Renzi che va, Renzi che viene.
Il pippone del venerdì/80
Non cambia molto se Renzi fa il suo partitino. Ci sarà solo da aggiornare il conto delle formazioni politiche personali. E del resto mica era possibile che fosse soltanto la sinistra a sfaldarsi, è proprio questa società che non tiene più. Le varie diaspore politiche sono la conseguenza. La politica non può che essere lo specchio fedele di un paese, della situazione sociale, delle evoluzioni dei costumi. E se un società diventa sempre più individualista, cattiva ed escludente, la politica non può che ripercorrere questi tratti. Il settarismo va di gran moda, il “meglio comandare in una casa piccola che stare insieme ad altri in una più grande” oramai è una sorta di mantra che si sente in ogni angolo.
E comunque, si diceva, non cambia molto se Renzi fa il suo partitino. Almeno per quelli come me che sono convinti che l’errore, anzi direi l’equivoco, stia nell’esistenza stessa di una formazione politica che riunisce due culture distinte. Non si mescolano, al massimo una prova a cancellare l’altra. Come è successo con la famosa rottamazione, che non era la semplice sostituzione di una classe dirigente. Non era un salutare scontro generazionale. Tutt’altro: era la fase finale della cancellazione di una cultura politica, quella che, con una semplificazione necessaria alla salute dei lettori, oserei definire “togliattiana”. La rottamazione era la fine di quell’idea di partito e di funzione del partito nella società che era stata definita nel Pci del dopoguerra e perfezionata con Berlinguer.
Cambia qualcosa se il segretario sarà Zingaretti? Con tutta la stima che ho da sempre per il presidente della Regione Lazio, credo di no. Intanto perché secondo me Zingaretti la sua occasione vera l’ha persa alle primarie del 2009. Un ampio fronte, quello si davvero generazionale, gli chiese di mettersi alla guida di un processo di rinnovamento del partito e candidarsi alle primarie che non potevano risolversi in una conta fra Bersani e Franceschini. Una sfida che sembrava guardare più al passato che al futuro. Zingaretti disse di no, spiegò che il suo impegno era tutto teso alla riconquista di Roma (salvo poi ritirarsi per candidarsi alla Regione). Sappiamo come è andata la storia del Pd da quel momento in poi.
Resto convinto anche dieci anni dopo che quella fosse l’occasione di fare del Pd un partito e non una federazione di correnti personali. Ora è tardi. E’ tardi per due ordini di ragioni. Intanto perché quel simbolo ormai viene associato indissolubilmente a una stagione, quella delle leggi contro i lavoratori, quella delle leggi truffa, quella della riforma costituzionale. Ma è tardi soprattutto perché quel partito ha consumato il legame “empatico” non solo con i suoi elettori, ma con i suoi militanti. C’è stata una rivoluzione genetica che ha cancellato una comunità. Non basta il cambio di un segretario né tanto meno basta invocare una generica discontinuità. Tanto più che appostati dietro di lui c’è la fila di quelli che hanno lavorato strenuamente per arrivare alla situazione odierna. Da Franceschini in giù. Nel Lazio, tanto per dirne una, il candidato di Zingaretti alla segreteria regionale era Bruno Astorre, uno che si vantava pubblicamente di “comprare” migliaia di tessere.
Insomma, per non farla troppo lunga, il presunto partitino di Renzi rappresenterebbe sicuramente una novità, ma non la soluzione del problema. Con Zingaretti, ovviamente, sarà possibile aprire un dialogo. Ma si potrà fare solo se avverrà da pari a pari. Soltanto se, nel frattempo, saremo riusciti a dare una casa aperta e stabile allo stesso tempo a quello che resta della sinistra italiana. Resto molto pessimista, la tentata nascita dell’altro partituncolo personale, quello annunciato da Grasso, è un altro ostacolo in un percorso già travagliato. Credo però che prima o poi dovremo fermarci e contare fino a dieci. Ormai ho la certezza che il problema non siano le divaricazioni programmatiche, su quelle una via di mezzo siamo bravissimi a trovarla. Il vero problema è la sopravvivenza dei diversi gruppi dirigenti. Per fortuna le prossime elezioni europee spazzeranno via quello che ne resta. Sarebbe bene capirlo prima e attrezzarsi, ma mi pare che gli egoismi prevalgano. Le liste della sinistra all’appuntamento di maggio saranno almeno quattro e prima si voterà in 4 regione e 4.200 Comuni. Serviranno a confermare l’irrilevanza di ognuno. Né il pur generoso tentativo di Speranza e soci sembra nascere sotto i migliori auspici. Staremo a vedere.
Eppure avere una solida e autonoma formazione alla sua sinistra aiuterebbe anche Zingaretti a tenere a bada i suoi alleati di oggi, accoltellatori seriali che non vorrei mai avere alle mie spalle. Ridefinire un’alleanza progressista in grado di opporsi alle destre è sicuramente una priorità. Ma non funziona un campo – uso questo termine che va tanto di moda – in cui ci sia un partito e tante liste civetta. Funziona uno schieramento vero, con una base culturale comune che viene tradotta in un programma di governo. Se si uniscono, insomma, strategia e tattica. E per fare questo serve una sinistra che esca dall’abbaglio del neoliberismo e torni a essere popolare. Che si occupi, la finisco qui perché so di essere noioso e ripetitivo, delle condizioni materiali del suo blocco sociale, che dia rappresentanza ai tanti movimenti che proprio in questi mesi tornano a far sentire la propria voce. Mettiamo l’orecchio a terra e guardiamo avanti. Forse ne usciamo vivi.
La sinistra sono io e voi non siete un…
Il pippone del venerdì/79
Girando e curiosando fra le varie fasi costituenti di questi giorni mi sono reso conto di alcuni elementi che potrebbero sembrare particolari irrilevanti, ma con cui, in realtà, secondo me dovremmo fare bene i conti. In primo luogo abbiamo un po’ tutti la tendenza a ritenerci depositari della verità assoluta. Un po’ come quando esisteva il Pci e dicevamo che non poteva esistere nulla a sinistra del Partito. Che non a caso aveva la P maiuscola. Solo che allora, il fatto non è da poco, c’era – appunto – il Pci. Ovvero un partito che aveva quasi due milioni di iscritti e arrivava a dodici milioni di voti. Anche all’epoca, in realtà, l’affermazione era almeno presuntuosa, però aveva un suo fondamento: nel momento in cui c’era una casa comune dei comunisti italiani, da Amendola a Ingrao, era lecito guardare con sospetto a chi si chiamava fuori. Adesso, nel suo complesso, il campo della sinistra italiana non arriva al 10 per cento dei voti. Gli iscritti ai vari micro partiti sono meno, sempre nel complesso, di 100mila. Non a caso, di anno in anno, le costituenti, i cantieri che si aprono, i campi larghi da esplorare, sono sempre di più ma si svolgono in sale sempre più intime. E ultimamente neanche troppo piene.
Il secondo dato è che, anche all’interno della stessa formazione politica siamo come monadi separate, dove non solo tutti parlano male di tutti. Al chiacchiericcio che ha sostituito la sana battaglia politica ormai ci siamo abituati. Il dramma vero è che nessuno ascolta più gli altri, né si sente rappresentato da altri. Assistito a riunioni dove se i presenti sono venti intervengono tutti e venti, con ragionamenti completamente slegati fra loro. Una specie di seduta di autocoscienza continua. Il bisogno di apparire, di affermarsi personalmente, ha ormai sostituito il riconoscimento delle capacità dell’altro. Sarò anche questo un frutto avvelenato della nostra società sempre più individualista?
Il terzo dato è la scomparsa del “popolo”. A parlare, sempre più spesso, sono sedicenti intellettuali, esperti di non si sa bene cosa, portatori di non si capisce bene quale messaggio superiore. E pretendono sempre di insegnarti qualcosa, di spiegare al muratore come si fa un muro, all’idraulico come si monta un rubinetto, allo sfruttato come bisogna lottare per i propri diritti. E’ qualcosa che va oltre la spocchia, è una superiorità aristocratica conclamata. Non ci si interroga, non si ascolta. Si proclama. Noi siamo, noi spieghiamo, noi vogliamo. Ora, in Italia la sinistra funzionava quando era fusione di popolo e intellettuali, quando i lavoratori parlavano del lavoro, gli intellettuali si confrontavano con loro e da lì nasceva la “linea”. Quando abbiamo cominciato a imporre le riforme dall’alto, quando abbiamo perso le nostre radici, non ne abbiamo più azzeccata una. La lezione, almeno questa, dovremmo averla imparata. E invece no. L’operaio, il precario, sono soltanto figurine che si mettono sui palchi perché fa tanto fico. Un po’ come avere l’amico gay qualche anno fa. Ma ci si ferma lì. E così andiamo a salvare naufraghi nel mediterraneo – cosa sacrosanta per carità – ma siamo lontani mille miglia dai tanti naufraghi che abbiamo nelle metropoli cattive che abbiamo costruito. Il popolo non ci vota perché non siamo popolo.
E allora di cosa avremmo bisogno? Io continuo a sostenere che servirebbe un grande sforzo culturale di analisi riprendendo nel cassetto i “vecchi” arnesi marxiani che sarebbero tanto utili nella società di oggi. Non solo dovremmo essere alternativi al neoliberismo che di danni ne ha fatti anche dalle nostre parti, ma tornare ad essere alternativi al modello di sviluppo capitalistico, perché è il capitalismo stesso a generare quel mondo dispari che ci ritroviamo nelle mani.
Non pretendo tanto. Se dici certe cose ti dicono che sei un comunista e se gli rispondi “certo” si sconvolgono. In una situazione come la nostra anche erigere una barricata sufficientemente alta per ripararci dall’onda nera che ci sta travolgendo sarebbe un miracolo. Cosa hanno fatto da altre parti? Perché in altri paesi la sinistra resiste, in alcuni casi torna addirittura a essere egemone? In Italia l’ultima esperienza di sinistra con una certa consistenza è stata Rifondazione Comunista, tutti gli attuali partitini nascono da lì, da un soggetto politico che aveva una discreta consistenza, una buona organizzazione, una attività militante diffusa. Poi più nulla. Altrove, penso alla Francia, alla Spagna, ma anche agli inglesi, la sinistra resiste se: 1) riesce a rinnovarsi radicalmente, 2) trova un leader convincente in grado accompagnare il rinnovamento, 3) trova delle forme organizzative che garantiscano un po’ di continuità. Non fanno, insomma, una fase costituente al giorno.
Noi un leader convincente non ce lo abbiamo. Facciamocene una ragione. E anche l’idea del “papa straniero”, al decimo fallimento consecutivo, dovrebbe essere rapidamente accantonata. Se facciamo l’elenco, da Prodi fino ad arrivare a Grasso, dovremmo capire che forse è proprio sbagliata l’idea in sé, che la sinistra dovrebbe formare la sua classe dirigente nella lotta politica e poi proporla e sperimentarla, non creare leader in laboratorio, incoronarli con un applauso con l’illusione di riuscire poi a controllarli. Poi questi si montano la testa e finisce male. Sempre.
Quanto al rinnovamento, faccio notare che ormai alle riunioni ci si conosce un po’ tutti. Perfino i ragazzi, pochi, che ogni tanto compaiono sembrano meri cloni dei più anziani. Con tutti i loro difetti, con tutte le loro debolezze. E poi c’è questa cosa che a me mi fa impazzire: il rinnovamento va bene, ma mai per se stessi. Sono sempre gli altri, nel segno della rottamazione continua a doversi fare da parte. E così ci ritroviamo ultrasessantenni con un onesto passato nelle retrovie della prima repubblica che ti diventano all’improvviso i paladini acerrimi del rinnovamento. Altrui.
L’altra cosa che trovo insopportabile è la società civile. Serve la società civile, basta con i partiti, le energie presenti nella società da valorizzare. Ma che noia questa stanca ripetizione di ricette fallite. Ora, le energie ci sono davvero, lo vediamo nel movimento delle donne, degli studenti, nelle manifestazioni contro il razzismo. Ma ai movimenti serve una sponda politica, un luogo dove le istanze che rappresentano diventano stabili, diventano patrimonio comune. Altrimenti, è la natura stessa dei movimenti a dircelo, si accendono, divampano e poi si spengono senza lasciare sedimenti significativi.
E allora che fare? Costruire una casa stabile, che non cambiamo ogni tre mesi, che non abbia come orizzonte soltanto le prossime elezioni, ma nella quale trovare riparo. Io resto convinto che almeno questo si possa realizzare in tempi brevi: dare alla sinistra un luogo di confronto di elaborazione, di selezione della classe dirigente. Come? Non dal basso, o almeno non soltanto. I partiti non nascono mai solo dal basso o solo dall’alto. Nascono seguendo esigenze storiche, fondendo militanza e classe dirigente. Sono processi più complessi. Ma per essere credibile e stabile il partito che ho in mente deve valorizzare la partecipazione e il metodo democratico. Non è che abbia la pretesa di essere maggioranza, tra l’altro mi succede di rado, ho però la pretesa di poter discutere le proposte, di poter contribuire a eleggere la classe dirigente. Dove non ci possono essere più “nominati”, quelli che ci sono sempre “di diritto”.
Insomma, continuerò a partecipare, per quanto mi sarà possibile, a tutti gli appuntamenti in cui si parlerà di questi temi. Secondo me ci sono ancora le condizioni per costruire un percorso che non rappresenti un ritorno al passato, che aggreghi e non divida ulteriormente. Un po’ meno spocchia e più umiltà da parte di tutti non guasterebbe. Ma è merce rara.
Cinquantuno sfumature di rosso.
Il pippone del venerdì/78
Un autorevole commentatore alcuni giorni fa ha spiegato che la crisi della sinistra sta tutta nel non aver metabolizzato la trasformazione del sistema dei partiti in sistema dei leader. Ovvero, la società di oggi sarebbe di per sé incompatibile con un sistema politico basato sulla partecipazione, la semplificazione della quale siamo tutti vittime nei campi più disparati richiederebbe la delega totale a un leader. E noi invece, secondo l’autorevole commentatore, ci ostiniamo a pensare di organizzarci in partiti.
A dire il vero, a me pare che la sinistra questo cambiamento lo abbia metabolizzato da tempo, semmai viene da pensare che non si metta d’accordo sul leader. In questi giorni sono in corso almeno quattro processi costituenti di altrettante formazioni politiche che potranno comodamente incoronare altrettanti fascinosi segretari. Tutti e quattro i “cantieri” saranno aperti, unitari, inclusivi, perché “non vogliamo fare il solito partitino del 3 per cento”. Il sindaco di Napoli, in una intervista dei giorni scorsi, ha spiegato addirittura che fare il leader è il suo destino naturale e che si candiderà a tutte le elezioni prossime venture. Abbiamo trovato un nuovo Lenin e non ce ne eravamo accorti. Che culo!
Quelli messi peggio, anche se nessuno ormai si accorge di loro, sono i compagni di Possibile, passati dalla battaglia senza se e senza ma contro Zingaretti a fare da comparsa in una lista (sempre unitaria, aperta, inclusiva e che non sarà un partitino del 3 per cento) capitanata da Boldrini e Smeriglio, sotto l’ala protettiva proprio del presidente della Regione Lazio. L’ala sinistra della futura alleanza immaginata dall’aspirante segretario piddino. Poco più che una lista civetta, insomma. Chissà come mai quelli che sono per la lotta dura senza paura me li ritrovo sempre a fare da giullari a corte.
I moderati, dal canto loro, non stanno messi meglio: il Pd ha addirittura sette candidati segretari. Tutti aspiranti leader. Dei quali si conosce a malapena la faccia, ma non è dato sapere quali siano le ragioni programmatiche e ideali che li hanno spinti al grande passo. Che poi, io non sono un fautore delle quote rosa, ma che diamine: fra costituenti, congressi e convegni, stiamo parlando complessivamente di una quindicina di persone: tutti uomini, salvo l’ex presidente della Camera. Quasi che il concetto di leader, declinato nella forma contemporanea, fosse solo possibile al maschile.
Di sicuro la sinistra è stata protagonista della fine del sistema dei partiti in Italia. Anzi ne siamo stati l’avanguardia. Fin dall’89. Per me la data maledetta è sempre quella in cui Achille Occhetto stabilì che la risposta alla crisi del comunismo mondiale era sciogliere il Pci e trasformarlo in partito qualsiasi. Da lì è venuta meno una comunità, una maniera di stare insieme, di condividere non solo la passione politica ma un pezzo della propria vita. Certo, poi negli ultimi anni il sassolino rotolando lungo il fianco della montagna è diventato valanga e ha travolto tutto. Ma l’origine è sempre quella lì.
E le stesse divisioni, anzi ormai si dovrebbe parlare di moltiplicazioni a ripetizione multipla, avvenute in questi anni, in realtà hanno origine proprio da quel vulnus: se manca una base ideale comune non è possibile neanche rinunciare a un pezzo della propria visibilità e identità personale nel nome del bene collettivo. Anzi, lo stesso concetto di bene collettivo vacilla e viene sostituito sempre più dal mero tornaconto personale. Temo che le discussioni dentro Liberi e Uguali di questi mesi siano proprio la rappresentazione estrema di questo: ci si divide per preservare il proprio pezzettino di potere, che, per quanto sia piccolo, non si è disposti a cedere. Manca una base ideale, manca un figura capace di mettere tutti d’accordo, perché restare insieme? Ognuno a casa propria, poi ci si aggregherà di volta in volta nel tentativo – vano – di superare qualche sbarramento elettorale. La cosa più divertente di tutte è che tutti quelli che si candidano lo fanno sempre dicendo che bisogna superare “l’io e tornare al noi”. Intanto si candidano, però.
Resta da capire se davvero sia proprio impossibile fare un partito-comunità adesso e ci si debba per forza accontentare di battere le mani a qualche polletto allevato in batteria che si crede un gallo di qualità. Io resto convinto che si debba tornare all’antico, sia pur innovando le forme dell’organizzazione, i modi di partecipazione e il meccanismo di selezione della classe dirigente. Per questo credo che valga la pena di continuare a spendersi. Certo, non è una sfida che possiamo vincere oggi. Ormai toccherà farsene una ragione. Sarò al teatro Ghione domani mattina, sabato 24 novembre, per l’appuntamento organizzato dai comitati di Liberi e Uguali. E mi auguro non solo che vada bene, ma anche che gli aspiranti leaderini si rendano conto che insieme si sta meglio, soprattutto se bisogna costruire un argine a quello che ormai sembra un fiume in piena, l’ascesa della nuova destra di Salvini e soci.
Credo però – sarò anche pessimista, a me sembra sano realismo – che sia inutile farsi troppe illusioni. Basta girare un po’ e ci si accorge che ormai sono scattati gli ultras delle varie parti in causa e quanto parte la rissa la cosa migliore da fare è tenersene accuratamente alla larga. Intanto è bene continuare a coltivare i semi, le reti che ognuno di noi ha costruito in questi mesi. Che le diverse sigle non siano scuse per perdersi di vista. Perché guardate che, i leaderini se ne accorgeranno, non sarà facile farci tornare docili docili in casette che non sentiamo più nostre.
Sciogliere Leu? Non capisco e non mi adeguo.
Il pippone del venerdì/77
Allora, di solito non mi adeguo per ragioni di opportunità neanche quando capisco, figuriamoci quando non capisco. Riassumo per gli amanti del brivido. Il 4 marzo si è presentato alle elezioni politiche un raggruppamento elettorale di sinistra, Liberi e Uguali, nato dall’unione di tre partiti: Sinistra Italiana, Possibile e Mdp. I tre rispettivi leader, nel momento stesso in cui hanno individuato in Pietro Grasso la figura guida di Liberi e Uguali, hanno dichiarato solennemente che quel cartello elettorale, subito dopo le elezioni, sarebbe diventato un partito unitario. Per la prima volta da decenni, insomma, a sinistra si metteva in campo un processo di aggregazione. Il risultato elettorale non ha premiato questo tentativo: il 3,4 per cento ottenuto è un risultato quantitativamente inferiore alle attese, non qualitativamente. Perché puoi prendere il 5 o il 3 ma conti sempre poco se non consideri quei voti una base su cui costruire un futuro più consistente. Così non è avvenuto. Evidentemente Leu era considerato un semplice autobus per confermare un gruppetto di parlamentari. L’elettorato lo ha capito e non ci ha premiato.
Il 5 marzo, malgrado le promesse, si sono sfilati immediatamente i compagni di Possibile, subendo a loro volta una scissione. Ancora prima l’ex presidente della Camera, Laura Boldrini, aveva dato vita a un suo movimento. A maggio l’assemblea nazionale di Liberi e Uguali ha deciso di continuare comunque la costruzione del partito, dandosi delle precise scadenze. Poco dopo è stato nominato, non si sa bene con quali criteri e proposto da chi, un comitato promotore nazionale, in molte città sono nati i comitati locali, è stata avviata una campagna di pre-adesione. Io, a oggi, sono iscritto a Liberi e Uguali.
Da lì, il nulla. Prima si è chiamata fuori Sinistra Italiana dando la colpa a Grasso e a Mdp, poi Mdp ha annunciato che, visto che era finita l’esperienza di Leu per colpa di Si e di Grasso avrebbe dato vita, a sua volta, a una fase costituente. Appuntamento il 16 dicembre. In tutto questo non c’è stato un solo momento collettivo in cui poter discutere. Anche l’ex presidente di Lega Ambiente, Rossella Muroni, nel frattempo, ha annunciato, nel frattempo la volontà di costruire un suo partito, i nuovi verdi.
In mezzo al guado, a partire dal mese di ottobre, alcuni comitati locali di Leu hanno cominciato a parlarsi, a incontrarsi e hanno lanciato l’idea di vedersi tutti quanti a Roma il 24 novembre. Per discutere insieme, appunto, e vedere se ci sono le condizioni per proseguire. Al momento, gli unici ad aver risposto presente fra i dirigenti sono Grasso e Laforgia, senatore, ex capogruppo di Mdp alla Camera.
Tirando le somme, allo stato attuale, tralasciando alcune figure minori e patrioti vari, allo stato attuale da Liberi e Uguali rischiano di nascere almeno 6 partiti. Si fa per dire. Diciamo che rischiano di nascere 6 segreterie nazionali. Alle elezioni europee, per essere concreti, nella migliore delle ipotersi potremmo dover scegliere fra il partito di Grasso e Laforgia, la formazione di Boldrini e Smeriglio, il nuovo raggruppamento fra Sinistra Italiana e Rifondazione, il partito rosso-verde annunciato da Speranza. In più avremo Pap, i soliti sei, sette partiti comunisti, Possibile da qualche parte si andrà a collocare. Una roba che viene voglia di metter su casa nella foresta amazzonica, altro che nel bosco di bersaniana memoria.
Fin qui la descrizione della situazione, mi perdonerete la rozzezza delle semplificazioni, ma altrimenti servivano due pipponi. Ora provo a dire la mia. Intanto non capisco. Ma davvero, non è una provocazione. Non capisco la differenza fra la fase costituente che propongono Grasso e Laforgia e quella che propone Speranza. L’unica differenza che percepisco chiaramente è che si tratta di due progetti distinti. Per quali ragioni non è dato sapere. A meno che non si voglia davvero sostenere che ci si divide sul metodo da adottare per prendere le decisioni: solo online? Solo nelle assemblee fisiche? Sono problemi seri che attanagliano il Paese intero. Almeno Sinistra Italiana e Mdp sembrano avere differenze di prospettiva: a quale gruppo aderire una volta eletti nel Parlamento europeo? Presentare o no la lista di Leu alle elezioni? Certo, ci sarebbe piaciuto dire la nostra, ma capiamo che praticare sul serio un percorso di partecipazione democratica è più complesso che annunciarlo. Invece tra Speranza e Grasso le divisioni sono davvero incomprensibili. L’unica cosa certa è che le opposte tifoserie sono già al lavoro. E quando partono gli ultras tutto è perduto. Non c’è più il ragionamento, non c’è più il confronto, tutto si riduce al “serrate le file” della propaganda.
Io credo, però, che possiamo ancora fermarci a riflettere e creare le condizioni per il rilancio di una forza che abbia una forte tensione unitaria. Il tempo non è ancora esaurito. E credo che l’occasione, l’ultima, possa diventare proprio l’assemblea nazionale lanciata dai comitati locali per il 24 novembre. Le condizioni per farla diventare un appuntamento costruttivo sono chiare, ma non semplici. Intanto bisogna arrivarci con la mente aperta, non con i paraocchi del tifoso. E poi bisogna invitare tutti, ma proprio tutti. Da Lotta Comunista fino alla sinistra del Pd, direi tanto per chiarire il campo a cui secondo me dovremmo provare a rivolgerci. Dovremmo guardarci in faccia e capire che il momento è talmente grave che non si può stare a sottolineare le virgole che ci differenziano. A me sembra che un buon punto di partenza per la discussione sia il documento proposto da Grasso. Non è perfetto, ma è una base che non mi sembra si distanzi in maniera così profonda da quello consegnato sabato scorso al coordinamento nazionale di Mdp. Assumiamo quel documento, facciamo ripartire un movimento unitario con quel percorso che avevamo immaginato. Creiamo in ogni città dei luoghi in cui discutere unitariamente, non per partiti separati. E da lì diamo la spinta necessaria a superare le difficoltà. In parallelo si può eleggere (non nominare per carità) una commissione nazionale che prepari poche e semplici regole per adesioni e percorso congressuale. Il tutto entro gennaio.
C’è il rischio, lo sento già molto presente nelle discussioni online, che, invece, l’assemblea del 24 novembre diventi il luogo in cui ci si limiti a sancire le divisioni e si fa nascere non Liberi e Uguali, ma l’ennesimo partitino senza prospettiva. E’ perfino facile: si parte con le accuse ai gruppi dirigenti inadeguati, ci si autointesta la rappresentanza esclusiva della base, si affibbiano colpe a destra e a manca. Basta un attimo e ci si ritrova intruppati al seguito di qualche aspirante leader. La prospettiva francamente non mi alletta un granché. Come si dice a Roma: peppa per peppa mi tengo peppa mia. Eppure, prima di prendere la strada della foresta, secondo me vale la pena di fare l’ultimo tentativo. Parliamoci con sincerità, ascoltiamoci con attenzione e valutiamo insieme. Ci sarà tempo per creare un gruppo dirigente nuovo, mettendo alla prova tutti noi nel processo unitario.
Non mi adeguo, lo ribadisco. E, lo spero davvero, credo che il 24 novembre saremo in tanti a non adeguarci.
Mi raccomando fate i moderati.
Il pippone del venerdì/76
Non è uno scherzo, leggo l’ennesima intervista di Romano Prodi, come sempre con il rispetto che si deve a una persona di una certa età, e scopro che ha la testa ancora ferma lì: per vincere servono candidati moderati, anzi un fronte che comprenda tutti i cosiddetti anti populisti per avere la maggioranza nel prossimo parlamento europeo: l’alleanza con Macron è servita. Ora, io che sono un ingenuo, mi sarei aspettato che dopo quanto sta succedendo ormai da un paio di anni a questa parte in tutto il mondo, anche i tifosi più accaniti dell’ulivismo se ne fossero fatti una ragione. E invece no, non sono bastate neanche le elezioni americane. Nulla, hanno la testa tarata sul “centro”. E poi ho l’impressione che si confonda il concetto di populismo con quello di popolare. Una generazione di dirigenti troppo abituata ai salotti della politica non sa più neanche dove sta di casa il popolo. Non lo trovano manco se lo cercano su google.
Ma torniamo alle cose serie. Un compagno, giusto ieri, mi ha detto che “sono intelligente, ma anche mezzo matto”. Io, a dire il vero, essendo da sempre seguace di Steve Jobs, ambirei a essere tutto matto, anche perché sono i folli che cambiano il mondo, che fanno andare avanti la società, non i sostenitori dello status quo. Ma anche senza essere del tutto fuori di testa, andrebbe portata avanti una qualche forma di riflessione sul ritorno del radicalismo in politica in rapporto alle evoluzioni della nostra società. Non sono davvero in grado, servirebbero sociologi, esperti di new media, fini analisti politici. Io da umile osservatore, mi limito a considerare che perfino nel paese più moderato del mondo occidentale ormai la sfida è fra la destra e la sinistra radicale. Negli Stati Uniti si contrappongono Trump e Sanders, non Cruz e Clinton, tanto per semplificare il ragionamento. E quando la dirigenza democratica prova a inventarsi in provetta un candidato, malgrado una campagna faraonica, prende sonore mazzate. Beto insegna. E’ solo un fenomeno momentaneo? Io non credo. Anzi, penso che la contrapposizione politica sempre più netta sia una caratteristica di fondo di questo modello di società.
Provo ad articolare un pensiero logico. Viviamo in un mondo sincopato, in cui il tempo è fattore essenziale e l’attenzione è sempre più labile. Ormai ognuno di noi fa sempre due cose contemporaneamente. E basta guardare i ragazzi per capire come la tendenza sia sempre più marcata. Si guarda la tv e si sta con lo smartphone comunque in mano. Ci sono paesi dove hanno addirittura pensato di rafforzare la segnaletica orizzontale per le strade perché oramai tutti camminano a testa bassa, meglio scrivere a terra le indicazioni adatte a evitare frontali fra pedoni. Mettiamoci anche un altro concetto: la comunicazione tende a essere sempre meno scritta e sempre più basata su immagini chiave. Il pippone resiste, ma nasce appunto con l’idea stessa di essere orgogliosamente controcorrente. Tant’è vero che il social emergente è Instagram, ovvero un luogo dove non ci sono sostanzialmente testi scritti ma solo immagini.
E anche la politica non può che seguire la tendenza: sempre più messaggi video, a fare i volantini anni ’50 c’è solo qualche sindacalista in pensione. Insomma una comunicazione sempre più secca. Succede in tutto il mondo, in Italia ne abbiamo avuto la prova sul campo alle ultime elezioni, nelle quali hanno pagato i messaggi asciutti di Lega e 5 Stelle, non la vaghezza di Leu o il finto giovanilismo di Renzi.
Insomma, la nuova parola d’ordine di tutti noi dovrebbe essere radicalità. Teniamone conto. Emerge chi si fa capire in 15 secondi. Come farlo, invece, richiede decisamente più tempo: bisognerebbe partire da un solido ancoraggio ideale. Una volta definite le coordinate, declinare il messaggio in maniera efficace è lavoro da comunicatori. Ma se non si parte dalle fondamenta anche il messaggio non può colpire. A me hanno sempre dato fastidio quelli che dicono: “Non siamo stati capiti, non abbiamo saputo comunicare”. A titolo di mero esempio: se vuoi i voti dei lavoratori e hai appena votato la riduzione sistematica dei loro diritti puoi essere bravo come ti pare, ma alla fine la verità viene fuori.
Quindi radicalità, dicevamo. E direi anche volti credibili. Gli Usa, come accennavo prima, insegnano. La società attuale non ti permette più il candidato creato in provetta, il falso dura lo spazio di un click. Serve gente vera da mettere in campo, nuova e non consumata, avvezza alla lotta, pronta alla clava più che al fioretto. Questo richiedono i tempi. Chiarezza e credibilità sono la chiave (data la premessa di una necessaria robustezza ideologica) per costruire un movimento politico in grado di attrarre consenso.
Chiudo, infine, il pippone di oggi con un appello ai romani per un voto “accorto”. Domenica i cittadini della capitale sono chiamati ad esprimersi su alcuni quesiti referendari promossi dai Radicali con la complicità del Pd. Si tratta di un referendum consultivo, quindi potrebbe anche essere ritenuto secondario, ma in realtà rappresenta il tentativo della destra liberista di rialzare la testa dopo la mazzata della sconfitta sull’acqua. Si torna a pensare che privato è bello, pubblico è per forza brutto. Ora, come sapete ritengo la tutela dei beni comuni una delle chiavi su cui una sinistra che si vuole definire contemporanea deve necessariamente cimentarsi. L’acqua era un tema forse più facile. Ma sono beni comuni anche le reti di comunicazione, i trasporti, le grandi infrastrutture. E a maggior ragione è un bene comune anche il trasporto pubblico. I promotori dicono che non si tratta di privatizzare ma di liberalizzare. Balle. Il trasporto è per sua natura un monopolio. Può essere gestito dal pubblico o dal privato. La sola differenza è il profitto. E siccome i soldi sono gli stessi, se qualcuno ci deve guadagnare lo farà deprimendo ancora di più la qualità del servizio. Non è questione di opinioni. E’ matematica.
Quindi domenica si vota no. Si potrebbe anche pensare di boicottare semplicemente il referendum non facendo arrivare la partecipazione al quorum previsto (33 per cento). Lascio a voi la scelta: occhio alla percentuale dei votanti e pronti a scattare se si alza troppo. Ma anche se resta molto basso, una dose di no di sicuro non faranno male. Nel dubbio facciamoci una croce sopra.
La manovra che certifica il declino.
Il pippone del venerdì/75
Io credo che questa manovra economica del governo sia una sorta di bollino blu che certifica in maniera inequivocabile il declino del nostro Paese. Il cosiddetto governo del cambiamento ha messo insieme qualche norma raccogliticcia su una specie di sussidio di disoccupazione, una mezza truffa sulle pensioni, un condono davvero paradossale che riguarda il terremoto a Ischia, l’aumento di imposte varie (un must quella sulle sigarette) e poco altro. Anzi, dimenticavo, c’è la norma sulla terra in omaggio a chi fa il terzo figlio. Ora, allo stato attuale delle cose, siamo sempre la secondo potenza manifatturiera d’Europa. E vi pare che questi possano essere i provvedimenti che ci portano fuori dalla crisi economica? Anche il Pil alla fine ha certificato che la stentata crescita tanto sbandierata dai governi degli ultimi anni era mera illusione. Siamo tornati alla stagnazione. Allo zero per cento. Gli osservatori più avvertiti, a dire il vero, lo avevano già spiegato, che i dati con un pallido segno più che ci avevano illuso erano un mero riflesso della ripresa avvenuta a livello mondiale. Il nostro declino, invece, è continuato imperterrito, al di là del Pil che si conferma indice insufficiente a valutare lo stato di salute dell’economia, tanto meno di un Paese intero.
Al di là dei numeri: l’Italia è un paese che frana alle prime piogge, che ha paura delle diversità, dove la povertà che si sta diffondendo invece che protesta sociale diventa rabbia nei confronti dei più deboli. Questa è la fotografia che abbiamo di fronte. Dal punto di vista industriale abbiamo regalato in giro per il mondo i pezzi pregiati della nostra industria, perché i famosi capitalisti nostrani si sono rivelati capaci di andare avanti soltanto con i contributi dello Stato. Una volta finiti quelli hanno fatto cassa e sono scappati con il malloppo. Tutti intenti a speculare sui titoli, guai a investire nel Paese. E per convincerne qualcuno i governi non hanno trovato di meglio che regalare a quelli più amici i resti del fu sistema delle partecipazioni statali: abbiamo cominciato con Telecom, proseguito con Alitalia e concluso le autostrade. Io capisco che lo Stato non deve fare i panettoni, non deve produrre auto, non deve occuparsi del latte. In realtà capisco poco anche questo, ma non è la sede per aprire un dibattito sull’economia socialista. Qualcuno mi deve però ancora spiegare come può un governo rinunciare ad avere sotto il controllo pubblico settori strategici come la mobilità, i collegamenti, le comunicazioni. Il che non significa che necessariamente debbano essere pubblici i provider di internet, ma la rete sì. Lo dicevo quando un governo di centro-sinistra svendette Telecom, figuriamoci adesso: le grandi reti infrastrutturali sono la chiave per la crescita di un territorio. Non si può lasciarli in mano privata, magari neanche italiana.
Addirittura a Roma fra una settimana voteremo sulla privatizzazione del trasporto pubblico locale. Atac fa schifo, mettiamo tutta a gara, basta con il monopolio pubblico dicono i promotori, Partito radicale e Partito democratico. Ora, il ragionamento potrebbe anche essere sensato se il trasporto pubblico, per la sua stessa natura, non fosse un monopolio. Che facciamo mettiamo diversi gestori su una stessa linea? Ovviamente no. E allora, va detto con chiarezza, mettere a gara il servizio di trasporto pubblico vorrebbe dire far diventare monopolista un imprenditore privato, o magari una società pubblica di altri paesi, visto che in tutta Europa le grandi capitali hanno gestione interamente pubblica di questo essenziale servizio. Unica eccezione di rilievo è Londra dove si sono amaramente pentiti. Altro tema sarebbe quella di creare una vera Agenzia della mobilità con il compito di programmare e monitorare il servizio. Quando ancora c’erano forze di sinistra di questo parlavamo.
Questa fissazione del privato che funziona meglio del pubblico è sbagliata nel suo stesso presupposto. Funziona meglio (forse) dove c’è concorrenza, nei settori dove invece la concorrenza non è possibile, al contrario, il privato punta a massimizzare i suoi profitti, senza dover offrire un servizio in grado di reggere il confronto con altri operatori dello stesso settore. Di prove, anche tragiche, ne abbiamo sotto gli occhi a dozzine. In realtà, poi, il pubblico negli altri paesi europei funziona bene e si espande anche: basta pensare a Parigi, dove Ratp, la società che gestisce i trasporti locali, è talmente forte che può permettersi di andare a gestire servizi anche fuori dai confini francesi. Chissà che non ci provino anche a Roma. Del resto, proprio nella capitale, un esempio di ente comunale che non solo funzionava, ma garantiva profitti costanti all’amministrazione lo avevamo: Acea. Poi, pur con un ruolo di minoranza, sono stati fatti entrare soci privati. I profitti sono diminuiti e il servizio è peggiorato. Certo, lo sfacelo complessivo di Roma ci mette del suo, ma anche la fornitura di elettricità e – soprattutto – acqua non è più ai livelli che aveva prima della quotazione in borsa.
Ovviamente di tutto questo la sinistra non parla. Mi sarei aspettato una campagna casa per casa sulla manovre economica. Alla vecchia maniera: gazebo in tutte le piazze, manifesti e volantini. Magari anche un minimo di campagna sul referendum romano. Nulla di tutto questo. Facciamo girare un po’ di materiale sul web, spesso confuso e pieno di errori. Senza capire che sui social ci parliamo e ci convinciamo fra di noi. Non si va oltre che rinforzare le tifoserie.
Siamo però tutti impegnati a capire in quale forma ci si dovrà presentare alle prossime elezioni europee. Perfino il timido Speranza alla fine si è accorto che il tempo stringe. Al coordinatore nazionale di Mdp verrebbe da dire: caro Roberto, bastava una telefonata a un qualsiasi elettore di Liberi e Uguali, te lo avrebbe detto mesi fa che il tempo stringe. Adesso, io credo invece che il tempo sia proprio scaduto. Non abbiamo alcuna credibilità, alcun progetto di lunga portata. A che serve l’ennesimo autobus per portare qualche parlamentare in Europa? Lo dico subito, io su quell’autobus non ci salgo.
Ritorno nel Paese che non sa più ribellarsi.
Il pippone del venerdì/74
Tornare da Cuba e ritrovarsi immersi nella tristezza nostrana. Servono nervi saldi. Non che mi sia distaccato completamente dall’Italia in questi giorni. Anzi. Sotto il sole dei Caraibi ho letto documenti in cui le stesse persone che fino a pochi giorni prima si lamentavano del fatto che Grasso non esercitasse la sua leadership attaccavano lo stesso Grasso per averla finalmente esercitata. Ho letto di manovre finanziarie bocciate all’unanimità da tutti i governi europei ancor prima che venissero approvate dalle Camere. Ho letto di Renzi salito sul palco dell’ennesima Leopolda insieme a Bonolis. Sarà lui il nuovo riferimento per gli intellettuali del Pd? Chissà. Poi sbarchi a Fiumicino e ti ritrovi Salvini a San Lorenzo a volteggiare come un avvoltoio sul cadavere di una povera ragazza violentata e ammazzata, le scale mobili che impazziscono come nei cartoni animati, la sindaca che per combattere lo spaccio di droga e la prepotenza dei criminali che ormai comandano in pezzi interi di città vieta la vendita di alcolici dopo le 21. Sempre a San Lorenzo.
E qualcuno ancora si sorprende del mio pessimismo di questi mesi. A dire la verità credo di essere anche troppo ottimista. Anzi, temo che se non ci diamo una svegliata collettiva, il prossimo governo sarà molto peggio di quello che abbiamo adesso. Sia a livello romano che nazionale. Partiamo dalla capitale: la sentenza nel processo a carico della sindaca arriverà a breve. Quasi quasi tocca sperare che venga assolta. La sinistra romana è totalmente impreparata. L’opposizione ormai la fanno i cittadini. Si organizzano, scendono in piazza autoorganizzandosi come accadrà il 27 ottobre, non danno più retta a noi sinistra “istituzionale”. Anzi, veniamo spesso percepiti come un ostacolo. Lo dicono anche i ragazzi del Mamiami: siamo orfani di un sogno. E come non sentirsi responsabili, dall’89 in poi di aver contribuito a negare il diritto a quel sogno. Il sogno, semplice, di un mondo migliore, in cui la lotta alle sofferenze, alle ingiustizie, sia patrimonio collettivo. Che poi torni da un posto in cui i cittadini si sentono rivoluzionari e patrioti del mondo intero, malgrado gli errori e i 50 anni di embargo da parte degli Usa, e senti ancora di più addosso il peso di aver contributo a questo furto di sogni, o almeno di non averlo contrastato abbastanza. Il furto del secolo.
Delle tante immagini di Cuba che mi porto dentro ce n’è una un po’ strana: tarda serata a Santa Clara, piazza centrale piena di gente, due tipi un po’ ubriachi litigano strillando. Ascoltare è inevitabile: litigano su Maduro, sulla società comunista. Poi si abbracciano e vanno a farsi un altro bicchiere. Due matti, ma è significativo di come quel popolo viva il suo essere comunità. La discussione sulla nuova Costituzione si fa casa per casa, sono informatissimi, trovi perfino uno che ti chiede se in Italia sia finita la crisi. Rovesciando le parti sarebbe da provare a chiedere a un italiano se sa chi sia il nuovo presidente all’Avana. A stento saprebbe dire chi è Mattarella.
Questo furto di sogni ci ha portato a un Paese cattivo e distratto, che se la prende con chi sta peggio per consolarsi. Che per vigliaccheria non è più in grado di gridare contro i potenti ma solo contro i miserabili della terra. Certo, prima o poi ne usciremo. Verrà alla fine il momento di rialzarsi, di tornare a sognare quel mondo migliore che adesso non vediamo più. Ma non sarà oggi e probabilmente neanche domani. Io credo che serva una generazione di distanza. Almeno. Il corpaccione profondo dell’Italia ha bisogno di disintossicarsi, di prendere le distanze dalle corti che hanno sostituito i partiti, dalle clientele che hanno reso marcio il sistema politico. Non credo che la cura siano i grillini o i leghisti, semmai sono la fase terminale (speriamo) della malattia. Temo molto quello che può succedere in caso di nuove elezioni, sia a Roma in seguito alla probabile condanna della Raggi, sia a livello nazionale magari dopo uno scontro furibondo con l’Europa
La guarigione, dicevo, sarà lenta. Serve tempo, serve la discesa in campo di una generazione non corrotta dalle pratiche nefaste degli ultimi 20 anni. Serve una generazione che sia in grado di scandalizzarsi e ribellarsi. Ecco, ritrovare il valore e il gusto della ribellione, della contestazione al sistema nel suo complesso. La chiave forse sta lì. E facciamola finita con gli eterni richiami al civismo come soluzione di tutti i problemi, la soluzione è far sì che le tante isole di impegno civico capiscano che senza un riferimento politico rischiano di provare a svuotare l’oceano con il cucchiaino. L’ho già scritto: dalle isole bisogna passare agli arcipelaghi per tornare poi sulla terraferma. Qualche esempio lo abbiamo, qua e là. Serve pazienza. Intanto ho disdetto Sky. Meno telegiornali farlocchi non mi faranno di certo male.
E io me ne vado a Cuba.
Il pippone del venerdì/73
Nei giorni scorsi, nel corso di una chiacchierata, mi sono trovato a dover illustrare a mio figlio diciassettenne l’esistenza in Italia di un Pci, un Pc, un Prc. Ovvero, per i non addetti ai lavori, tre partiti che si ispirano al comunismo. In realtà le sigle che contengono la parola magica sono molte di più, ma siccome non siamo provvisti di microscopio elettronico ci siamo limitati alle tre più note. Ovviamente non mi sono addentrato sulle ragioni dell’esistenza di forze comuniste distinte, ma solo a una descrizione statica. Né ho provato a spiegargli perché Potere al popolo e Liberi e Uguali, liste nate prima delle scorse elezioni con la medesima ambizione di creare una nuova voce unitaria della sinistra, si siano presentate separate, né, tantomeno, perché adesso siano a loro volta sull’orlo di una nuova spaccatura. Potere al popolo si è addirittura diviso sulle modalità con cui le proposte di statuto sono state pubblicate sul sito. Alla votazione, per dovere di cronaca, hanno partecipato circa 4mila persone su 9mila iscritti complessivi. Ora Rifondazione, si vocifera, potrebbe bloccare l’uso del simbolo.
La discussione dentro Liberi e Uguali (sempre per partiti separati, non sia mai che ci si vede tutti insieme) nel frattempo prosegue con un irrisolvibile tira e molla fra chi vuole allearsi con Potere al popolo e De Magistris e chi guarda al Pd di Zingaretti. Nel Lazio, dove siamo sempre un passo avanti, un nutrito gruppo di dirigenti e amministratori vari è già salito sul carro del presidente della Regione, con la benedizione dell’assemblea di Mdp. Mi auguro che qualche zelante funzionario non mi chieda di fare i nomi, basta usare google e leggere i documenti approvati. Per farla breve: secondo quelli di Sinistra italiana Leu non si farà per colpa di Mdp, per quelli di Mdp Leu non si farà per colpa di Sinistra italiana. Tutti d’accordo solo nel dire che le colpe maggiori le ha Grasso. Che magari non sarà proprio un leader di prima grandezza ma, francamente, mi sembra meglio della marmaglia assetata di strapuntini che lo attornia. Liberi e Uguali, diciamolo, è morto.
Insomma, la situazione è al limite della farsa. Unica nota positiva di questi giorni è che le grida di allarme e di dolore che sento sono (forse) meno isolate e, con molta lentezza, si stanno mettendo in rete. Diverse zone di Roma, della provincia, il coordinamento milanese, molti compagni toscani hanno cominciato ad agitarsi in forma meno isolata e stanno provando a costruire un appuntamento comune. Un primo tentativo ci sarà a Roma il 20 ottobre (cliccando qui trovate il documento), ma sono molti gli spunti interessanti che si trovano in rete, come la petizione lanciata dal coordinamento del VII Municipio. Il percorso sarà lungo e l’esito è davvero non scontato. Siamo appena ai preliminari. L’importante è partire avendo, secondo me, poche ma chiare coordinate. La prima è spazzare via questi gruppuscoli dirigenti che ormai guardano soltanto alla propria salvezza e non riescono ad avere uno sguardo oltre l’oggi. Non sono cattivi, sono proprio poca cosa. Archiviamoli con decisione.
Resto pessimista e resto convinto che bisogna darsi un orizzonte lungo, evitando accelerazioni elettorali. E magari anche aprendo un confronto con quello che resta di Potere al popolo. Anche loro, se si sbarazzano davvero della zavorra di Rifondazione, sono un soggetto con il quale mi piacerebbe discutere. Da pari a pari. Sono anticapitalisti e antiliberisti, hanno in mente una forma di soggetto politico interessante, dove l’agire va di pari passo rispetto all’elaborazione ideale. Insomma una sorta di Syriza all’italiana. Perché non avviare un percorso comune di confronto per valutare se ci sono le condizioni per buttarsi alle spalle qualche divisione artificiosa? Io resto convinto che tutte le divisioni di questi anni siano il risultato di dirigenti litigiosi che appena vedono venir meno il loro ruolo si fanno il proprio partitino personale. Sarebbe il caso, lo so sono ripetitivo ma serve, di lasciarli a parlare da soli. Manco se ne accorgono secondo me. E di finirla con il classico “io con quelli mai perché vent’anni fa…”. Parlandosi potremmo scoprire di essere meno diversi di quello che sembra guardandosi da lontano.
Credo anche che nelle prossime settimane, però, si avrà un po’ di chiarezza in più. Inutile dilungarsi oltre adesso. E allora per questa volta la faccio davvero breve e vi lascio alle vostre beghe italiche. E’ molto dura abbandonare questo momento così effervescente e brillante dal punto di vista intellettuale, ma il dovere mi chiama: preparo le valigie e me ne vado a Cuba. Dove spero di non sentire parlare di voi. Ci vediamo fra 15 giorni.
Ma il fine giustifica i mezzi?
Il pippone del venerdì/72
Dall’arresto del sindaco di Riace mi arrovello intorno a questa domanda: ha ragione il buon Machiavelli e quindi il fattore preminente è il fine, oppure i mezzi per raggiungerlo sono parte del fine stesso? Perché la vicenda mi ha colpito molto e mi ha ricordato anche vecchie discussioni con l’allora presidente del mio municipio romano che usava spesso forzare le norme per garantire diritti innegabilmente compromessi dalle norme in vigore. Non solo promuoveva apertamente l’occupazione degli immobili sfitti, a volte interi palazzi, ma addirittura firmava ordinanze con le quali provava addirittura a requisirli. Pratiche che mi lasciavano – e mi lasciano tuttora – più di qualche dubbio.
Facciamo alcune premesse, altrimenti immagino il casino che si scatena. Riace comunque sia rimane un modello di integrazione sociale ed economica davvero eccezionale. Un punto di riferimento per chi, come me, sostiene la necessità di abbattere ogni frontiera. E il sindaco Lucano rimane un personaggio straordinario, con una umanità che credo sia incontestabile. Saprà difendersi nell’inchiesta e non dall’inchiesta, ne sono sicuro. Del resto, anche secondo l’accusa, non ha mai neanche pensato a un qualche tipo di vantaggio personale. E, infatti, ho letto non solo l’accorato appello di Saviano che parla di “peccato di umanità”, ci sono anche autorevoli sacerdoti che spiegano come si possa violare la legge per difendere i diritti universali. Ora Lucano, anche secondo l’accusa, avrebbe agito per salvare dalla strada tre ragazze, per permettere a immigrati sfruttati e perseguitati da altri italiani di non essere più clandestini.
Con un po’ di leggerezza da bar, si potrebbe anche tagliare la questione con l’accetta: ma possibile che in Calabria, una procura, per di più quella di Locri, non abbia niente di meglio da fare che mettere agli arresti domiciliari un sindaco che non solo ha salvato dei poveracci ma ha trovato il modo utilizzare i fondi pubblici in maniera da creare un virtuoso circuito economico? Sicuramente, insomma, pur avendo massima fiducia nell’autonomia e nell’indipendenza della magistratura, questa inchiesta è sicuramente un po’ figlia dell’aria che tira in questo Paese. Una brutta aria.
L’ultima premessa riguarda il merito dell’inchiesta. Due sono le accuse:la prima il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ecco, io ritengo questa legge particolarmente odiosa, perché rende criminale non un determinato comportamento, ma la condizione stessa di immigrato. Diventa reato, insomma, l’essere non il fare. E credo che contro questa roba avremmo dovuto gridare più forte e i governi a guida Pd degli ultimi anni avrebbero dovuto quanto meno provare a eliminare questa barbarie. La seconda riguarda l’affidamento diretto, senza appalto, alla cooperativa sociale creata su iniziativa del Comune, dei servizi relativi alla raccolta dei rifiuti. E qui, come dire… dovrebbe finire in galera almeno la metà dei sindaci italiani. Quanti sono i servizi affidati senza gare per le più svariate ragioni, dall’urgenza a motivi meno nobili? In questo caso per di più non ci sono interessi personali, c’era da salvare una comunità e integrare i nuovi cittadini nel tessuto sociale. Ancora una volta la colpa di Lucano è l’eccesso di umanità, insomma,
Queste, in sintesi estrema, sono le ragioni che mi hanno portato ad aderire alle manifestazioni di solidarietà con il sindaco di Riace, mettendo da parte le mie domande. Del resto, si potrebbe dire ancora, abbiamo straordinari esempi di personaggi che hanno violato la legge. Lasciando da parte le grandi rivoluzioni dell’800 e la presa del potere con mezzi violenti, che pur potrebbero essere prese ad esempio di come un buon fine giustifichi anche le fucilate, ci sono Gandhi, Mandela, Martin Luther King, ma anche gli obiettori di coscienza che finivano in galera per rivendicare il loro diritto di servire il Paese senza le armi in pugno. Insomma, di persone che per buoni fini hanno violato leggi ingiuste sono pieni i libri di storia. La disubbidienza civile è una pratica nobile, attraverso la quale, spesso anche in maniera non violenta, sono stati sconfitti gli imperi.
Né vale la pena sottolineare che nel caso di Gandhi si trattava di una lotta contro il colonialismo, che nel caso di Mandela si parlava di segregazione razziale. Per me il reato di clandestinità è equiparabile, per gravità, alla segregazione razziale. Lo dico senza enfasi, consapevole della portata di quello che scrivo. Non è questo, insomma, il dubbio che mi assilla. Né vale la pena di entrare in una discussione più filosofica per stabilire come si possa certificare la bontà di un fine. Come giustamente fanno notare i sacerdoti, uomini di chiese e pertanto avvezzi alla cieca osservanza dei precetti, qua si parla di diritti umani universali. Quale fine migliore si può trovare?
Non è, insomma, tanto la violazione della legge, né la discussione sul fine, che mi tormentano, quanto la solitudine del sindaco. Io non credo che – ove venisse dimostrata l’esistenza dei reati contestati – Lucano abbia pensato con leggerezza di far sposare una donna con il suo stesso fratello per salvarlo e farlo arrivare legalmente in Italia. Né credo che si tratti della semplice attitudine tutta italiana che tende ad “aggiustare” la legge, utilizzandone le pieghe per eluderne gli effetti. Credo semplicemente che, salvo poche lodevoli eccezioni, il primo cittadino di Riace sia stato lasciato solo. Non abbiamo saputo far diventare il suo appello un movimento per la difesa dei diritti umani, facendo uscire dalla dimensione locale la sua disperazione e la sua voglia di aiutare gli ultimi della terra. Questo mi turba nel profondo. La nostra incapacità. Che non è solo quella di non riuscire ad avere un decente partito di sinistra in questo Paese, ma è quella di non riuscire più a fare rete, di rendere collettiva – e quindi in ultima istanza politica – la disperazione di un uomo che cerca di salvare delle vite. Ecco, per me la risposta non può essere: cosa volete che abbia fatto, sono soltanto bazzecole. Dobbiamo rivendicare l’urgenza di combattere questa legge con tutti i mezzi possibili. Ma se non lo facciamo insieme lasciamo i tanti Lucano che ci sono nel nostro Paese alla mercé dei Salvini che diventano sempre di più.
Alle prossime Europee? Tutti al mare.
Il pippone del venerdì/71
In queste settimane apparentemente silenziose in realtà la sinistra italiana si sta accapigliando per trovare una soluzione al tema dei temi. Non si parla di ambiente, di immigrazione, di politica della casa o dei trasporti, non vi preoccupate, ma semplicemente di come garantire la sopravvivenza di qualche parlamentare europeo. L’idea brillante è di fare una lista, ma alla fine vedrete che ne saranno almeno due, ovviamente unitarie, antagoniste, anticapitaliste. Non è una novità, quella dell’ammucchiatina dei residuati bellici degli anni ’90 da assemblare in contenitori dei quali si magnificherà per qualche mese il futuro unitario per poi dividersi il giorno dopo le elezioni. E come al solito saremo costretti a leggere l’ennesima sfilza di pensosi interventi di dirigenti e intellettuali che cercano di spiegarci per quale motivi gli elettori non ci votano.
C’è chi vuole fare una lista con Varoufakis, chi con Mélenchon, chi resta ancorato al Pse. Si cercano possibili leader, ora va di moda il sindaco di Napoli De Magistris, che dopo molti tentennamenti si sarebbe deciso a scendere in campo in prima persona, forse convinto dall’avvicinarsi della scadenza del suo secondo e ultimo mandato. Da parte mia, ho passato la scorsa domenica alla festa nazionale di Mdp. Ho ascoltato due dibattiti e il comizio di Speranza. Ne ho tratto due o tre impressioni che vi racconto come mi sono arrivate, senza troppe rielaborazioni. La prima: c’era molta gente ai dibattiti, zero nel resto della festa. Oddio non che ci fosse molto da vedere, giusto qualche stand per altro molto “essenziale”. Però è esattamente il contrario di quello che succede di solito nelle festa in piazza: molta gente a mangiare oppure nella parte commerciale, meno quelli interessati alla politica. Insomma, un appuntamento per soli addetti ai lavori. La seconda: proprio nel giorno in cui Grasso sui giornali parlava di stato di “stallo” di Liberi e uguali, il coordinatore nazionale di Mdp, nel comizio conclusivo della festa non ha nominato né Grasso né tanto meno Leu. Cancellati. La terza è che, delle discussioni a cui ho assistito, quella più attuale e legata alla concretezza dell’oggi è stata quella sul valore di Marx oggi, il dibattito, insomma, che avrebbe dovuto essere più intellettuale. E sicuramente è stata un’ora di buon livello, con spunti di livello universitario da parte degli oratori, ma è stata anche la più utile se ci si vuole calare nella realtà e tornare a fare iniziativa.
In estrema sintesi, comunque, tutti d’accordo nel porre l’accento sulla gravità della situazione attuale, nessuna indicazione o proposta per mettere un freno alla destra, per dare qualche segno di esistenza in vita. Il gruppo dirigente della sinistra nelle sue varie forme, dal 4 marzo in poi è intronato. Non trovo forme più eleganti per definirlo. Non che prima fossero poi tanto più svegli. Ma oggi il tracciato cerebrale è tendente al piatto assoluto.
L’analisi più lucida l’ho letta in una lettera al Manifesto di un gruppo di giovani, la sintetizzo così: non siete riusciti a fare un partito decente, non siete riusciti ad avviare un po’ di ricambio della classe dirigente, non siete nemmeno riusciti a fare un’analisi delle ragioni della sconfitta, adesso manco riuscite a mettere in piedi un’opposizione decente al governo sempre più Salvini e sempre meno Di Maio. Conclusione secca: dimettetevi in blocco, pensionatevi. Dieci minuti di applausi.
Ora, nessuno probabilmente li ascolterà. Non si prenderanno neanche la briga di dare una risposta. Continueranno nell’insulso dibattito fra dirigenti che non riusciranno mai a trovare un minimo comune denominatore. Io sono convinto che sarebbe semplice: basterebbe partire dalle questioni su cui ci si trova tutti d’accordo e lasciare aperte quelle in cui non si arriva a una posizione unitaria. E invece non vogliono trovare un accordo che ponga le basi per un nuovo partito. Nel Pd, che secondo molti resta l’unica scialuppa da non abbandonare, fra Renzi e Zingaretti si dibatte all’ultimo sangue per stabilire chi dei due sia più antigrillino. Per le europee si parla di un fronte unico da Macron a Tsipras (che ha già detto no) e Renzi che come al solito si porta avanti con il lavoro firma il manifesto del leader francese. Nell’arcipelago variegato extraPd si dibatte su chi bisogna escludere per fare una lista di sinistra vera. Con tutti gli “anti” del caso.
Personalmente mi annoio e penso sinceramente che forse sarebbe il caso di prendere la famosa strada del bosco. E questa volta niente tenda, che si ha una certa età e di inverno fa pure freddo e c’è molto umido. Si fa una bella casetta di legno, con tanto di camino. Comincio a pensare che forse sarebbe bene stare fermi un giro, eliminando l’ansia da prestazione elettorale, la corsa al seggio verso Strasburgo, la lettura affannosa dei sondaggi che ti danno sempre in bilico sul quorum. Questa volta probabilmente non lo supereremo, tra l’altro. Eliminata l’urgenza, forse, ci si potrebbe dedicare a questa scomposizione e riaggregazione della sinistra di cui tutti parlano ma che nessuno ha il coraggio di cominciare visto il prossimo appuntamento elettorale. Certo, si lascerebbe libero il campo alla destre e a Grillo, ma viene il dubbio che forse con due o tre liste raccogliticce non solo il suddetto campo sarebbe altrettanto libero, ma anche arato e pronto al raccolto per Salvini e soci.
Forse, il dubbio me lo consentirete è legittimo, sarebbe bene cominciare a piantare qualche seme che vada oltre l’urgenza elettorale. Sarebbe bene mettere qualche radice più forte, far crescere una pianticella nuova. Vi lascio con questa domanda. Non credo che nessuno abbia la risposta, ma secondo me è più interessante rispetto allo stabilire se Zingaretti sia un argine ai Cinque Stelle o no.
Nel frattempo il governo Salvini si prepara a una legge di stabilità pericolosa: aumenta il deficit, la nota di aggiornamento del Def parla del 2,4 per cento, con buona pace del ministro Tria costretto alla resa. Sarebbe anche interessante se le risorse in più fossero destinate agli investimenti. E invece no, tutto sulla spesa corrente. Dei tagli agli sprechi, dei fondi per mettere in sicurezza il territorio nessuna traccia. Ci vorrebbe un partito che facesse opposizione sociale. E invece pensano a garantire qualche poltrona. Auguri.
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