Il pippone del venerdì/1
Pd o non Pd
Da oggi, continuando nel progetto di voler rendere più strutturale il mio contributo da osservatore del dibattito politico, social e non social, inauguro questa nuova rubrica, “il pippone del venerdì”. Sarà una sorta di bilancio della settimana, in cui vorrei ragionare sugli aspetti che mi sembrano interessanti. Ci provo, combattendo con la mia nota pigrizia. E vorrei anche provare a rinnovare e utilizzare con maggior costanza il mio sito. Chissà, non scommetterei su me stesso.
Comunque sia, cominciamo il pippone.
In realtà non è proprio “il tema della settimana”, questa storiella va avanti da almeno un paio di anni. Da quando, cioè, Pippo Civati ha lasciato il Pd e ha fondato il suo “Possibile”, movimento di cui non si ricorderanno tracce durature nella storia dell’uomo, ma che tuttavia merita una menzione, quanto meno per essere alla base di un disastroso equivoco. Nello statuto di Possibile, mi dicono, sta scritto a chiare lettere che non faranno mai, a nessun livello, alleanze con il Pd. Il che è una novità assoluta. Che un partito escluda di potersi alleare con un altro partito dell’arco democratico, ci sta. Ma che si metta nero su bianco nello statuto è un fatto di assoluta rilevanza e, come vedremo, sia pur in forma indiretta, ha condizionato il dibattito politico nella galassia della sinistra italiana.
E’ successo con la tornata delle scorse elezioni amministrative. Con grandi scontri fra chi diceva che non si poteva rompere il centro sinistra per principio e chi diceva che l’esistenza di un campo alternativo al Pd doveva essere visibile e omogenea su scala nazionale. Sostanzialmente ha vinto la secondo tendenza, fra mugugni e resistenze, con la sia pur rilevante eccezione di Milano. Devo ammettere di essermi lasciato prendere da questo dibattito. Sbagliando.
E devo dire che, alla fine dei giochi, tutta sta visibilità di uno schieramento alternativo al Pd mica l’abbiamo vista. Abbiamo visto, piuttosto, uno scontro da stadio fra gli ultras degli opposti schieramenti. Salvo poi andare a piangere perché, dopo aver parlato di periferie a tutto spiano, a Tor Bella Monaca abbiamo preso il 2 per cento. Elettori eroici, verrebbe da dire.
Eppure non è che si sia imparato dagli errori. Anzi la situazione è peggiorata. Per chi esce dal Pd si propone l’analisi del Dna, suo e delle tre generazioni precedenti. Il congressino di Sinistra italiana, oltre ad aver prodotto un gruppo dirigente, ha anche prodotto un secondo anatema: mai con il Pd di Renzi, a tutti i livelli. Manco nel condominio di via Carugatti 53 si faccia l’alleanza con il Pd di Renzi. Scelta applauditissima da Possibile che ha deciso di fondere i gruppi parlamentari, “pur mantenendo l’autonomia dei rispettivi partiti”. In giro si leggono addirittura moderni soloni che si scandalizzano perché Pisapia non ha definito la sua posizione sul renzismo. Quello, dicono, sarebbe il minimo richiesto per definirsi di sinistra.
L’Italia intera dibatte e si accalora su questi affascinanti temi.
Scherzi a parte, come la vedo? Pur tra i mille errori commessi resto convinto di tre cose.
1) Resta l’esigenza di ricreare un movimento ampio della sinistra italiana, non un partito, una gabbia escludente, ma un percorso aperto, che guardi al futuro e non agli errori del passato. Senza esclusione alcuna. Per me l’unica pregiudiziale resta l’antifascismo.
Un percorso che se ne freghi delle forme strutturate, del fatto che stiamo in partiti differenti e parta dalle persone. Possibilmente parta da quelle “vite di scarto”, da quelle periferie, come luogo sociale ma anche come spazio culturale, di cui parliamo sempre, ma dalle terrazze dei palazzetti d’epoca. Il Partito arriverà quando il percorso sarà compiuto e tutti saranno pronti a lasciare le casette di provenienza non per un condominio scomodo e spersonalizzante, ma per una grande casa di tutti. E non con le forme del ‘900, perché il ‘900 è finito. Tutto questo, sia chiaro, nelle pur rinnovare forme ha bisogno di mettere radici fisiche nei territori. Primo obiettivo dunque, trovare spazi, tanti, nei quali costruire un agire politico comune. Spazi utili ai cittadini, accoglienti. Per rovesciare il ragionamento di un autorevole ministro, un luogo in cui un Pio La Torre di oggi si troverebbe a suo agio, avrebbe modo di crescere e, al tempo stesso, di mettersi al servizio di un progetto collettivo.
2) Questo movimento non si crea contro o in alternativa al Pd o al renzismo o al populismo. Si coltiva, da più parti, la sensazione che sia sufficiente definirsi di sinistra per poter essere annoverati automaticamente nell’olimpo dei rivoluzionari. Non funzionava così manco ai tempi del Pci, figuriamo adesso. Solo che allora, con quel nome, con quella storia, potevi pure permetterti di essere conservatore ogni tanto. Oggi no.
E ritorniamo a quella che io mi intestardisco a considerare l’origine di tutti i mali. La nascita del Pds. In quegli anni sciagurati in cui si buttò a mare un patrimonio di 80 anni, ci si dimenticò di un particolare: che quella operazione aveva bisogno di definire un nuovo orizzonte, ideale e culturale, per dare testa alla sinistra. Le gambe c’erano, la testa no.
Il problema sta tutto qua. Chissenefrega di Renzi, del Pd, delle alleanze. Ma si può dibattere da Roma se a Parma si debba appoggiare Pizzarotti o fare una coalizione di centrosinistra classica? E quelli di Parma che stanno a fare? Danno i volantini? Guarda che poi, ne abbiamo le prove provate, quelli di Parma finisce che non ti votano. E poi mica puoi dire “date le condizioni abbiamo fatto il massimo”. La politica, la sinistra, servono a cambiarle le condizioni, mica a subirle.Dicevamo: identità, bagaglio culturale e ideale. Queste sono le condizioni essenziali. Poi possiamo anche chiamarlo davvero Arturo, se in contenuti e le idee sono quelle di un nuovo movimento socialista. Serve un grande lavoro prima di tutto culturale, chiamando a tornare in campo tutte le energie migliori, i famosi intellettuali che non si sa che fine hanno fatto. Bisogna definire quale sia “il nostro cielo”, il nostro orizzonte ideale, quale sia la nostra cassetta degli attrezzi con la quale interpretare la realtà. Con mi alleo poi? Semplice con chi ci sta. Bisogna, insomma, avere la capacità e la pazienza, di rovesciare il percorso. E guardate che non parlo di “un programma”. Vanno bene le officine delle idee, va bene tutto. Ma non basta. Un programma siamo bravissimi a scriverlo. Anzi, magari neanche più tanto quello perché ormai scriviamo cose che non capiamo neanche noi. Quello che manca è un manifesto dei valori, un campo ideale. E guardate, la butto lì, non credo che sia neanche sufficiente la dimensione nazionale. Le coordinate: io credo possano essere tre: la dicotomia lavoro/non lavoro (perché dovremo porci prima o poi il problema di una società in cui il lavoro sarà sempre meno parte fondamentale della nostra vita e quindi assumere anche il tempo del non lavoro come valore) l’uguaglianza (perché ci hanno fatto una testa tanta con la meritocrazia, ma senza uguaglianza diventa soltanto una maniera più elegante per disfarci degli ultimi) l’ambiente (non perché l’economia green fa tanto fico, ma perché se non mettiamo l’ambiente come base di tutto il nostro agire ci siamo giocati il pianeta e altri non ne abbiamo). Mi fermo perché altrimenti altro che pippone.
3) Fatto questo si torna alla conclusione del punto 1. Ovvero: come si creano le condizioni per far in modo che un giovane Pio La Torre del terzo millennio si senta a casa? La traduco in politichese: come si crea un nuovo meccanismo di selezione della classe dirigente? Perché sicuramente dobbiamo sapere cosa fare, ma anche con chi farlo.
Ora, negli ultimi venti anni (il Pd ha soltanto estremizzato questo processo) i partiti non sono stati più gli “intellettuali collettivi” di cui parlava Gramsci. Ossia quei luoghi in cui un cervello collettivo elabora le soluzioni ai problemi. Ma non sono neanche quei luoghi dove si sperimenta e si mette alla prova la classe dirigente. Tutto questo è stato sostituito dal partito del leader e delle correnti. Si tratta di un processo generale che in Italia ha coinvolto l’intero panorama politico. Non è un caso se la contesa nel Pd è sostanzialmente fra due populisti. Perché nel momento in cui non sei più intellettuale collettivo e non sei più luogo di selezione della classe dirigente, il partito diventa mero luogo di gestione del potere. Il mezzo diventa fine e allora servono solo un leader e i suoi lacchè. Il processo decisionale non è più tra linee politiche alternative, ma fra capi alternativi. E vince chi è più populista e arrogante dell’altro.
Essere di sinistra, oggi, vuol dire anche invertire questa tendenza, costruendo un movimento dove il nodo non sia il leader ma la classe dirigente, diffusa e riconosciuta.
Dico non a caso riconosciuta, perché oggi esistono soltanto i grandi leader mediatici, non abbiamo più i dirigenti di base, quelle figure essenziali se si vuole avere un legame forte con il territorio. Abbiamo una classe politica (non la chiamo dirigente non a caso) completamente slegata dal territorio. Sento autorevoli parlamentari che ti dicono candidamente “non abbiamo capito cosa stava succedendo”. E’ successo ad esempio sul referendum costituzionale. Bastava andare a dare un volantino in giro per capire che gli italiani non solo avrebbero votato no, ma che gli stavate proprio sulle palle.
Tre cose da fare subito, insomma, avendo bene in testa che non serviranno due giorni. Ma bisogna partire. E allora: Pd o non Pd? Machissenefrega.
Costruiamo ponti, non steccati
Il 15 luglio del 2015, forse un po’ paradossalmente, conclusi così l’intervento con il quale annunciavo al direttivo del circolo Pd Capannelle le mie dimissioni da segretario e dal Pd stesso: “Dobbiamo, anche in questa fase, avere sempre l’obiettivo di costruire ponti e non steccati”. Paradossale perché anche in quel momento, di rottura, facevo riferimento al bisogno di trovare le forza di proseguire un dialogo, anche se una storia comune si interrompeva. Il bisogno di continuare a esplorare insieme terreni sconosciuti. La risposta fu più che uno steccato: la commissaria di zona, una sorta di Orfini un po’ più arrogante, ordinò di cambiare immediatamente le chiavi del circolo e mi diffidò via mail dall’entrare in quelle stanze. Come dire: mi hanno sbattuto le serrande in faccia. Poco male.
Da allora mi è sempre rimasta in testa quella frase, quell’obiettivo. E per questo ho lavorato da subito, quando il gruppo di compagni con cui avevamo lavorato in quei mesi, mi propose di essere il “referente romano” (nome un po’ bizzarro che vuol dire coordinatore) di Futuro a sinistra, l’associazione a cui aveva dato vita Stefano Fassina, anche lui appena uscito dal Pd.
Costruire ponti era la mia ossessione perché vedevo con forte preoccupazione quello che stava succedendo: invece di provare a lavorare per riunire il campo disgregato della sinistra italiana, ognuno coltivava soltanto il proprio orticello. Troppo sigle, poco popolo. La dico così in sintesi. Tutti gruppi tesi ad alimentare esclusivamente la sopravvivenza del proprio gruppo dirigente. Dove si parla di partecipazione e poi manco ti comunicano le decisioni, le leggi sui social. Troppi recinti, troppe casette magari rassicuranti e protettive per chi sta dentro, ma poco attrattive e poco utili se non ci si vuole accontentare di sopravvivere. Settarismi, si sarebbe detto un tempo, che non portano da nessuna parte.
L’ho detto ogni volta che ho potuto. Non chiudiamoci, inventiamoci forme nuove per stare insieme. E anche quando è stato avviato il percorso che poi ha portato alla nascita di Sinistra italiana, ho sempre insistito sulla necessità che non fosse un partito classico, ma un arcipelago di mille isole, autonome, con la propria identità, ma messe in rete. Perché non bisognava escludere nessuno. Anzi.
Per questo ho proposto, dove mi è stato concesso, che si partisse da un manifesto, pochi punti chiari. E su questo si avviasse un processo costituente dal basso, che non fosse un accordo fra gruppi dirigenti ma un processo che, al contrario, si aprisse a quanto è nato e cresciuto in questi anni nelle città e nei quartieri. Non serviva che qualcuno scrivesse la storia per noi, che qualcuno scrivesse in qualche bel documento che “bisogna ridare centralità al lavoro, tornare a parlare al popolo della periferia”. Serviva che il lavoro e le periferie tornassero a essere protagonisti nella scrittura di una storia comune.
Nell’appello con cui lanciammo Futuro a sinistra a Roma scrissi: “La sinistra a cui pensiamo nasce dal basso, non dalla fusione di ceti politici. Non vogliamo essere i reduci delle sconfitte dell’ultimo ventennio che si mettono insieme alle rinfusa dimenticando le divisioni e le ragioni che le hanno prodotte. E’ una sinistra nuova, inclusiva, plurale e che raccoglie anche culture differenti. Una forza di governo e riformatrice”.
Poi sono arrivate le dimissioni di Marino, il notaio, insomma la vicenda è nota. E tutto è precipitato. A Roma si è decisa non si capisce bene dove, la candidatura di Stefano Fassina a sindaco. Ho espresso timidamente a chi mi prospettava questa eventualità le mie perplessità. Per il profilo nazionale di Fassina, per la sua storia politica complessa, per la mancanza di un legame con la città.
Una volta tratto il dado, sono fatto così, ho sostenuto la sua candidatura con tutte le mie energie. In campagna elettorale servono gli eserciti, i soldati, non le discussioni.
Ho cercato comunque di portare le mie idee e di calarle in questo percorso, troppo breve. E qui ho trovato muri robusti. Tutto si è deciso in stanzette anguste. In riunioni di pochi. E invece bisognava davvero ascoltare la città, chiedere a Roma di mettersi in gioco insieme a noi. Di non delegare, ma esporsi in prima persona. Ho proposto di fare le primarie delle idee, quartiere per quartiere. Grandi assemblee con tutta la sinistra diffusa, i lavoratori, le associazioni locali, le forze disperse di una sorta di sinistra sociale che in questi anni di vuoto si è organizzata fuori dai canali tradizionali e li ha anche sostituiti. Non, insomma, le primarie sulle persone, ma un confronto vero sui temi. Da cui poi nascesse il confronto sulle persone da scegliere. C’erano energie che sono state disperse. Tante energie. E invece si è scelta la strada del “tavolo fra le forze politiche”. Interminabili trattative fra partitini inesistenti per decidere chi andava candidato. Esponendosi alle azioni di disturbo di chi ci vedeva come il fumo negli occhi.
Avendo manifestato una forte contrarietà per il metodo e anche per le persone scelte mi è stato prima proposto di candidarmi, nell’ordine: al Comune, come presidente in VII e in VI Municipio. La cosa non mi entusiasmava particolarmente, ma mi misi, come si dice, a disposizione. Poi furono fatte altre scelte, che lessi sui giornali.
Contro di me e contro gli altri compagni che avevano osato dissentire cominciarono a girare le letterine infami. Una sorta di riflesso staliniano che porta chi si sente attaccato a rivolgersi al capo cercando la sua benedizione. La faccio breve perché ho ancora molto da dire: siamo gente con le spalle grosse, le lettere e gli infami ci scivolano addosso.
E in silenzio mi sono fatto tutta la mia campagna elettorale, pacchi di volantini, strada per strada, casa per casa. Strade e case di quella periferia che i leader invocano, ma da rassicuranti distanze. Salvo poi stupirsi se in quelle strade dilagano i diversi populismi. Vi faccio un promemoria: non ci sono soli i 5 stelle, Casapound sta diffondendosi con una rapidità e una profondità impressionante nelle periferie romane. Poi non dite che non lo sapevate.
Continuando in questo racconto, i risultati delle elezioni li sapete. Per la nascente sinistra è stata un risultato rovinoso, altro che storie. Gli eletti si contano sulla punta delle dita. E non è una metafora. Fuori da quasi tutti municipi, salvo che, guarda caso nel centro della città e a Garbatella, dove si ricandidava il presidente uscente, evidentemente molto radicato. Ho provato ad analizzare serenamente il risultato con una lunga lettera inviata ai miei compagni di viaggio, ribadendo il mio giudizio su una campagna elettorale nata male e proseguita peggio. Unica risposta ricevuta, da Fassina: abbiamo fatto il massimo data la situazione.
Ora, sia chiaro, una sconfitta elettorale ci sta. Non hai una forza politica definita e riconoscibile dietro, paghi lo scotto della mancata chiarezza sui valori, sulle prospettive future. E però devi capire dove hai sbagliato e cercare di cambiare strada. E invece che si fa? Si chiude ancora di più il recinto: la coalizioncina elettorale che aveva sostenuto Fassina diventa un’associazione fatta dagli ex candidati, che si scelgono anche un coordinatore e un coordinamento. Tutto questo lo apprendo su Facebook. Nel frattempo lo stesso Fassina riunisce Futuro a Sinistra di Roma e nomina un nuovo coordinatore.
E di Sinistra italiana? Si perdono le tracce. Della costituente dal basso che tutti avevano giudicato come necessaria non se ne parla più, dell’unione con altri partiti e movimenti neanche. Non si fa neanche la fusione tra gruppi dirigenti. C’è solo Sel più alcuni esponenti ex Pd. C’è un comitato esecutivo nazionale, li si discute e si decide. Nulla più.
Io me ne vado in vacanza, dove maturo la decisione, sofferta, di abbandonare l’impegno politico. Definitivamente? Mai dire mai. Ma questo anno vissuto così, la delusione, le speranze disattese, la fiducia che – come è evidente – ho riposto nelle persone sbagliate… insomma mi sono sentito svuotato. Troppa cattiveria per poter portare avanti le proprie idee. Non che la battaglia mi abbia mia spaventato. Ma mica puoi guerreggiare sempre, anche dentro casa. Sono talmente distaccato che mi scordo pure di togliere “militante del Pd” da questo blog. Sta ancora lì.
Insomma ho scelto il distacco totale. Seguendo da osservatore lontano e disincantato le vicende delle sinistre. Da un lato Sinistra Italiana che ha rinunciato a un processo costituente vero e proprio e ha scelto di fatto di fare solo un congresso nazionale per eleggere un segretario. E si sono persi per strada metà o più dei parlamentari. Ai congressi provinciali hanno partecipato, se ho capito bene, circa 8mila persone. Un condominio o poco più. Poi c’è il nuovo campo di Pisapia. In divenire.
E c’è questa vicenda della scissione (forse ci siamo) del Pd. E qui devo fare un po’ di autocritica. Ho sbagliato a lasciare il partito nel 2015. Non perché mancassero le ragioni: continuo a ritenere che andarsene oggi sia una scelta tardiva e poco comprensibile. Ma perché uscendo da solo mi sono auto isolato da quella comunità con cui avevo percorso un tratto importante del mio impegno politico e – in ultima istanza – della mia vita. Un errore, senza dubbio.
Incontrarli di nuovo, all’assemblea che si è svolta sabato a Testaccio mi ha fatto piacere. Non mi sono sentito ospite, la dico così.
E ora che succede? Io sono sempre convinto che non serva un nuovo partito della sinistra italiana. O meglio. Sono convinto che quello debba essere l’obiettivo da raggiungere, ma aprendo l’orizzonte. Facendo rete fra le realtà che ci sono e che vogliono rappresentare la loro identità, la loro specificità. E riprendere un cammino comune non è facile se si chiede di annullarsi. Ancora una volta torna il tema dei ponti. Un movimento plurale dove ci sia spazio per tutti. Non una casa dove si entra bussando, ma un cantiere dove per entrare nessuno ti chiede da dove vieni, cosa hai fatto, quanti globuli rossi hai nel sangue. Perché stare insieme significa arricchirsi se si considerano le storie, le esperienze, le forme organizzative e le diverse intelligenze come parti da esaltare e non come semplici cellule che devono uniformasi. Un partito non si creare fondendo gruppi parlamentari, insomma. Anche se i gruppi parlamentare servono eccome.
Si potrebbe finirla, ad esempio, di dire: il Pd è un alleato naturale oppure mai con il Pd. Io credo che Si debba riannodare un rapporto con l’Italia che la sinistra, nelle sue diverse forme, non ha più. Scuola, lavoro, movimenti, sindacati, un ceto medio sempre più marginalizzato. Chi ci parla più con questi mondi? Chi li ascolta. Da sempre, faccio un esempio, ho ritenuto che lo scontro con la scuola fosse l’inizio del declino del Pd. Perché la scuola rappresenta tutto il paese. Scontrarsi con famiglie, studenti, insegnanti vuol dire litigare con l’Italia. E come ci rimettiamo in sintonia adesso? Non è che bastano i social o le televisioni. O ancora le periferie. Come tornare a metterci piedi e cuore dentro? Come tornare a essere percepiti come un interlocutore utile e non come la peste da evitare? Come si torna a essere presenti nei luoghi del conflitto, come ci si sta dentro e non ci si limita più a descriverlo?
Invece di preoccuparsi delle alleanze, le sinistre si devono preoccupare di ricostruire un rapporto, un intesa con la loro base sociale. Poi le alleanze serviranno. Perché io a essere condannato a essere minoranza non ci sto, non fa parte della mia cultura politica. Alleanze sulle cose, non sulle sigle. Guardando alla realtà non al curriculum. Possiamo dialogare se tu ti fai un giro di campo sui ceci. A me queste cose fanno impazzinre. E dai su, smettiamola di dare giudizi sugli altri e sediamoci ad ascoltarci. Si torni a fare politica. Non comizi, ma luoghi di confronto.
E come si organizza questo movimento? Con quali strumenti di partecipazione? Le primarie modello Pd, altro abbaglio che ho preso anni fa, hanno distrutto la partecipazione, riducendo il partito a un seggio. E adesso che fare? Quale forma dare all’impegno? Come si seleziona, oggi, una nuova classe dirigente? Vogliamo puntare ancora sulla fedeltà al capo? Occhio che così si producono i Rondolino e gli Orfini.
Pongo domande, non credo che nessuno abbia la risposta. Di certo c’è bisogno di un luogo dove si provi a darne qualcuna di risposte. In questo luogo, se mai ci sarà, metterò la mia passione e la mia intelligenza.
Piccoli stalinisti alla corte di Renzi
Quello che vi racconto oggi è un piccolo esempio di come si costruisce un piccolo quanto inutile falso mediatico. Siamo alla periferia di Roma, assemblea organizzata da due circoli del Pd, con un parlamentare della minoranza. Introduzione della segretaria del circolo, molto critica con il partito. Poi una cittadina, ex iscritta al Pd, interviene con molta passione. E’ una insegnante e fa un lungo discorso, vero, si sente che è lacerata da una riforma che mette in discussione la sua stessa vita. Nel corso dell’intervento a un certo punto strilla “Renzi è un fascista”, applaudita da una parte – minoritaria – della platea. In tutto una cinquantina di persone. Ci sono molti insegnanti.
E’ un piccolo circolo di periferia, un quartiere di poche migliaia di abitanti. Cinquanta persone sono una folla. Subito dopo interviene un anziano cittadino di quella zona, che sta registrando tutto sulla videocamera e dice: ma come mai non le avete detto nulla, ci sono i segretari di due circoli del Pd, difendete Renzi.
Nei successivi interventi, in realtà sono molte le persone che dicono: guarda che il tema non è questo, Renzi non è fascista. Argomentano anche. C’è chi lo definisce un principe machiavellico. C’è anche chi dice che sarebbe pure meglio, perché avresti individuato l’avversario. Chi, come il segretario del secondo circolo dice che secondo lui Renzi è il prodotto ultimo del fallimento della sinistra italiana negli ultimi venti anni Alla fine interviene il deputato presente, Stefano Fassina. Che fa un appassionato intervento, anche lui dice che è sbagliato definire Renzi fascista. E annuncia che gli spazi per fare una lotta di minoranza all’interno del Pd sono sempre più ristretti.
Succede che alla fine della manifestazione, senza dire nulla a nessuno, ma ovvviamente è nel suo diritto, l’anziano cittadino pubblica il video del suo intervento e quello di Fassina in un oscuro gruppo su facebook dove però ci sono anche degli esperti di comunicazione.
Ad esempio c’è Massimo Micucci, che conosco fin dai tempi della Point, una delle prime società dove ho lavorato. Un vecchio lupo passato per il gruppo dei D’Alema Boys a Palazzo Chigi, per le varie società di Velardi. Adesso a quanto ho capito si occupa di cinema, al Roma film festival. Insomma uno che c’ha mezzo metro di pelo sullo stomaco, uno di quelli che cadono sempre in piedi.
Insomma per farla breve, prende questo video e lo pubblica su youtube. E fin qui ancora nulla di male. Anzi il video viene ripreso dalle principali testate nazionali, ha migliaia di visualizzazioni. E tra l’altro è un video molto vero, Il vento, le bandiere al tramonto. Insomma molto fico dal punto di vista della comunicazione. Chissà se Micucci è d’accordo, lui che è uno di quelli abituati a costruire campagne finte a tavolino. Spesso sono più efficaci queste cose qui. Pochi secondi di parole chiare, senza effetti speciali.
Ma il Micucci non è neutrale e deve provare a disinformare, chissà se è solo un atavico riflesso dei tempi che furono oppure è proprio un mestiere. E allora ci mette una bella didascalia, su youtube. “Dopo che una ex iscritta ha appena detto che Renzi è fascista, senza che né Fassina né i due segretari di circolo fiatassero, Fassina annuncia che lascia il PD”.
Ovviamente, se avete avuto la pazienza di leggere quello che ho scritto, è completamente falso. E chiedo subito a Micucci di cancellare la didascalia.
Quello che segue è il dialogo con il personaggetto di cui sopra. Si commenta da solo, ma ci dà un esempio, in piccolo, di come si crea un falso.
Io: “Come ti ho scritto su youtube: Libero di pubblicare quello che vuoi, ma non di scrivere cose false. Ai sensi della legge sull’editoria ti invito a cancellare quanto prima quella frase in quanto non corrispondente al vero”.
Micucci: “Quale frase?”
Io: “Quella con cui commenti il video di fassina. è falsa. Come ho scritto ampiamente non è vero che nessuno abbia risposto alla compagna che ha dato del fascista a Renzi. Semplicemente nessuno l’ha interrottta, io sono abituato così. ma perche devi fare battaglia politica scrivendo falsità”.
Micucci: “Senti hai fatto della ironia sulla scorta a Orfini chiamandola arma di distrazione di massa, per questo ti ho rimosso dagli amici. Non meriti considerazione, ma biasimo.ti consiglio sobrietà”
Io: “Ok, vado: hai scritto una cosa falsa. dopo l’intervento di una cittadina in una piazza, non in una sede di partito, almeno altri cinque interventi hanno detto “guarda che non è vero”. Compreso il mio.
Per quanto riguarda la scorta di orfini:
1) il mio spazio su facebook è uno spazio satirico
2) rispondevo a un compagno che mi diceva: confessa che le minacce anarchiche a Orfini sei stato tu a farle
dopodiche
i metodi sono sempre gli stessi
buona giornata.
Micucci: “Scrivilo pubblicamente, ne prenderò atto con piacere, nonostante le tue ridicole minacce. Anche se confermi che non hai fiatato durante l’intervento ed un tempo non sarebbe accaduto. Confermi anche che hai ironizzato sulla scorta di Orfini. Ma che vuoi che ti dica che hai perso la testa? Mi spiace per te”.
Io: vabbeh lascia perdere fiato sprecato”.
Ovviamente è un dialogo privato, non è corretto pubblicarlo. Ma come si dice… a brigante brigante e mezzo. Quel video in poche ore ha avuto più di duemila visualizzazioni. E tutti hanno dovuto leggere come didascalia una cosa meramente falsa. Non vale la pena di querelare i due signori per diffamazione, avrei la sentenza fra qualche anno dopo aver speso un sacco di soldi. Ma di sputtanarli, nel mio piccolo, sì.
Perché io faccio il giornalista, questi personaggetti fanno solo danni al padrone di turno. Ieri D’Alema oggi Renzi.
Caro Renzi questa volta ti scrivo io…
Lettera dal segretario di un circolo di periferia
Caro signor Renzi, segretario del Pd nonché presidente del Consiglio e chissà cos’altro, chi le scrive è un segretario di un piccolo circolo del Pd della periferia di Roma, il circolo Capannelle. Nel 2014 dei 69 iscritti dell’anno precedente siamo rimasti in 42,. Tessere gonfiate nel 2013? Neanche per niente. In gran parte si tratta di persone deluse dal suo governo, anzi le dirò di più, proprio da alcuni dei punti che lei cita nella sua sconcertante lettera.
Sconcertante per due ragioni, la prima di merito. E’ zeppa di falsità. Si parla del jobs act come del provvedimento che sta garantendo diritti a centinaia di migliaia di giovani, quando quel provvidemento i diritti li toglie. I nuovi contratti a tutele crescenti firmati non sono dovuti all’eliminazione dell’articolo 18, ma al fatto che chi assume con quella forma non dovrà pagare contributi per tre anni, fanno 24mila euro risparmiati, secondo gli economisti. Che poi qualcuno mi dovrebbe spiegare quali sono queste tutele che crescono. Quando quel tipo di contratto fu ipotizzato, infatti – penso alle tesi di Ichino – si ipotizzava che nei primi anni di assunzione fossero sospesi alcuni diritti, alcune forme di tutela, come appunto il diritto al reintegro nel caso di licenziamento senza giustificato motivo. Adesso no e quindi non si capisce bene quali tutele crescano. Verrebbe da dire: “Lo sapremo fra tre anni”. Già, ma resta l’interrogativo: non è che fra tre anni, finita la decontribuzione, l’onesto imprenditore italico licenzia il lavoratore e fa ripartire la giostra con un nuovo contratto?
Per quanto riguarda, invece, la scuola, siamo davvero alle comiche. Il provvedimento da lei voluto non è stato preceduto per niente da quel lungo processo di partecipazione a cui fa riferimento, ma da una consultazione farsa che ha coinvolto pochi intimi. Altrimenti non si capirebbe come mai contro la cosiddetta riforma della scuola si sia creato uno schieramento di un’ampiezza mai vista, che va, in pratica, dai naziskin alle brigate rosse. Non sono un esperto di scuola e di formazione, m a ci sono alcuni aspetti che risultano evidenti. Lei dice che con la sua riforma viene introdotta l’autonomia scolastica. A me risulta che siano state le (troppe e troppo ravvicinate) riforme precedenti a introdurla e rafforzarla. Di questo provvedimento saltano agli occhi altre cose: vengono marginalizzati gli organismi collegiali introdotti nella scuola negli anni ’70 del secolo scorso, si dà potere totale al preside che diventa un dominus assoluto. Gli manca lo jus primae noctis, ma magari con un emendamento… Ma soprattutto si porta a compimento quel devastante processo di trasformazione della scuola della conoscenza in scuola della competenza che tanto caro era a Berlusconi. Devastante perché chi ha la conoscenza è in grado di acquisire man mano le competenze che il mondo del lavoro gli richiederà, mentre chi ha solo competenze specifiche a quelle sarà sempre limitato. La progressiva marginalizzazione delle materie umanistiche a questo porta.
Gli studenti che usciranno da questa scuola saranno meno cittadini, avranno menti meno aperte. In tutto il mondo gli studenti italiani sono sempre stati apprezzati per il alto livello di preparazione e per la loro agilità mentale. In tutto il mondo meno che in Italia, a quanto pare.
L’altro aspetto inquietante è quella forma di ricatto strisciante che è presente nella legge: approvatela in fretta perché permetterà di stabilizzare decine di migliaia di precari. Ora, a parte il fatto che ci si dimentica – e non si capisce bene per quale motivo – di alcune migliaia di professori che avevano vinto i concorsi e che vengono cancellati, non si poteva fare un provvedimento ad hoc, slegando le assunzioni dalla riforma vera e propria?
Cambiare radicalmente il nostro sistema scolastico non può essere fatto in fretta e furia, con i tempi contingentati perché bisogna assumere i prof in maniera da poter fare partire regolarmente il nuovo anno scolastico. Per esempio a me sarebbe piaciuto discutere di come si rafforza la collegialità di un istituto, non di come si cancella. Di come si rinnovano quelle forme di partecipazione alle decisioni che hanno anche un profondo significato formativo. Già, mi sarebbe piaciuto avere una sede e un partito per discutere di questi temi.
Le balle continuano, nella sua sconcertante lettera, quando parla della riforma elettorale. Si perché lei definisce la legge in discussione alla Camera, come la proposta del Pd: approvata dagli elettori con le primarie e poi modificata secondo i desideri della minoranza del Pd. Ora, a parte che le due affermazioni sono in evidente contraddizione: se la proposta è stata modificata non è detto che gli elettori la approvino ancora, ma l’affermazione alla base del suo ragionamento è destituita di ogni fondamento. Alle primarie lei, infatti, non presentò alcun disegno di legge, ma tratteggiò soltanto per grandi linee il modello elettorale che avrebbe voluto. Fece riferimento al concetto di “Sindaco d’Italia”, al fatto che serviva una legge che garantisse un vincitore “subito dopo la chiusura delle urne” e poco più. Le sarà facile comprendere come ci sia una pluralità di soluzioni differenti per raggiungere questo risultato. La legge da lei proposta io come segretario di circolo non ho mai avuto modo di discuterla. A nessun livello.
Poi c’è questa sgradevole chiamata alle armi contro i supposti traditori della minoranza Pd, quelli che vorrebbero sfasciare la ditta, non come, si legge nella lettera, fece lei che sostenne lealmente il Pd dopo aver perso le primarie.
Ora, signor Renzi, io ho scarsissima stima nei suoi confronti, quasi nulla. Come mai? Perché a me chi cerca di gettare fumo negli occhi del suo interlocutore usando tecniche da televendita non è mai piaciuto. Si figuri se mi può piacere un segretario del mio partito con queste caratteristiche. La comunicazione è solo fumo senza i contenuti. Quel fumo prima o poi si dirada e rivela il nulla.
La mia stima nei suoi confronti precipitò da quando pretese di cambiare lo statuto per fare le primarie contro Bersani che era già il nostro candidato a presidente del Consiglio, eletto proprio con le primarie. La mia stima nei suoi confronti arrivò a zero quando si ribellò contro l’albo degli elettori, chiedendo che ci si potesse registrare fino all’ultimo minuto (e così fu). La mia stima nei suoi confronti arrivò ai numeri negativi quando sempre lei chiese che ci si potesse iscrivere anche fra il primo turno e il ballottaggio. Che sarebbe un po’ come se una squadra di calcio, in svantaggio nel primo tempo, chiedesse di giocare il secondo tempo in 15. E quando le fu risposto di no, lei che dice che vanno rispettate le regole se si vuole stare nello stesso partito, fece un sito internet nel quale si truffavano gli elettori, illudendoli che per votare bastasse iscriversi al medesimo sito. Ora i suoi fedeli parlano della necessità di regolamentare le primarie, istituendo un albo degli elettori al quale ci si deve iscrivere ben prima del voto. Le stesse regole che gli stessi suoi fedeli giudicavano degne del Pcus quando si pensava che fossero un elemento che non giocava a suo vantaggio. Vede è questa concezione che ci divide: per lei è giusto solo quello che le garantisce più potere. Ma una legge elettorale non deve essere fatta a vantaggio di una parte sull’altra, non deve garantire il potere a qualcuno, deve garantire tutti i cittadini, tutte le parti in gioco. E deve garantire soprattutto il diritto di una minoranza di controllare l’operato del governo e di poter in futuro diventare maggioranza. Nella nostra Costituzione sono presenti una serie di pesi e contrappesi, che proprio questo scopo hanno: quello di non dare troppo potere a un singolo soggetto. Un sistema che viene scardinato nei suoi capisaldi se leggiamo i risultati che si otterrebbero combinando la legge elettorale alla riforma costituzionale in discussione al Senato.
Si potrebbe continuare nel merito. Si potrebbe parlare a lungo, ad esempio dell’aberrazione giuridica che abbiamo pervicacemente voluto: invece di garantire un procedimento penale rapido si allungano i tempi della prescrizione. Con il risultato che chi è colpevole riuscirà a tirarla ancora più alle lunghe, mentre chi è innocente dovrà aspettare ancora più a lungo per riuscire a dimostrarlo.
Potrei continuare, dicevo, ma mi fermo qui. Perché per me, oltre ai motivi di merito, ce n’è uno di metodo che è dirimente. Io mi sono francamente rotto tutto quello che è possibile rompere: non è possibile stare in un partito dove gli iscritti non decidono mai nulla, neanche sulle questioni fondamentali come una riforma costituzionale. Perché mica è vero che le riforme siano essenziali per migliorare il nostro Paese. Possono esserlo se vanno nella direzione giusta. Ma possono anche affossarlo definitivamente. Non voglio consegnare a mio figlio un paese meno democratico, con meno spazi di partecipazione, con meno diritti per i lavoratori. Non parli quindi a nome mio, perché a me, come a tutti gli iscritti al Pd non ha dato modo di esprimersi. Invece di una lettera nella quale si invita a prendere le armi contro chi – a parer suo – vuole confinarci nella palude, avrebbe dovuto chiedere ai circoli di avviare una grande campagna di ascolto e di confronto nella società. Con gli studenti e i professori, con quei sindacati che lei, come del resto alcuni suoi poco illustri predecessori a Palazzo Chigi, detesta. Perché un partito non è una semplice cinghia di trasmissione della volontà del capo assoluto. E non è neanche un luogo dove una maggioranza decide e gli altri eseguono. Un partito è una comunità in cui si discute, ci si confronta e ci si convince anche di ragioni diverse dalle nostre. Ma soprattutto un partito è vivo se è un luogo aperto alla società, se ha le sue antenne ovunque. Lei, evidentemente, di queste antenne non ritiene di aver bisogno: altrimenti si sarebbe accorto che tanti dei provvedimenti che cita nella lettera al nostro elettorato non vanno proprio giù. Lei non se ne cura. Altrimenti si preoccuperebbe non tanto e non solo delle percentuali dei voti al Pd, ma anche del numero di voti, rimasto sostanzialmente invariato. So preoccuperebbe della partecipazione che crolla, del clima di crescente sfiducia dei cittadini.
Su questi e altri punti mi piacerebbe avere occasione di discutere. E invece no. Ci si chiede un appoggio alla cieca, sulla fiducia. Non è questo il partito che abbiamo provato a costruire. Qua ci scrivono tutti, ci scrive il commissario che ha inviato per smantellare quel poco che restava della federazione romana, ci scrive lei. Mai nessuno che provi a consultarci, a chiederci cosa ne pensiamo, invece di chiamarci alle armi. Ma quello che lei vuole non è un partito, non è una comunità. Lei non vuole rappresentare gli iscritti, come dovrebbe fare un dirigente, lei ha bisogno di altro, di una mera cassa di risonanza per le sue decisioni. Non ci sto. E con me tanti altri che non hanno rinnovato la tessera nel 2014 e non la rinnoveranno nel 2015.
Se trova un paio di ore, signor Renzi, il nostro circolo è sempre disponibile per una discussione franca, come si fa in una comunità politica. Altrimenti alle armi ci vada da solo, si accontenti dei suoi fedeli, non avrà le persone libere come me e tanti altri.
Michele Cardulli
Segretario Circolo Pd Capannelle – Roma
Un treno nella storia
“Appia Antica Station”
Una stazione del treno dentro la più grande area archeologica del mondo, a cavallo tra due splendidi parchi. Io mi immagino cosa succederebbe in qualsiasi altro paese, se avesse questa possibilità. Qua, quando ne parli, ti prendono per un marziano e ti rispondono con il solito “non ci sono i soldi”.
Lo dico subito, l’idea originale non è mia, ma del presidente del Comitato di quartiere Statuario-Capannelle, Guido Marinelli. Me l’ha illustrata nel corso di un incontro organizzato dal circolo del Pd e ho avuto una specie di illuminazione.
Andiamo con ordine. Nel piano regolatore è già prevista una stazione sulla vecchia Roma-Napoli, adesso scarsamente utilizzata dopo l’apertura della linea ad alta velocità. La stazione doveva nascere a via Polia. E sembrerebbe una semplice fermata di quartiere, lungo una delle linee che dovrebbero diventare una futura metropolitana di superficie.
E invece – l’idea è semplice ma proprio per questo formidabile – potrebbe diventare una vetrina di Roma nel mondo. Perché, guarda caso la fermata si trova in pieno Parco degli Acquedotti, ma soprattutto a poche centinaia di metri dall’Appia Antica. Insomma a Roma si potrebbe arrivare in treno dentro l’area archeologica più grande del mondo.
All’idea originaria aggiungo qualcosa di mio. Secondo me la stazione andrebbe spostata direttamente sull’Appia nuova, proprio davanti a quella che, nei progetti della giunta comunale dovrebbe diventare “la porta di accesso al Parco dell’Appia Antica”.
In questa maniera, infatti, avremmo anche un nuovo nodo di scambio per chi arriva in macchina dai Castelli romani e la stazione avrebbe così una doppia valenza, sia turistica che di alleggerimento per la linea A della metropolitana. Dico di più, in questa maniera si troverebbe proprio davanti alla Villa dei Quintili. Un altro gioiello straordinario e ancora poco conosciuto.
Ci metto ancora del mio. Mi immagino un grande concorso di idee internazionale per dare una veste architettonica adeguata a quello che, lo ripeto, potrebbe diventare uno straordinario biglietto da visita per Roma in tutto il mondo. Mi immagino molto legno e vetro, una struttura leggera e luminosa. Immagino anche una stazione che sia davvero una porta per l’archeologia. E allora un punto di informazioni adeguato, un servizio di guide. Un punto di bike sharing, ma anche una ciclofficina, archeo-percorsi con app dedicate.
I soldi? Ragazzi, basta con il ritornello della crisi e dei fondi che mancano e dei tagli inevitabili. Intanto il nostro Paese, se vuole ripartire, deve fare delle scelte. E quella di valorizzare il nostro patrimonio dovrebbe essere obbligata.
E poi, facciamo uno sforzo di fantasia. Andiamo dalle più grandi aziende del mondo, andiamo da Apple, da Microsoft, da Google. I nomi sono ovviamente solo a titolo di esempio. E proponiamogli di unire il loro marchio a un’operazione di questo tipo. Immagino anche lo slogan: “Chi cerca il futuro ama la storia”. Io non credo che aziende di questo tipo sarebbero insensibili al fascino mediatico di un’operazione di questo tipo. Appia Antica Station, si può fare. Basta essere un po’ meno provinciali.
Marino e Zingaretti: sveglia!
Prove tecniche
di Grillocrazia
Quando non sai come cavartela “buttala in caciara”, si dice a Roma. E quando sei spiazzato dall’asse Renzi-Berlusconi, che ti relega da settimane nelle pagine interne dei giornali e fra le ultime notizie dei Tg, bisogna alzare il tiro dello scontro. Per cui arriva Casaleggio in visita e parte l’ordine: d’ora in poi si fa casino.
Si potrebbe anche spiegare così il crescendo di insulti e violenze messo in campo dal M5S in questi giorni. Un tentativo di riconquistare la centralità mediatica, tanto disprezzata quanto essenziale nella strategia di Grillo e Casaleggio. E del resto – dall’assalto alla presidenza della Camera fino ai libri di Augias bruciati – di materia a sostegno di questa tesi ce ne sarebbe in abbondanza.
Eppure c’è dell’altro. Perché quando guardi i grillini parlare capisci che – in molti di loro – non c’è un atteggiamento tattico, studiato a tavolino. Al contrario, c’è un sincero fastidio nei confronti di chi non soltanto non la pensa come loro, ma addirittura prova a dirlo apertamente. Nei loro interventi c’è una sincera sorpresa: non si capacitano del fatto che una persona per bene possa pensarla in maniera differente dalla loro. Nei loro occhi – basta pensare alla faccia del giovin deputato Di Battista che spiega alle telecamere “bisogna sbugiardarli così”, dopo aver impedito al capogruppo del Pd alla Camera di rilasciare un’intervista – si legge una convinzione, un ardore quasi religioso. Sono convinti di essere portatori della Verità. Non di una posizione politica, ma della Verità assoluta, quella con la V maiuscola. Non sono rappresentanti del popolo, sono “i” rappresentanti del popolo. Gli altri? Polli da batteria – nella migliore delle ipotesi – i maschi, dispensatrici di pompini, le donne. Non sono insulti, badate bene. E’ sincero disprezzo verso chi non “crede”. Non c’è manco la pietas cristiana, ma piuttosto la furia dell’inquisizione che pretende la confessione di chi ha peccato, del blasfemo, della strega.
E la stessa cosa succede in rete. Provate a scrivere qualcosa che non sia meramente elegiaco nei confronti di Grillo su un social network e subito compariranno quattro o cinque sacerdoti della verità che vi rimetteranno a posto. Del resto la forza del comico genovese sta proprio nella sua carica messianica. Un consumato uomo di spettacolo che usa un’indubbia bravura e un carisma spesso travolgente per abbagliare masse di fedeli. Non c’è il ragionamento, l‘informazione, l’approfondimento di un tema. Ci sono poche paginette di slogan ripetuti in maniera ossessiva. Quasi come un moderno rosario.
Non c’è soltanto la ricerca dell’uomo forte, sport sempre più praticato a destra come a sinistra, dove si stanno faticosamente cercando di recuperare decenni di “ritardo”. Grillo è qualcosa di più. La Grillocrazia è un mondo perfetto dove i politici sono “cittadini portavoce” che non hanno autonomia: neanche delegati, ma meri esecutori. E’ quel mondo perfetto dove “uno vale uno”, dove la democrazia si esercita sempre, ma solo fino a quando non si va contro il guru.
Perché sarà anche vero che “uno vale uno”, ma, come in una sorta di “fattoria degli animali” fatta realtà, c’è un “uno” che vale per tutti.
Ecco spiegata la gogna, gli insulti, i libri bruciati. Le religioni non tollerano chi la pensa diversamente. Le differenze diventano solchi profondi da non scavalcare mai. Barriere, muri nati non per proteggere, ma per escludere. Se è vero che la politica – e in particolar modo la democrazia – rappresenta la trasformazione del nemico in avversario, e quindi il riconoscimento della diversità come ricchezza, la Grillocrazia ritorna all’età dell’ascia e delle capanne. L’avversario non solo torna ad essere nemico e quindi un soggetto da abbattere, ma diventa addirittura infedele al quale, nella migliore delle ipotesi, può essere concesso il pentimento. A cosa può mai servire un “Parlamento”, luogo in cui si cerca di convincersi reciprocamente, quando c’è una verità incontestabile da seguire?
Ecco perché sono pericolose queste ultime giornate, non tanto per l’attacco sguaiato alla Boldrini o a Napolitano. Non sono loro, come non è la stampa, il vero obiettivo. Sono le istituzioni, le sgangherate istituzioni di questo sgangherato paese. Sgangherate, ma ancora terribilmente eretiche rispetto al verbo del duo Grillo-Casaleggio.
Cari 101 piccoli infami.
Lettera aperta ai franchi tiratori
Cari 101 piccoli infami, la razza di chi ti dice una cosa in faccia e poi ti pugnala alle spalle mi ha sempre dato fastidio. Ma poi ho imparato a riconoscervi da lontano. Siete di due specie differenti. La prima è fatta da quelli che sono i tuoi più grandi amici, quando ti incontrano sono i primi a venirti incontro,baci abbracci e sorrisi.
La seconda è fatta da quelli che non hanno ancora abbastanza pelo sullo stomaco ed evitano lo sguardo. In tutti e due casi siete persone piccole. Che di mestiere facciate il segretario di una sezione di periferia o i parlamentari, non importa. Non è la carica a qualificare la levatura morale di una persona.
Vedete, cari piccoli infami, io sono di quelli che le cose le dicono sempre in faccia. Che magari a volte esagerano. E che sanno chiedere scusa quando sbagliano. Sempre fieramente perché, mi diceva mia nonna, l’unico che non sbaglia mai è quello che non fa niente.
Insultiamoci, accapigliamoci, prendiamoci pure a parolacce, ma sempre in faccia mai alle spalle.
Voi, invece, siete quelli che inneggiate all’unità del partito, che fate la faccia schifata quando qualcuno dice la verità, magari brutalmente: “Non sono cose da dirsi, perché fanno male al partito”.
E invece, cari piccoli infami, al partito fanno male le vostre ineffabili facce di bronzo. Fanno male i vostri culi che –su questo ci metterei la mano sul fuoco – non s sposteranno mai da quelle poltrone. Perché non voi non esponete mai il petto di fronte all’avversario, tutt’altro. Ci mandate il vostro vicino di banco a combattere. Lo spronate, gli dite vai. E voi sempre imboscati. Non intervenite nelle assemblee, ci mancherebsebe altro. Non dite mai: caro compagno hai detto una cavolata. No, voi vi tirate di gomito con il vicino, con la mano davanti alla bocca per nascondere il vostro sorriso divertito.
Se siete persone, se volete dirvi degni di appartenere a una comunità politica, fatevi avanti per una volta e dite: “Sì non ho votato Prodi, mi dispiace ma non ero d’accordo”. Oddio, se lo aveste fatto stamani, magari avremmo evitato l’ennesima figura di merda, ma va bene lo stesso. Fate outing. Fateci capire perché avete messo l’ennesima pietra su un partito che soltanto nel 2008 era la grande speranza degli italiani.
Voi siete gli stessi che mentre votavano compatti per Veltroni alle primarie già cominciavano a preparare gli agguati. Siete quelli che hanno fatto cadere il governo Prodi.
Ora Bersani avrà anche fatto errori molto gravi. Ma perché non vi siete alzati in direzione nazionale? No, ma ti pare che fate vedere le vostre facce da becchino dell’800? No, mentre votavate sì, già pensavate: ”Tanto un mesetto e lo cuociamo”.
Adesso basta, cari piccoli infami. Non vi meritate la nostra passione. Le notti passate a discutere, le mattinate al freddo nelle cento campagne elettorali che abbiamo fatto. Non vi meritate manco i due spesi per votarvi alle primarie, figuriamoci le alzatacce all’alba per permettere a tutti di votarvi. Fatevi vedere. E, una buona volta, andatevene. Perché non ne possiamo più.
Ora per vincere serve il Pd. In campo per davvero
Finita la giostra delle primarie, bisogna dire che mediamente gli elettori del centrosinistra sono migliori di noi. Il quadro dei candidati in campo, dal Comune ai Municipi mi sembra complessivamente credibile, rinnovato, con alcune punte di eccellenza. Poi non tutto va come uno vorrebbe, ma la perfezione si sa…
Parto dal candidato Sindaco. Ripeto quanto ho detto in tutta la campagna per le primarie e provo ad andare oltre. Secondo me Marino da solo non basta per vincere Roma. Sicuramente ha il merito di averci evitato Sassoli – e non è poco – ma da oggi gli avversari si chiamano Berlusconi e Grillo. Sperando che il livello nazionale non ci sommerga, avremo i due leader schierati a Roma per un mese.
Sicuramente Marino è un candidato che ci garantisce su un fronte importante: moralità e trasparenza. Quell’aria da bravo ragazzo, la sua pacatezza nel rispondere, il modo di sorridere, sono gli elementi che ne fanno un candidato che buca nell’opinione pubblica. In primarie tutte concentrate sui municipi (una sorta di guardarsi l’ombelico e pensare che sia l’universo) c’è stato meno voto organizzato sul livello comunale. Il leit-motiv era: vota tizio per il municipio, per il Comune fai quello che credi. E se si confrontano seggio per seggio i risultati dei candidati municipali “sassolini” con il risultato al Comune di Marino, il tema è evidente. Marino capovolge i rapporti di forza delineati nei municipi.
La sua storia, il suo modo di fare politica, un po’ da esterno senza mai però alzare troppo i toni, ne fanno un candidato credibile per l’elettorato di centro sinistra. Si può ipotizzare un recupero di quel voto che alle politiche è andato a Grillo ma che, a distanza di pochi secondi, si era già indirizzato su Zingaretti.
Si dice: vabbeh ma Roma è la capitale del cattolicesimo. Faccio notare che alle Regionali del 2010 Emma Bonino, ovvero una sorta di Satana in gonnella, a Roma portò via il 54 per cento dei voti. Quindi non mi sembra questo il tema vero.
Il dato delle primarie ci dice Marino sfonda nelle periferie, proprio lì dove Grillo alle politiche è stato primo partito ovunque. E sfonda in quelle periferie che spesso sono state accusate di essere la patria del voto di scambio. Devo dire, è solo un inciso, che a me sono sembrate primarie generalmente corrette. Molto più che in passato. Abbiamo imparato a limitare ed emarginare i fenomeni clientelari che pur esistono. Si può ancora migliorare, ma siamo sulla strada giusta.
Il punto, secondo me, è che Marino, per vincere non deve essere solo e deve essere capace di allargare il campo. Bene, insomma, il suo essere personaggio civico più che politico. Ma adesso servono le idee, le persone, una squadra che, tutelando queste caratteristiche preziose, lo accompagnino in una sfida complessa, lunga. Roma è una città difficile. Che ti ama e ti odia. Ti coccola e ti prende a calci nel sedere. Non basta dire di amarla, devi imparare a sentirne il respiro, a capire in anticipo quale sarà l’emergenza di domani. Credo che Veltroni in questo fosse straordinario. Serve un campo di forze ampio, non tanto in senso politico, ma sociale. Serve un blocco che senta Marino come il proprio candidato. E questo si fa mettendo in campo, da subito una squadra larga, rappresentativa di questa città. Si fa uscendo dall’etichetta di candidato della sinistra e basta, mettendo le mani nei problemi quotidiani di questa città. Per fare il sindaco dei romani devi andare oltre. Altrimenti c’è il rischio di andare lindi e puliti contro un muro. A posto con la coscienza ma irrimediabilmente perdenti.
Marino deve dire cosa vuole fare sui grandi temi, dall’urbanistica, alla mobilità. Ricordandosi sempre, però, che questa è una città che ha fame. Che manca il lavoro. Che la disoccupazione giovanile è un livello intollerabile. Deve saper parlare al cuore della sinistra, deve far tornare in campo anche alle elezioni “vere” quel voto di opinione senza il quale si perde. Sempre. Ma deve dare anche risposte alle ansie quotidiane dei cittadini, dalle buche, ai rifiuti, agli autobus scalcinati. Al lavoro, lo dico ancora una volta.
Io credo che per fare questo serva l’unione fra forze sociali e partiti della coalizione. E serva innanzitutto il Pd. Che non si deleghi, ancora una volta, la campagna elettorale ai soli candidati al consiglio comunale. Mettiamo al servizio del candidato sindaco le nostre idee alle quali abbiamo lavorato in questi anni e le nostre persone migliori. Scelga lui. In assoluta libertà chi crede sia più utile a costruire un progetto per Roma. Ce la facciamo a fare questo? Questo, malgrado sia un po’ scassato, resta un partito grande, forte e generoso. Ricco di intelligenze. Mettiamole in campo.
I Municipi
Quello del voto municipale è l’aspetto che, diciamo la verità, ci ha occupato di più in tutta la campagna per le primarie. I risultati mi sembrano positivi, con una squadra di candidati, nel complesso, giovane, rinnovata e soprattutto all’altezza della sfida che ci attende.
Alfonsi, Torquati, Santoro, Veloccia, Marchionne. Cito solo quelli che conosco un po’, nessuno si offenda. Mi soffermo, in conclusione sul risultato del VII Municipio (ex IX e X) dove le cose sono state complicate dall’accorpamento “a freddo” deciso dalla destra proprio alla vigilia delle primarie. Io credo che possa rappresentare un modello di cosa il Pd non deve fare. Nessuna selezione delle candidature, troppi candidati competitivi. Non è un giudizio di valore. Ma faccio notare che, soltanto limitandosi ai due candidati ex Ds, Franco Morgia e Fabrizio Patriarca, la somma dei loro voti doppia il risultato della candidata vincente, Susanna Fantino di Sel. Che ha avuto una buona affermazione, ma che sarebbe rimasta lontana dal primo posto se fossimo riusciti a fare sintesi. Mi ci metto anche io, anche se ho provato fino all’ultimo a trovare una soluzione più unitaria. Non ci sono riuscito e quindi sono parimenti responsabile rispetto agli altri.
In sintesi e per non annoiarvi oltre, Io credo che di quella squadra larga i primi attori debbano essere proprio i candidati presidenti. Sono loro che sentono il respiro della città più da vicino. Mettiamoli in condizione di lavorare da subito per il nostro Bene Comune, Roma.
Perché non posso votare Sassoli
La vicenda di questi giorni, quella dei manifesti abusivi, in sé, non sarebbe neanche un granché. Se non si dovesse votare chi fa manifesti abusivi non avremmo più rappresentanza istituzionale a tutti i livelli o quasi. Quello che è grave, secondo me, sono le risposte date da David Sassoli e dal suo comitato. Read more »
Con Bersani e Zingaretti.
E con Flavia alla Regione
Brutta o bella che sia stata, ormai la campagna elettorale è agli sgoccioli. Due sole notazioni su questo. A Roma è stata l’ennesima campagna elettorale dove il partito è stato quasi del tutto assente. La campagna elettorale è stata come di consueto subappaltata ai candidati alla Regione. Come si sono comportati? Un po’ meglio rispetto al solito. Ma neanche tanto. Invasioni di manifesti, mega cene. Il tutto in calo rispetto al passato, ma c’è stato. Andava eliminato alla radice, secondo me, perché quando si spendono centinaia di migliaia di euro per essere eletti alla Regione, oltre ad essere fuorilegge, si dovrà anche rispondere ai finanziatori. E quindi, almeno questa volta, si potevano evitare le cene da duemila persone, le centinaia di migliaia di manifesti affissi in tutta Roma e Provincia, le pubblicità ossessive sulle fiancate degli autobus. Si poteva e si doveva evitare perché se magari porterà qualche preferenza in più all’aspirante consigliere, al tempo stesso ce ne fa perdere fra le tante persone che sono stanche di una politica dai costi milionari. Qualche commissione di garanzia prima o poi dovrà capire quanto si spende in una campagna per le regionali. Magari prima che lo faccia qualche procura.
Serviva il partito, serviva una regia romana e regionale che, come avviene ormai da anni, è mancata.
I dirigenti si sono limitati a partecipare alle iniziative dei candidati. Non può bastare. Soprattutto con lo sguardo rivolto agli appuntamenti che ci aspettano nei prossimi mesi. Riuscirà il Pd di Roma a mettere in piedi un ragionamento collettivo, una campagna di comunicazione comune, oppure si limiterà a tirare la volata a qualcuno? Riuscirà a porsi alla testa di un movimento di popolo per liberare la città da questo sindaco deprimente?
Detto questo, ci siamo. Fra poche ore si vota. E, con tutte le nostre pecche abbiamo la concreta possibilità di cambiare, sia in regione che a livello nazionale. Da ragazzino mi emozionavo quando Pajetta finiva i comizi del venerdì dicendo: Ricontattate gli incerti, telefonate a tutti i vostri amici e parenti. Ricordate che bisogna continuare a lavorare fino alla fine, perché anche un voto può essere decisivo.
Nessun messaggio può essere più efficace in queste ore.
Cosa votare e come votare: Senato e Camera solo una croce sul simbolo del Pd. Alla Regione una croce sul simbolo vale anche come voto a Nicola Zingaretti. E poi si può esprimere una preferenza, badate una sola, altrimenti si rischi di annullare la scheda.
A chi dare questa benedetta preferenza?
Francamente non mi permetto di dirvi chi votare, chi sarebbero i presunti migliori. Ognuno di noi ha la testa per scegliere. Vorrei, più umilmente, dire chi ho scelto e perché.
Fin dall’inizio di questa avventura ho lavorato e sostenuto Flavia Leuci. Per tre ragioni.
La prima è che di Flavia mi fido. La conosco da anni, siamo stati spesso dalla stessa parte della barricata, ma anche quando non siamo stati d’accordo è sempre stata leale e trasparente. E in Regione di lealtà e trasparenza ne abbiamo davvero bisogno.
La seconda è che la l’esperienza necessaria per poterci rappresentare in Regione. E quando dico rappresentare intendo un rapporto continuo con militanti e cittadini che riporti questo ente così distante a una dimensione umana. Dico l’esperienza perché chi vi propone il rinnovamento e basta in un ente complesso come questo vi racconta una emerita baggianata. Il rinnovamento si fa nei municipi, nei comuni. Lì ci si deve fare le ossa, lì va selezionata la classe dirigente che poi verrà candidata a livelli più alti. Arrivare in Regione senza aver fatto “la gavetta” significa fallire il proprio compito, quello principale di un partito: mettere i migliori candidati possibili a ogni livello. Flavia ha fatto la consigliera in circoscrizione, poi è stata dieci anni in Provincia. E’ una che conosce, approfondisce i problemi e quando non capisce chiede consiglio. Ha l’esperienza e l’umiltà necessaria per essere una buona consigliera.
La terza è che è una donna. Ora, come è noto io sono un maschilista doc, del resto diffidate dai maschi che vi dicono di avere la cultura delle donne. Vi stanno per fregare. Ma anche da maschilista mi rendo conto che in una società in cui le donne sono più del 50 per cento è ridicolo pensare con nel gruppo del Pd non ci sia neanche una donna. E guardate che il rischio c’è tutto. Basta leggere la liste provinciali per capire come siano state costruite così, per avere tutti uomini. Io credo che Flavia sia l’unica donna che ha la concreta possibilità di essere eletta.
Le altre candidate saranno anche rispettabili e brave ma non ce n’è una che abbia la militanza e le capacità di Flavia Leuci. Anche la storia di partito. E io che sono vecchio voglio una consigliera che risponda al suo partito e ai suoi elettori, non che vada a fare la battitrice libera.
Ce la possiamo fare, dicevo. Sarebbe una vergogna, dopo il successo delle donne nelle primarie un gruppo Pd fatto di soli maschi. Ce la possiamo fare, basta ricordarselo domenica e lunedì. E ricordarlo a tutti i nostri contatti. Prendere le agendine, le rubriche sul palmare, sull’ipod, sull’ipad, su quello che vi pare, ma attaccatevi al telefono. C’è tempo fino a lunedì. Per far vincere Bersani e Zingaretti. E anche, se vi avanza tempo, per far eleggere una donna, una compagna vera, nel consiglio regionale del Lazio.
Buone elezioni a tutti.
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