Giustizialisti o garantisti? Dipende dai giorni.
Il pippone del venerdì/100
Premessa doverosa: siamo arrivati a quota 100. Francamente, conoscendomi, non ci credevo quando sono partito. Nei giorni in cui decisi di scrivere questi “pipponi” mi ero convinto della necessità di dare un po’ di ordine alla mia presenza sui social e allora pensai di fare una serie di rubriche, appoggiandomi sul sito che nel frattempo avevo un po’ dimenticato. Con il tempo è rimasto solo il pippone, quella da cui ero partito. È nato come una specie di sfida: intanto a me stesso, per testare la mia capacità di vincere la pigrizia da cui troppo spesso sono affascinato. E poi alle leggi dei social. Quelli bravi vi diranno che sui social vanno messi contenuti brevi, per lo più immagini, dal martedì al giovedì, ore centrali della giornata. E io faccio una cosa lunga, senza o quasi immagini, che esce il venerdì, possibilmente all’alba perché poi mi tocca lavorare.
Non andavo in cerca di popolarità o di grandi numeri di lettori, insomma. In realtà, però, ho scoperto che il pippone ha un suo pubblico, sia sul mio sito che su altri che regolarmente lo pubblicano. Mi succede perfino di essere riconosciuto in assemblee e iniziative politiche varie. La mia vanità ne gode tantissimo, lo confesso. Insomma, e la finisco qui con questa tirata auto celebrativa: il pippone nasce come strumento per riordinare le idee e provare a farle circolare, è diventato, nel suo piccolo un qualcosa che fa opinione. Una strana storia.
Veniamo al dunque: sono settimane curiose, in cui i ruoli si capovolgono con repentina rapidità. Se fossimo un popolo serio avremmo già mandato a quel paese buona parte dei governanti e dell’opposizione. Invece stanno ancora lì. Gente che si è sempre detta giustizialista come i 5 stelle diventa ultragarantista quando si tratta di indagini che riguardano qualcuno dei loro, poi tornano addirittura forcaioli nel caso del sottosegretario Siri. Uno che ha soltanto un avviso di garanzia, pure abbastanza fumoso, e viene mandato via a furor di Di Maio. Salvini, al contrario, fa il forcaiolo nei confronti della presidente della Regione Umbria, Pd, indagata per una storia di concorsi che sarebbero truccati, poi torna ipergarantista nei confronti del suo fidato sottosegretario. Per non parlare del governatore Fontana, anche lui indagato, ma difeso a spada tratta dai leghisti. Il ministro dell’Interno, nei giorni scorsi, ha addirittura evocato il complotto, come fosse un Berlusconi qualsiasi, le famose toghe rosse, che adesso invece sarebbero penta stellate, vorrebbero colpire il suo partito perché dato molto alto nei sondaggi. Il Salvini torna poi legalista all’eccesso lanciando una durissima campagna contro i negozi che vendono – legalmente – la canapa light e tuona contro le “droghe che rovinano i nostri figli”. Non risulta un impegno così accanito nelle piazze dove spacciano mafia e camorra.
Anche la vicenda di Casal Bruciato, a pensarci bene, rientra in questo spettro di paradossi: succede che il ministro dell’Interno (sempre lui) decida di chiudere i campi rom. Devono integrarsi nella nostra società oppure andarsene, questo il secco messaggio che gira ormai da mesi. Il Comune ha delle case da assegnare e loro, tutti come minimo cittadini dell’Unione europea, ci rientrano a pieno titolo. Per di più, avendo famiglie molto numerose, hanno anche punteggi molto alti, per cui sono ai primi posti delle graduatorie. Ogni volta che assegnano una casa a una famiglia rom, scoppia la rivolta. Ora è toccato a Casal Bruciato, ex periferia ultrarossa di Roma, dove per giorni Casapound ha fatto quello che voleva. Una vera e propria persecuzione violenta nei confronti di una famiglia di poveracci, spalleggiati da parte degli inquilini del palazzo. Non sono mancate minacce odiose, perfino di stupro nei confronti delle donne. Roma democratica ha riposto, ma non è questo il tema. Il ministro dell’Interno, quello della legalità a tutti i costi, ha tollerato – e con lui prefetto, questore e tutta la catena di comando delle forze dell’ordine – che un movimento neofascista diventasse padrone di un quartiere intero per giorni. Salvo poi cercare di contenere il presidio antifascista. I camerati di Casapound, va ricordato, sono quelli che occupano uno stabile in pieno centro storico e che il solito ministro Salvini tollera e protegge. Solo adesso, finita la fase “calda” della protesta, è arrivata qualche denuncia a piede libero. Se la caveranno con poco, c’è da scommetterci.
Come il garantismo, insomma, anche la difesa della legalità non è proprio un principio assoluto, per la classe politica nostrana. Della destra abbiamo detto, ma anche Zingaretti sembra essere un po’ sballotato dagli eventi. In Umbria ci si comporta con fermezza, salvo poi fare marcia indietro, sulla situazione calabrese non si dice una riga. Certo, anche voler affermare un qualche tipo di principio generale è complesso. Quando si deve dimettere un politico, per di più eletto direttamente dal Popolo. C’è una legge, che prevede la sospensione o la decadenza in caso di condanne per un ventaglio molto ampio di reati. Ma il tema è delicato comunque: perché un qualsiasi impiegato pubblico non deve avere la minima condanna e un sottosegretario può aver patteggiato addirittura una bancarotta fraudolenta? Negli anni passati abbiamo assistito a fitti lanci di sassi nei confronti di amministratori di sinistra per fatti che si sono poi rivelati bolle di sapone. Basta pensare agli scontrini del sindaco Marino, al caso della Idem, una icona dello sport italiano messa alla berlina per un errore nella dichiarazione dei redditi, peraltro sanati immediatamente pagando quanto dovuto. A Roma ci furono manifestazioni di piazza per chiedere le dimissioni del sindaco Marino.
Servirebbe, intanto, una giustizia rapida. Non solo per i politici, ovviamente, ma a maggior ragione per loro. Ci sono stati casi di personaggi di primo piano travolti da inchieste e poi assolti in tutti i processi. Errani e Bassolino, solo per citarne due. Hanno scelto di dimettersi e difendersi da privati cittadini, ma la loro odissea è durata anni. Servirebbe insomma, un patto fra tutti i partiti: massima severità, in caso di ipotesi di reato contro la pubblica amministrazione dimissioni immediate a garanzia dello Stato, ma degli stessi indagati. Ma anche processi rapidi che permettano di stabilire con tempi umani la colpevolezza o l’innocenza. Servirebbero anche partiti che selezionassero la loro classe dirigente, senza bisogno di arrivare ai giudici.
E magari servirebbe, ma questa è una speranza ancor più vana, una classe politica coerente e un elettorato più anglosassone, di quelli che non ti perdonano quando li prendi in giro. Poi uno si sveglia e si trova di fronte Salvini. Che volete fare… siamo il Bel Paese. Mille di questi pipponi a tutti!
Ci piace la Spagna ma ci tocca la Sicilia.
Il pippone del venerdì/99
Non saranno il toccasana di tutti i mali, ma i risultati delle elezioni spagnole rappresentano una boccata di ossigeno. Anche perché sono l’ennesima riprova di come la sinistra quando fa il suo lavoro i voti continua a prenderli. Certo, poi c’è un insieme di elementi che ha permesso al Partito socialista spagnolo di arrivare quasi al 30 per cento, dopo anni di declino: c’è un leader credibile, c’è stato un periodo di governo in cui le idee nuove dei socialisti hanno potuto confrontarsi con la concretezza quotidiana e non hanno sfigurato. C’è stata anche una buon campagna di comunicazione, con messaggi secchi e incisivi.
Ma al di là di questo mix di ingredienti, che sicuramente aiuta a raggiungere un buon risultato, si verifica ancora quello che abbiamo visto in Inghilterra con Corbyn, in Portogallo, perfino negli Usa alle elezioni di middle term: non è più tempo di corsa al centro – del resto in Spagna ben presidiato da due formazioni politiche – la sinistra torna a vincere quando si rimette i suoi vestiti, quando aggiorna le sue idee alle nuove condizioni sociali, difende i più deboli, parla ai lavoratori e non ai finanzieri. Le proposte sono semplici e le avevano già inserite nella legge finanziaria la cui bocciatura ha portato poi alle elezioni anticipate, ne ricordo alcune: una patrimoniale sui redditi più alti, aumento della tassazione delle rendite finanziarie, 50 milioni per contribuire alle spese scolastiche delle famiglie in difficoltà, aumento del 25 per cento del salario minimo, pensioni indicizzate all’inflazione, interventi contro il cambiamento climatico, poteri ai sindaci contro le bolle speculative sugli affitti. Fanno i socialisti, insomma.
La ricetta è talmente semplice che ci è arrivato anche Cacciari, per il quale permettetemi di nutrire una rispettosa ma decisa antipatia. Al filosofo basterebbe ricordare come Bersani ‘sta cosa qui la ripete da qualche anno. E anche lui ci è arrivato un po’ per scossoni e per contrarietà, come direbbe Guccini. Insomma, anche in Italia si dovrebbe tornare a fare la sinistra da posizioni non marginali: costruire una nuova forza popolare di massa. Peccato che poi tutti lo dicono ma nessuno lo fa.
Escludendo le cosiddette sigle della sinistra radicale che – uso una frase sentita spesso da ragazzo – hanno perso l’appuntamento con la storia e restano subalterne al Pd, chi può fare questa operazione? Articolo Uno, con tentennamenti e troppe incertezze, questa strada l’ha indicata. Di sicuro non ha le forze per arrivarci in solitudine. Il convitato di pietra resta il Pd che non si rende conto di come la sua funzione, se non sceglierà da che parte stare, sia di fatto esaurita.
Perché nello stesso giorno in cui in Spagna vince Sanchez e i dirigenti vari della sinistra italiana inneggiano al leader iberico, qualcuno parla di vento cambiato, altri stappano lo spumante, lo stesso esatto giorno, dicevo, succede che in gran parte della nostrana Sicilia il Pd si allea con Forza Italia. E non si dica che si tratta di elezioni locali, che non hanno significato politico: lì c’è ormai una vera e propria alleanza strutturale tra Faraone, il boss ultrarenziano locale, e Miccichè, storico luogotenente isolano di Berlusconi.
Ora, non dico che sia ovunque così, ma il caso siciliano mi sembra perfetto esempio di come il Pd di Zingaretti non sia né carne, né pesce. Siamo ancora all’equivoco della cosiddetta vocazione maggioritaria, ovvero il marchingegno con cui Veltroni ha eliminato tutti gli alleati, riducendoli all’irrilevanza, salvo poi accorgersi che in questa maniera vince sempre la destra. Siamo ancora a un partito indeciso su tutto: la campagna elettorale per le Europee né è un altro esempio: messaggi confusi, a volte incomprensibili, a volte scopiazzature banali dei laburisti di Corbyn.
Mentre in Sicilia Faraone fa gli inciuci con i berlusconiani, Martina, avversario di Zingaretti alle primarie sta in Spagna per festeggiare con Sanchez. Ecco, questa roba non funziona più. Non si possono mettere nella stessa lista per le europee i socialisti e gli uomini di Confidustria. Gli elettori non capiscono l’ambiguità, non ti premiano se non capiscono dove vuoi andare a parare. E’ un principio base della comunicazione: per prima cosa devi scegliere il tuo target, il tuo blocco sociale di riferimento si sarebbe detto una volta. E mettere insieme gli operai con i padroni non funziona.
E allora che si fa? Si torna all’Ulivo e alle decine di liste alleate che litigano subito dopo? Il sistema politico italiano non è più lo stesso di un tempo. Prima c’erano due poli che aggregavano una miriade di forze politiche differenti. Ora ci sono sostanzialmente tre poli, ma il numero dei partiti in assoluto è diventato più piccolo. A destra ne abbiamo tre, nel campo del centro sinistra c’è sostanzialmente solo il Pd, poi ci sono i cinque stelle. Manca ancora una forza di sinistra, come la intendono da tempo Bersani e adesso anche Cacciari. Manca perché lo spazio è ancora occupato dal Pd che vorrebbe fare due o tre parti in commedia e alla fine le fa tutte male. Che scelga il suo ruolo, finalmente. Lasciando spazio per costruire la famosa seconda gamba del centro sinistra, necessaria per poter tornare a essere concorrenziali. Che almeno, se proprio non riescono a sposare a pieno le idee del socialismo “radicale” ed ecologista, che i democratici scelgano se vogliono o meno un’alleanza con Forza Italia o ricostruire un campo ampio della sinistra. Saperlo aiuterebbe a scegliere alle Europee.
Insomma, per farla breve: in Italia non ci sono le condizioni per dire “è cambiato il vento”. Anche perché per prendere il vento bisogna mettere le vele nella posizione giusta. A me sembra, al contrario, che siamo ancora un po’ tutti in balia di tatticismi incomprensibili. Non solo non abbiamo preso il vento, non abbiamo neanche issato le vele.
Questo 25 aprile e il bisogno di una nuova Europa.
Il pippone del venerdì/98
Premessa doverosa, sono dovuto rimanere a casa, a causa di un po’ di influenza e anche – diciamolo – del nuovo arrivo in famiglia: una cucciolotta di due mesi, ancora un po’ spaesata, 8 chili di pelo e tenerezza. Questo per dire che non sono potuto andare alla manifestazione del 25 aprile come tutti gli anni. C’era mio figlio, per la prima volta. E questa è una buona notizia. Forse è solo cresciuto e quindi anche questo corteo fa parte del suo percorso di maturazione e di impegno politico, che seguo a rispettosa distanza. Ma forse – e leggendo i commentatori più attenti questa sensazione ne esce rafforzata – è il segno di una nuova generazione che lentamente si sta appropriando della politica e anche del 25 aprile, per anni frequentato solamente da vecchi arnesi come noi.
Ne abbiamo visti tanti, invece, di ragazzi nelle piazze negli ultimi mesi: c’erano alla manifestazione unitaria dei sindacati, c’erano ai cortei del movimento delle donne, ci sono soprattutto alle marce per combattere il climate change. Un tema che noi intorno ai 50, forse un po’ egoisticamente, vediamo con distacco, ma che i nostri figli sentono sulla loro pelle. Certo, rivedere tanti ragazzi in piazza per il 25 aprile non me lo aspettavo, lo confesso. Soprattutto a Roma, dove il corteo di Porta San Paolo negli ultimi anni è stato ricordato soprattutto per le polemiche. Che non sono mancate neanche stavolta, soprattutto per i fischi alla sindaca Raggi. Saranno stati anche scortesi, perché le istituzioni nate dalla Resistenza devono essere rispettate. Ma certo, se il tuo partito governa con quel Salvini che ha sbeffeggiato l’antifascismo e ha disertato il 25 aprile mettendolo addirittura in competizione con la lotta alla mafia, beh che una piazza molto di sinistra ti regali qualche fischio te lo devi aspettare. La Raggi si è presa comunque anche i suoi applausi. Roba di poco conto, insomma, rispetto a una nuova generazione che, almeno in parte si appropria di questa data ormai lontana.
Si sa che i giovani tendono a vedere il passato come roba vecchia e quindi è doppiamente significativo. E credo che a Roma sia stato ancora più importante perché hanno potuto sentire Aldo Tortorella, comandante partigiano durante la guerra di Liberazione, poi uno dei massimi dirigenti del Pci. Da sempre uno a cui piace parlare ai giovani e lo fa, malgrado i suoi 93 anni e la sua grande cultura, da paria pari. Senza nessuna pretesa di insegnare, come un nonno che racconta ai nipoti. Se ne è andata Tina Costa, da sempre anima del 25 aprile e dell’Anpi di Roma, di partigiani “veri” ne rimangono sempre meno. Questa generazione è l’ultima che ha la fortuna di sentire il racconto di quella stagione dai protagonisti. E avrà anche il compito di trasmettere questo patrimonio inestimabile alle generazioni future.
Io credo che la memoria sia sempre importante. Ancora di più se riguarda una stagione drammatica ma anche gloriosa come quella della guerra di Liberazione dal nazi-fascismo. E lo è a maggior in questi anni dove i fascisti hanno rialzato la testa, conquistato una sorta di diritto di cittadinanza a cui – la ripetizione è d’obbligo – non hanno invece alcun diritto. Ormai, ovunque, trovi gente che si definisce orgogliosamente fascista. Non sono solo frange estreme del tifo organizzato. A me è capitato, sui social, di interloquire con persone impegnate in politica, addirittura con cariche istituzionali, che non considerano una cosa scandalosa definirsi fascisti.
Che quindi ci sia una reazione, soprattutto nelle nuove generazioni è una cosa importante. Resta sempre il tema che a questi ragazzi che dimostrano sempre di più di essere in cerca di una sinistra credibile bisognerebbe dare una sponda politica, per dare continuità e solidità al loro impegno. Non riapro la ferita, perché volevo, invece, legare questo 25 aprile al bisogno di una nuova Europa. Che c’entra? Io credo che i due temi siano strettamente connessi: perché le istituzione europee furono pensate proprio come antidoto ai totalitarismi e alle guerre che avevano devastato il nostro continente. Dopo la seconda guerra mondiale si pensò che la strada per dare concretezza a quel “mai più” dichiarato da tutti i governi dell’epoca fosse quella di passare dalla coesistenza meramente geografica a istituzioni comuni.
La strada era quella giusta. E la crisi di credibilità e di consenso dell’Unione a cui abbiamo assistito negli ultimi anni non può avere come conclusione il ritorno alla dimensione nazionale. Perché è proprio nella dimensione nazionale che prosperano i fascismi e i populismi che diciamo di voler combattere. Semmai l’errore è stato quello di fare l’Europa dei governi e delle banche centrali. Io credo che la crisi di consenso della Ue derivi proprio dall’aver puntato e potenziato l’Unione economica e non quella politica. Potrà sembrare solo uno slogan ma serve davvero l’Europa dei popoli. E non come entità astratta: i cittadini devono poter eleggere un Parlamento europeo vero, che controlli il governo europeo e decida sui bilanci. Solo così avremo la possibilità di continuare ad avere un peso nella competizione globale e, soprattutto, diffondere una cultura fatta di pace e di democrazia. Valori che non si esportano con le guerre, ma con l’esempio.
Ecco, al di là della contesa elettorale, sulla quale come ampiamente detto non mi esprimo, io credo che il voto del 26 maggio sarà un voto utile se andrà a una delle formazioni italiane che sostengono questa tesi. Intanto incrociamo le dita per le elezioni spagnole di domenica. Anche lì, a guardare l’incertezza dei sondaggi, si trovano di fronte a un bivio. Vedremo se dalle urne uscirà ancora una situazione confusa come nelle ultime tornate o, al contrario, avremo un governo più tradizionale. Di certo la campagna elettorale è stata caratterizzata non dico da un’alleanza a sinistra fra i socialisti e Unidas Podemos, ma almeno da un tasso di conflittualità molto basso fra i possibili futuri alleati. Un’affermazione di queste due forze, tutte e due, è la condizione di poter continuare nella politica innovativa che, seppur con una maggioranza risicata, ha garantito al Psoe un nuovo slancio. Come dicevo: incrociamo le dita, potrebbe essere il primo segno di una inversione di tendenza.
Concludo con un ricordo di Pina Cocci. Non sono abituato a farlo e poi in fondo sta su tutti i giornali. Ma se non salutassi Pina che ci ha lasciato proprio ieri mi sentirei in colpa. Non la vedevo ormai molto spesso. Ma so che mi leggeva sempre e ogni tanto avrà anche smadonnato. Vorrei avere ancora l’occasione di prendermi i suoi rimbrotti severi che si concludevano sempre con un sorriso e un “Mo però abbracciami”. Ecco, ho la presunzione di credere che vedesse in me la stessa passione che aveva lei. E questo riconoscimento che mi regalava sempre mi mancherà davvero. Ti abbraccio comunque, compagna Cocci.
Liste per le Europee, la grande truffa
Il pippone del venerdì/97
Se volete incazzatevi pure e ditemi che uso termini violenti, ma secondo me è una vera e propria truffa. Mi ero ripromesso di non parlare di elezioni europee, di astenermi dalla bagarre fratricida di una campagna elettorale che si preannuncia, come ormai d’abitudine, tutta basata sull’individuazione del nemico (che è sempre il vicino di casa) e non sulla propria proposta. Siccome mi sono stancato di dire che ci vorrebbe una sinistra unita, che non servono a nulla i listoni che poi diventano listini, come non servono le ospitate in liste altrui, avevo deciso di tacere fino al 26 maggio, compreso. Seduto sulla classica sponda del fiume. Con la consapevolezza che il 27, comodamente appollaiato su quelle sponde, ci sarà da divertirsi.
Ma una cosa mi ha fatto salire la mosca al naso, pur in un periodo di grande calma interiore: la presa in giro sulla composizione delle liste. Ho avuto la ventura di seguire un po’ di conferenze stampa di presentazione, di leggere comunicati, commenti sui social dei soliti ultras che si sono già scatenati a più di un mese dal voto. E sono disgustato. Andrebbero denunciati per violenza di genere. Perché trovo che sia violenza l’uso delle donne che viene fatto in questi giorni. Tutti parlano di liste aperte alla società civile, liste femministe. C’è addirittura chi rivendica il fatto che “nella nostra testa di lista non ci sono segretari di partito ai primi posti, ma tante donne”.
Violenza di genere e raggiro dell’elettore. Perché questa volta l’essere in testa alla lista non conta nulla, se non fare da specchietto per le allodole. Si vota con le preferenze, non con le liste bloccate come alle politiche. Dunque l’ordine di presentazione serve soltanto a far vedere quanto è bella, aperta, civica e femminista una determinata formazione politica. Le magagne stanno sotto, fra i nomi messi in mezzo, di cui non ti accorgi fino a quando non arrivano i risultati degli scrutini. Sempre che poi si arrivi al 4 per cento, ipotesi in molti casi ben lontana dalla realtà. Senza quel famoso quorum tutto è vano: puoi mettere anche il nuovo Carl Marx in persona come capolista.
So che è roba da addetti ai lavori, ma provo a spiegarmi meglio: la campagna per le europee è una delle più complesse, anche se si possono esprimere più preferenze. Perché la circoscrizione elettorale è molto ampia. Quella dell’Italia centrale comprende Toscana, Lazio, Marche e Umbria. Per conquistare consensi, insomma, non basta essere la presidente di una favolosa onlus che però nessuno conosce o l’attivista di qualche movimento. Quello serve soltanto a guadagnarsi qualche titolo sui giornali radical chic. Bisogna avere una struttura ramificata, nei partiti più grandi bisogna essere sostenuti da una corrente di peso e, soprattutto, avere una grande disponibilità economica. Che nessuno provi a dire che al tempo di oggi si può costruire una campagna su internet quasi a costo zero. E che internet, per chi vuole usarla in maniera professionale, è gratis? Gli staff che studiano strategie e che poi ti seguono i social giorno e notte che lavorano per la gloria?
Che poi, scusate ma che male vi hanno fatto i vostri segretari di partito? Perché dire “questa volta non candidiamo i segretari”? Siete iscritti a quei partiti, che vi vergognate delle persone da cui siete diretti? E’ paradossalmente più apprezzabile Berlusconi che ci mette la faccia in proprio, magari esagera un po’ e fa il capolista quasi ovunque, ma non si nasconde dietro candidature civetta. La verità è che nessuno vuole fare spazio a una nuova classe dirigente, cerca solo di proteggere quella esistente. Da destra a sinistra la musica non cambia. I campioni della preferenza ci sono tutti, già schierati ai nastri di partenza, pronti a triturare i nomi nuovi in una gara crudele. Gli unici nuovi che emergeranno davvero sono quelli scelti dalle correnti per il fisiologico ricambio che avviene a tutte le consultazioni. Gli altri sono una truffa, lo ripeto.
Se ci pensate bene, tra l’altro, ma che senso ha sbattere in Europa uno che non ha mai fatto politica nelle istituzioni? Già la nostra natura estremamente provinciale fa sì che spesso l’europarlamento sia visto più o meno come un parcheggio di lusso in attesa di tornare nell’agone politico nazionale. Mandiamoci pure uno che non sa nulla di come funzionano le istituzioni e siamo a posto.
Io ho da sempre un’idea vecchia della politica, nella quale la selezione della classe dirigente comincia nei quartieri dove i giovani si devono sporcare le mani e poi piano piano vengono promossi e inseriti nelle istituzioni. E da lì si percorre una vera e propria carriera, perché la politica deve tornare a essere una professione. Una professione controllata, prima ancora che dalla magistratura, dal partito a cui appartieni. Un tempo questa forma di controllo funzionava. Parlo sempre della mia esperienza, ma fino a qualche anno fa in campagna elettorale si parlava dei programmi del Partito (che per noi aveva decisamente la P maiuscola), ai candidati era addirittura vietata la campagna elettorale personale. E per scoprire le mele marce non c’era bisogno di aspettare le sirene e gli avvisi di garanzia. Fino alla fine degli anni ’80, non secoli fa.
L’ho già scritto più volte e lo ripeterò fino alla noia: servono i partiti per far funzionare la democrazia. Partiti veri, con regole trasparenti, dove ci si confronta, ci si scontra e si decide. Si partecipa. Luoghi di formazione e lotta. Altrimenti continueremo a ritrovarci una stuolo di incompetenti ma onesti, farabutti molto capaci, ladri e pure inetti. E non so quale sia l’ipotesi peggiore. A leggere le cronache di questi giorni spesso le categorie si sovrappongono.
Siamo quasi a Pasqua e ormai avrete tutti la testa alla tornata di pranzi e scampagnate che vi aspetta fra poche ore. Quindi vi lascio prima del solito, questa settimana. Non fatevi fregare da questi ominicchi, e dalle vetrine scintillanti: scegliete un candidato capace, visto che c’è la preferenza multipla, fate almeno una coppia uomo donna, siate sordi agli appelli ai voti utili, il voto davvero utile è il voto scelto con la testa. Dal 27, poi, si potrà ricominciare a ragionare di politica.
Due o tre sassolini sul “Caso Marino” e non solo.
Il pippone del venerdì/96
La sentenza della Cassazione che ha assolto l’ex sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha alzato un vespaio di polemiche che hanno al centro il Pd, il suo comportamento di quegli anni, ma che in realtà pongono problemi di portata ben più ampia sul ruolo dei partiti, sul rapporto fra questi e gli eletti. E questo, secondo me, è uno dei nodi che negli anni scorsi non siamo riusciti a sciogliere e che hanno aggravato la crisi della sinistra. Una crisi di idee, ma anche, per così dire, organizzativa. Nel senso che un partito solido in crisi di idee può cavalcare l’ondata avversa, un partito in crisi di idee che non ha più fondamenta organizzative viene travolto e non riesce tornare a galla.
Ma andiamo con ordine. Cosa è successo in quegli anni a Roma, nel campo del centrosinistra? Una lotta di potere all’ultimo sangue, nella quale la parte fino ad allora storicamente minoritaria del Pd e ancora prima nei Ds, quella che fa capo all’ex presidente del partito Matteo Orfini, si trova in mano per la prima volta la chiave della stanza dei bottoni e ne approfitta per regolare i conti. La caduta di Marino, le famose firme dal notaio, sono semplicemente una conseguenza di questa guerra, il secondo stadio di una strategia complessa il cui obiettivo era un altro: Nicola Zingaretti. Quel Nicola Zingaretti che, non a caso, sul caso Marino non spese una parola, tutt’altro: i consiglieri della sua corrente si accodarono silenti a firmare le dimissioni. Troppo rischioso opporsi.
Renzi voleva mettere le mani su Roma, tramite il proconsole Orfini, e allo stesso tempo pianificò a tavolino una strategia che avrebbe portato i 5 Stelle al governo di Roma. Nei piani dello statista fiorentino, che di Marino non aveva la minima stima e che dava Roma comunque per persa, la caduta anticipata dell’amministrazione avrebbe messo in difficoltà i 5 Stelle che ne avrebbero pagato poi lo scotto a livello nazionale alle elezioni politiche che sarebbero arrivate dopo un paio di anni. Sappiamo come sono andate le cose: i 5 stelle primo partito, il Pd allo sbando dopo una scissione non solo con un pezzo di gruppo dirigente, ma con buona parte dei suoi elettori.
Allora che è successo a Roma? Arriva la famosa inchiesta di Mafia Capitale. Che poi ancora non si capisce quale fosse l’elemento mafioso. Sono passati pochi mesi dall’elezione di Marino a sindaco. Mesi complicati dove l’inesperienza e anche una certa convinzione eccessiva dei propri mezzi – diciamola così – aveva provocato errori gravi. Ora, intanto Marino è uno che non si fida di nessuno. E quindi tende a circondarsi delle stesse persone, un cerchietto magico. Cosa che non porta mai troppo bene. Poi si stabilisce uno strano rapporto con il Pd di Roma. Marino accetta una serie di assessori indicati dal partito, ma poi fa di testa sua e spesso sbaglia. Clamoroso il caso di Paolo Masini che viene mandato ai Lavori pubblici. Masini è forse uno dei migliori dirigenti e amministratori di quella stagione. Peccato che in vita sua si sia sempre occupato di scuola, sociale, cultura.
Quando scoppia il caso di Mafia Capitale, comunque, per settimane non si parla d’altro. Pagine e paginate sui giornali. Su un caso che, badate bene, se guardato in scala capitolina è davvero marginale. A Roma gli affari si fanno sul mattone, quelle due cooperative sociali (perché alla fine di questo si tratta) che avrebbero pagato mazzette, si spartivano le briciole. Il caso, tra l’altro, riguarderebbe più l’amministrazione Alemanno che quella Marino. Eppure un assessore finisce addirittura in galera, vengono coinvolti consiglieri comunali e regionali. Vengono costretti a dimettersi dagli incarichi istituzionali che ricoprono con una violenza giustizialista inaudita.
Parte l’assalto al fortino. Renzi, in una drammatica riunione, comunica al segretario romano del Pd, Lionello Cosentino, che avrebbe commissariato la federazione. Cosentino, pochi mesi prima, aveva vinto il congresso proprio contro il candidato renziano e contro quello di Orfini. Notare: nessun esponente della federazione del Pd viene coinvolto nell’inchiesta, che si ferma al livello amministrativo. Tra l’altro, come dire, diversi dei nomi che escono sono stati nel passato più vicini a Orfini che a Cosentino. Le cui proteste, si racconta di una riunione parecchio nervosa, non hanno comunque effetto. Il presidente del partito diventa commissario. Secondo lo statuto del partito dovrebbero restare comunque in carica gli organismi dirigenti. Ma Matteo 2 non se ne cura e procede a colpi di decreti. Affida allo stimatissimo professor Barca una indagine sullo stato dei circoli del partito. Una roba davvero ridicola, con alcuni ricercatori universitari che girano facendo domande ai militanti senza minimamente capire come funzionava quel partito. Caso strano, dai risultati, annunciati in pompa magna dallo stesso Barca alla festa dell’Unità, emerge una sorta di hit parade dei circoli. Caso strano, quelli vicini al commissario sono i più virtuosi. Alcuni diventano addirittura circoli mafiosi. Altri vengono classificati come sostanzialmente inutili. All’epoca facevo, ironia della sorte, il segretario di un circolo di pertferia, a Capannelle, e durante l’intervista spiegai che le nostre attività erano state soprattutto rivolte verso l’esterno, citai la proposta della “Appia antica station”, il treno che doveva portare i turisti alle porte dei due grandi parchi archeologici della Capitale, le feste del quartiere, le raccolte di firme su temi locali. Portai un “portfolio” corposo di manifesti, volantini, iniziative in piazza, i rapporti con il comitato di quartiere, che avevamo contribuito a ricostruire. Nella classifica finimmo fra i circoli definiti “identitari”, ovvero quelli che lavoravano soltanto sull’identità del partito, chiusi al quartiere. Mistero.
Comunque sia la storia va avanti: Orfini chiude un po’ di circoli antipatici, si inventa perfino storie assurde, come quella della sede di Corviale dove aveva trovato un cavallo. Mai successo. E poi il colpo di mano sul partito: contro tutte le regole statutarie i circoli diventano soltanto 15, uno per municipio, diretti da commissari di stretta osservanza, le sedi territoriali (quasi duecento all’epoca) diventano semplici appendici, senza più alcuna autonomia: né finanziaria, né di iniziativa politica. Un golpe. Difficile trovare parole diverse. Un golpe che, tranne rarissime eccezioni, subiscono tutti. Impauriti da un eventuale scontro con Renzi, allora all’apice del potere.
Sistemato il partito, Orfini passa al Comune. Dove, diciamolo, le cose non vanno proprio benissimo. La gestione dei rifiuti, alcune scelte discutibili sul piano urbanistico, le partecipate in cui non si assiste all’inversione di tendenza necessaria dopo i disastri di Alemanno, qualche gaffe del sindaco che se ne va in vacanza in momenti di gravissima crisi. Ora, in questi casi che si fa (e qui arrivo al discorso del rapporto fra un partito e i suoi eletti)? Secondo me si apre una riflessione nel partito e collettivamente si cerca di porre rimedio. Per governare Roma serve davvero un’intelligenza collettiva che vada al di là delle capacità del singolo. Serve un progetto e una forte unità di intenti. Il centro sinistra non aveva nessuna delle due. Che fa Orfini? Piazza due commissari in giunta: il vicesindaco Causi e l’assessore ai trasporti Esposito. Un disastro, soprattutto il secondo che più che lavorare pare remare contro, ogni giorno di più. Nel frattempo hanno anche la pensata, in accordo con il governo nazionale di commissariare per mafia il Municipio di Ostia, già commissariato in seguito alla caduta del presidente Tassone (detto per inciso: anche in questo non uno vicino a Marino, diciamo così). Un obbrobrio giuridico che aggrava la pressione sul sindaco. Si commissaria Ostia come vittima sacrificale per salvare Roma, si dice. E invece no.
E’ solo una tappa. Il cerchio intorno al collo dei sindaco si stringe con campagne di stampa vergognose. Si va dalla panda lasciata in divieto di sosta, ai famosi scontrini delle cene, denunciati dal grillino De Vito (ora sotto inchiesta per corruzione).
Ma Marino era così odiato dai romani come sostenevano Orfini e Renzi? Posto che non era un grande sindaco, anzi, la verità è che il Pd fece di tutto per ostacolarlo. Con la complicità di Sel che, per bocca del segretario nazionale arrivò a minacciare una mozione di sfiducia. Salvo poi rimangiarsi tutto, perché i militanti si accorsero della cazzata e minacciarono la rivolta. Marino si dimise. Fu costretto a dimettersi dall’azione combinata da Renzi e Orfini e dal silenzio terribile di tutti gli altri. Ci fu una reazione popolare a favore del sindaco. Molto limitata a dire il vero, poche centinaia di persone. Ci andai anche io, che pure non ero un fan di Marino. Perché capii che al di là dell’efficacia dell’azione amministrativa stavamo imboccando la strada sbagliata. Il sindaco eletto dai cittadini, con il 60 e passa per cento dei voti per altro, lo devono giudicare i cittadini. E poi, insieme a lui, sarebbe stata travolta una intera giovane classe dirigente sui cui avevamo scommesso, con punte di assolute eccellenza fra i presidenti dei Municipi. Per la prima volta nella storia li governavamo tutti. Da quella crisi, con una sinergia fra Governo, Regione e Comune si sarebbe potuti uscire. Il sindaco ritirò le dimissioni e Orfini, invece, di riportare la vicenda in consiglio comunale, dove un dibattito pubblico avrebbe dato modo di dare a tutti la possibilità di dire la propria, ordina ai consiglieri di dimettersi, firmando di fronte a un notaio. Deve anche ricorrere a un aiutino dalla destra perché fra gli alleati qualcuno si rifiuta. Non sarà ricandidato, come Mino Dinoi, ad esempio.
Io resto convinto che Marino si sia fidato troppo e che, quando scoppio Mafia Capitale, si sarebbe dovuto dimettere per far sciogliere il consiglio comunale e ricandidarsi presentandosi come il paladino della legalità, l’uomo che sfidava ancora una volta i poteri forti. Quei poteri forti che, al di là del giudizio su quegli anni, non lo hanno mai potuto sopportare.
Insomma: fine 2015, seconda parte del golpe romano. Cade il Comune, si torna alle elezioni. Che poi, per i protagonisti di quella vicenda è stato l’inizio della serie di sconfitte che ha portato alla situazione attuale. Come dire: le congiure di palazzo non portano bene a chi le architetta.
Il Paese dei timbri, delle carte e del protocollo.
Il pippone del venerdì/95
Ci sono settimane in cui il pippone mi viene quasi naturale e settimane in cui invece faccio una gran fatica a scegliere l’argomento. Ora, la tentazione di appuntare ancora l’attenzione sulle emozionanti vicende della sinistra nostrana, lo confesso, sarebbe fortissima.
E’ stata una settimana densa di avvenimenti epocali. Riassumiamo quelli essenziali. I militanti di Diem25, movimento nato per cambiare l’Europa, hanno deciso di non aderire a nessuna delle liste nascenti per le elezioni di maggio, le europee. Si concentreranno sulle amministrative. Intanto nella consultazione lanciata da Rifondazione e Sinistra italiana per la scelta del simbolo, i militanti hanno scelto un logo dove sono presenti anche le rondini di Diem25. Come se la caveranno adesso non si sa, i grafici avranno ulteriore lavoro. Quelli di Possibile, invece, ci saranno alle europee, insieme ai Verdi. Il loro simbolo lo presentano proprio oggi. Lo disegnerà dal vivo un writer, speriamo non su un muro. Di Potere al popolo, lo confesso, ho perso le tracce. Articolo Uno, che si appresta a celebrare il suo congresso con i delegati eletti per il congresso di un anno fa, continua a trattare con Zingaretti. Secondo l’ex ministro Orlando, apprendo dai giornali, la presenza di candidati bersaniani nella lista Pd-Siamo Europei, avrebbe carattere “tecnico”, nessun accordo politico perché altrimenti si incazzano i renziani. Intanto Zingaretti – vale la pena ricordarlo – continua a esprimere pubblicamente posizioni opposte a quelle di Articolo Uno, dalle riforme costituzionali, alla patrimoniale, ai diritti dei lavoratori. Quisquilie, qua si discute di candidature non di politica. Il simbolo, in ogni caso, non avrà alcun riferimento alla loro presenza.
Capirete che la tentazione di discettare su questi argomenti di capitale importanza è fortissima. Resisterò. Come credo di resistere anche alla tentazione di parlare di quanto successo a Torre Maura, periferia romana, con un quartiere intero, o almeno buona parte di esso, che si ribella alla presenza di una settantina di rom. Ho già scritto appena pochi giorni fa di come la guerra fra ultimi e penultimi – la faccio breve – sia un espediente dei potenti per tenere buone le masse popolari. La sinistra farebbe bene a sporcarsi le mani dentro queste contraddizioni, ma, salvo rare e positive eccezioni, preferisce pontificare da qualche salotto su quanto siano fascisti quelli che protestano. Chiediamoci, invece, perché ci siano i fascisti lì, insieme ai cittadini e non ci siamo noi. Quando qualcuno si porrà questa domanda avremo un terreno di confronto comune. Il resto, la sociologia da bar sport, francamente mi interessa poco.
Anche le contorsioni del governo francamente sono di una noia mortale. E’ tutto un gioco delle parti, dove si fa finta di litigare su qualcosa per distogliere l’attenzione dalle stangate che ci attendono e che cominciano a dispiegare i primi effetti. I pensionati già da questo mese. Gli basterà leggere la cifra dell’assegno. Per tutti gli altri bisognerà attendere il dopo europee quando, purtroppo, bisognerà fare i conti con una crescita ben al di sotto di quanto indicato nella manovra economia. E se non si cresce le entrate sono meno e le spese di più. Indovinate dove si andrà a mettere le mani? Nelle tasche di un ceto medio sempre più impoverito, ma alla fine sempre l’unico in grado di pagare i debiti contratti dai governi vari.
Certo, potrei parlare di quello che succede a livello internazionale, dove i socialisti spagnoli paiono in ripresa, in Slovacchia vince un modello nuovo di sinistra, nei bigottissimi Usa viene eletta una donna lesbica sindaca di Chicago. Una delle città più grandi, non un sobborgo sperduto. Io sospetto che i successi di Sanders abbiano fatto da ariete, aprendo la strada a una nuova generazione di militanti democratici, che non ha paura a professare idee socialiste. L’America patria dei moderati li accoglie adesso con curiosità e interesse. Perfino la Turchia dà segni di risveglio, con le elezioni amministrative che segnano una netta sconfitta dei candidati sostenuti da Erdogan. C’è perfino un sindaco eletto dal Partito comunista. Non era mai successo.
E invece no, vi voglio raccontare in breve, una mia piccola disavventura burocratica, con la Regione Lazio. La vicenda è questa: nel 2011 mi rubano la moto, seguo la prassi persecutoria prevista per questi casi, fatta di denuncia ai carabinieri, dichiarazione di perdita di possesso al Pra (a pagamento) e nel 2014, puntuale mi arriva una cartella esattoriale che mi invita a pagare il bollo. Smadonnando non poco, su internet trovo i moduli per presentare la “memoria difensiva”, si può fare via mail, via fax e via pec. Nel dubbio la invio, con allegati tutti i documenti necessari, in tutte e tre le maniere. Non si sa mai. Non mi risponde nessuno e, ingenuo, penso che sia tutto a posto. Pochi giorni fa, Agenzia delle entrate mi avvisa che se non pago la cifra del bollo, più sanzioni e interessi, avvieranno le procedure esecutive per il recupero del credito. Se si vogliono informazioni bisogna parlare con chi ha emesso la cartella perché loro sono meri esattori. Sul sito della Regione trovo un numero, mi faccio la consueta mezz’ora di attesa e risponde una gentile impiegata che verifica. Effettivamente è tutto a posto, ma devo recarmi nei loro uffici di persona. E allora, con grande pazienza, mi prendo un giorno di ferie e vado. Una decina di persone in fila, 5 impiegati allo sportello. Pochi minuti, insomma. Morale della favola, una signora molto gentile si prende la documentazione verifica le mie ragioni sul pc e ritorna con un modulo da riempire. E’ quello della memoria difensiva. Uguale. Le spiego che l’ho già presentata, le faccio vedere le ricevute. E lei, ineffabile: “Ma qui da noi?” No, con gli strumenti indicati sul sito. Lei sorride e ripete: “L’ha presentata qui da noi?”. Mi arrendo, prendo i moduli, dove lei, benemerita, ha aggiunto “urgente”, a mano, vado al protocollo dove riempio un altro modulo e mi ridanno il tutto con un bel timbro. Ora la solerte impiegata dovrà lavorare la pratica e poi mi arriverà lo sgravio a casa, per posta. Sperando che sia davvero la fine e che non debba poi portare il tutto all’Agenzia delle entrate.
Ecco, carta, timbri, protocollo, postino. Non ce la possiamo fare.
Se si votasse oggi e altre quisquilie.
Il pippone del venerdì/94
La dico brutalmente: una simulazione basata sulla media dei sondaggi attuali ci spiega che, se si votasse oggi per le politiche, una coalizione formata da Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia arriverebbe a 383 seggi alla camera. Ben oltre la maggioranza. Ci beccheremmo, insomma, cinque anni di Salvini, senza sconti della pena.
Ecco, secondo me, qualsiasi considerazione politica deve partire da questo assunto. Non c’è al momento un recupero del centrosinistra tale da mettere in discussione quest’esito nefasto. Le ripetute sconfitte subite alle corse regionali, ultima la Basilicata domenica scorsa, sono soltanto la prova che i sondaggi non mentono. Non c’è – almeno al momento – un “effetto Zingaretti”. Il Pd viene dato in lieve recupero, è vero. Ma questo recupero non è sufficiente a tornare competitivo. Possiamo continuare a raccontarci stupidaggini, ma il centrosinistra non è in grado di vincere. E’ in grado di lottare per il secondo posto con i 5 stelle, ma questa non è una partita dove conta la medaglia di argento. Con quelle percentuali chi arriva primo si prende tutta la torta.
Fin qui siamo nell’ambito delle certezze, dei dati. Poi passiamo alle congetture. Ora, è facile immaginare che dopo le Europee la situazione politica tenda a precipitare. Sia nel caso di un risultato molto a favore della Lega che nell’ipotesi di un esito che faccia intravedere una possibilità di rimonta del centrosinistra, infatti, qualsiasi persona che abbia un minimo di conoscenza di tattica elementare capisce che a Salvini converrebbe dare la mazzata finale all’avversario, piuttosto che dargli tempo per riprendersi. Anche perché, con i dati sull’economia che peggiorano giorno dopo giorno, è facile prevedere la necessità di una manovra correttiva. Avrà, questo governo profondamente diviso su questioni fondamentali, la fermezza per attuare misure impopolari? Io credo che i soci pro tempore che hanno firmato il contratto di governo converranno che sia meglio tornare a dare la parola agli elettori.
Per essere prudenti diciamo che si voterà comunque entro primavera del 2020. Con questa linea di confine abbiamo a che fare e questo dobbiamo tenere presente nei nostri ragionamenti e nelle nostre prese di posizione. Altro elemento certo, le elezioni regionali dimostrano chiaramente due cose: la prima è che l’elettorato non crede al rinnovamento del Pd. Anche dopo le primarie, quando si esce dai sondaggi e si contano i voti, non si segnala alcun recupero. Anzi. Difficile dargli torto, del resto, basta leggere i nomi che compongono la direzione per capire quanto l’intento annunciato da Zingaretti (Cambiamo tutto) sia al momento al massimo una buona intenzione per il futuro. Se gli attori restano gli stessi difficile pensare che cambi davvero qualcosa. E del resto lo stesso neo segretario ha professato una sostanziale continuità con i governi Renzi e Gentiloni sulle questioni più calde. Lavoro e riforme istituzionali innanzitutto. Il secondo dato che emerge è che senza una seconda gamba della coalizione non si concorre a nulla. Nella migliore delle ipotesi, quella di un Pd intorno al 20 per cento, mettendo insieme tutti, ma proprio tutti, gli altri protagonisti della scena politica a sinistra si raggiunge a stento il 30 per cento.
Questo poteva essere il compito di Liberi e Uguali: mettere insieme una “massa critica” tale da diventare fattore di attrazione degli elettori delusi, dare una sponda politica ai tanti movimenti che sono tornati protagonisti in questi mesi. E poi andare a verificare con il Pd le condizioni di una alleanza di tipo nuovo. Guardate, la questione non è tanto di formule. E’ di idee: serviva una forza che dichiarasse apertamente la necessità di superare la stagione liberista e tornare a formule socialiste, a partire da tre temi fondamentali: lavoro, ambiente, stato sociale. Su questi temi non siamo in grado da anni di dire una parola di sinistra. E non bastano le battaglie, pur giuste, sui diritti civili, se non parliamo di questioni che toccano le tasche e le pance dei nostri concittadini. Un esempio su tutti: la questione migranti, come si smina? Con il “buonismo” – perdonatemi la semplificazione – alla Boldrini? No, si smina unendo la solidarietà necessaria a ricette serie per migliorare la condizione di vita degli italiani. Che non è che siano diventati razzisti all’improvviso. Hanno cominciato a rifiutare i disperati che vengono da noi, tra l’altro spesso soltanto di passaggio, nel momento in cui hanno visto sgretolate le proprie certezze. E hanno creduto al mantra populista che recita: “Stiamo peggio per colpa dei migranti, a cui vengono destinate le risorse che sarebbero necessarie per migliorare la situazione degli italiani”. Non è vero, ma non basta dirlo, occorre lavorare per ricostruire quelle certezze. Su lavoro e stato sociale innanzitutto.
Una forza di sinistra, insomma, aveva il compito di spostare l’asse della coalizione riportandolo vicino ai più deboli. Questo serviva e questo serve ancora. Le classi dirigenti dei vari partitini esistenti non lo hanno capito perché dedite soltanto a preservare le proprio certezze, fossero anche soltanto la segreteria di una forza che non ha i voti necessari manco per eleggere un amministratore di condominio. Ma da qui, secondo me, sarà necessario ripartire, quando, una volta passata la sbornia delle europee si potrà ricominciare a ragionare.
Nel frattempo cosa fare a maggio? Il richiamo unitario lanciato da Zingaretti è forte, inutile prenderci in giro. Perché nel popolo degli elettori che si dichiarano di sinistra il richiamo all’unità va di pari passo con quello alla necessità di un cambiamento profondo. E la sinistra dispersa non avrà la forza per opporsi. Perché quell’antidemocratico sbarramento al 4 per cento farà saltare qualsiasi buon proposito. Vedremo se il Pd e il suo segretario saranno in grado di mettere sul serio in campo un progetto unitario e non una lista di partito con qualche ospite illustre. Io avrei visto bene una lista che presentasse orgogliosa la rosa nel pugno dei socialisti europei. In quella casa, credo, c’è ancora lo spazio per progettare la sinistra che serve al nostro continente. La voglio dire ancora più chiaramente anche parlando ai vertici di Articolo Uno, in questi giorni in mezzo al gorgo: una cosa è una lista unitaria, un’altra è essere ospiti neanche tanto graditi nella lista del Pd. Un progetto di questo tipo, non una lista estemporanea dove l’unica cosa su cui si discute sono i candidati, potrei anche decidere di votarlo. Altrimenti torno all’ipotesi A: voto Salvini. Ma questa ve la spiego un’altra volta.
Le piazze dei giovani e le nostre speranze.
Il pippone del venerdì/93
Lasciamo la sinistra nelle sue contorte articolazioni a decidere in pace come suicidarsi alle elezioni prossime venture e parliamo d’altro. O meglio parliamo delle stesse cose, ma da un’angolazione differente. Del resto, che questi gruppi dirigenti non siano all’altezza del compito difficilissimo che abbiamo di fronte mi pare evidente. E forse se fossero all’altezza non ci troveremmo di fronte un compito così difficile tanto che vincere una qualche competizione che non siano le primarie (per chi è del Pd) o un congresso (per tutti gli altri) pare più difficile che scalare una montagna di ottomila metri. Vinciamo le amichevoli, se ci va bene, ma al momento nelle competizioni elettorali vere facciamo la gara per il secondo posto (quando siamo tutti uniti ma proprio tutti). Del resto se non riusciamo a esprimere dirigenti migliori dobbiamo prendere atto che anche i militanti non sono un granché: le zuffe quotidiane su facebook sono la rappresentazione fedele di quanto siamo consunti fra la cosiddetta base. E il fatto che ogni volta ci rinfacciamo i reciproci errori commessi a partire dagli anni ’70 o giù di lì la dice lunga anche sulla nostra età media. Oramai più che militanti di base siamo una sorta di compagnia di giro: ci si incontra di costituente in costituente, di partito unitario in partito unitario, sempre gli stessi, solo con i capelli ogni volta più bianchi (quando va bene).
Detto ciò, mentre la sinistra “ufficiale” langue alla ricerca del sacro graal, la “sinistra sul campo” pare in gran salute. Non faccio l’elenco, ma ormai non passa una settimana senza un grande momento di mobilitazione a livello nazionale. Le donne, l’ambiente, la lotta alla mafia, il lavoro, la scuola. E in tutte le manifestazioni, almeno a quelle a cui ho potuto assistere, c’è una grande partecipazioni di giovani. Non è vero, insomma, che la sinistra non ci sia più in questo paese: solo che la sinistra “ufficiale” non coincide più con quella “reale” che, al contrario della prima, appare in grandissima ripresa.
Ora, non è la prima volta che succede. Anzi, si può dire che dal ’68 in poi i grandi movimenti di piazza sono stati il motore, o almeno uno dei motori, che ha provocato le conquiste sociali, non solo in Italia. Ma questi movimenti avevano uno sbocco nel panorama politico. Non sto a rifare la solita tirata nostagica alla quale vi ho ormai abituato e quindi non ripeto. Ma il Pci, con i suoi tempi spesso non velocissimi, sapeva rispondere alle spinte sociali, le articolava in chiave politica e le portava all’interno delle istituzioni. Lo stesso è successo con i partiti degli anni ’90. Poi c’è stato il cortocircuito. Se dovessimo dargli una data, anche se arbitraria, per me è quella del G8 di Genova. In generale la stagione del movimento no global, secondo me è la prima che non ha avuto una adeguata risposta dalla politica, se non la repressione pura e semplice.
Eppure avevano capito tutto. Mentre noi eravamo presi a pensare a come far diventare meno cattivi i mercati, a provare a tingere di rosso le teorie liberiste, a Porto Alegre si parlava di ambiente, di cambiamenti climatici, di come la globalizzazione della finanza rendeva deboli gli stati nazionali. Stavano 20 anni avanti e non lo avevamo capito. O meglio lo avevano capito quelli che stroncarono quel movimento a Genova. A comprendere la gravità di quegli avvenimenti ci siamo arrivati, forse, da pochi anni. Forse anche perché in Italia i no global erano personaggi pittoreschi, molti dei quali sono saliti in fretta su qualche carro che passava, diretti in Parlamento. E lì si sono perse le loro tracce. Del resto la stessa sinistra cosiddetta radicale, che pur in quei movimenti c’era stata con mani e piedi, proprio in quegli anni inizia la sua parabola discendente fino al disastro elettorale dell’arcobaleno.
Non è successo lo stesso negli altri paesi, dove, al contrario, partiti e movimenti si sono rivitalizzati (penso ai verdi tedeschi) o hanno mosso i primi passi proprio in quel periodo. La stessa teoria dell’impegno politico di tipo mutualistico, che hanno portato avanti in Grecia e in Spagna, tanto per fare qualche esempio, pur ripetendo esperienze del ‘900, rinasce con i movimenti no global, quando la concretezza dell’impegno, l’organizzazione orizzontale in rete fra piccole esperienze diverse fra loro, spesso prendeva il posto dell’organizzazione piramidale dei partiti di massa del secolo scorso. Lo stesso nuovo Labour di Corbyn attinge piene mani dai movimenti, ripescando nella cassetta dei ricordi le parole d’ordine del socialismo alle quali, però, viene dato un nuovo diritto di cittadinanza grazie alle pratiche e alle elaborazioni di quegli anni. Insomma, l’analisi marxiana torna d’attualità quando il capitalismo fa vedere a tutti quello che, secondo me, è il suo lato peggiore, la finanziarizzazione dell’economia.
In Italia questo non è accaduto e, credo, la nostra crisi attuale sia tutta figlia di questa contraddizione: il Paese che per decenni ha avuto il partito comunista più forte dell’occidente, finita quell’esperienza, si è talmente preoccupato di cancellarne le tracce che adesso fatica a ritrovare le strade antiche, figuriamoci a percorrerne di nuove.
Eppure il protagonismo di questi mesi, soprattutto quello dei giovani deve avere una risposta. Non possiamo permetterci di perdere questi ragazzi, la loro freschezza. Si rifiutano di essere inquadrati nelle organizzazioni esistenti? Bene, non possiamo permettercelo proprio per questo: perché rompono, finalmente, la logica dei polli allevati in batteria e selezionati per fedeltà al capetto di turno.
Ecco, piuttosto che arrovellarci su come suicidarci alle Europee, scorniamoci su questa domanda: come tramutiamo l’entusiasmo che ha riempito le piazza di questi mesi in impegno continuo, in grado di cambiare davvero le cose? Possiamo permetterci, ad esempio, che il movimento sul cambiamento climatico non abbia una sua voce nelle istituzioni? Mi sembra l’unica domanda che meriti impegno.
C’è ancora vita fuori dal centrosinistra?
Il pippone del venerdì/92
Sapete tutti come la penso: per me parlare ancora di centrosinistra come unica possibilità per battere le destre è pari allo sbattere ostinatamente la testa contro il muro. I risultati di tutte le elezioni amministrative da un paio di anni a questa parte e delle elezioni politiche dell’anno scorso hanno un segno costante e ormai definito con chiarezza: non si va da nessuna parte con la vecchia formula della sinistra che si annacqua e finisce per sposare le tesi neoliberiste dandogli una pennellata di diritti civili. I cittadini alla fine fanno i conti con le proprie tasche. E se gli togli l’articolo 18, gli togli la sanità pubblica, gli fai a pezzetti il sistema scolastico, alla fine non ti sopportano più. Certo tutti contenti per i diritti garantiti alle coppie di fatto, ma votano per chi gli promette di invertire la rotta.
Non per fare quello che dice “te l’avevo detto”, ma fin dal 2015, quando sono tardivamente uscito dal Pd, cerco di far passare la tesi che per battere la destra serva innanzitutto una forza di sinistra forte, autonoma e autorevole. Che torni a essere riferimento per le masse popolari. Una forza socialista, femminista ed ecologista. Questo per me doveva essere Liberi e Uguali e ancora mi chiedo perché non abbiamo avuto la forza di imporlo a gruppi dirigenti riottosi e miopi. Una forza così poi non può definirsi alternativa a tutto il resto, ma potrebbe avere la forza per creare alleanze di tipo nuovo, che rovescino le politiche che hanno caratterizzato gli ultimi 20 anni di governo. Di destra e di centrosinistra.
Leggendo l’intervista di Fratoianni sul Manifesto di ieri ho capito perché questo progetto sia sostanzialmente fallito. Il segretario di Sinistra italiana, in realtà, parte anche benino, si vede che ha studiato, si impegna, ma poi sbaglia clamorosamente la soluzione del problema: una bella lista della sinistra radicale alle Europee. Una roba che solo a pensarci uno sbadiglia di noia. La solita lista con Rifondazione, prova a obiettare l’arguta intervistatrice. Mal gliene colse. Il prode Fratoianni si inalbera: “Saremo molti di più”, dice. E fa un elenco impressionante. Da Diem 25, a L’Altra europa, agli autoconvocati di Leu (senza Grasso), a Possibile. E non pago parla anche di personalità di spicco citando ad esempio Elly Schlein. E poi, ormai senza freni, punta dritto verso il sol dell’avvenire ormai a un passo e si scatena: serve una lista che “stringa una relazione positiva con le coalizioni civiche delle città”. E poi il tocco davvero rivoluzionario: basta con le nomenclature, le donne siano protagoniste. Tutte capoliste.
Immagino che sia bastato questo annuncio per scatenare manifestazioni di giubilo in tutte le città italiane. Che le masse siano già in marcia per conquistare i palazzi del potere con il ragazzo pisano alla testa della rivoluzione. Se così non fosse, però, ci sarebbe da chiedersi cosa non va in tutto questo ragionamento. Aggiungiamoci anche che i Verdi hanno deciso di andare da soli con i civici di Pizzarotti e che anche Possibile (pare stiano decidendo tutti gli iscritti in queste ore a casa di qualcuno) potrebbe aggregarsi.
Intanto, la dico così, en passant, mi pare chiaro perché non siamo riusciti a fare Leu. Uno dei leader che avevano firmato il patto elettorale già pensava ad altro. Le sirene incantatrici di Rifondazione lo hanno costretto a un ritorno repentino all’antico. Perché di antico, senza manco una ripitturata, si tratta, non prendiamoci in giro. Ora, io resto convinto che servisse un partito della sinistra, come già detto e ribadito. Posto che non ci siamo riusciti, mi convinceva molto l’idea lanciata da Speranza alla scorsa assemblea nazionale: una lista delle forze socialiste e ambientaliste. Speranza ci includeva anche il Pd, presenza secondo me troppo ingombrante e al tempo stesso ancora in fase calante malgrado Zingaretti. Ma la proposta aveva una sua grammatica e una sua sintassi. Non l’accozzaglia di Calenda, non l’accozzaglia opposta di Fratoianni e De Magistris, ma una lista che avesse cardini programmatici ben precisi, quanto meno una comune visione sull’Europa e sull’economia. Al momento Zingaretti pare più affascinato da Calenda e Pisapia, recuperato in extremis in qualche giardinetto milanese. Leggo che il coordinatore di Articolo Uno la ripropone dopo un incontro con il socialista Nencini e il radicale ortodosso Turco. Bene, meglio così che presentarsi come indipendenti nelle liste democratiche. Ma mi sembra che ormai siamo al piano C. Ovvero a un tentativo disperato di dimostrare almeno la propria esistenza in vita in vista delle future elezioni politiche. Fatto non disprezzabile in assoluto, ma solo se lo consideriamo un passaggio verso la costruzione di un partito.
E qui torno alla domanda del titolo. A me pare che arrivati a pochi giorni dalla elezioni europee, allo stato delle cose l’unico soggetto non di destra che avrà una sua significativa presenza dopo le elezioni sarà il Pd. C’è ancora vita fuori dal Pd? A forza di veti e controveti, di contese a chi fa il segretario, a forza di calcoli su come si elegge chi, ci hanno portato davvero all’inconsistenza. Faccio un facile pronostico: le due o tre liste (tutte unitarie e tutte di sinistra) che saranno presenti sulla scheda faticheranno ad arrivare al due per cento. Se ne faranno una ragione i parlamentari europei uscenti, le mogli escluse, i trombati della scorsa tornata che ritenteranno la sorte. Soltanto i militanti con lo stomaco ormai roso dai litri di digestivo ingoiati negli anni riusciranno a farci una croce sopra.
Siamo ancora in tempo per fare una cosa diversa? Che serva davvero a costruire una visione diversa sull’Europa? A me presentare una lista per racimolare qualche voto per poi sedersi al tavolo dove si spartiscono i posti per Montecitorio francamente non interessa molto. Vedremo se avremo la forza di mettere le basi per un partito che guardi avanti. Al momento i segnali di vita nell’elettroencefalogramma della sinistra sono davvero flebili. In ultimo ripropongo la domanda che ormai da settimane agita le mie notti insonni: ma Grasso che fine ha fatto?
Uno Zingaretti non fa primavera.
Il pippone del venerdì/91
Un consenso molto ampio, con una partecipazione per certi versi inattesa, ma comunque sia inferiore a quella dell’ultimo round di Renzi. Questa la fotografia delle primarie Pd di domenica scorsa. Ora, di certo c’è la componente “stanza piccola ma molto piena”, nel senso che a forza di dire che i partecipanti sarebbero stati meno di un milione, anche un dato in calo sembra una grande vittoria. E d’altro canto la riduzione del numero dei gazebo a disposizione degli elettori ha favorito il formarsi di lunghe file che tanto fanno bene al militante che si alza all’alba per garantire il funzionamento di una macchina molto complessa.
Messa da parte questa visione, che secondo me ha un fondamento, ma sicuramente rischia di essere un po’ da “rosiconi”, secondo me ci sono alcuni elementi da valutare con attenzione. Intanto quando un milione e seicentomila persone decidono di esprimere un voto, pagando anche due euro a testa, vanno rispettate e prese in considerazione. E nella situazione data, con un partito dato da tutti per morto, con una serie impressionante di elezioni perse, anche il dato quantitativo non è davvero roba da poco.
E’ un dato, però, non isolato. Che si inserisce bene nella scia delle grandi manifestazioni delle ultime settimane: quella dei sindacati a Roma e quella dell’associazionismo antirazzista a Milano. Per me la chiave di lettura va cercata principalmente qui. Certo, c’è la mobilitazione dei notabili Pd, le correnti che si spartiscono i posti in assemblea e tutto l’armamentario che chi viene dal quel partito come me conosce perfino troppo bene. Ma quando si arriva a questi numeri, la mobilitazione teleguidata non basta come spiegazione. C’è un movimento vero di opinione. Si tratta di capire quale sia questa opinione. Le mie personalissime impressioni sono queste: un voto che va al di là del Pd, con un ricambio considerevole rispetto alla base renziana che è rimasta in gran parte a casa. Un voto non tanto sul Pd, ma soprattutto contro il governo e ancora di più contro Salvini. Insomma, ci hanno detto, e lo hanno fatto rivolgendosi a tutti: noi ci siamo, ora vedete voi cosa potete fare.
Un po’ uno sfogo del famoso popolo della sinistra, insomma. O almeno di una parte di esso che vuol comunicare la propria esistenza in vita innanzitutto, ma che chiede anche unità. Su questo sono abbastanza d’accordo con Speranza. Che in ogni discorso lo ripete quasi ossessivamente: “Guardate che i nostri ci chiedono due cose allo stesso tempo: unità e discontinuità”. Io queste caratteristiche le trovo tutte nel dato di partecipazione alle Primarie e nel consenso attribuito a Zingaretti.
Se questa analisi è giusta, ora si tratta di capire se il nuovo segretario del Pd sarà in grado di essere l’interprete che serve per dare voce a questo popolo. Le prime mosse non fanno ben sperare. Non tanto per la prima uscita pubblica dedicata a uno degli argomenti più divisivi a sinistra, il Tav, quanto per le indiscrezioni fatte filtrare sui nomi che lo affiancheranno. Zanda, Gentiloni, la De Micheli. Tutti protagonisti della stagione passata. E se questo è Zingaretti rischia di essere una figurina in balia dei potenti di sempre: da Franceschini a Fassino, senza dimenticare i De Luca vari.
L’altro aspetto che mi preoccupa è questa improvvisa retromarcia sulla lista per le Europee. Dopo aver dichiarato in lungo e in largo che una volta eletto segretario avrebbe spinto su uno schieramento ampio con cui presentarsi all’elettorato, ora Zingaretti sembra acconciarsi una lista targata Pd, con qualche foglia di fico per abbellirla. Qualche civico, qualche anziano avvocato strappato ai bocciodromi milanesi e magari la scritta “Siamo Europei”. Ora, io sono uno di quelli che ha sempre detto un no chiaro al manifesto di Calenda e un sì titubante alla lista progressista annunciata da Speranza. Nel senso che, secondo me, va anche bene ma andava costruita a prescindere dal Pd. Però questo dato della partecipazione alle primarie mi fa riflettere. Vedo che, almeno a leggere i giornali, Zingaretti lo interpreta al contrario, come un voto che testimonia la capacità del Pd di risorgere dalle proprie ceneri. Come se bastasse un nuovo segretario per dare identità e un nuovo slancio a un progetto che si è rilevato una somma di debolezze che si sono unite soltanto per sopravvivere.
Insomma, per non tirarla troppo per le lunghe: mi auguro di sbagliare, ma io la discontinuità necessaria a ritrovare l’unità essenziale per potersi contrapporre alla destra non la vedo. L’apertura a Calenda e la chiusura a sinistra la dice lunga. Non basta solo un atteggiamento differente, non basta dire addio all’arroganza sbruffona di Renzi. Quando diciamo che si è rotto il legame fra la classe dirigente della sinistra e il suo popolo, un legame non solo politico ma quasi sentimentale, intendiamo che le politiche portate avanti dai governi Renzi e Gentiloni, ma ci metterei anche Monti e Letta, hanno allontanato gli elettori del nostro blocco storico senza attirarne altri. La rottura è dovuta ad atti concreti. A quel liberismo neanche troppo edulcorato al quale ci siamo appigliati per non incorrere nell’ira dei famosi mercati. A quello snobismo che ci ha fatto credere che bastasse una qualche spolverata di diritti civili per mascherare l’abbandono dello Stato sociale.
Su tutto questo non ho ancora sentito una parola da Zingaretti. Qualche slogan sulla svolta ecologica necessaria, la discontinuità usata come mantra senza dargli senso e riempirla di contenuti. Vedo, invece, tutti o quasi gli uomini dei governi passati che sono saliti in fretta sul carro del vincitore annunciato. Insomma, secondo me la primavera è lontana. Spero di sbagliarmi, ma ancora una volta non si capiscono i segnali che il nostro popolo ci dà. Certo, la sinistra fuori dal Pd non è che stia messa meglio. Faccio notare, ormai è un’abitudine, che resiste soltanto quando si presenta unita sotto le insegne di Liberi e Uguali. Il resto è roba da zero virgola, a essere ottimisti. Siamo alla disperata ricerca di alleanza per le Europee, tutti quanti. Divisi dai soliti orticelli aridi da coltivare. Con il risultato paradossale che gli anti Tav di Sinistra italiana in Piemonte vogliono sostenere il paladino dell’alta velocità Chiamparino presentandosi sotto le insegne di Leu. Ma al parlamento europeo preferiscono l’abbraccio con Rifondazione. Una sorta di richiamo della foresta. Articolo Uno mi pare invece intronato, come abbagliato da uno Zingaretti che proprio non li vuole, perché sarebbe la rottura con i renziani, rinviata a dopo le elezioni. Tutti, insomma, alla ricerca disperata di una sopravvivenza sempre più difficile da raggiungere. Che forse non ci meritiamo.
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