, sempre più a trazione leghista, resta abissale. “Beh, ma abbiamo recuperato”, dicono. E in effetti tutti insieme, ma proprio tutti, arriviamo al 30 per cento. Alle politiche era poco più del 20. Il Pd arriva appena all’11 per cento, Leu si ferma al 2,8. Più 0,1 rispetto a un anno fa. Il resto lo raccolgono liste civiche. Non credo di essere lontano dal vero se scrivo che allo stato attuale delle cose questo schieramento non è più maggioranza in nessuna regione italiana. Temo che ne avremo la riprova a breve, in Sardegna prima e in Basilicata poi. E il voto in fuga dai 5 stelle torna di corsa nell’astensione, se va bene, altrimenti si sposta direttamente sulla Lega. Non c’è nessun recupero in vista.
E questo avviene in una competizione dove l’unico candidato credibile era il nostro Legnini. Ha vinto Marsilio, di Fratelli d’Italia, noto più che altro per le sue frequentazioni romane, di Colle Oppio per la precisione, catapultato in Abruzzo per equilibri fra i partiti a livello nazionale. Insomma, non ci votano proprio in nessun caso. Sarebbe forse il caso di chiedersi perché, invece di esultare e inneggiare a non si capisce bene quale futuro di vittorie.
Per quanto mi riguarda resto convinto di alcuni elementi. Anzi questa tornata elettorale rafforza ancora di più queste mie personalissime convinzioni. Intanto, al netto delle liste civiche che comunque non sono automaticamente sommabili ai partiti nazionali, il declino del Pd continua inesorabile. Anche in un periodo di sovraesposizione dovuta all’infinito congresso che stanno svolgendo. Non faccio raffronti con le precedenti regionali, perché sarebbero davvero impietosi, ma anche rispetto alle politiche siamo quasi a meno 3 per cento. Se qualcuno pensava avessero toccato il punto più basso possibile, insomma, si mettesse l’anima in pace. E lo stesso appeal di Zingaretti, ormai sicuro vincitore delle prossime primarie, non sembra in grado di smuovere le masse popolari.
Il secondo dato che a me pare evidente è che dobbiamo smetterla di pensare a costruire coalizioni raccogliticce e pensare a noi stessi. Ricominciare da una forza di sinistra, ecologista e socialista, che non sia l’ennesimo cespuglietto senza popolo, ma sia in grado, al contrario, di essere polo attrattivo nei confronti della galassia di partitini esistenti. E questa forza non potrà essere un partito tradizionale, ma dovrà necessariamente tenere conto del tempo che viviamo. Faccio un esempio concreto: la grande manifestazione sindacale della settimana scorsa. Sicuramente ci ha fatto bene. Ma come viene tradotta quella spinta in rappresentanza politica? Possiamo ancora permetterci di ragionare per compartimenti stagni (da un lato i sindacati, dall’altro i partiti) o dovremmo abituarci a pensare nuove forme di connessione, organizzazioni ibride, come ha scritto giustamente Michele Prospero? Costruire un partito, dunque, ma con l’obiettivo di costruire una rete sociale ampia.
Il dato dei voti a sinistra resta miseramente ancorato al risultato di Leu alle politiche. Anche questo in realtà è sorprendente. Dopo quasi un anno di disastri c’è ancora qualche ostinato che ci dà fiducia. Malgrado noi, viene da dire. Roba da Tso. E’ evidente però che senza una forte “gamba” di sinistra, qualsiasi alleanza futura si possa ipotizzare è destinata alla mera partecipazione. Di vincere non se ne parla proprio.
In ultimo resto molto dubbioso se sia proprio necessario riproporre ogni volta il famoso centrosinistra. La formula non è sufficiente. Facciamocene una ragione. Non lo è quando si vota con il doppio turno, perché anche se arriviamo al ballottaggio si coalizzano tutti contro di noi. Non lo è, come in questo caso, quando si vota con il turno unico perché arriviamo secondi, se va bene. Non lo è a maggior ragione quando si vota con il proporzionale perché in quel caso le alleanze si fanno dopo il voto, non prima. Sarebbe, infine, il caso di pensare bene, proprio perché si vota con il proporzionale puro, a cosa facciamo per le Europee. Nel mio piccolo ribadisco fin d’ora che un listone da Calenda a Bersani non lo voto neanche sotto tortura. Credo non lo votino neanche Calenda e Bersani, tra l’altro.
L’unica strada, con questi numeri, è riaprire un dialogo con il M5s. Saranno lontani da noi come cultura politica, il loro fideismo ci urta il sistema nervoso centrale, sta cosa della lotta alla kasta non si può sentire… Però se i nemici da battere sono il liberismo e la derivata nostrana in salsa leghista, credo che il programma originario dei grillini non sia neanche tanto lontano da quello che pensiamo noi. Lo stesso reddito di cittadinanza, sia pure fatto male, è una forma di redistribuzione della ricchezza alla quale non possiamo continuare a dire solo no. E fra le colpe del Pd ci metto anche aver consegnato una forza con la quale si poteva davvero lavorare nelle mani di Salvini.
Detto questo: sabato e domenica vado a “Ricostruzione”, ovvero il lancio della nuova formazione proposta da Speranza e soci. E’ poco, con troppe ambiguità e troppe timidezze. Ma da un punto fermo bisognerà pur partire. Vediamo che succede.
Due o tre cose sulle elezioni europee.
Il pippone del venerdì/87
O si va avanti tutti insieme o non va avanti nessuno. Era uno slogan di una vecchia campagna di tesseramento alla Cgil, negli anni ’50 del secolo scorso. E nel marasma senza forma della politica attuale suonano davvero lontane e allo stesso tempo sempre più attuali. Non da ora credo che il sindacato sia l’ultimo baluardo della nostra democrazia. Che non è costruita sul rapporto diretto fra governanti e cittadini. Il nostro sistema costituzionale non considera il voto come unico strumento di controllo del popolo sul potere legislativo. Tutt’altro. La nostra Costituzione considera come elemento centrale della democrazia la partecipazione continua dei cittadini alla vita dello Stato. Lo strumento individuato sono i cosiddetti corpi intermedi: i partiti, i sindacati, l’associazionismo. Senza questo elemento di “mediazione” cambia la forma stessa dello Stato.
Il disegno che sta scritto nella carta, non a caso considerata intrisa di elementi di socialismo, è semplice e chiaro: per una vera democrazia l’intervento del cittadino al momento del voto non è sufficiente. Il motivo è evidente. Se così fosse il potere economico, che nella società della comunicazione diventa ancora più pervasivo, diventerebbe un tutt’uno con il potere politico. Ecco allora che l’unione nei partiti e nei sindacati diventa quello strumento di affrancamento dei deboli che nella teoria marxista è la strada che conduce al superamento del modo di produzione capitalistico. Ed ecco perché le forza della destra da sempre hanno osteggiato la partecipazione. Divide et impera, sentenziavano i romani nell’antichità.
E noi, come dire, abbiamo abboccato in pieno. Al di là degli errori strategici, del bagno di liberismo che ha infestato le nostre acque, io resto convinto che l’errore fondamentale che abbiamo commesso dall’89 in poi sia questo. Certo l’aver sposato le teoria della destra capitalista ha un suo peso. Abbiamo perso la nostra diversità e al tempo stesso abbiamo perso la speranza nella possibilità di un futuro differente. Ma ancor più grave è essere stati folgorati dal fascino del leaderismo: abbiamo creduto che la fine dei partiti fosse inevitabilmente collegata al mondo nuovo con il quale non abbiamo saputo fare i conti.
Il congresso del Pd che si sta stancamente svolgendo in questi mesi ne è l’esemplicazione perfetta. Fanno passare come grande esercizio democratico il rito della scelta del leader. Un rito meramente muscolare dove vince quello che ha più mezzi e annovera fra le sue file il numero maggiore di notabili locali. Ogni giorno si alzano polveroni mediatici, si lasciano le truppe libere di scannarsi tra loro, ma su cosa? Sul nulla. Qualcuno si alzi in piedi e mi spieghi le differenze fra i candidati in lizza. Nessuna analisi su quanto è successo, sulle ragioni delle sconfitte. Nessuna proposta di radicale innovazione. Al massimo si invoca discontinuità e ci si propone di ricostruire il Pd. Su quali valori, su quali fondamenta non si dice mai. Semplicemente perché non ci sono valori, non ci sono fondamenta da cui costruire. Il Pd è un’alleanza elettorale resa permanente, non un partito di massa. Non a caso il meccanismo delle primarie è estraneo alla cultura europea e viene direttamente importato dagli Usa. Da un sistema dove, anche qui banalizzo, economia e politica sono spesso una cosa sola e non vi sto a raccontare chi vince.
E’ l’era della cosiddetta disintermediazione. Avviene nell’informazione, così come nella politica. Ce la vogliono far passare come la massima espressione di libertà, ma in realtà rappresenta il culmine della dominazione capitalista. L’eliminazione della libertà di informazione, che è l’effetto della disintermediazione in quel campo, è stata la condizione necessaria per il sovvertimento del sistema dei partiti. Ci hanno cibato per anni con il mito della “kasta” da combattere e non avevamo capito che insieme alla kasta avrebbero spazzato via anche la possibilità di partecipare e di cambiare davvero il nostro mondo.
Detto questo, sabato bisogna andare in piazza con Cgil, Cisl e Uil. Perché, con difetti e limiti che tutti conosciamo, sono l’ultimo presidio di democrazia che ci resta. Ancora di più dopo l’elezione di Landini a segretario della Cgil. Uno che ha ben in testa quello che sta avvenendo. Attorno a questo presidio, insomma, c’è, secondo me, l’unica possibilità di ripartire. E per ripartire bisogna guardare alle elezioni europee andando al tempo stesso oltre le elezioni europee.
A quanto pare, a maggio avremo sicuramente in campo il Partito democratico, non si sa ancora bene se da solo o sciolto nel fronte cosiddetto “antipopulista”, e l’ammucchiata capitanata da De Magistris dove convivono formazioni che si battono per uscire dall’Europa con chi dice l’esatto contrario. Roba che viene voglia di votare Salvini. La sinistra, in tutto questo, rischia di restare a casa. Che, come ho già detto mesi fa, può anche essere un’opzione dignitosa. Ma se su quella scheda ci fossimo sarebbe sicuramente meglio. Ora, alle elezioni regionali in Abruzzo e Sardegna gli elettori troveranno ancora il simbolo di Liberi e Uguali. Perché di fatto era l’unica scelta possibile, anche se le nefaste fratture nazionali si fanno sentire purtroppo anche a livello locale. Vedremo che risultato avranno queste liste. Temo non eccezionale, visto quello che è successo negli ultimi mesi.
Io credo che dovremo impiegare il tempo che ci separa dalle urne a costruire il partito della sinistra ecologista e socialista che abbiamo immaginato. Consapevoli che è un tentativo necessario ma non sufficiente. E credo anche che, al tempo stesso, dovremo verificare fino in fondo se sia proprio impossibile ripresentare Leu anche per l’Europa. Può sembrare assurdo, ma se ci pensate bene, di fratture di fondo fra le forze che hanno dato vita alla lista per le politiche non ce ne sono. Le differenze, io così la penso, sono di poco conto. E se può stare insieme l’accozzaglia di De Magistris, a maggior ragione avrebbe senso ripresentare Liberi e Uguali. Andare alle europee consapevoli che serve un orizzonte più ampio se vogliamo davvero far diventare la parola “Ricostruzione” un percorso concreto verso un soggetto politico basato sulla parola partecipazione. Dove si costruisca la classe dirigente, sperimentandola sul campo e non facendola crescere in provetta. Chissà. Magari a forza di sbagliare per una volta la azzecchiamo.
La pizza di fango del Camerun e il reddito di cittadinanza.
Il pippone del venerdi/86
Siamo in recessione. Per la prima volta nella storia – credo – un presidente del Consiglio anticipa l’Istat e mette le mani avanti: il Pil continua a diminuire per il secondo trimestre di seguito (questa volta dello 0.2 per cento) e quindi adesso è ufficiale, la crisi è certificata. Sarebbe il caso di avviare anche una riflessione seria sulle tecniche comunicative che usa questo governo, perché, almeno in questo campo sono davvero avanti di molto. Ma torniamo al punto.
Ora, le cose a dire il vero non andavano un granché bene neanche prima quando il Pil cresceva. Perché il modesto aumento del prodotto interno lordo che abbiamo avuto gli anni scorsi non si è mai trasformato in crescita vera del Paese. Né dal punto di vista dell’occupazione, né da quello dello sviluppo infrastrutturale. Non è questa la sede per ragionare sulle colpe, ma anche senza voler arrivare al superamento della società capitalista, è evidente come l’aver puntato tutto sul mercato, cancellando i diritti dei lavoratori e distribuendo corposi incentivi per le imprese, non ha funzionato. Il volano più forte per la crescita, lo insegnano gli economisti keynesiani, non pericolosi estremisti, sono gli investimenti pubblici. Perché creano un effetto a catena per il quale alla fine il guadagno per il Paese in termini economici, di competitività e di benessere sociale è molto più alto del costo. Il Fmi, anche qui non si tratta di pericolosi rivoluzionari, stima che un dollaro di investimento pubblico genera tre dollari di guadagno. Si tratta di calcoli complessi, che si basano sul ritorno diretto, sullo stimolo che genera nei confronti dei privati, sul ritorno occupazionale. Ma questa è la sintesi. Se, dunque, è tutto così semplice perché non si fa?
La risposta che mi viene in mente d’istinto è che i nostri governanti abbiano puntato sugli investimenti sicuri e come è noto, dai tempi della “Tv delle ragazze” in poi, il solo investimento certo è nella famosa pizza di fango del Camerun, l’unica moneta che ci può salvare dal baratro. E questo giustificherebbe anche la continuità di azione (altro che governo del cambiamento) che unisce i governi italiani da anni, da decenni si potrebbe dire guardando lo stato delle nostre infrastrutture.
Posto che, invece, abbiano altre idee in testa, sarebbe utile capire quali. Io credo che i 5 stelle abbiano in testa un modello diverso di società, girando fra le visioni proposte dalla Casaleggio e associati, qualche spunto lo troviamo. La suggestione è che, nel giro di pochi anni, il lavoro così come lo abbiamo conosciuto sia destinato a scomparire del tutto. Non è neanche troppo nuova la teoria che prefigura la fine della necessità di lavorare per l’uomo con la sempre crescente robotizzazione. Basti pensare che lo stesso Bill Gates, decisamente un capitalista, propone una tassa sui robot per compensare la perdita di posti di lavoro. Con quella tassazione si dovrebbero poi finanziare nuove forme di welfare, a partire da un reddito di cittadinanza a questo punto davvero generalizzato. Perché dunque affannarsi a creare nuovi posti di lavoro se il futuro che ci aspetta è questo? Proviamo a ragionare.
La fine del lavoro e il tempo del non lavoro, tema per me davvero affascinante, è stata del resto ipotizzata da fior di economisti e sociologi. E molte sono le soluzioni in campo. Quella proposta da Casaleggio, in realtà, è soltanto una delle possibilità. E’ la stessa storia che però contraddice questa visione. Mi spiego meglio. Non siamo di certo alla prima rivoluzione industriale. Più volte ormai abbiamo assistito a profondi rivolgimenti tecnologici che hanno cambiato radicalmente il modo di produrre. Il lavoro però non è finito. Si è trasformato. Cosa avrebbe di differente la robotizzazione? Di sicuro che sostituisce del tutto, almeno questo è il futuro che si prevede, il lavoro umano in diversi settori. Sarà davvero la fine del lavoro, o ancora ci sarà una trasformazione del ruolo umano? Perché, se è vero che nuovi sistemi produttivi riducono l’esigenza di mano d’opera in molti settori, è anche vero che le varie rivoluzioni tecnologiche hanno generato bisogni nuovi. Avremo comunque lavori differenti, legati alle esigenze della società digitale. Come avremo comunque bisogno di lavori legati al welfare e alle aspettative di vita che continuano ad aumentare.
Probabilmente, comunque sia, il numero complessivo di lavoratori necessari sarà minore. Anche se francamente le visioni di una società in cui il fattore umano scompaia del tutto dal lavoro mi sembra molto al di là da venire. Di fronte a questa diminuita esigenza di mano d’opera ci possono essere, secondo me, due riposte alternative. La prima è quella assistenzialistica: tassiamo i robot, tanto le imprese avranno un margine di profitto maggiore e dunque se lo potranno permettere. Con quella tassa garantiamo il famoso reddito di cittadinanza universale. Punto. Casaleggio e soci non si pongono il problema del grande rivolgimento sociale che avverrebbe necessariamente in una società in cui il lavoro diventa un fattore marginale nella vita dell’uomo. Detto in poche parole: che si fa da mattina a sera? Divano senza soluzione di continuità?
L’altra risposta, quella che secondo me una forza socialista dovrebbe dare è quella che porta al concetto di lavoro di cittadinanza. Ovvero: in una società come quella disegnata, garantire un reddito a tutti diventa una necessità non eludibile, questo è vero. Ma questo si può fare, oltre che tassando i robot, anche diminuendo l’orario di lavoro – a parità di salario – e creando delle strutture in cui i lavoratori possano mettere a disposizione della società il tempo libero guadagnato. E anche il reddito di cittadinanza, allo stesso modo, si può trasformare in lavoro di cittadinanza. Posto che, vista la situazione della nostra economia (per non parlare del funzionamento dei centri per l’impiego) di offerte di lavoro non ne arriveranno a carrettate, perché non ipotizzare che chi usufruisce del reddito di cittadinanza possa restituire alla collettività quel valore sotto forma di lavoro sociale?
Può sembrare banale, ma non è così. Sono due visioni di società opposte. E credo che avviare un ragionamento profondo su questi temi dovrebbe essere al centro del nostro percorso di ricostruire di una forza socialista in Italia. Troviamo gli spazi per ragionarci e facciamolo in fretta. Anche perché secondo me su questi ragionamenti si può costruire un’alternativa vera alle destre anche a livello europeo. Altro che i fronti indistinti, servono idee radicali.
Calenda e altre disgrazie.
Il pippone del venerdì/85
Come di consueto aspetto sempre qualche giorno prima di provare a ragionare sui fatti della politica nostrana, intanto perché a caldo si ragiona sempre male, ma anche perché è sempre meglio vedere come vanno a finire queste storie. Parlo, ovviamente del “listone” proposto da Zingaretti e Calenda. Dico subito che lo ritengo non solo inutile, ma anche dannoso. Provo a spiegare perché.
D’Alema prima e Bersani poi, con accenti diversi ma in maniera sostanzialmente molto simile, hanno spiegato che, secondo loro, la ricostruzione della sinistra italiana passa per un “rimescolamento” complessivo del campo da gioco. Bersani l’ha detta benissimo: “Che i progressisti stiano con i progressisti e i liberaldemocratici con i liberaldemocratici”. E questo non tanto e non solo in prospettiva elettorale per le europee, ma proprio come modello per ricostruire dalla basi la nostra presenza nella società italiana. Calenda e Zingaretti, al contrario, propongono semplicemente di “nascondere” il Pd dentro un’alleanza con qualche cespuglietto (dalla Boldrini a Pizzarotti) non tanto per battere i populisti, perché comunque una lista del genere difficilmente oltrepasserebbe il 20 per cento, ma solo per garantire a quello che ormai è a un passo dalla segreteria del Pd, di superare il 18 per cento preso dal partito a trazione renziana e poter rivendicare, malgrado il poco tempo a disposizione, di aver portato il Pd a una timida ripresa.
Insomma, nessuna ridefinizione del campo, semplicemente un tentativo di sopravvivenza. Che avrebbe innanzitutto il merito, agli occhi dei proponenti, di tenere uniti i democratici, visto che taglierebbe automaticamente le gambe a una ipotetica lista di Renzi. E in più darebbe un po’ di visibilità alla sinistra di Boldrini e Smeriglio, su cui il presidente del Lazio fa già conto per aumentare il suo consenso alle primarie di marzo. Alleati così preziosi andranno pur premiati con un seggio in Europa.
Pare evidente come le due opzioni siano non solo divergenti, ma addirittura opposte. Non si capisce bene, dunque, il perché dei vari entusiasmi con cui il manifesto per l’Europa di Calenda è stato accolto anche a sinistra. Ancora una volta, tra l’altro, si commette l’errore di pensare soltanto al contenitore invece che ai contenuti, nella vana speranza, forse, che gli elettori non riconoscano le stesse facce dietro le nuove maschere. Se, in più, individuiamo nell’esistenza stessa di un partito per sua natura “ambiguo” come il Pd l’ostacolo più grande nella ricostruzione necessaria della sinistra, è chiaro come questa proposta vada combattuta.
Resto convinto che abbiamo la necessità, innanzitutto, di avanzare una proposta agli italiani, ma più in generale agli europei. Una proposta che dica intanto che siamo per il superamento di una forma di Unione dominata dai governi e in cui gli organismi assembleari eletti democraticamente contano davvero poco. Abbiamo fatto l’Europa monetaria, ma con l’allargamento a 28 siamo andati addirittura indietro nella costruzione di forme democratiche di governo e decisione. Quale Europa proponiamo, con quali strumenti. Siamo d’accordo ad esempio sulla necessità di un fisco comune? Di una politica estera europea? Potrei continuare, ma non è questo, ovviamente, il luogo. Dovremmo, per farla breve, tornare a svolgere una funzione se non trainante, quanto meno “concorrente”, insieme agli altri soggetti più avanzati della sinistra Europa. Ma ce lo dobbiamo far dire dal timido ex ministro Orlando che il candidato proposto dai socialisti alla presidenza della commissione non va bene? Ce lo deve spiegare lui che bisogna puntare all’alleanza con forze alternative a quelle tradizionali per avere una qualche possibilità di successo?
Il “listone Pd senza Pd” verrà inevitabilmente visto come l’estremo tentativo delle élite italiane di mettere i bastoni fra le ruote al “cambiamento” rappresentato sempre più da Salvini. Non c’è scampo, basta notare che fra i primi firmatari ci sono uomini forti di Confindustria, ex ministri renziani. Il “potere” decadente, insomma. Perfino moderati come Letta e Prodi hanno avanzato qualche timido dubbio. Noi facciamo fatica ad avere una voce chiara e forte. A essere cattivi ci sarebbe da pensare che i nostri dirigenti stiano ancora una volta cercando lo schema che consenta loro di sopravvivere e di continuare ad avere qualche incarico. Lo scopo mi pare sempre più essere segretari di qualcosa, siano anche quattro gatti.
L’ho già scritto, ma mi ripeto: non è tanto un problema di rinnovamento di classe dirigente, perché gli sconfitti del 4 marzo sono quei quarantenni che non hanno saputo fare un fronte generazionale e continuano a dividersi per avere un pezzettino di visibilità. Ogni volta che si affaccia un commensale, invece di aggiungere un posto al tavolo comune si apparecchia un tavolino nuovo. E poi ci stupiamo se passiamo dagli entusiasmi di pochi mesi fa alle assemblee di questi giorni che saranno anche piene, ma in sale che contengono poche decine di persone, sempre le stesse, sempre più stanche. Ormai potrei fare la cronaca degli interventi senza manco ascoltarli. Anche il disastroso tentativo di Laforgia e soci non può che essere descritto inserendolo in questo schema. Si è partiti strumentalizzando il nobile tentativo di alcuni comitati di base che chiedevano unità si finisce per cercare di creare un altro soggetto politico che esiste, forse, appena in un paio di Regioni. Tutto per soddisfare la vanità di un presunto leader. Speriamo che non ne emergano due, altrimenti si ricomincia la giostra.
E anche il tentativo lanciato da Articolo Uno, basato se non altro su basi ideali e programmatiche un po’ più solide, rischia di incagliarsi nelle secche della delusione. Troppo forti le aspettative di un anno fa, ancora più grande la delusione. Chi, come me, in maniera un po’ masochista, frequenta ancora le assemblee di base, non può non accorgersi della stanchezza, delle defezioni continue, delle volontà sempre più fiaccate. E allora che si fa? Secondo me l’unica strada sarebbe ancora quella di metterli seduti attorno a un tavolo, tutti quanti, uscire dalla sala, chiudere la porta e obbligarli a mettersi d’accordo. Non riuscite a fare un partito? Partiamo da una forma associativa permanente, una federazione. Non riuscite a individuare un leader? Fate a turno, sei mesi per uno. Fate una segreteria collegiale, dividetevi i compiti. Anche perché, nel frattempo, non ci sono soltanto le europee. Alle regionali in Sardegna e Abruzzo si presenta Liberi e Uguali. E alle amministrative che cosa pensiamo di combinare? E se provassimo a presentarci con lo stesso simbolo per due elezioni consecutive, così tanto per vedere l’effetto che fa?
La colpa della schiavitù è degli schiavi.
Il pippone del venerdì/84
Arrestati in sei perché avevano creato una finta cooperativa con lo scopo sociale di sfruttare il lavoro dei migranti, 400 persone mandate a lavorare nei campi per dodici ore al giorno, con paghe da fame. Ovviamente senza alcun diritto. Tutti italiani gli arrestati, fra cui anche un sindacalista della Cisl e un ispettore del lavoro. Più di cinquanta gli indagati. La notizia l’avete sicuramente letta tutti, compreso l’agghiacciante commento di Salvini: per il ministro degli interni si tratta “di un business che prospera grazie all’immigrazione clandestina”. Insomma la colpa è dei migranti. Non una parola sui nostri connazionali. Quelli sono elettori, magari anche della Lega che da queste parti continua a fare proseliti. Vanno comunque coccolati.
Ero ragazzino quando come Federazione giovanile comunista organizzavamo i campi di accoglienza a Stornara, in provincia di Foggia. Si parla di trent’anni fa. Già allora erano migliaia i migranti che d’estate popolavano le campagne del sud. Anche allora sfruttati, resi schiavi dalle organizzazioni criminali. Noi provavamo a dargli un posto decente per dormire, lavarsi, qualche pasto caldo. Sono passati 30 anni e non solo la situazione è peggiorata, ma abbiamo un ministro dell’Interno per cui la colpa della schiavitù è degli schiavi.
Ora, quelli più bravi di me a fare politica, diranno che se si parla troppo di questi argomenti e si finisce per fare il gioco di Salvini e soci. Ma come si fa a stare zitti? Secondo l’ultimo ”Rapporto agromafie e caporalato” pubblicato l’estate scorsa dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, il business del lavoro irregolare e del caporalato in agricoltura vale 4,8 miliardi di euro mentre 1,8 miliardi sono di evasione contributiva. I lavoratori agricoli esposti al rischio di un ingaggio irregolare e sotto caporale sono 430 mila: di questi, più di 132 mila sono in condizione di ”grave vulnerabilità sociale” e ”forte sofferenza occupazionale”. Una delle poche cose buone della scorsa legislatura è stata proprio la legge contro il caporalato, che ha permesso l’operazione di polizia da cui sono partito. Speriamo che non la demoliscano. Questi dati ci raccontano con buona approssimazione il Paese che siamo diventati. Un Paese che ha paura dei migranti, chiede a gran voce che vengano cacciati, in cui però un bel pezzo di economia si regge proprio sulla loro presenza e sullo sfruttamento selvaggio della mano d’opera. E non c’è solo l’agricoltura ovviamente.
La colpa è della disperazione, ministro Salvini. E la colpa è di quella cultura ipocrita che tanto sta contribuendo a diffondere. La colpa è di quelli che vogliono chiudere i porti, costruire i muri alle frontiere. Che poi spesso non ci si accorge che è come se si volesse svuotare il mare con un cucchiaino da caffè. E troppo spesso i benpensanti difensori di non si capisce bene quale italianità sono quelli che poi caricano i loro furgoni di disperati e li portano nei campi. Sono quelli che gridano contro “gli zingari ladri” e poi li usano per smaltire rifiuti tossici.
Possiamo tacere di tutto questo perché se si affrontano questi temi si perdono voti? Oppure dobbiamo dire con forza che l’unico modo per combattere l’immigrazione clandestina e lo sfruttamento è proprio creare canali legali con cui si possa arrivare in Italia, senza passare per la mafia degli scafisti e senza finire in mano alla mafia dei caporali che gestiscono la mano d’opera nei campi e nei cantieri edili. La mattina lungo le strade principali di Roma, ma penso che succeda un po’ ovunque, ci sono centinaia di persone che aspettano sui marciapiede che arrivi il caporale e li carichi sui furgoni. Possiamo continuare a girare la faccia dall’altra parte?
Come è noto io sono contro ogni tipo di frontiera e trovo assurdo che mentre i capitali circolano senza alcun limite le persone siano ancora ancorate al proprio luogo di nascita. Trovo assurdo che una mera casualità, ovvero nascere in un paese ricco, sia la condizione prima per vivere in maniera decente. E’ il primo furto di questo mondo ingiusto organizzato secondo le regole del capitalismo. Viene ancora prima della proprietà privata. “Tu non puoi stare in questo Paese perché non sei nato qui”. Possibile non percepire l’assurdità di questa affermazione? Nasciamo tutti, nudi, sullo stesso pianeta. E dovremmo avere, tutti, il diritto di cambiare paese, non solo per necessità, ma anche solo “perché ci va”, proprio come afferma Giorgia Meloni pensando di dire una cosa assurda.
Poi, certo, è chiaro che non possiamo parlare soltanto di immigrazione tutti i giorni per 24 ore al giorno. Bisogna trovare gli strumenti per garantire diritti sociali e civili a chi sta in nel nostro Paese, al di là della nazionalità e del colore della pelle. Altrimenti Salvini e quelli come lui continueranno ad avere gioco facile nel proporre questa guerra fra poveri, in cui la colpa del fatto che uno sta male è sempre di quello che sta ancora peggio di te. E in questo polverone quello che una volta si sarebbe chiamato “il nemico di classe” se la ride allegramente e continua a diventare sempre più ricco.
Che nessuno si scandalizzi, e la finisco qui, per quello che fanno gli ultras allo stadio, sono soltanto la faccia più cruda della nostra società. Anzi: almeno loro dichiarano apertamente il loro razzismo. Non piangono per i bambini africani con la pancia gonfia che si vedono in televisione salvo poi dire che “devono stare a casa loro. Lo stadio è solo lo specchio di quello che siamo diventati. Inutile chiudere le curve, qua toccherebbe chiudere l’Italia.
E’ ora di premere sull’acceleratore.
Il pippone del venerdì/83
Passate le feste, oltre che con qualche chilo in più, ci ritroviamo tutti con parecchie certezze in meno. Quello che sembrava un asse di ferro fra Salvini e Di Maio, di giorno in giorno, si mostra in tutta la sua fragilità. E’ un po’ la storia della coperta troppo corta: ognuno cerca di tirarla dalla sua parte e i sondaggi ondeggiano a seconda del tema della settimana. La Lega scende? Salvini alza la voce sui migranti. E anche la “sconfitta” subita nei giorni scorsi, quando alla fine ha dovuto ingoiare un accordo sulla vicenda dei 49 disperati rimasti in mare per settimane, in realtà conferma il suo profilo dell’uomo inflessibile. Che siano gli altri che scendono a compromessi, lui dice sempre no. E sono sicuro che i prossimi sondaggi registreranno il favore di un numero crescente di cittadini. Il tema immigrazione, anzi più che il tema la percezione che ne abbiamo, continua a essere terreno fertile per Salvini e soci. Siamo razzisti? Non so, di sicuro temiamo le differenze, un bel paradosso se ci pensate bene: l’Italia nasce come paese meticcio per eccellenza, fin dai tempi dell’impero romano. E non potrebbe essere differentemente vista la nostra posizione centrale nel mediterraneo. Dire “chiudiamo i porti” in un paese accerchiato dal mare è evidentemente una bestialità, ma ci vorrà tempo per capirlo.
Detto questo, comunque, malgrado alzino polveroni per coprire la realtà, presto toccherà fare i conti con l’economia che non tira, una nuova recessione alle porte, i provvedimenti promessi che non arrivano. Il bluff di quota cento e del reddito di cittadinanza sarà evidente. Per non parlare dell’opportunismo dei 5 Stelle. Di Maio sta facendo da uomo di governo l’esatto contrario di quello che predicava dall’opposizione. Salva le banche, fa gasdotti, dà il via libera alle trivellazioni nello Jonio. Solo per citare i titoli dell’ultima settimana.
Non credo che le contraddizioni porteranno all’esplosione di una crisi di governo in tempi brevi, troppo alta la posta in gioco per entrambi gli attori principali della commedia. Più probabile che si attendano le elezioni europee, che saranno una sorta di grande sondaggio sul campo. Se i risultati faranno emergere la possibilità di una maggioranza alternativa, in particolare un classico centro destra, Salvini non ci penserà due volte e scaricherà gli ingombranti alleati, pronto a diventare il protagonista assoluto di un governo con gli alleati di sempre.
In tutto questo non possiamo stare a guardare. Secondo me ci sono due eventi da seguire con grande attenzione. Il primo è il congresso della Cgil, dal 22 al 25 gennaio ci sarà l’assise nazionale che concluderà questo lungo percorso del più grande sindacato italiano. Ora, non ci sarà mai – malgrado secondo me resti la strada maestra per ricostruire una forte rappresentanza della sinistra – un impegno diretto della Cgil in politica. La tradizionale separazione e autonomia del sindacato rispetto ai partiti ha retto in stagioni in cui era molto più difficile, figuriamoci se verrà meno adesso. Ma un sindacato rinnovato e attento a quello che succede nella sinistra serve ai lavoratori, aiuta a costruire un’opposizione più forte e a lavorare per la costruzione di uno schieramento realmente alternativo. La presenza di forti corpi intermedi è la vera cura contro il razzismo e i populismi vari.
Ovviamente in questo senso non si può che auspicare un accordo che porti a una segreteria unitaria guidata da Landini. Una vittoria di Colla, sostenuto sostanzialmente dai pensionati, potrebbe perfino avviare un processo di disgregazione della Cgil, sicuramente non sarebbe accettata dalla grande maggioranza degli iscritti. Intanto per il modo in cui è stata proposta la sua candidatura: non con un documento alternativo, ma, nella sostanza, approfittando di un sistema congressuale che si basa su complicati equilibri fra i delegati. E poi perché, magari a torto, Colla viene rappresentato come la lunga manus del renzismo che cerca di prendere il controllo del sindacato dopo aver lavorato per anni per rendere marginale il suo ruolo, quello della Cgil in particolare. Se ne parla ancora troppo poco di questo congresso, un grande processo democratico che nei mesi scorsi ha coinvolto milioni di lavoratori e pensionati. La passione italica per la notizia secca non aiuta a seguire i percorsi lunghi e complicati. Dovremmo provare ad accendere più di un riflettore sulle scelte che saranno compiute nei prossimi giorni.
L’altro fronte da seguire è il processo di costruzione di una forza di natura socialista nella sinistra italiana. Fronte essenziale se è vero che una parte dell’elettorato grillino manifesta un disagio crescente verso gli atti di questo governo. Diventa ancora più urgente. Il “mi sa che ho fatto una cazzata” degli elettori di sinistra che hanno scelto i 5 stelle non si trasforma automaticamente in un ritorno a casa. Soprattutto se una casa non esiste. Il Pd, ancora dominato nei fatti da Renzi, di sicuro non sarà un porto attrattivo per questi migranti della politica. E neanche una vittoria di Zingaretti alle prossime primarie, secondo me, rappresenterebbe automaticamente un vestito nuovo e convincente per un marchio consumato dalle politiche degli anni scorsi. Del resto il presidente del Lazio, che adesso invoca discontinuità rispetto al passato, non è che sia proprio stato un oppositore di Renzi. Anzi, ne ha sposato tutte le scelte principali, speso con il silenzio, altre volte con un esplicito consenso.
La crisi di consenso di Di Maio e soci, insomma, ci pone l’urgenza di accelerare. Tanto più se, come pare di capire, il ritorno in campo di Di Battista cercherà di creare una sorta di “partito di lotta e di governo”, in cui si proverà a far ingoiare grossi rospi all’elettorato grillino tradizionale puntando sull’appeal movimentista del figliol prodigo appena tornato dal suo viaggio in Sudamerica.
Accelerare per fare cosa? Fallito il progetto di Liberi e Uguali, abbiamo il dovere di costruire una forza politica, di natura socialista, che superi le difficoltà del momento e ci faccia stare in campo. E’ necessaria intanto per dare una alternativa ai delusi, ma anche per pensare, dopo le europee alla ricostruzione di un campo ampio che metta insieme i progressisti e venga percepito come alternativa credibile alla destra. La dico chiaramente: anche con il Pd derenzizzato che tutti ci auguriamo di trovare dopo le elezioni, non cesserà la necessità di dare rappresentanza politica alla sinistra italiana. Perchè il Pd resterà quello di Franceschini e Gentiloni.
E allora dobbiamo fare in fretta. Il documento lanciato da Mdp con l’assemblea di metà dicembra rappresenta una buona base di discussione. Si avvii, finalmente, la costruzione di un partito, con iscritti, sedi fisiche, reti di comunicazione classiche e virtuali. Proviamo a sperimentare forme nuove di partecipazione diretta, di organizzazione orizzontale e non tradizionale. Cerchiamo di recuperare l’impegno dei tanti compagni che avevano visto in Liberi e Uguali una speranza e che adesso sono tornati a chiudersi nel pessimismo (con molte ragioni). L’entusiasmo non c’è, non nascondiamolo. Troppo tempo è trascorso a inseguire i tentennamenti di leader senza popolo.
E’ tempo di ripartire dai fondamentali. Una forza socialista. Sarebbe di sicuro un buon inizio.
La bellezza e il peso della sfida ecosocialista.
Il pippone del venerdì/82
Intanto diciamo una cosa: dopo mesi passati in riunioni inutili e autoreferenziali in cui si parlava di tutto meno che di politica, ho passato un fine settimana ascoltando interventi, molti anche di altissimo livello, nei quali non soltanto si affrontavano temi di carattere teorico, ma si combinavano anche con la vita delle persone in carne e ossa. Se poi da questo fine settimana prenderemo gli spunti per ripartire e imboccare finalmente la strada giusta, questo non lo so. Comunque sia, che ho fatto nel fine settimana scorso? Sabato giornata dedicata ai 20 anni di Italianieuropei, si inizia la mattina e si va avanti fino alle sei di pomeriggio. Punto di partenza il “manifesto dei 120”, ovvero il documento a metà strada fra economia e politica che vorrebbe ridisegnare il sistema politico europeo e la distribuzione dei fondi. Primo firmatario l’economista francese Thomas Piketty. E che c’entra con la vita concreta di ognuno di noi? Beh, più fondi europei destinati all’integrazione, allo sviluppo, una gestione finalmente democratica degli stessi, sono temi che hanno a che fare con il nostro “mettere insieme il pranzo con la cena” o no? Secondo me sì e se fossimo ancora in grado di fare politica saremmo anche impegnati a spiegarlo ai cittadini. Che poi, gli italiani, un tempo, la capivano anche l’importanza dell’integrazione europea. Lo ricordano in pochi, ma l’11 maggio dell’89, ci fu un referendum in cui si chiese agli elettori se volevano trasformare la Comunità economica in una Unione di Stati, con tanto di governo responsabile di fronte al Parlamento. Votanti 80 per cento degli aventi diritto, Sì 88 per cento.
Ricordi a parte, a cominciare dal manifesto per l’Europa si sono sviluppati interventi di buona parte dei cervelli migliori della sinistra italiana. I giornali hanno sintetizzato così: D’Alema rientrerà nel Pd, appoggiando Zingaretti. Qualcuno è arrivato addirittura a dire che sarà lui il presidente del partito in caso di vittoria del governatore del Lazio alle primarie. Dove abbiano preso questa convinzione non si sa, ma D’Alema è stato addirittura costretto a scrivere una lunga lettera a uno dei giornali su cui erano uscite le illazioni, spiegando che lui al Pd non è iscritto né ha intenzione di iscriversi e quindi non si occupa della scelta del segretario di un partito a cui non è iscritto. Altra cosa è, ovviamente, guardare con attenzione – e anche preoccupazione, aggiungerei io – al dibattito di quella che, a torto o a ragione, viene ritenuta dagli elettori una forza di sinistra, l’unica che abbia ancora una certa rilevanza elettorale.
Domenica, invece, dedicata alla manifestazione nazionale organizzata da Articolo Uno dopo il fallimento di Leu. Apro una parentesi: il dibattito fra gli ultras che si contendono la colpa della mancata trasformazione della lista elettorale in partito non mi appassiona. Liberi e Uguali, dei quali sono stato uno dei sostenitori anche post-mortem, non esiste più. Perché i partiti che avevano promosso il progetto hanno preso strade differenti. Sinistra Italiana ha da tempo annunciato che pensa a un listone per le europee insieme a Rifondazione e gli altri cosiddetti antagonisti, progetto alla testa del quale si è posto Luigi de Magistris, Articolo Uno ha a lungo tentennato, atteso non si sa bene quale evento, poi alla fine ha annunciato questa iniziativa dal titolo programmatico “Ricostruzione”.
Ho l’impressione che siamo ancora allo sgombero preventivo delle macerie, ma mi si sono disciplinatamente seduto ad ascoltare per cercare di capire se ne può uscire qualcosa di buono. Francamente alla fine non saprei dirvi. Io la vedo così: nell’attesa di capire se il Pd esisterà ancora, imploderà, scomparirà, è il caso di darsi una svegliata e provare a tenere insieme quel popolo che si è riconosciuto in Liberi e Uguali. Per farlo serve una formazione autonoma della sinistra, io non aggiungerei altri aggettivi perché spesso quelli che si sono definiti radicali erano più accondiscendenti dei riformisti e, a loro volta, i riformisti hanno chinato la testa alle multinazionali. Poi, quando il Pd deciderà cosa fare da grande si porrà il tema del rapporto da costruire. Per quanto mi riguarda sono d’accordo con le parole che ha detto il coordinatore di Mdp, Roberto Speranza, domenica scorsa: “Il Pd è figlio di un tempo che non c’è più, di una stagione politica ormai superata. Non c’è più il bipolarismo nel nostro Paese che aveva oggettivamente favorito l’aggregazione tra socialisti e liberal-democratici, e non siamo più nella fase espansiva della globalizzazione in cui la sinistra, in tutto il mondo, è stata subalterna al neoliberismo. Sono venute a mancare le ragioni storiche per cui è nato il Pd. Non so quali saranno i tempi, ma a me pare chiaro che siamo dentro un processo ormai inarrestabile. E mi pare che la discussione attorno al loro congresso sia un’altra prova molto chiara di ciò che sta avvenendo”.
Se questa è l’analisi, appare evidente come non avrebbe senso pensare di rientrare in un partito che si considera finito. Malgrado il tema sia stato affrontato con chiarezza, gli ultras continuano a dire che è tutta tattica. Passerà anche questa, faccio solo notare che se impiegassimo a fare politica, a parlare di problemi veri metà del tempo che spendiamo a parlar male di noi stessi forse non saremmo arrivati a questo punto così basso. I social avranno anche le loro colpe, ma secondo me non fanno che amplificare quella deleteria attitudine al pettegolezzo che ha afflitto la sinistra italiana negli ultimi decenni.
Prima di chiudere questo pippone prenatalizio torniamo rapidamente al punto: la proposta che avanza Articolo Uno per provare a ricostruire una presenza di sinistra in questo paese è la nascita, partendo da un documento che viene posto come base di discussione e dalla creazione di comitati locali, di una forza che riunisca ecologia e socialismo. Abbiamo delle tesi e i luoghi dove ragionarci su, insomma. La tesi centrale è quella dell’ecosocialismo, come valore fondante della nuova sinistra italiana. Non una novità nel panorama mondiale, parole assolutamente originali, se si escludono alcune esperienze marginali, nel panorama italiano. Originali e impegnative, aggiungo io. Impegnative perché l’ecosocialismo è una corrente di pensiero secondo la quale non basta la classica riconversione ecologica dell’economia per salvare la razza umana dall’estinzione. Secondo gli ecosocialisti è il capitalismo stesso, con il suo smodato bisogno di bruciare risorse, a essere incompatibile con una politica che ci porti fuori dalla minaccia del climate change. E quindi per salvarci da quella che ormai sembra non solo una profezia di sciagura futura ma una realtà che tocchiamo con mano ogni giorno, servirebbe una società diversa, socialista appunto, dove il “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni” diventa la chiave di volta per garantirci il futuro.
Insomma, una roba impegnativa. Una forza politica, dunque, che necessariamente non potrà avere come orizzonte quello di un appuntamento elettorale, ma che avrà bisogno di tempo per mettere radici nuove nella carne della nostra società. Una bella sfida. Di sicuro servirà tanta coerenza, e facce nuove, un gruppo dirigente da selezionare da capo. A me sarebbe piaciuta un’altra solidarietà generazionale fra i vari Civati, Speranza, Fratoianni, Fassina, Laforgia, Muroni. Un gruppo di ragazzi che non ha saputo trovare le ragione della sintesi, peccato. Sono invecchiati anzitempo. Vedremo se questa sinistra disastrata saprà accettare il guanto di sfida che ha lanciato Articolo Uno domenica scorsa. Intanto un consiglio lo voglio dare: trovate un grafico bravo, perché la rosa stilizzata di Ricostruzione faceva piangere.
Ps: buone feste, anche il pippone se ne va in vacanza.
E’ Natale, a sinistra è ora di parti plurigemellari.
Il pippone del venerdì/81
La cosa più chiara, come spesso gli accade, l’ha detta di recente Bersani: data la situazione in Italia sarebbe auspicabile una sorta di big-bang alla fine del quale l’attuale centro sinistra si scomponesse in tre diversi filoni: il partito di Renzi, un nuovo partito della sinistra cosiddetta riformista, un partito della sinistra cosiddetta radicale. E’un po’ quello che vado auspicando da anni anche io. Il Pd, nella attuale conformazione, resta un grande equivoco che elegge moderati (più bravi con le preferenze) con i voti della sinistra. E allo stesso tempo condanna le altre forze progressiste a un ruolo decisamente subalterno. Un equivoco parecchio ingombrante che sta lasciando macerie ovunque. E sta portando la sinistra nel suo complesso a essere quasi “odiata” dagli elettori. E in un sistema democratico potrebbe essere un problemino non di poco conto. Le ultime elezioni insegnano: la caduta renziana, paradossalmente, ha travolto anche quelli che più si erano battuti contro di lui.
La cosa che Bersani non può dire è come arrivare a una disposizione simile delle forze in campo, disposizione che, forse, potrebbe far ritornare competitivo il fronte progressista, sia pur in una situazione di difficoltà a livello mondiale. Non può dirla perché non è nei suoi poteri provocare la scomposizione che lui si augura. E poi non è che basta rimescolare la minestra nel pentolone. Servirebbe un serio lavoro sui valori, nuove forme partito più aderenti alla società di oggi , ma allo stesso tempo in grado di farci tornare in mezzo al popolo. Servirebbero anche luoghi dove pensare tutto questo. Serve, intanto, un punto fermo da cui partire.
Due appuntamenti romani nel fine settimana, il convegno per i 20 anni di Italianieuropei (sabato ore 10, Nazionale Spazio Eventi, via Palermo 10) e l’assemblea nazionale di Articolo Uno (Domenica ore 9.30, auditorium Antonianum, viale Manzoni 1) possono essere utili in questo senso. Prima di tutto riflettere. Ci serve una elaborazione forte e l’elenco dei relatori, in ambedue i casi, fa ben sperare, ci serve una nuova casa da cui partire. Vedremo se, dopo tante false partenze, sarà la volta buona. Perché se ha ragione, come credo, Bersani, nel disegnare la prospettiva dei tre partiti, da qualche parte bisognerà pur cominciare. La cultura politica che viene dal Pci e più in generale dal socialismo del ‘900 deve ritrovarsi in un luogo, deve darsi una sua identità forte, ma aperta al tempo stesso alle contaminazioni necessarie per restare attuali.
E così, ad esempio, l’ambientalismo che Marx non aveva in testa, ora serve eccome se non vogliamo arrivare in pochi anni all’estinzione della specie umana. E allo stesso tempo le battaglie delle donne devono stare nel patrimonio genetico della sinistra che serve in questo Paese. Così come va ricostruito un vero e proprio cordone ombelicale con il sindacato. Non saremo più ai tempi della famosa cinghia di trasmissione (anche allora, in realtà, considerare la Cgil una mera appendice del Pci era una bestialità), serve un rapporto paritario, ma molto stretto sia pur nel rispetto della reciproca autonomia.
Ora, Articolo Uno, dalla sua fondazione ormai quasi due anni fa ha commesso senza dubbio molti errori: la rincorsa a Pisapia prima, più in generale la ricerca del papa straniero come leader, l’attesa degli alleati dopo le elezioni del 4 marzo. Senza dubbio c’è una difficoltà, direi, di reazione. Pur azzeccando spesso l’analisi, a Speranza e compagni, troppo spesso, è servito un tempo troppo lungo per arrivare a prendere una qualsiasi decisione. Ma la ragione sociale con cui era nato il movimento era quella giusta: costruire una casa della sinistra, riunire non tanto le sigle ma le persone, i militanti che si sono allontanati negli anni, tornando a essere attrattivi al tempo stesso verso quei giovani che sembrano una specie di terra promessa che non riusciamo da tempo a raggiungere. Le elezioni del 4 marzo, in minima parte, avevano rappresentato una limitata inversione di tendenza: Leu ha preso più voti (sia in valore assoluto che in percentuale), alla Camera rispetto al Senato. Non succedeva da anni.
Era un piccolo segnale che la crisi progressiva della sinistra non è ineluttabile, che la tendenza si può invertire. Basterebbe puntare su parole chiare e impegni precisi su scuola, università, lavoro. In Inghilterra così hanno fatto. Nessuna bacchetta magica e nessun Messia. Corbyn parla un linguaggio semplice e lo accettano addirittura ai concerti rock. Visto che siamo esterofili e anglofili da sempre, per una volta proviamo a copiare quello che di positivo arriva dall’isola oltremanica.
Insomma, pur nel mio pessimismo ormai abituale, mi aspetto un finesettimana in cui si parli di politica, di idee, non di siti, adesioni e organizzazione delle truppe. Le delusioni, anche negli ultimi mesi, non sono mancate di certo. Il fallimento di Liberi e Uguali, le nuove divisioni che hanno superato ogni livello che avevamo immaginato. Eppur bisogna andare, verrebbe da dire. Chi, come dovrebbero essere i militanti della sinistra, soffre per le ingiustizie del mondo, non può adeguarsi allo stato delle cose esistente.
Forse, se prendiamo le cose dal verso giusto, ovvero ripartendo dalle idee, dai valori, dalla politica in una parola sola, sarà anche più semplice dirimere eventuali divergenze e provare a costruire qualcosa di duraturo. Poi discuteremo magari di cosa fare alle amministrative, alle europee. L’appuntamento lanciato da Articolo Uno si chiama Ricostruzione. Speriamo che non sia l’ennesimo buco nell’acqua. Non ci serve un gruppo dirigente senza popolo, di quelli che abbiamo a iosa. Ci serve un percorso di partecipazione democratica, in cui i due livelli – base e altezza – entrino di nuovo comunicazione fra di loro. Sembra semplice. In realtà è una strada stretta e piena di buche. Vabbeh, i romani sono avvantaggiati.
Renzi che va, Renzi che viene.
Il pippone del venerdì/80
Non cambia molto se Renzi fa il suo partitino. Ci sarà solo da aggiornare il conto delle formazioni politiche personali. E del resto mica era possibile che fosse soltanto la sinistra a sfaldarsi, è proprio questa società che non tiene più. Le varie diaspore politiche sono la conseguenza. La politica non può che essere lo specchio fedele di un paese, della situazione sociale, delle evoluzioni dei costumi. E se un società diventa sempre più individualista, cattiva ed escludente, la politica non può che ripercorrere questi tratti. Il settarismo va di gran moda, il “meglio comandare in una casa piccola che stare insieme ad altri in una più grande” oramai è una sorta di mantra che si sente in ogni angolo.
E comunque, si diceva, non cambia molto se Renzi fa il suo partitino. Almeno per quelli come me che sono convinti che l’errore, anzi direi l’equivoco, stia nell’esistenza stessa di una formazione politica che riunisce due culture distinte. Non si mescolano, al massimo una prova a cancellare l’altra. Come è successo con la famosa rottamazione, che non era la semplice sostituzione di una classe dirigente. Non era un salutare scontro generazionale. Tutt’altro: era la fase finale della cancellazione di una cultura politica, quella che, con una semplificazione necessaria alla salute dei lettori, oserei definire “togliattiana”. La rottamazione era la fine di quell’idea di partito e di funzione del partito nella società che era stata definita nel Pci del dopoguerra e perfezionata con Berlinguer.
Cambia qualcosa se il segretario sarà Zingaretti? Con tutta la stima che ho da sempre per il presidente della Regione Lazio, credo di no. Intanto perché secondo me Zingaretti la sua occasione vera l’ha persa alle primarie del 2009. Un ampio fronte, quello si davvero generazionale, gli chiese di mettersi alla guida di un processo di rinnovamento del partito e candidarsi alle primarie che non potevano risolversi in una conta fra Bersani e Franceschini. Una sfida che sembrava guardare più al passato che al futuro. Zingaretti disse di no, spiegò che il suo impegno era tutto teso alla riconquista di Roma (salvo poi ritirarsi per candidarsi alla Regione). Sappiamo come è andata la storia del Pd da quel momento in poi.
Resto convinto anche dieci anni dopo che quella fosse l’occasione di fare del Pd un partito e non una federazione di correnti personali. Ora è tardi. E’ tardi per due ordini di ragioni. Intanto perché quel simbolo ormai viene associato indissolubilmente a una stagione, quella delle leggi contro i lavoratori, quella delle leggi truffa, quella della riforma costituzionale. Ma è tardi soprattutto perché quel partito ha consumato il legame “empatico” non solo con i suoi elettori, ma con i suoi militanti. C’è stata una rivoluzione genetica che ha cancellato una comunità. Non basta il cambio di un segretario né tanto meno basta invocare una generica discontinuità. Tanto più che appostati dietro di lui c’è la fila di quelli che hanno lavorato strenuamente per arrivare alla situazione odierna. Da Franceschini in giù. Nel Lazio, tanto per dirne una, il candidato di Zingaretti alla segreteria regionale era Bruno Astorre, uno che si vantava pubblicamente di “comprare” migliaia di tessere.
Insomma, per non farla troppo lunga, il presunto partitino di Renzi rappresenterebbe sicuramente una novità, ma non la soluzione del problema. Con Zingaretti, ovviamente, sarà possibile aprire un dialogo. Ma si potrà fare solo se avverrà da pari a pari. Soltanto se, nel frattempo, saremo riusciti a dare una casa aperta e stabile allo stesso tempo a quello che resta della sinistra italiana. Resto molto pessimista, la tentata nascita dell’altro partituncolo personale, quello annunciato da Grasso, è un altro ostacolo in un percorso già travagliato. Credo però che prima o poi dovremo fermarci e contare fino a dieci. Ormai ho la certezza che il problema non siano le divaricazioni programmatiche, su quelle una via di mezzo siamo bravissimi a trovarla. Il vero problema è la sopravvivenza dei diversi gruppi dirigenti. Per fortuna le prossime elezioni europee spazzeranno via quello che ne resta. Sarebbe bene capirlo prima e attrezzarsi, ma mi pare che gli egoismi prevalgano. Le liste della sinistra all’appuntamento di maggio saranno almeno quattro e prima si voterà in 4 regione e 4.200 Comuni. Serviranno a confermare l’irrilevanza di ognuno. Né il pur generoso tentativo di Speranza e soci sembra nascere sotto i migliori auspici. Staremo a vedere.
Eppure avere una solida e autonoma formazione alla sua sinistra aiuterebbe anche Zingaretti a tenere a bada i suoi alleati di oggi, accoltellatori seriali che non vorrei mai avere alle mie spalle. Ridefinire un’alleanza progressista in grado di opporsi alle destre è sicuramente una priorità. Ma non funziona un campo – uso questo termine che va tanto di moda – in cui ci sia un partito e tante liste civetta. Funziona uno schieramento vero, con una base culturale comune che viene tradotta in un programma di governo. Se si uniscono, insomma, strategia e tattica. E per fare questo serve una sinistra che esca dall’abbaglio del neoliberismo e torni a essere popolare. Che si occupi, la finisco qui perché so di essere noioso e ripetitivo, delle condizioni materiali del suo blocco sociale, che dia rappresentanza ai tanti movimenti che proprio in questi mesi tornano a far sentire la propria voce. Mettiamo l’orecchio a terra e guardiamo avanti. Forse ne usciamo vivi.
La sinistra sono io e voi non siete un…
Il pippone del venerdì/79
Girando e curiosando fra le varie fasi costituenti di questi giorni mi sono reso conto di alcuni elementi che potrebbero sembrare particolari irrilevanti, ma con cui, in realtà, secondo me dovremmo fare bene i conti. In primo luogo abbiamo un po’ tutti la tendenza a ritenerci depositari della verità assoluta. Un po’ come quando esisteva il Pci e dicevamo che non poteva esistere nulla a sinistra del Partito. Che non a caso aveva la P maiuscola. Solo che allora, il fatto non è da poco, c’era – appunto – il Pci. Ovvero un partito che aveva quasi due milioni di iscritti e arrivava a dodici milioni di voti. Anche all’epoca, in realtà, l’affermazione era almeno presuntuosa, però aveva un suo fondamento: nel momento in cui c’era una casa comune dei comunisti italiani, da Amendola a Ingrao, era lecito guardare con sospetto a chi si chiamava fuori. Adesso, nel suo complesso, il campo della sinistra italiana non arriva al 10 per cento dei voti. Gli iscritti ai vari micro partiti sono meno, sempre nel complesso, di 100mila. Non a caso, di anno in anno, le costituenti, i cantieri che si aprono, i campi larghi da esplorare, sono sempre di più ma si svolgono in sale sempre più intime. E ultimamente neanche troppo piene.
Il secondo dato è che, anche all’interno della stessa formazione politica siamo come monadi separate, dove non solo tutti parlano male di tutti. Al chiacchiericcio che ha sostituito la sana battaglia politica ormai ci siamo abituati. Il dramma vero è che nessuno ascolta più gli altri, né si sente rappresentato da altri. Assistito a riunioni dove se i presenti sono venti intervengono tutti e venti, con ragionamenti completamente slegati fra loro. Una specie di seduta di autocoscienza continua. Il bisogno di apparire, di affermarsi personalmente, ha ormai sostituito il riconoscimento delle capacità dell’altro. Sarò anche questo un frutto avvelenato della nostra società sempre più individualista?
Il terzo dato è la scomparsa del “popolo”. A parlare, sempre più spesso, sono sedicenti intellettuali, esperti di non si sa bene cosa, portatori di non si capisce bene quale messaggio superiore. E pretendono sempre di insegnarti qualcosa, di spiegare al muratore come si fa un muro, all’idraulico come si monta un rubinetto, allo sfruttato come bisogna lottare per i propri diritti. E’ qualcosa che va oltre la spocchia, è una superiorità aristocratica conclamata. Non ci si interroga, non si ascolta. Si proclama. Noi siamo, noi spieghiamo, noi vogliamo. Ora, in Italia la sinistra funzionava quando era fusione di popolo e intellettuali, quando i lavoratori parlavano del lavoro, gli intellettuali si confrontavano con loro e da lì nasceva la “linea”. Quando abbiamo cominciato a imporre le riforme dall’alto, quando abbiamo perso le nostre radici, non ne abbiamo più azzeccata una. La lezione, almeno questa, dovremmo averla imparata. E invece no. L’operaio, il precario, sono soltanto figurine che si mettono sui palchi perché fa tanto fico. Un po’ come avere l’amico gay qualche anno fa. Ma ci si ferma lì. E così andiamo a salvare naufraghi nel mediterraneo – cosa sacrosanta per carità – ma siamo lontani mille miglia dai tanti naufraghi che abbiamo nelle metropoli cattive che abbiamo costruito. Il popolo non ci vota perché non siamo popolo.
E allora di cosa avremmo bisogno? Io continuo a sostenere che servirebbe un grande sforzo culturale di analisi riprendendo nel cassetto i “vecchi” arnesi marxiani che sarebbero tanto utili nella società di oggi. Non solo dovremmo essere alternativi al neoliberismo che di danni ne ha fatti anche dalle nostre parti, ma tornare ad essere alternativi al modello di sviluppo capitalistico, perché è il capitalismo stesso a generare quel mondo dispari che ci ritroviamo nelle mani.
Non pretendo tanto. Se dici certe cose ti dicono che sei un comunista e se gli rispondi “certo” si sconvolgono. In una situazione come la nostra anche erigere una barricata sufficientemente alta per ripararci dall’onda nera che ci sta travolgendo sarebbe un miracolo. Cosa hanno fatto da altre parti? Perché in altri paesi la sinistra resiste, in alcuni casi torna addirittura a essere egemone? In Italia l’ultima esperienza di sinistra con una certa consistenza è stata Rifondazione Comunista, tutti gli attuali partitini nascono da lì, da un soggetto politico che aveva una discreta consistenza, una buona organizzazione, una attività militante diffusa. Poi più nulla. Altrove, penso alla Francia, alla Spagna, ma anche agli inglesi, la sinistra resiste se: 1) riesce a rinnovarsi radicalmente, 2) trova un leader convincente in grado accompagnare il rinnovamento, 3) trova delle forme organizzative che garantiscano un po’ di continuità. Non fanno, insomma, una fase costituente al giorno.
Noi un leader convincente non ce lo abbiamo. Facciamocene una ragione. E anche l’idea del “papa straniero”, al decimo fallimento consecutivo, dovrebbe essere rapidamente accantonata. Se facciamo l’elenco, da Prodi fino ad arrivare a Grasso, dovremmo capire che forse è proprio sbagliata l’idea in sé, che la sinistra dovrebbe formare la sua classe dirigente nella lotta politica e poi proporla e sperimentarla, non creare leader in laboratorio, incoronarli con un applauso con l’illusione di riuscire poi a controllarli. Poi questi si montano la testa e finisce male. Sempre.
Quanto al rinnovamento, faccio notare che ormai alle riunioni ci si conosce un po’ tutti. Perfino i ragazzi, pochi, che ogni tanto compaiono sembrano meri cloni dei più anziani. Con tutti i loro difetti, con tutte le loro debolezze. E poi c’è questa cosa che a me mi fa impazzire: il rinnovamento va bene, ma mai per se stessi. Sono sempre gli altri, nel segno della rottamazione continua a doversi fare da parte. E così ci ritroviamo ultrasessantenni con un onesto passato nelle retrovie della prima repubblica che ti diventano all’improvviso i paladini acerrimi del rinnovamento. Altrui.
L’altra cosa che trovo insopportabile è la società civile. Serve la società civile, basta con i partiti, le energie presenti nella società da valorizzare. Ma che noia questa stanca ripetizione di ricette fallite. Ora, le energie ci sono davvero, lo vediamo nel movimento delle donne, degli studenti, nelle manifestazioni contro il razzismo. Ma ai movimenti serve una sponda politica, un luogo dove le istanze che rappresentano diventano stabili, diventano patrimonio comune. Altrimenti, è la natura stessa dei movimenti a dircelo, si accendono, divampano e poi si spengono senza lasciare sedimenti significativi.
E allora che fare? Costruire una casa stabile, che non cambiamo ogni tre mesi, che non abbia come orizzonte soltanto le prossime elezioni, ma nella quale trovare riparo. Io resto convinto che almeno questo si possa realizzare in tempi brevi: dare alla sinistra un luogo di confronto di elaborazione, di selezione della classe dirigente. Come? Non dal basso, o almeno non soltanto. I partiti non nascono mai solo dal basso o solo dall’alto. Nascono seguendo esigenze storiche, fondendo militanza e classe dirigente. Sono processi più complessi. Ma per essere credibile e stabile il partito che ho in mente deve valorizzare la partecipazione e il metodo democratico. Non è che abbia la pretesa di essere maggioranza, tra l’altro mi succede di rado, ho però la pretesa di poter discutere le proposte, di poter contribuire a eleggere la classe dirigente. Dove non ci possono essere più “nominati”, quelli che ci sono sempre “di diritto”.
Insomma, continuerò a partecipare, per quanto mi sarà possibile, a tutti gli appuntamenti in cui si parlerà di questi temi. Secondo me ci sono ancora le condizioni per costruire un percorso che non rappresenti un ritorno al passato, che aggreghi e non divida ulteriormente. Un po’ meno spocchia e più umiltà da parte di tutti non guasterebbe. Ma è merce rara.
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