Il #pippone del venerdì/8.
C’era una volta l’industria italiana
Cominciammo con l’Iri. Che li facciamo a fare i panettoni? Poi ci fu Alfa Romeo. Bisogna creare un grande polo italiano dell’auto, regaliamola a Fiat. Poi ci fu Telecom. E che le comunicazioni sono strategiche? Poi fu la volta di Alitalia. Con lo Stato perde, ci costa troppo, diamola ai privati e per ripagarli del favore gli regaliamo pure le autostrade va.
Avete appena letto: breve storia triste dell’industria italiana. In mezzo ci sono acciaierie, petrolchimico, farmaceutica, informatica. Tutto sparito. Della sesta o settima potenza economica mondiale cosa resta? Il turismo mordi e fuggi e poco altro. Perfino Fiat, oggi gruppo Fca, appena ha potuto ha portato la sede fiscale in un paradiso fiscale (europeo). Ma come, verrebbe da chiedersi, dopo tutto quello che abbiamo fatto per loro? Abbiamo fatto strade, eliminato i tram, concesso bonus a chi rottama le auto, per anni sono state Fiat tutte le auto della pubblica amministrazione e poi ti arriva un Marchionne e se ne va, tra gli applausi dei nostri governanti.
Però, ragazzi, stiamo tranquilli che va tutto bene. C’è Matteo che pensa a tutto. E che ti fa? Il Jobs Act: detassazione per le imprese che assumono a tempo indeterminato, tanto poi vi do libertà di licenziare e tolto l’articolo 18. E non basta. Ragazzi, arriva industria 4.0. Una scoppola da 13 miliardi di contributi in varie forme per gli imprenditori che investono in robotica. E così i contributi previdenziali non li paghi proprio più. Quando il robot è vecchio mica lo devi liquidare, dargli il welfare e la pensione al massimo serve una discarica. Quindi tu elimini lavoratori con il finanziamento statale. Una genialata.
E poi torna ancora Alitalia, riassumiamo per chiarezza. Partiamo da un dato: nel 2001 un’azione di Alitalia (all’epoca lo Stato aveva più del 60 per cento) valeva circa 10 euro. Nel 2006 circa 1.57. Che si fa? Vendiamo, mi pare ovvio. Ora, io non sono un economista, ma c’è qualcosa di strano: io venderei a dieci semmai, non a 1.57. Comunque sia, un paio di “bandi”, interessamenti vari. Alla fine Alitalia sceglie: il nostro partner sarà Air France-Klm. Partono le trattative, non si chiude l’accordo con le parti sociali sulla ristrutturazione che il socio straniero pretende prima di firmare l’intesa. E poi arriva a gamba tesa il Berlusconi che dice: dopo le elezioni, che vinco io, di vendere agli stranieri Alitalia non se ne parla proprio. Air France capita la malaparata si tira indietro.
Ma che bravo il Berlusca, tra l’altro dentro Air France c’è una bella percentuale pubblica, dello stato francese, e che vendiamo la nostra compagnia di bandiera a uno stato estero? Non sia mai. Morale della favola Berlusconi la regala a un gruppetto di amici suoi che convoca ad Arcore e convince a suon di regali (autostrade comprese). In cambio si prendono Alitalia senza debiti (quelli li paga lo Stato), ricordate la bad company e la good company? Ecco, il senso era quello: a voi i debiti a noi il capitale. Questi benemeriti del popolo li chiameranno “i capitani coraggiosi”. Alitalia continua a perdere, perché sono pippe, e i capitani prendono il largo. Il governo Renzi si inventa allora la soluzione araba. Arriva Etihad. E cavolo questi sono arabi, gente che gli affari li sa fare. E poi negli ultimi anni il volume di affari legato al trasporto aereo continua a crescere, vuoi che non si aggancino a questa tendenza? E infatti, annuncia Renzi con il solito tuitte: “Presentati i nuovi aerei, sembrava impossibile due anni fa. Ma Alitalia torna in pista, pronta su nuove rotte. Vola Alitalia, viva l’Italia”. Secondo me porta male. Ma questa è un’altra storia, fatevela raccontare dalla nazionale femminile di pallavolo.
Morale della favola, l’unica cosa nuova che fanno gli arabi sono le divise, pare peraltro di tessuto che raschia la pelle. Nuove rotte, piano per il lungo raggio, integrazione con Etihad? Nulla. La compagnia è di nuovo sull’orlo del fallimento. Si tratta, i sindacati firmano l’intesa, è storia recente. Altri tagli al personale, altre diminuzioni di stipendio, con la prospettiva di mettere in vendita nuovamente la società. Questa volta i lavoratori non ci stanno e votano no all’accordo. Finisce quasi 70 a 30, non si tratta di un esito sul filo di lana, malgrado l’intervento a gamba tesa del presidente del Consiglio, Gentiloni: “Se votate no, l’azienda fallisce”, dice. Una specie di invito subliminale a votare no due volte.
E adesso che si fa? Prestito ponte per avviare le trattative e vendere a qualcuno. Si dice ai tedeschi. Perché i soldi per salvare Mps (10 miliardi) ci sono. I soldi per regalare i robot agli industriali ci sono (13 miliardi). Alitalia costa troppo, c’abbiamo già rimesso 7.4 miliardi. E poi è colpa dei lavoratori che si sono suicidati. Io tengo a pensare che si siano semplicemente rotti le scatole di essere presi in giro. Ma forse vivo su un altro pianeta. E poi, ma a nessuno viene il dubbio che la colpa sia di manager pagati milioni e liquidati a peso d’oro? Possibile, lo ripeto, che il traffico aereo continui ad aumentare e i passeggeri di Alitalia a diminuire?
Siccome non credo che il personale Alitalia, nel suo complesso, emani odori insopportabili, non è che qualcuno ha sbagliato la strategia aziendale? Sempre che ve ne sia mai stata una. L’attuale amministratore di Alitalia, tal Crames Ball guadagna nel complesso 2.2 milioni di euro l’anno, solo per restare all’attualità. Ma velo ricordate, per fare un altro esempio, Giancarlo Cimoli? Si prese 3 milioni come buonuscita. E mi fermo per carità di patria. Solo un altro: Montezemolo. Basta il nome.
Come sempre tendo a essere curioso, apro parentesi. Abbiamo salvato Mps o abbiamo salvato i suoi debitori, dei quali per questione di privacy non si può avere la lista? Io propendo per la seconda. E chi vi racconta che sono stati salvati migliaia di correntisti vi dice una balla, quelli sono garantiti comunque.
Su Alitalia, invece, il governo ha una brillante strategia: 300 milioni per garantire la continuità aziendale, due spiccioli, e nel frattempo si vende. In pratica, visto che gli aerei sono per la maggior parte in affitto che si vende? Gli slot, detta in parole povere il diritto di partire da un aeroporto ad una determinata ora, le rotte. Poco altro. I dipendenti? I tedeschi ne vogliono solo 3mila su 12mila. Insomma si smantella quel poco che resta di Alitalia. Come sempre.
Cosa resta di Alitalia l’abbiamo capito e dell’industria in genere? Poco. Non produciamo praticamente più nulla. I capitalisti coraggiosi hanno venduto a multinazionali o hanno de localizzato le proprie imprese. La nostra rete commerciale è in mano a multinazionali. Che ci resta? Turismo e pastorizia? E come si regge un paese solo sul turismo? Qualcuno si ricorda che fine hanno fare alla Grecia? Del resto siamo un paese dove un paio di anni fa il presidente del Consiglio spiegò che elaborare un piano di sviluppo industriale per l’Italia non era compito del Governo, questa è la logica conseguenza.
Io resto convinto che alcuni settori siano strategici per un paese che vuole essere competitivo. Quelli bravi li chiamano asset. Letteralmente vuol dire “beni”. Trasporti e reti di comunicazione, l’industria pesante. E in questi settori ci deve essere la mano pubblica. Lo fanno i francesi a piene mani, con qualunque governo e nessuno pensa che siano dei pericolosi bolscevichi. In Italia no, siamo ancora vittime della balla anni ‘90° per cui privato è bello e il pubblico non funziona.
Ecco, io la vedo così: cambiamo rotta in fretta, magari proprio a partire da Alitalia. Non sta scritto da nessuna parte e soprattutto in nessuna regola europea (e chi ve lo racconta dice balle) che lo Stato non possa essere azionista di società private o proprietario di industrie. L’economia da noi riparte soltanto se riprendono gli investimenti. Così si creano i posti di lavoro, non eliminando i diritti. Le imprese assumono se hanno bisogno di produrre. E lo Stato può dare il primo segnale, ricominciando a investire nel futuro del Paese. Lo diceva Keynes, un liberale, non un pericoloso comunista.
Questa furia antipubblica ci ha portato a svendere il nostro paese. Abbiamo privatizzato anche l’acqua, ci manca solo l’aria, ma state sereni…
Il pippone del venerdì/7.
Sinistra, c’è una luce in fondo al tunnel (?)
Sala in centro di Roma, arrivo presto e conto le sedie. Circa 300. Non una folla, ma neanche poche. Quando entra Bersani si riempie in un attimo, restano una cinquantina di persone in piedi. Descrizione del pubblico: molti over 50, una quindicina di ragazzi estremamente giovani (diciamo sui vent’anni a occhio), una robusta presenza di quarantenni. Uno spaccato della società italiana, con tendenza alla prevalenza degli anziani.
E’ la “prima” di Articolo Uno a Roma. Il movimento che vuole ricostruire un nuovo centrosinistra in Italia, dopo un lungo peregrinare in giro per l’Italia arriva anche qui. E già il fatto di non partire da Roma è significativo. Incontro con Bersani, recita la locandina.
In realtà l’ex segretario del Pd concluderà soltanto un pomeriggio con interventi di professionisti, lavoratori, esponenti del mondo sindacale e del terzo settore. Si parte dall’ascolto. La platea, a occhio mi sembra un curioso mix di quadri di partito, dirigenti politici locali e intellettuali. Capita così di vedere seduti fianco a fianco Roberto Zaccaria, ex presidente Rai poi parlamentare di Margherita e Pd, e il segretario di un circolo Pd della periferia romana. Mancano, sempre a occhio, i militanti di base. Il livello si ferma ai quadri di partito. Il “popolo della sinistra”? Bersani risponderà che va riconquistato. E proverà a dire anche come, con quali parole d’ordine.
Prima notazione politica: avevo in testa il Bersani stanco della campagna elettorale del 2013, poi quello “sballottato” dalle vicende successive alle elezioni. Non l’avevo più sentito da allora, se non in dichiarazioni di pochi secondi. L’ho trovato differente. Meno metafore, non manca la concretezza emiliana ma viene meno banalizzata in immagini, questa volta. Più analitico. Parla più di un’ora e – per usare una metafora – ti mette le mutande al mondo. Poi forse restano un po’ strettine, per come la vedo io. Ma era da tempo che non ascoltavo un ragionamento così. Analisi, racconto, soluzioni. Mi dirà un collega, giornalista e compagno: “Guarda che quelli delle agenzie di stampa hanno preso il primo appunto dopo cinquanta minuti di intervento, quando ha nominato Renzi”. E’ la maledizione di esce dal Pd: per il mondo dell’informazione conta solo la contrapposizione al leader democratico. E poi Bersani non è tipo da 140 caratteri. Ma ci serve un tipo da 140 caratteri? Basta questo? Io non credo, non vorrei un altro partito del leader.
Seconda notazione politica: l’ex segretario del Pd capisce, lo dice chiaramente, di essere un reduce: fa un po’ lo stesso ragionamento di D’Alema. Noi ci siamo per dare solidità a questa nuova avventura. Ma non guardate a noi come ai futuri leader. Chiede – a se stesso e a tutti – un atto di generosità: siamo a disposizione, ma bisogna fare spazio. Mettiamo dunque al bando – questo il ragionamento – tatticismi e personalismi, non siamo un partito, ma un movimento, disposto a confrontarsi, nel merito, con tutti quelli che ci stanno. “E il rapporto con il Pd? – si chiede retoricamente Bersani – Costruiamolo noi il nuovo centrosinistra, poi sarà il Pd a dover decidere cosa fare”. Mi sembra convincente: un movimento, un raggruppamento di forze culturalmente autonomo che si pone l’obiettivo, non l’ossessione, del governo. Poi le alleanze verranno.
Terza e ultima notazione politica: nel suo intervento Bersani ha criticato duramente la globalizzazione e l’atteggiamento di quella sinistra che ha fatto spallucce continuando a proporre ricette di destra. “Ora – si chiede ancora retoricamente – arriverà il conto di questi anni in cui si è detto che tutto andava bene e il tema vero è: chi lo paga? Io avevo provato a dirlo nella campagna del 2013, forse non sono stato capito. Ma per me resta questo il discrimine fondamentale. Paghi chi ha di più”. Per chi è ossessionato dalle “cose di sinistra” questa è una. Bella chiara.
E ora vediamo ai punti dolenti. Non entro nella polemica di chi dice “eh ma che ve ne siete accorti adesso?”. Ci sarà stato anche qualcuno più bravo che ci era arrivato prima, senza dubbio, ma non ha lasciato grandi tracce della sua esistenza. Mi ci metto anche io, nel mio piccolo. Quello che mi interessa è l’aver finalmente capito la fase che sta vivendo il mondo, capito i problemi e capito quali sono stati gli errori della sinistra a livello mondiale. Non la faccio tanto lunga: “Mentre la destra – ha argomentato Bersani – ha cambiato radicalmente la sua ricetta passando dal liberismo sfrenato di Reagan e della Thatcher al sovranismo e al protezionismo di oggi, noi non abbiamo capito il cambio di fase”. E quindi la crisi della cosiddetta globalizzazione porta alla luce anche gli errori del passato, quando la sinistra ha vinto in tutto il mondo proponendo soltanto un modello un po’ più umano. Adesso invece spuntano fuori quelle che l’esponente di Articolo Uno chiama le spine: finanza senza controlli, diseguaglianze diffuse, attacco ai diritti, umiliazione del lavoro. Fin qui tutto bene, la parte che mi sembra debole nel ragionamento di Bersani è quella delle soluzioni al problema. Posto che la risposta che abbiamo dato fin qui, almeno in Italia, ovvero sostanzialmente assistere inerti alla deindustrializzazione del nostro paese, è del tutto inadeguata e ci porta dritti nel baratro, non basta ripartire dai tre classici capisaldi europei, ovvero diritti dei lavoratori, stato sociale universalistico e fiscalità progressiva. Non basta neppure aggiornando i contenuti.
Mi piace però ripartire, da due belle definizioni che ha dato nell’appuntamento romano. La prima: “Se l’Europa non è un’idea per il mondo non potrà mai farsi Europa”. La seconda: “La sinistra è quella cosa che esiste perché non gli piace il mondo così com’è”.
Io le stamperei e le attaccherei in tutte le sezioni, circoli, comitati o come diamine si chiameranno le articolazioni locali di Articolo Uno. Perché lì dentro ci sono le nostre radici e il nostro futuro. C’è la necessità impellente di trovare strade nuove, di dare risposte a quella fortissima crisi che sta vivendo l’idea stessa di democrazia rappresentativa. La risposta di Renzi è “più potere con meno consenso”. Ha ragione Bersani, questo volevano dire Italicum e riforma della Costituzione: spazzare via i corpi intermedi, smantellare il sistema della rappresentanza vuol dire avere meno democrazia. E la famosa democrazia diretta tanto decantata dal movimento 5 stelle vuol dire un sistema autoritario dove i cittadini non contano più nulla.
Rimango ai tre punti di cui ha parlato Bersani. Della questione del lavoro, ovviamente centrale, ho già parlato, ampiamente, qui. Vorrei soffermarmi, invece, nel “pippone” di oggi sulla questione delle diseguaglianze, che ieri sono state ridotte, in sintesi, alla necessità di garantire un welfare di natura universalistica. E’ importante porsi nuovamente questo tema, uscendo finalmente dalla retorica del merito. Ma credo che sia un errore limitarsi a questo ragionamento. E anche limitarsi a descrivere il tema delle diseguaglianze come tema interno a un paese. Fra gli stipendi dei supermanager e i vaucher, tanto per usare la semplificazione di Bersani. Chi vuole definirsi di sinistra non può continuare a leggere le diseguaglianze solo all’interno degli anacronistici confini nazionali. E allora la differenza è fra gli stipendi dei supermanager italiani e lo stipendio di un operai africano o cinese. Qua stanno le diseguaglianze, qua sta la vera lotta di classe del nostro tempo. Altrimenti continuiamo a essere prigionieri della contrapposizione fra migranti e proletari “interni”. Giochiamo la partita nel terreno di gioco scelto dalle destre. Continuare a parlare di stati e di nazioni, insomma, ci condanna a una visione miope e alla sconfitta. E allora che fare? Io credo che dobbiamo, ad esempio, mettere in discussione seriamente la casa del Partito socialista europeo. E usare il “metodo Bersani” anche a livello internazionale. Una cosa del tipo: “Guardate ragazzi che ognuno per sé mica reggiamo più, qua tocca mettersi insieme davvero”. Potrebbe sembrare eccessivamente ambizioso: non riusciamo a rimettere in piedi una sinistra italiana e ci preoccupiamo del livello europeo? Io credo sia essenziale, limitarsi ai patri confini sarebbe un errore tragico. Tornare a produrre, come Europa, idee che siano modello per tutti, sui grandi temi che abbiamo di fronte. Da quelle diseguaglianze che sono il concime per tutti i fondamentalismi, ai temi ambientali, a quelli economici, della produzione, della finanza. Io credo che una delle riflessioni che dobbiamo fare sia su questo.
Abbiamo di fronte un’ondata di destra senza precedenti, non basta chiudersi nei confini nazionali, non basta una strategia di difesa dei diritti del novecento. Occorre riaprire davvero la partita, sfidare le destre e i populismi, sfidare le paure di un occidente che si sta accartocciando sempre più su se stesso. Ancora una volta, come è ovvio, mi limito ai titoli. Non sono in grado di fare di più. Serve un vero e proprio intellettuale collettivo per un’elaborazione compiuta su questi e altri temi. Ma secondo me la strada da percorrere, la direzione da prendere è segnata.
Ecco, se cominciamo a fare questo possiamo dire che in fondo al tunnel in cui si è cacciata la sinistra, non solo italiana, c’è una luce. Senza punto interrogativo. Neanche fra parentesi.
Il pippone del venerdì/6.
Zingaretti? Speranze e perplessità
La dico subito chiara: il fatto che i turborenzini romani tacciano depone a favore della (auto)ricandidatura di Zingaretti a presidente della Regione Lazio. Poi uno avrebbe voluto un percorso diverso, magari anche meno mediatico. Annunciarlo ad Amatrice, insieme al sindaco che potrebbe essere addirittura il suo avversario, secondo me, è una caduta di stile.
Ma si capisce l’esigenza di mettere un punto in una situazione politica interna al suo partito che lo vede sconfitto nelle assemblee di circolo e probabilmente anche alle primarie del 30 aprile. Sarà anche vero che si vota sul segretario nazionale e che il congresso romano sarà a giugno, ma la progressiva orfinizzazione del partito è evidente. Nel Pd comanda chi gestisce il tesseramento. Da qui, mi pare di leggere fra le righe, la necessità di anticipare i tempi.
Ora però, Zingaretti deve avere ben chiara la strada da percorrere. Non baloccarsi sui presunti risultati raggiunti in questi quattro anni di governo del Lazio, anche perché molte delle promesse sono state disattese, e avviare un confronto serio con tutti gli attori politici e sociali (sottolineo sociali) disponibili a ragionare sulla costruzione di una nuova coalizione. Non del vecchio centrosinistra ormai seppellito da Renzi, ma di una nuova coalizione (sottolineo nuova). Non si accontenti dei peana dei vicini di stanza, insomma, sia esploratore di strade innovative.
Si svincoli, innanzitutto, dall’immagine di uomo di partito, di esponente del Pd che troppo spesso in questi anni ha taciuto sui disastri compiuti da Renzi e dai suoi. Sia a livello nazionale che romano. E si metta alla guida di un grande movimento di rinnovamento. Riformista. Progressista. Vero.
Abbiamo ancora un anno, intanto, per correggere la rotta. La giunta Zingaretti ha rimesso in ordine i conti della sanità, si dice. Il prezzo pagato, in termini di efficienza e di “giustizia” del sistema sanitario regionale, è stato altissimo. Diamo, in questo anno che rimane, un segnale forte di discontinuità? Possiamo dire che, risanati i conti, ora si parte alla ricerca della qualità, dell’eccellenza?
C’è un tema, ad esempio che mi ha sempre appassionato: come si fa a ragione sui costi della sanità, quando il pubblico rappresenta, nella nostra regione, meno della metà dei posti letto accreditati? Si ha intenzione di rimettere mano seriamente agli accreditamenti? Certo è materia complicata, mica dico di no. Altra questione. Riusciamo a creare un sistema di ticket come quello toscano, con un sistema progressivo in base al reddito? Ancora. Diamo un segnale forte sui servizi socio-sanitari, a partire dai consultori? Sono solo titoli e anche parziali ovviamente.
In una sola frase: riusciamo ad uscire, in questo anno che ci rimane, dalla logica della propaganda e degli annunci, che se va bene fa guadagnare a ZIngaretti qualche titolo sui giornali, per entrare in quella dei reali servizi da garantire ai cittadini. Guardate che quando vai in ospedale e aspetti ore al pronto soccorso, quando prenoti una qualsiasi prestazione specialistica e devi aspettare mesi, quando ti rendi conto che assolute punte di eccellenza della sanità sono ridotte al collasso, mica te li ricordi più i titoli dei giornali. E temo che quando i cittadini andranno alle urne conterà di più la realtà dell’apparenza.
La stessa riflessione vale per altri temi. L’inizio dell’esperienza di questo governo regionale aveva suscitato grandi speranze. Un vero riformismo di sinistra poteva cimentarsi nel Lazio, con alla guida quello che tutti ritengono uno dei suoi esponenti migliori. Giudizio talmente unanime che nel Lazio non ci fu neanche bisogno di fare le primarie. Tutti d’accordo. Le attese sono però rimaste in gran parte tali. Non si ricordano provvedimenti legislativi epocali. La distanza fra gli annunci e i voti in aula è stata molto superiore a quella fra via Garbatella (dove ha sede la giunta) e la Pisana (dove c’è l’assemblea).
Serviva un’opera di accorpamento e semplificazione delle norme in materie complicate. Il testo unico sul commercio è rimasto, al momento, impigliato in qualche commissione. Di urbanistica meglio non parlare: anche qui al testo unico più volte annunciato come imminente, si sono sostituiti gli interventi tampone: dalla proroga del piano casa Ciocchetti-Polverini (con poche correzioni e neanche tutte positive) alla legge sulla rigenerazione urbana in discussione in queste settimane che, di fatto, rende permanenti ampie parti dello stesso piano casa. Invece di tagliare radicalmente le troppe leggi che ci sono in questo campo e farne una sola, complessiva, si aggiungono altre norme. La legislazione urbanistica nel Lazio è talmente incomprensibile che diventa inapplicabile. Norme buone soltanto per foraggiare schiere di azzeccarbugli. E nelle pieghe delle quali prospera l’abusivismo.
Per non parlare dei rifiuti. Ora, va ricordato che in questo campo sono innegabili le responsabilità del Comune di Roma nelle varie declinazioni amministrative e politiche: la capitale produce la gran parte dei rifiuti del Lazio e dunque il nodo resta questo. Ma anche qui si è andati avanti senza un progetto organico, invece di presentare un nuovo piano rifiuti, che metta in pratica i buoni propositi più volte annunciati, ci si limita a una serie di provvedimenti scollegati che correggono il piano esistente, anche questo risalente all’epoca Polverini.
Nulla, infine, dal punto di vista della mobilità, dove la annunciatissima agenzia regionale è rimasta impantanata nell’intricato gioco di assetti societari e non è più in calendario. Serviva un ente unico di programmazione e controllo dei trasporti del Lazio. Che creasse un sistema coordinato fra Roma e le Province. La coincidenza di colore politico fra Roma, la sua area metropolitana e la Regione rappresentavano un’occasione da cogliere al volo. Tutto sfumato. E ci ritroviamo ancora con un sistema capace soltanto di moltiplicare i debiti senza assicurare un servizio decente.
Mi limito a questi flash sugli argomenti che conosco meglio per non farla troppo lunga. Ha ragione, insomma, Stefano Fassina quando mette in guardia sui troppo facili entusiasmi di questi giorni: “Un modello Lazio non esiste”, sostiene il deputato di Sinistra italiana. Il che non significa che non si possa e si debba lavorare per costruirlo. Ma per fare questo bisogna tornare al punto uno. Costruiamolo questo modello, che rappresenti un’indicazione per il futuro a livello nazionale.
Provo a buttare giù un paio di punti, di sicuro non esaustivi, ma credo siano argomenti su cui aprire una discussione.
Intanto ragioniamo sul fatto che si andrà a votare probabilmente lo stesso giorno per regionali e politiche. Un fatto che, inevitabilmente, complicherà le cose. Soprattutto se resterà questa la legge elettorale nazionale. Ora, in politica non si può mai dire, ma è facilmente prevedibile che, in questo caso, la campagna elettorale nazionale prevarrà su quella per il Lazio. E le divisioni che è facile prevedere sulle schede per la Camera e il Senato, tenderanno a prevalere rispetto alle ragioni di unità che Zingaretti avanza con la sua candidatura. Il quadro, insomma, bisogna averlo ben presente: avremo un Renzi scatenato a livello nazionale che farà la sua compagna isolazionista, tutta basata sul Pd e uno Zingaretti che invoca l’unità per vincere il Lazio. E’ evidente a tutti quanto il primo rischi di travolgere il secondo. Anche perché che senso avrebbe presentarsi a livello nazionale e regionale con due programmi divergenti in nome dello stesso partito?
Insomma, c’è il rischio, non lo nascondo, che questa ricandidatura rappresenti più che altro una foglia di fico, utile soltanto a puntellare quella che, se le elezioni nazionali andassero male, potrebbe essere dal prossimo anno la postazione di governo più importante a livello nazionale per il centro sinistra. E se fosse solo questo, è evidente, non riuscirebbe neanche in questo intento.
D’altro canto il sistema elettorale con cui si vota alle regionali è chiaro: turno unico, il candidato presidente che prende più voti vince. E dunque, ove le forze del centro sinistra scegliessero di non andare unite alle urne, una sconfitta sarebbe quasi automatica. Non dimentichiamo che nel 2013, in una situazione di gran lunga più favorevole di quella attuale, Zingaretti, candidato strafavorito, superò di poco il 40 per cento. Una vittoria ampia, perché il suo avversario, Francesco Storace, non arrivò al 30, indebolito però dalla candidatura di Giulia Bongiorno (Fli, Udc, Sc) che spacco il fronte della destra. Il movimento 5 stelle, allora, si fermo al 20 per cento.
Insomma, se non ci si coalizza si rischia non solo di perdere (nel caso del Pd), si rischia la totale irrilevanza (nel caso delle forze alla sinistra del Pd). Ora io non sono un innamorato del governo a tutti i costi. Tutt’altro: credo che l’opposizione sia addirittura utile per rinnovare e formare la propria classe dirigente. Però, al tempo stesso, credo se uno corre debba avere quanto meno la possibilità di vincere. E proprio se non riesce a vincere deve avere la possibilità di entrare in consiglio regionale. La democrazia rappresentativa funziona se hai il cuore e la testa nel tuo blocco sociale, nelle città, nei quartieri, ma i piedi ben piantati nelle istituzioni, altrimenti svolgi un ruolo di mera testimonianza. Perfino rispettabile, ma sostanzialmente inutile. Se non si ha la possibilità di realizzare le proprie idee, di metterle alla prova del governo, si cambi occupazione.
Dunque che fare? Io credo che i propositi annunciati da Zingaretti in forma molto mediatica vadano verificati lontano dai riflettori. La sinistra non può tirarsi indietro e deve rispondere alla sfida. Io ci sto, se la sua volontà è quella di lavorare a un nuovo modello di coalizione “sociale”, così la chiamo io, non civica si badi bene. Ovvero una coalizione che si assume come compito la rappresentanza di un blocco di interessi. E dichiara prima con chiarezza quali sono. Se riproponessimo una semplice riedizione dell’alleanza elettorale del 2013 ci andremmo a schiantare, lo voglio dire chiaramente. Per questo ben vengano anche gli stati generali del centro sinistra del Lazio, annunciati dal presidente per l’autunno. Ben vengano se però evitiamo la solita passerella dove facciamo parlare un’operaia di una fabbrica in crisi, un giovane imprenditore che ha aperto un’impresa innovativa, un impiegato dell’Alitalia, un giovane volontario possibilmente brufoloso, quale amico molto smart che ci parla dei diritti civili.
Io credo che serva un luogo di confronto vero e che non siano sufficienti un paio di giorni chiusi in qualche luogo caro alla sinistra romana per sciogliere i nodi e dare nuovo vento a vele stanche. Credo che queste vele dobbiamo metterle nuove. E per farlo serva un percorso di partecipazione dal basso. Servono comitati locali che diano radici diverse alla coalizione sociale e insieme costruiscano un percorso dal basso. Serve una campagna radicale: assemblee in ogni città del Lazio, in ogni quartiere di Roma. In cui non si vota un candidato, ma si discutono e si votano le idee per rifondare questa Regione.
Zingaretti, insomma, può fare due cose: essere semplicemente il candidato del Pd – un brand in profonda crisi (come direbbero quelli bravi) – il candidato che poi si porta appresso qualche cespuglietto irrilevante e magari vince anche stancamente, nella migliore delle ipotesi. Fa il presidente per altri cinque anni in cui si tira a campare, la stampa non gli ostile, alla fine un posto da parlamentare glielo danno. Oppure può essere il costruttore di una rete sociale nuova. Che può rappresentare il modello da replicare poi a livello nazionale. Una rete, lo ripeto al di là e oltre le forze esistenti che non rappresentano più il proprio blocco sociale. I punti da cui partire sono sempre quelli: lavoro, uguaglianza nei diritti – primo fra tutti quello alla salute – amministrazione sana ed efficiente.
Io credo che Zingaretti abbia l’intelligenza e le qualità per guidare, fare il regista di un progetto simile. Una nuova speranza, si potrebbe dire. Ma credo anche che il troppo consenso interessato non gli faccia bene. Che debba confrontarsi di più con chi gli fa notare quello che non va. E magari ascoltare meno chi fa sempre e comunque la ola. Si può ripartire dal Lazio, insomma. Con un po’ di coraggio e anticonformismo.
Il pippone del venerdì\5.
Parliamo di lavoro (e di non lavoro)
L’articolo 1 della Costituzione nacque da un complesso dibattito nell’assemblea costituente. I comunisti avrebbero preferito la dizione l’Italia è una Repubblica di lavoratori, per sottolineare l’importanza del fattore umano, non solo della “condizione”. Ma è evidente che questa formulazione era troppo “ideologica” per la Dc e il compromesso trovato rimane comunque molto avanzato. L’articolo 1 va letto, infatti, insieme al 3, per capirne il dispiegamento pieno: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Quindi l’Italia è fondata sul lavoro e compito della Repubblica è garantire l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla costruzione dello Stato stesso. La Repubblica si costruisce solo quando tutti i lavoratori, non i cittadini si badi bene, sono nelle condizioni di partecipare. Altro che Costituzione astratta, la nostra Carta è concreta e prescrittiva fin dai principi fondamentali. Rimuovere gli ostacoli. Parole nette, precise. Che, d’altro canto, trovano un riscontro in buona parte della filosofia moderna.
Prendo a prestito André Gorz, filosofo di origine austriaca ma francese a tutti gli effetti. Nel suo saggio “Metamorfosi del lavoro”, ci ricorda con parole importanti che il lavoro salariato è un’invenzione moderna e non ha un semplice rilievo economico, ma una profonda radice sociale: “La caratteristica essenziale del lavoro – spiega – è di essere un’attività che si svolge nella sfera pubblica, è un’attività richiesta, definita e riconosciuta utile da altri che, per questo, la retribuiscono. È attraverso il lavoro remunerato (e in particolare il lavoro salariato) che noi apparteniamo alla sfera pubblica, acquisiamo un’esistenza e un’identità sociale (vale a dire “professione”), siamo inseriti in una rete di scambi in cui ci misuriamo con gli altri e ci vediamo conferiti diritti su di loro in cambio di doveri verso di loro. Proprio perché il lavoro socialmente remunerato e determinato è il fattore di socializzazione di gran lunga più importante – anche per coloro che lo cercano, vi si preparano o ne sono privi – la società industriale si considera come una “società di lavoratori” e, in quanto tale, si distingue da tutte quelle che l’hanno preceduta”.
Insomma, la banalizzo, se l’uomo è un’animale sociale, nella società industriale dispiega a pieno la sua socialità proprio nel lavoro. E dunque non è un caso se i lavoratori vengono posti a fondamento, a garanzia direi quasi, delle nostre libertà costituzionali e sono soggetti di diritti proprio in quanto lavoratori.
Nella nostra società, ormai post industriale, il lavoro si modifica diventa prevalentemente immateriale, non produce – o meglio lo fa in quantità molto più ridotta rispetto al passato – merci, ma soprattutto servizi o merci immateriali. E il capitale del lavoratore diventa sempre più la sua stessa individualità, la sua intelligenza, il sapere. Il lavoro, nella società occidentale – tende a diventare prevalentemente intellettuale, perché – e Marx ce lo aveva spiegato qualche secolo fa – il capitalista riduce l’apporto della manodopera nei processi di lavorazione fordisti con un uso sempre più massiccio delle macchine. L’informatica ha fatto il resto. E dove neanche in questa maniera riesce più a creare plusvalore, lo fa esportando l’industria stessa in paesi dove il costo del lavoro è più basso e i diritti inesistenti. Non sono, insomma, i migranti, il moderno “esercito industriale di riserva”, quella massa disposta a tutto pur di lavorare che fa peggiorare la qualità della vita del lavoratore salariato, ma sono paesi interi a fornire questa alternativa. Non si importa forza lavoro, si sposta la produzione.
L’analisi è evidentemente rozza e semplificata. Sarà anche un “pippone”, ma tocca rimanere nei limiti dell’umana sopportazione. Se riusciamo, per un attimo, a distaccarci dalla polemica politica quotidiana ci accorgiamo, però, che questo processo che ho solo abbozzato è evidente anche nel nostro paese. Al di là dell’evidente fallimento delle politiche neo liberiste messe in atto dai governi che si sono succeduti e che trovano il loro coronamento nel jobs act, la verità l’ha detta Draghi (non un pericoloso comunista, ma la Banca centrale europea) nei giorni scorsi: i salari sono troppo bassi, se volete far riprendere l’economia e dunque creare nuovi posti di lavoro, alzateli.
Semplice, semplice. Non serve neanche scomodare la scuola di pensiero keynesiana, per capire quanto sia vera questa affermazione. Se vuoi far girare l’economia, in un sistema capitalista avanzato, non puoi che stimolare i consumi e si consuma se si hanno soldi da spendere. E chi è che può dare una scossa? Quella che un tempo si sarebbe chiamata la classe media, ovvio.
Solo che… E se neanche questo servisse a far aumentare i posti di lavoro? Ora l’Istat ci dice ogni mese che tutto va bene e la disoccupazione è in calo. Poi se si leggono bene i dati si scopre che mica va tutto così bene: aumenta sempre più il numero delle persone che smette proprio di cercare lavoro, aumenta il numero delle persone che lavora pochi giorni al mese (per le statistiche sono occupati a tutti gli effetti).
Ora, io non sono un economista, anzi. Ne capisco anche poco. Ma mi viene il sospetto che la nostra società sia già entrata in una fase successiva. Da un lato la delocalizzazione selvaggia della produzione a cui, in Italia più che altrove, non si è in grado di opporsi. Ma non basta a spiegare la nostra crisi strutturale: siamo in quella fase in cui l’automazione e l’applicazione dell’intelligenza artificiale alla produzione fa sì che si che pur aumentando la produzione stessa l’impatto sul lavoro sia modesto. E allora, ritorno all’inizio, come far in modo che i nostri principi costituzionali diventino effettivi, siano pratica quotidiana nell’azione di governo e non un enunciato astratto? Quale partecipazione si può avere se non ci sono più i lavoratori?
Io credo che sia questa la domanda che la sinistra italiana deve porsi con forza. E credo che sia una domanda sulla quale sia doveroso aprire un grande dibattito. Vedo che in altri paesi si fa. Ci si pone il tema di una società in cui il lavoro diventa sempre più merce rara.
E si danno anche risposte, sia pur, secondo me, parziali. Dalla necessità di ridurre progressivamente l’orario di lavoro, alle varie idee di tassazione del lavoro dei robot (arrivano non solo dai socialisti francesi, ma anche dalla silicon valley). Manca ancora una riflessione complessiva. Perché se è vero che il lavoro è il fondamento delle nostre libertà, non basta trovare antidoti “economici” alla sua carenza. Se è vero che nella società moderna il lavoro, salariato, è il massimo momento in cui l’uomo dispiega il suo essere sociale, in cui realizza se stesso, si sarebbe detto un tempo, se è vero questo, una società in cui il lavoro tende a non essere più l’elemento centrale, va ripensata nei suoi paradigmi fondamentali.
Negli anni ’80, un po’ scherzando, un po’ anche no, con un nutrito gruppo di figgicciotti (si chiamavo così gli iscritti all’organizzazione giovanile del Pci), proponemmo di considerare il “non lavoro” come valore. Nel senso che sì, il lavoro nobilita l’uomo, è fondamentale eccetera eccetera. Ma andrebbe anche considerato anche il tempo del non lavoro come spazio in cui si possa realizzare se stessi. Potrebbe sembrare una battuta goliardica, ma guardate che avevamo visto giusto.
Insomma, io credo che la sinistra, non solo italiana, ma nella sua dimensione internazionale, debba porsela questa domanda: intanto come tornare a rivendicare l’espansione della sfera dei diritti sociali, perché sono quelli che ci qualificano, e non limitarsi soltanto alla difesa dell’esistente. Tutto questo, nell’era della finanzia e dell’economia globale, ovviamente non può più essere pensato su scala nazionale. Detta facile: o facciamo arrivare i diritti civili in Cina e in India, insomma, o questi ci fanno a fette. Perché da noi più di tanto i salari non li puoi comprimere e non riusciremmo ad essere concorrenziali neanche seguendo pedissequamente i dettami economici di Marchionne e soci.
Ma fatto questo, bisogna pensare, e farlo in fretta, a una società del non lavoro.
Concludo rapidamente, ma il tema ovviamente meriterebbe ben più spazio. Perché potrebbe anche sembrare, lo ripeto, un’affermazione goliardica. Ma pensare una società in cui il lavoro non è più elemento dominante rappresenta una sfida enorme, dal punto di vista stesso della struttura sociale. Certo, noi stiamo a pensare alle primariette, ai populismi che avanzano. Ce la prendiamo con i migranti perché ci rubano il lavoro. La nostra vera crisi, non solo italiana, sta proprio qui: manca la capacità di alzare il naso dal quotidiano e vedere oltre l’orizzonte. Manca nella politica, che nel solo ha perso il contatto con il mondo reale, non riesce a fare i conti con “la pancia”, ma non riesce neanche a definire quale sia il suo cielo, la sua utopioa. E manca anche in quel mondo intellettuale tanto fecondo in passato, tanto salottiero e “terrazzaro” oggi.
Il pippone del venerdì/4
Immigrazione e contorsioni della sinistra
I giorni scorsi, i frequentatori più affezionati dei gruppi social di sinistra ne avranno avuto un qualche sentore, sono stati caratterizzati da un’aspra polemica sull’immigrazione. Un peso, un problema che si scarica sui ceti più deboli, hanno sostenuto alcuni, partendo da un’intervista di un dirigente di Sinistra italiana. Che evito di nominare per non personalizzare la discussione. Forse così si potrà ragionare serenamente senza scatenare gli ultras di ogni parte. Secondo me, tra l’altro, si è soltanto espresso male. Sarebbe bastata una precisazione per chiudere la discussione. Così non è stato. Dopo un timido tentativo ho evitato di intervenire, vista la virulenza dei toni, ma credo che sia un tema fondamentale per capire dove va la sinistra italiana. Poi è arrivato anche il decreto Minniti che, in fondo, segue la stessa logica dell’immigrato che va punito in quanto tale.
Io credo, la dico semplice e precisa, che sia una posizione sbagliata. Perché questo concetto dell’immigrazione come problema, che per giunta pesa sulle condizioni dei ceti più deboli, è un’impostazione di destra. Con una venatura nazionalista e razzista.
Primo punto di divergenza. Io sono cresciuto con l’utopia di un mondo senza confini. E mi piacerebbe conservare quel sogno, quella visione. Non tanto per un attaccamento nostalgico alle suggestioni giovanili, ma perché credo, a maggior ragione nella situazione attuale, che sia un assurdo pensare a un mondo dove la semplice nascita, ovvero un fatto del tutto casuale, possa dar luogo a qualche diritto esclusivo.
La faccio semplice: se sono nato in Italia non ho più diritto a stare qui di uno nato in un qualsiasi altro paese del mondo. Provate a spiegarmi perché questa sarebbe casa mia, perché avrei qualche diritto in più di Miguel piuttosto che di Azizi. Se è un furto la proprietà privata lo sono a maggior ragione le frontiere. Gli stati nazionali, del resto, sono una costruzione recente e stanno diventando sempre più drammaticamente vecchi di fronte a un mondo reso più piccolo dalla comunicazione e da un’economia a dir poco globale. I capitali non hanno frontiere, ma le impongono agli uomini perché proprio sulle divisioni politiche basano gran parte della loro forza.
E’ dunque un controsenso, se questa è la visione, dare un connotato negativo alle migrazioni (sarò snob ma mi piace parlare di migrazioni, senza indicare il “verso”). Non sono un problema. Sono un semplice dato di fatto. Se sono libero di spostarmi, come posso essere un problema? Diventa un problema se si stabilisce, come succede in Italia che migrare è addirittura un reato e si creano i “clandestini”. Un altro ragionamento, più profondo, andrebbe fatto sulle cause delle migrazioni. Intervenire sulle guerre che creano milioni di profughi, lavorare sulla diffusione dei diritti e delle libertà civili, intervenire sugli intollerabili squilibri che sono alla base delle migrazioni per necessità. E tornare a ragione in termini non localistici, non nazionali. Questo, non solo secondo me, è il limite della politica e del sindacato negli ultimi decenni: continuare a pensare in termini nazionali, non essere riusciti a trovare quella dimensione più grande che forse permetterebbe di governare un’economia che quei confini non li considera proprio più. E addirittura oggi c’è chi teorizza che bisogna uscire dall’Europa. Serve più Europa, non meno. E se la politica, la sinistra in particolare, non vuole essere un semplice strumento di cui il potere economico indica limiti e compiti deve tornare a ragionare oltre i confini delle nazioni.
Il secondo aspetto che non condivido è considerare le migrazioni come un fattore che tende a far peggiorare le condizioni di vita dei più deboli. I più intellettuali hanno addirittura scomodato il vecchio con la barba e la sua definizione di “esercito industriale di riserva”. I meno intellettuali hanno invece invitato chi faceva notare qualche contraddizione nel ragionamento ad andare a verificare quello che succede nelle periferie delle nostre città. Lo hanno fatto ovviamente comodamente seduti nei loro salotti del centro. Insomma, secondo questa visione, la banalizzo, gli immigrati rubano il lavoro agli italiani.
Due considerazioni. Marx, con una delle tante intuizioni geniali che ritroviamo nel “Capitale”, individuava un paradosso per cui gli operai producendo plus valore tendono a rendere eccedente il proprio stesso lavoro. Il capitalista, infatti, una volta abbassato il salario fino ai livelli di sussistenza, per aumentare il proprio profitto investe nell’automazione rendendo il lavoro dell’operaio meno necessario. E la massa dei disoccupati crescente (l’esercito di riserva) contribuisce a mantenere lo status quo, ovvero il continuo peggioramento delle condizioni di vita dei proletari. Ho sintetizzato molto.
Ora, anche a voler mutuare pari pari, senza la dovuta cautela, l’analisi marxiana, considerando gli immigrati come l’esercito industriale di riserva di oggi (ma vedremo quanto sia problematica una simile trasposizione) permettemi di rilevare che Marx non ha mai detto che i “disoccupati sono un problema per i ceti meno abbienti”. Chi era – ed è – un peso sono i capitalisti che sfruttano questa situazione per massimizzare il loro profitto, senza curarsi delle condizioni di vita di strati sempre più larghi della popolazione. Con questo vorrei provare a sostenere una tesi differente. Quello che voleva fare Marx (e che dovrebbe provare a fare la sinistra) era creare una coscienza di classe, spiegare che il conflitto fra occupati e disoccupati era proprio quello che serviva ai padroni per mantenere gli operai in condizioni disumane. Insomma, banalizzando il concetto, la sinistra oggi non può dire che gli immigrati rubano il lavoro agli italiani. Intanto perché non è vero. E poi perché queste cose le fa la destra, le fanno i Salvini di turno e sono anche più credibili.
Io sono convinto che la sinistra abbia un altro compito, più alto. Intanto deve tornare davvero nelle periferie. Perché a guardarle dalle terrazze borghesi del centro storico di rischia di avere una visione distorta dalla lontananza. E il risultato è la disfatta delle scorse amministrative. E ve lo dice uno che abita a Magliana, in una zona dove le etnie si mescolano e accanto all’odore del ragù della domenica senti le spezie profumate dell’oriente. Tocca alzarsi dalle poltrone dei salotti bene. E bisogna tornare in periferia con una proposta chiara, con una visione chiara. A dire via gli immigrati ci pensano Salvini e Casapound.
Io credo che dovremmo andare a spiegare nelle periferie che il problema non sono i profughi in fuga dagli orrori. Non sono i migranti che occupano casolari abbandonati. Non sono quelli, più “fortunati”, a cui qualche italiano per bene affitta letti accatastati l’uno sull’altro a cifre esorbitanti. Non solo loro il “nemico di classe”. E bisognerebbe tornare a praticare la solidarietà di classe, non la carità cattolica, perché oggi nelle periferie non ci sono due povertà, due debolezze da mettere in competizione. C’è una sola grande questione. Baumann le chiamava “le vite di scarto”, i prodotti di risulta della società globale. Ed è qui il ruolo di una sinistra che fa la sinistra. Tornare a prendere in mano la bandiera degli ultimi. Tornare a pensare la politica come quello strumento che serve a rovesciare i rapporti di forza, quello strumento che fa delle moltitudini un popolo. E questo va fatto con azioni concrete. Dobbiamo aprire sedi, nelle periferie. Spazi aperti, utili, delle moderne case del popolo, grande e originale esperienza italiana. Case di tutti, italiani vecchi e nuovi. Nuovi italiani, mi piace questa definizione.
Detto questo, permettetemi però un passo indietro: io credo che sia proprio sbagliato l’assunto. Punto primo. L’apporto dei migranti sul mercato del lavoro non fa aumentare la disoccupazione, non c’è questa concorrenza di cui si favoleggia. Sono gli stessi imprenditori a chiedere un aumento delle quote previste da quella sciagurata legge Bossi-Fini : perché non trovano italiani disposti a determinati lavori. Punto secondo: anche dal punto di vista del welfare, non solo la presenza dei migranti non riduce in maniera rilevante le risorse a disposizione per lo stato sociale, ma i contributi versati da loro, contributi dei quali non usufruiranno mai, permettono di pagare le pensioni a quegli italiani che vorrebbero cacciarli. Altro che pippe mentali, altro che esercito industriale di riserva.
E allora diciamolo forte. Ci servono i migranti e campiamo bene proprio sul loro sfruttamento, vera schiavitù moderna. E una sinistra che fa la sinistra va nelle periferie e lo scrive sui muri. Altro che timidezze da salotto borghese. Una sinistra che fa la sinistra fa non uno ma mille cortei non per, ma insieme ai migranti. E mette in rete le debolezze, non aizza la guerra fra gli ultimi.
Insomma, la sinistra torni a essere internazionalista. Torni a battersi per un mondo senza confini. Che sarà anche un’utopia, ma sono le utopie che fanno muovere il mondo, non le catene del realismo.
Il pippone del venerdì/3
Una nuova questione morale
La dico subito tutta, senza perifrasi: io credo che le nomine nelle società di stato approvate dal Consiglio dei ministri lo scorso fine settimana siano la spia di un salto di qualità in quella sempre più evidente e strabordante occupazione delle istituzioni da parte della politica.
Berlinguer denunciò con straordinaria nettezza e lucidità la degenerazione dei partiti nell’intervista a Repubblica del 1981. Parlava di partiti che hanno occupato lo Stato. Un’immagine molto forte. I partiti, in sostanza, avevano esaurito la loro funzione di tramite, di “organizzatori del popolo”ed erano diventati una macchina autoreferenziale in cui blocchi di potere autoriproducevano se stessi. Rispetto a oggi, però, sono cambiati due elementi.
Il primo: allora c’era ancora la diversità comunista. Ovvero c’era una grande organizzazione che rappresentava un terzo dell’elettorato che denunciava e combatteva questa situazione, in chiave non populista ma di prospettiva. Lottava per realizzare una società più giusta, senza diseguaglianze. Diceva Berlinguer: “Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata”. Una società socialista con una forte connotazione democratica verrebbe da dire. Insomma, in quel guazzabuglio anni ’80, gli anni della Milano da bere, degli yuppies, dell’orologio sopra al polsino come l’avvocato, c’era una grande forza che non aveva paura di perdere consenso denunciando la corruzione profonda e la stessa perdita di senso del sistema politico.
Il secondo punto, non meno importante. In quel sistema politico, sia pur degenerato, esistevano comunque i partiti. Che via via avevano smarrito la funzione costituzionale, questo è vero. Ma restavano partiti. Rappresentavano, sia pur con tutte le distorsioni che denunciava Berlinguer, blocchi sociali, interessi economici, interessi di classe. Non a caso, malgrado la corruzione, l’occupazione sistematica del potere, quella che i Radicali di Pannella chiamavano la partitocrazia, l’economia cresceva con cifre che adesso manco ci sognamo. Certo, c’era il deficit pubblico alle stelle, eravamo un paese che viveva al di sopra delle proprie possibilità, ma le strade le rifacevamo, fra una mazzetta e l’altra. Banalizzo volutamente, sia chiaro. Altrimenti potremmo parlare anche di un’Italia punto di riferimento per la sua politica nel mediterraneo, della nostra credibilità internazionale. Era un altro mondo, insomma.
Non che voglia fare l’elogio postumo degli anni ’80. Ci mancherebbe altro.
Oggi che succede? Sintetizzando ancora: il deficit continua a correre, non ripariamo più manco le buche e nel mondo ci rappresenta Alfano. Non ci sono più i partiti del dopoguerra, ma non ci sono più neanche le correnti degli anni ’80. Tutto si riduce alla contesa di qualche leader e quando cambia il leader, anche se dello stesso schieramento, cambiano tutti i vertici, non solo delle società pubbliche, ma della stessa amministrazione. Va “ringraziata” per questo la sciagurata legge Bassanini, che ha eliminato la tradizionale terzietà dell’alta burocrazia statale, nel passato vero serbatoio di competenze. Siamo, arrivati, insomma, all’occupazione personale dello stato. Ormai si nominano gli amici, i fedeli, coloro che hanno permesso la conquista del potere. Il famoso “cerchio magico”.
E questo vale per tutti, perfino per chi, come il M5s, ha fatto della critica alla politica invadente la sua bandiera. Guardate Roma. Conquistato il Campidoglio, il sindaco Raggi ha provveduto a piazzare i suoi fedelissimi nei gangli dell’amministrazione. I risultati, non solo di natura amministrativa in senso stretto, ma anche in qualche caso di natura penale, sono sotto gli occhi di tutti. Nei partiti – o in quello che ne rimane – succede ovviamente lo stesso. La politica è uno specchio della società, non il contrario. E dunque si conquista la leadership e si fanno fuori tutti gli avversari scientificamente. Manca anche qui, come nella pubblica amministrazione, una base condivisa, una classe dirigente che sia arrivata al proprio posto per quello che ha fatto e non per mera fedeltà.
Inutile stupirsi dunque se poi cambiano bandiera al primo accenno del mutar del vento. La corsa per salire sul carro del vincitore è diventata una affollatissima maratona.
Lo scopo della gestione del potere, insomma, è diventato un fine e non un mezzo. Altro che Machiavelli. E se negli anni ’80, sia pur nella degenerazione già iniziata, si conquistava il potere e lo si occupava per rappresentare un blocco sociale, adesso il tutto è ridotto alla promozione della propria persona. Perché, in fin dei conti non c’è più un rapporto di rappresentanza, un legame fra le classi dirigenti e chi rappresentano. Il legame è dato da un voto espresso ogni quattro o cinque anni quando va bene, da un’approvazione fideistica nella peggiore dei casi. La clientela è la regola.
Che fare per invertire la tendenza? Io credo che questa sia una delle sfide principali che ha di fronte la sinistra italiana nei prossimi anni. Assieme alla definizione di un quadro di valori. Anche da qui passa il discrimine fra destra e sinistra. Fin dagli anni ’90 abbiamo copiato e mutuato non solo le pratiche economiche liberiste, ma anche questa maniera di gestire il potere, arrivata oggi alle conseguenze estreme. E’ tempo di tornare a pensare a un’alternativa.
La ricostruzione di un’Italia differente, che sia in grado di rilanciarsi dal punto di vista economica, sta anche qui: si parte dalla ricostruzione di una classe dirigente, non solo in politica, lo ribadisco, che abbia come faro il bene comune (un’altra delle mie fissazioni) e non la propria autoriproduzione. Difficile farlo? Sicuramente, perché occorre ripensare non solo le strutture della politica, ma anche un po’ noi stessi. Uscire dal bisogno disperato di apparire per tornare a essere, a dare un contributo onesto. Non è solo una questione di sostituire il pronome “io” con il “noi”. E’ una rivoluzione culturale.
Una cosa va fatta con urgenza, stabilire un modo per selezionare la classe dirigente dei partiti che non sia la cooptazione o la finta meritocrazia dei 5 stelle. Si fanno mandare curricula da tutto il mondo per poi scegliere il fidanzato, quando va bene. Non dico di tornare al vecchio metodo “intanto comincia a attacca’ i manifesti”, ma credo che serva qualcosa di simile, ovvero un processo collettivo dal basso di selezione, in cui le proprie capacità si dimostrano sul campo e non per riconoscimento del proprio capo. In cui non si votano i dirigenti, ma si scelgono.
Aveva ragione Orlando, qualche settimana fa, a dire che un giovane come Pio Latorre non avrebbe trovato lo spazio per far valere le sue idee nella politica di oggi. Ecco, secondo me non l’avrebbe trovato proprio nell’Italia di oggi, paese sempre più di sudditi e poco di cittadini.
Ogni tanto ci arrivano delle fiammate violente e inaspettate, in questo paese stanco e depresso. Così è stato in occasione dei referendum sull’acqua pubblica, lo stesso fenomeno di ribellione si è ripetuto in occasione della consultazione sulla riforma costituzionale. Bene è ora di alimentare quella fiamma e farla diventare permanente, dando spazio al protagonismo dal basso. E convogliando quella forte esigenza, di cambiamento badate bene, non di conservazione come vi vorrebbero far credere.
Per quanto riguarda la pubblica amministrazione io credo che si debba tornare a separare davvero la politica dalle nomine, anche dei vertici. Torniamo alla carriera fatta attraverso l’esperienza e i concorsi, non con la fedeltà al capobastone di riferimento. E torniamo a costruire una classe dirigente statale che abbia il bene comune come stella polare e non la politica. Ecco, anche questa, secondo me, sarebbe una piccola rivoluzione gentile.
Dimostriamo che noi pensiamo ancora che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi.
Il Pippone del venerdì/2 Il garantismo de noantri
Mettetevi comodi perché la questione è lunghetta. Il quadro è più o meno questo.
2013: il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri è nella bufera per il presunto interessamento per la scarcerazione della figlia di Salvatore Ligresti, Giulia Maria, a cui vennero accordati gli arresti domiciliari a causa delle condizioni di salute. Mancano pochi giorni alle primarie e Matteo Renzi in persona, allora candidato alla segreteria del Pd, non ci pensa due volte, parte deciso: “Per me Letta fa un errore a dire che sulla Cancellieri ci mette la faccia. È stata lei a fare la sintesi perfetta dicendo: il vecchio Pd mi avrebbe difeso e il Pd ha votato a favore. Il nuovo Pd credo che non difenderà più casi di questo genere”.
2016: arresto di Marra a Roma, fedelissimo del sindaco Raggi. Il 16 dicembre il Pd si scatena chiedendo le dimissioni del sindaco. Il commissario del Pd romano, nonché presidente del Pd nazionale, nonché deputato, nonché attuale reggente autoproclamato del Pd nazionale, Matteo Orfini, spiega che “ loro sono diversi. Quando è capitato a noi abbiamo commissariato il partito, lavorato mesi a bonificare e ripulire. Abbiamo cacciato persone e reciso legami. Per queste scelte abbiamo pagato un prezzo altissimo. Ma era la cosa giusta da fare. Loro oggi scappano, si nascondono”.
A difesa del sindaco di Roma, indagata per falso e abuso d’ufficio si schierano tutti i 5 stelle e anche Matteo Renzi, che si dichiara garantista sempre. Nel corso della presentazione della sua candidatura alle primarie del Pd (sempre in mezzo le ritroviamo) dichiara addirittura la sua solidarietà: “Vorrei mandare un grande abbraccio di solidarietà a Virginia Raggi che è stata indagata, perché noi, a differenza di altri, siamo garantisti per tutti e non solo per i nostri”. Salvo per la Cancellieri, la Idem, Lupi eccetera eccetera.
2017: scoppia il caso Consip. L’inchiesta condotta da due procure, Napoli e Roma, riguarda presunte pressioni sull’amministratore delegato della Consip, Luigi Marroni, per favorire il gruppo Romeo in un mega appalto da 2 miliardi e mezzo di euro. Nella vicenda sono indagati, fra gli altri, il padre di Renzi, Tiziano,. e il ministro dello Sport, con delega al Cipe, Luca Lotti che, si legge negli atti dell’inchiesta, avrebbe avvertito Marroni dell’indagine in atto e della presenza di microspie nel suo ufficio. Lo dichiara lo stesso Marroni: ”Ho fatto effettuare la bonifica del mio ufficio in quanto ho appreso in quattro differenti occasioni da Filippo Vannoni (presidente di Publiacqua, ndr), dal generale Emanuele Saltalamacchia (comandante Legione Toscana, ndr), dal Presidente di Consip Luigi Ferrara e da Luca Lotti di essere intercettato”.
Scatta la difesa a oltranza da parte del Pd, Renzi in testa, mentre i 5 stelle si scoprono meno garantisti e presentano una mozione di sfiducia nei confronti del ministro al Senato. Mozione respinta anche grazie al fatto che Forza Italia non vota e 19 senatori fra i verdiniani e sieguaci di Tosi arrivano a garantire la maggioranza assoluta. 161 i voti contrari. Gli 19 stessi voti saranno restituiti (ma sicuramente è una mera concidenza) il giorno dopo nella votazione che doveva portare alla decadenza (legge Severino) del senatore Minzolini, di Forza Italia, condannato in via definitiva a due anni e sei mesi per peculato. Quando era direttore del Tg1 usava in maniera allegra la carta di credito aziendale. Il senato respinge. Con quella condanna non potrebbe partecipare ad alcun concorso pubblico, ma fare il senatore sì. Va bene essere garantisti, ma dopo tre sentenze, un dubbio non vi viene proprio? Ma questa è un’altra storia.
Il ministro Lotti, intervenendo in Senato, non solo proclama la sua innocenza con grande veemenza, ma rispolvera il vecchio leit-motiv berlusconiano del complotto. Tira sempre. “Colpendo me – declama con i capelli al vento – si vuole colpire Renzi e la stagione del riformismo”. Che a dire il vero sembra già messa a dura prova dalle bocciature ripetute della Corte Costituzione e degli elettori. Sarà un complotto anche questo. Chissà.
Nella stessa occasione, la senatrice pentastellata Paola Taverna, spiega un curioso concetto di giustizia: “Il tema non è l’avviso di garanzia, ma la gravità delle accuse e per capirlo non abbiamo bisogno di aspettare le sentenze della magistratura. E’ un principio basilare, che noi del Movimento 5 Stelle, applicando il nostro codice etico elogiato dal magistrato antimafia Di Matteo, abbiamo già fatto nostro”. Insomma, per la Raggi le accuse non sono gravi, per Lotti sì. A quanto pare decide Grillo, giudice supremo ingiudicabile.
Sono soltanto alcuni esempi. Per farla breve, è un gran casino. Sfugge, secondo me un punto fondamentale. Tutto questo con il garantismo non c’entra nulla. Andiamo con ordine.
Il Garantismo (copio dalla Treccani):concezione dell’ordinamento giuridico che conferisce rilievo alle garanzie giuridiche e politiche volte a riconoscere e tutelare i diritti e le libertà fondamentali degli individui da qualsiasi abuso o arbitrio da parte di chi esercita il potere.
Che vuol dire applicato al sistema giudiziario? Che il garantismo è quel complesso di norme che rende effettivo il diritto del cittadino alla difesa. Il tutto deriva da quello che è un principio cardine nel nostro ordinamento: tutti sono innocenti fino a sentenza definitiva. E siccome siamo garantisti tanto tanto questo non avviene, come succede in tutto il mondo, dopo due gradi di giudizio, ma addirittura tre, visto che di fatto la Cassazione è diventato un giudice di merito. Insomma il cittadino accusato di un reato ha il diritto di difendersi su un piano di assoluta parità rispetto all’accusa, a cui spetta l’onere della prova: deve cioè dimostrare la colpevolezza e non il contrario. Cosa c’entri con Lotti, la Raggi, la Cancellieri, la Idem, Lupi eccetera, eccetera, non è dato sapere.
Insomma, per farla breve il tema, non è essere garantisti o meno. Lo siamo un po’ tutti a giorni alterni, a seconda della simpatia che ci ispira il presunto colpevole. Per cui il negro accusato di aver stuprato una donna bianca è sicuramente colpevole, mentre il distinto ingegnere che fa crollare un ponte diventa subito soltanto “presunto” responsabile. Ma in questo caso non c’entra nulla.
Si tratta di un problema politico. Che è altra cosa rispetto a un processo. La politica deve agire su un piano diverso e distinto da quello giudiziario. Provo a farmi capire ragionando proprio sul caso Consip. Al di là dell’esistenza o meno di un reato, cosa che non sta a noi giudicare, questa vicenda ci dice una cosa, molto semplice. Che attorno alla società per azioni del Tesoro che si occupa della gestione degli appalti per le forniture della pubblica amministrazione gira un groviglio di interessi e di persone a dir poco inquietante. La Consip nasce con lo scopo di ottenere risparmi ampliando la scala di grandezza degli appalti. Detta semplice: se invece di acquistare penne in ogni comune facciamo un’unica gara a livello nazionale, forse si spende di meno. E’ una semplificazione, ovviamente, ma il principio è questo.
Appaltoni enormi, però, su cui, proprio per la dimensione dovrebbe esserci, massima attenzione e massima trasparenza. E quello che si scopre, invece, è che nella migliore delle ipotesi un groviglio di interessi e di personaggi grigi si muovevano in quelle stanze per cercare di condizionare quelle gare.
E’ un problema politico o no, fare in modo che anche il semplice sospetto che questo si possa verificare venga rimosso? In tutto questo rimestare nel torbido, ci sarebbe un ministro, il condizionale è evidentemente d’obbligo, che va da un dirigente pubbligo, guarda caso nominato dal “capo” del ministro stesso, e gli dice: ciccino, stai attento che la magistratura indaga su di te, c’è pieno di cimici nel tuo ufficio.
Ora questo ministro, oltre che allo Sport, per una di quelle stranezze tipiche della politica italiana, ha anche la delega chiave sul Cipe, il Comitato per la programmazione economica che dà l’ok alle spese strategiche, e sull’editoria, con tutti i decreti attuativi di una riforma appena approvata. Lotti sarà anche innocente, avrà modo e tempo di dimostrarlo, tutti noi sinceri garantisti ci auguriamo addirittura che si arrivi mai a un processo, che la procura archivi in tempi rapidi la sua posizione.
Ma in attesa che questo avvenga, è proprio necessario che faccia il ministro? E’ proprio necessario che continui a seguire la programmazione economica? E’ proprio la persona più adatta fra i cittadini italiani? O forse il semplice fatto che sia sfiorato da un’inchiesta dovrebbe fargli valutare l’opportunità di rinunciare a dettare la linea del governo sugli investimenti strategici da fare nel Paese?
Ecco, sarà anche innocente, ma senza Lotti al governo ci sentiremmo tutti più garantiti. E’ proprio il caso di dirlo.
Ps: questo non è un blog anonimo e sono un giornalista. La responsabilità di quello che scrivo, insomma, me la prendo tutta. Sempre.
Il pippone del venerdì/1
Pd o non Pd
Da oggi, continuando nel progetto di voler rendere più strutturale il mio contributo da osservatore del dibattito politico, social e non social, inauguro questa nuova rubrica, “il pippone del venerdì”. Sarà una sorta di bilancio della settimana, in cui vorrei ragionare sugli aspetti che mi sembrano interessanti. Ci provo, combattendo con la mia nota pigrizia. E vorrei anche provare a rinnovare e utilizzare con maggior costanza il mio sito. Chissà, non scommetterei su me stesso.
Comunque sia, cominciamo il pippone.
In realtà non è proprio “il tema della settimana”, questa storiella va avanti da almeno un paio di anni. Da quando, cioè, Pippo Civati ha lasciato il Pd e ha fondato il suo “Possibile”, movimento di cui non si ricorderanno tracce durature nella storia dell’uomo, ma che tuttavia merita una menzione, quanto meno per essere alla base di un disastroso equivoco. Nello statuto di Possibile, mi dicono, sta scritto a chiare lettere che non faranno mai, a nessun livello, alleanze con il Pd. Il che è una novità assoluta. Che un partito escluda di potersi alleare con un altro partito dell’arco democratico, ci sta. Ma che si metta nero su bianco nello statuto è un fatto di assoluta rilevanza e, come vedremo, sia pur in forma indiretta, ha condizionato il dibattito politico nella galassia della sinistra italiana.
E’ successo con la tornata delle scorse elezioni amministrative. Con grandi scontri fra chi diceva che non si poteva rompere il centro sinistra per principio e chi diceva che l’esistenza di un campo alternativo al Pd doveva essere visibile e omogenea su scala nazionale. Sostanzialmente ha vinto la secondo tendenza, fra mugugni e resistenze, con la sia pur rilevante eccezione di Milano. Devo ammettere di essermi lasciato prendere da questo dibattito. Sbagliando.
E devo dire che, alla fine dei giochi, tutta sta visibilità di uno schieramento alternativo al Pd mica l’abbiamo vista. Abbiamo visto, piuttosto, uno scontro da stadio fra gli ultras degli opposti schieramenti. Salvo poi andare a piangere perché, dopo aver parlato di periferie a tutto spiano, a Tor Bella Monaca abbiamo preso il 2 per cento. Elettori eroici, verrebbe da dire.
Eppure non è che si sia imparato dagli errori. Anzi la situazione è peggiorata. Per chi esce dal Pd si propone l’analisi del Dna, suo e delle tre generazioni precedenti. Il congressino di Sinistra italiana, oltre ad aver prodotto un gruppo dirigente, ha anche prodotto un secondo anatema: mai con il Pd di Renzi, a tutti i livelli. Manco nel condominio di via Carugatti 53 si faccia l’alleanza con il Pd di Renzi. Scelta applauditissima da Possibile che ha deciso di fondere i gruppi parlamentari, “pur mantenendo l’autonomia dei rispettivi partiti”. In giro si leggono addirittura moderni soloni che si scandalizzano perché Pisapia non ha definito la sua posizione sul renzismo. Quello, dicono, sarebbe il minimo richiesto per definirsi di sinistra.
L’Italia intera dibatte e si accalora su questi affascinanti temi.
Scherzi a parte, come la vedo? Pur tra i mille errori commessi resto convinto di tre cose.
1) Resta l’esigenza di ricreare un movimento ampio della sinistra italiana, non un partito, una gabbia escludente, ma un percorso aperto, che guardi al futuro e non agli errori del passato. Senza esclusione alcuna. Per me l’unica pregiudiziale resta l’antifascismo.
Un percorso che se ne freghi delle forme strutturate, del fatto che stiamo in partiti differenti e parta dalle persone. Possibilmente parta da quelle “vite di scarto”, da quelle periferie, come luogo sociale ma anche come spazio culturale, di cui parliamo sempre, ma dalle terrazze dei palazzetti d’epoca. Il Partito arriverà quando il percorso sarà compiuto e tutti saranno pronti a lasciare le casette di provenienza non per un condominio scomodo e spersonalizzante, ma per una grande casa di tutti. E non con le forme del ‘900, perché il ‘900 è finito. Tutto questo, sia chiaro, nelle pur rinnovare forme ha bisogno di mettere radici fisiche nei territori. Primo obiettivo dunque, trovare spazi, tanti, nei quali costruire un agire politico comune. Spazi utili ai cittadini, accoglienti. Per rovesciare il ragionamento di un autorevole ministro, un luogo in cui un Pio La Torre di oggi si troverebbe a suo agio, avrebbe modo di crescere e, al tempo stesso, di mettersi al servizio di un progetto collettivo.
2) Questo movimento non si crea contro o in alternativa al Pd o al renzismo o al populismo. Si coltiva, da più parti, la sensazione che sia sufficiente definirsi di sinistra per poter essere annoverati automaticamente nell’olimpo dei rivoluzionari. Non funzionava così manco ai tempi del Pci, figuriamo adesso. Solo che allora, con quel nome, con quella storia, potevi pure permetterti di essere conservatore ogni tanto. Oggi no.
E ritorniamo a quella che io mi intestardisco a considerare l’origine di tutti i mali. La nascita del Pds. In quegli anni sciagurati in cui si buttò a mare un patrimonio di 80 anni, ci si dimenticò di un particolare: che quella operazione aveva bisogno di definire un nuovo orizzonte, ideale e culturale, per dare testa alla sinistra. Le gambe c’erano, la testa no.
Il problema sta tutto qua. Chissenefrega di Renzi, del Pd, delle alleanze. Ma si può dibattere da Roma se a Parma si debba appoggiare Pizzarotti o fare una coalizione di centrosinistra classica? E quelli di Parma che stanno a fare? Danno i volantini? Guarda che poi, ne abbiamo le prove provate, quelli di Parma finisce che non ti votano. E poi mica puoi dire “date le condizioni abbiamo fatto il massimo”. La politica, la sinistra, servono a cambiarle le condizioni, mica a subirle.Dicevamo: identità, bagaglio culturale e ideale. Queste sono le condizioni essenziali. Poi possiamo anche chiamarlo davvero Arturo, se in contenuti e le idee sono quelle di un nuovo movimento socialista. Serve un grande lavoro prima di tutto culturale, chiamando a tornare in campo tutte le energie migliori, i famosi intellettuali che non si sa che fine hanno fatto. Bisogna definire quale sia “il nostro cielo”, il nostro orizzonte ideale, quale sia la nostra cassetta degli attrezzi con la quale interpretare la realtà. Con mi alleo poi? Semplice con chi ci sta. Bisogna, insomma, avere la capacità e la pazienza, di rovesciare il percorso. E guardate che non parlo di “un programma”. Vanno bene le officine delle idee, va bene tutto. Ma non basta. Un programma siamo bravissimi a scriverlo. Anzi, magari neanche più tanto quello perché ormai scriviamo cose che non capiamo neanche noi. Quello che manca è un manifesto dei valori, un campo ideale. E guardate, la butto lì, non credo che sia neanche sufficiente la dimensione nazionale. Le coordinate: io credo possano essere tre: la dicotomia lavoro/non lavoro (perché dovremo porci prima o poi il problema di una società in cui il lavoro sarà sempre meno parte fondamentale della nostra vita e quindi assumere anche il tempo del non lavoro come valore) l’uguaglianza (perché ci hanno fatto una testa tanta con la meritocrazia, ma senza uguaglianza diventa soltanto una maniera più elegante per disfarci degli ultimi) l’ambiente (non perché l’economia green fa tanto fico, ma perché se non mettiamo l’ambiente come base di tutto il nostro agire ci siamo giocati il pianeta e altri non ne abbiamo). Mi fermo perché altrimenti altro che pippone.
3) Fatto questo si torna alla conclusione del punto 1. Ovvero: come si creano le condizioni per far in modo che un giovane Pio La Torre del terzo millennio si senta a casa? La traduco in politichese: come si crea un nuovo meccanismo di selezione della classe dirigente? Perché sicuramente dobbiamo sapere cosa fare, ma anche con chi farlo.
Ora, negli ultimi venti anni (il Pd ha soltanto estremizzato questo processo) i partiti non sono stati più gli “intellettuali collettivi” di cui parlava Gramsci. Ossia quei luoghi in cui un cervello collettivo elabora le soluzioni ai problemi. Ma non sono neanche quei luoghi dove si sperimenta e si mette alla prova la classe dirigente. Tutto questo è stato sostituito dal partito del leader e delle correnti. Si tratta di un processo generale che in Italia ha coinvolto l’intero panorama politico. Non è un caso se la contesa nel Pd è sostanzialmente fra due populisti. Perché nel momento in cui non sei più intellettuale collettivo e non sei più luogo di selezione della classe dirigente, il partito diventa mero luogo di gestione del potere. Il mezzo diventa fine e allora servono solo un leader e i suoi lacchè. Il processo decisionale non è più tra linee politiche alternative, ma fra capi alternativi. E vince chi è più populista e arrogante dell’altro.
Essere di sinistra, oggi, vuol dire anche invertire questa tendenza, costruendo un movimento dove il nodo non sia il leader ma la classe dirigente, diffusa e riconosciuta.
Dico non a caso riconosciuta, perché oggi esistono soltanto i grandi leader mediatici, non abbiamo più i dirigenti di base, quelle figure essenziali se si vuole avere un legame forte con il territorio. Abbiamo una classe politica (non la chiamo dirigente non a caso) completamente slegata dal territorio. Sento autorevoli parlamentari che ti dicono candidamente “non abbiamo capito cosa stava succedendo”. E’ successo ad esempio sul referendum costituzionale. Bastava andare a dare un volantino in giro per capire che gli italiani non solo avrebbero votato no, ma che gli stavate proprio sulle palle.
Tre cose da fare subito, insomma, avendo bene in testa che non serviranno due giorni. Ma bisogna partire. E allora: Pd o non Pd? Machissenefrega.
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