Articles by " mik154"

Articolo Uno mette radici a Corviale

Apr 29, 2017 by     No Comments    Posted under: dituttounpo'

Una preghiera: non chiamiamoli circoli, un partito ha le sue sezioni. Dà il senso di un percorso che dal basso si unisce e arriva ai livelli nazionali. Circoli suona vecchio, una conventicola chiusa.

Per il resto, che fosse sabato pomeriggio all’inizio del ponte del primo maggio non ce siamo accorti oggi pomeriggio a Corviale.

Abbiamo inaugurato la prima sezione di Articolo Uno a Roma. L’abbiamo fatto a Corviale perché noi in queste zone non siamo turisti. Ci entriamo e ci vogliamo restare. E anche questa volta più persone che sedie, come dice sempre Bersani.

Dietro al tavolo Roberto Capriotti, ex segretario del circolo Pd, il consigliere regionale Riccardo Agostini, i parlamentari Alfredo D’Attorre e Roberta Agostini.

Dall’altra parte sala piena, le foto rendono male. Gente di Corviale, dei quartieri limitrofi, un nutrito gruppo di giovani, a cui subito si rivolge Roberto Speranza, coordinatore nazionale di Articolo Uno: “Sono loro ‘la classe generale’ di oggi – spiega citando un concetto caro a Gramsci – se diamo una speranza a loro, cambiamo davvero questo paese”. Parla poco, tono pacato e concetti precisi: “La sinistra torni a guardare il mondo con gli occhi dei più deboli. Deve ricominciare da qui, dalle periferie, dove troppo spazio abbiamo lasciato a Salvini e M5s. E Articolo Uno deve essere il seme da cui ripartire per costruire un nuovo centro sinistra. Io penso a tre parole: umiltà, coraggio, verità. Presentiamoci con umiltà perché siamo stufi dell’arroganza. Dobbiamo essere coraggiosi perché dobbiamo portare avanti le nostre idee con convinzione e dobbiamo dire la verità, perché la gente è stufa delle balle”.

Ecco, ripartiamo da qui. Umiltà, coraggio e verità.

E comunque ‘sto Speranza è proprio bravo, ogni volta che lo sento mi sembra cresciuto. Non trascina le folle, è vero. Ma non siamo un po’ stufi di quelli che trascinano le folle e poi alla fine ti accorgi che non ha detto nulla? E però… un appello ai compagni di Ravenna che lo avranno lunedì per la tradizionale braciolata del primo maggio: facciamo mangiare, ‘sto ragazzo me deve prenne un po’ de colore.

Il #pippone del venerdì/8.
C’era una volta l’industria italiana

Apr 28, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Cominciammo con l’Iri. Che li facciamo a fare i panettoni? Poi ci fu Alfa Romeo. Bisogna creare un grande polo italiano dell’auto, regaliamola a Fiat. Poi ci fu Telecom. E che le comunicazioni sono strategiche? Poi fu la volta di Alitalia. Con lo Stato perde, ci costa troppo, diamola ai privati e per ripagarli del favore gli regaliamo pure le autostrade va.

Avete appena letto: breve storia triste dell’industria italiana. In mezzo ci sono acciaierie, petrolchimico, farmaceutica, informatica. Tutto sparito. Della sesta o settima potenza economica mondiale cosa resta? Il turismo mordi e fuggi e poco altro. Perfino Fiat, oggi gruppo Fca, appena ha potuto ha portato la sede fiscale in un paradiso fiscale (europeo). Ma come, verrebbe da chiedersi, dopo tutto quello che abbiamo fatto per loro? Abbiamo fatto strade, eliminato i tram, concesso bonus a chi rottama le auto, per anni sono state Fiat tutte le auto della pubblica amministrazione e poi ti arriva un Marchionne e se ne va, tra gli applausi dei nostri governanti.

Però, ragazzi, stiamo tranquilli che va tutto bene. C’è Matteo che pensa a tutto. E che ti fa? Il Jobs Act: detassazione per le imprese che assumono a tempo indeterminato, tanto poi vi do libertà di licenziare e tolto l’articolo 18. E non basta. Ragazzi, arriva industria 4.0. Una scoppola da 13 miliardi di contributi in varie forme per gli imprenditori che investono in robotica. E così i contributi previdenziali non li paghi proprio più. Quando il robot è vecchio mica lo devi liquidare, dargli il welfare e la pensione al massimo serve una discarica. Quindi tu elimini lavoratori con il finanziamento statale. Una genialata.

E poi torna ancora Alitalia, riassumiamo per chiarezza. Partiamo da un dato: nel 2001 un’azione di Alitalia (all’epoca lo Stato aveva più del 60 per cento) valeva circa 10 euro. Nel 2006 circa 1.57. Che si fa? Vendiamo, mi pare ovvio. Ora, io non sono un economista, ma c’è qualcosa di strano: io venderei a dieci semmai, non a 1.57. Comunque sia, un paio di “bandi”, interessamenti vari. Alla fine Alitalia sceglie: il nostro partner sarà Air France-Klm. Partono le trattative, non si chiude l’accordo con le parti sociali sulla ristrutturazione che il socio straniero pretende prima di firmare l’intesa. E poi arriva a gamba tesa il Berlusconi che dice: dopo le elezioni, che vinco io, di vendere agli stranieri Alitalia non se ne parla proprio. Air France capita la malaparata si tira indietro.

Ma che bravo il Berlusca, tra l’altro dentro Air France c’è una bella percentuale pubblica, dello stato francese, e che vendiamo la nostra compagnia di bandiera a uno stato estero? Non sia mai. Morale della favola Berlusconi la regala a un gruppetto di amici suoi che convoca ad Arcore e convince a suon di regali (autostrade comprese). In cambio si prendono Alitalia senza debiti (quelli li paga lo Stato), ricordate la bad company e la good company? Ecco, il senso era quello: a voi i debiti a noi il capitale. Questi benemeriti del popolo li chiameranno “i capitani coraggiosi”. Alitalia continua a perdere, perché sono pippe, e i capitani prendono il largo. Il governo Renzi si inventa allora la soluzione araba. Arriva Etihad. E cavolo questi sono arabi, gente che gli affari li sa fare. E poi negli ultimi anni  il volume di affari legato al trasporto aereo continua a crescere, vuoi che non si aggancino a questa tendenza? E infatti, annuncia Renzi con il solito tuitte: “Presentati i nuovi aerei, sembrava impossibile due anni fa. Ma Alitalia torna in pista, pronta su nuove rotte. Vola Alitalia, viva l’Italia”.  Secondo me porta male. Ma questa è un’altra storia, fatevela raccontare dalla nazionale femminile di pallavolo.

Morale della favola, l’unica cosa nuova che fanno gli arabi sono le divise, pare peraltro di tessuto che raschia la pelle. Nuove rotte, piano per il lungo raggio, integrazione con Etihad? Nulla. La compagnia è di nuovo sull’orlo del fallimento. Si tratta, i sindacati firmano l’intesa, è storia recente. Altri tagli al personale, altre diminuzioni di stipendio, con la prospettiva di mettere in vendita nuovamente la società. Questa volta i lavoratori non ci stanno e votano no all’accordo. Finisce quasi 70 a 30, non si tratta di un esito sul filo di lana, malgrado l’intervento a gamba tesa del presidente del Consiglio, Gentiloni: “Se votate no, l’azienda fallisce”, dice. Una specie di invito subliminale a votare no due volte.

E adesso che si fa? Prestito ponte per avviare le trattative e vendere a qualcuno. Si dice ai tedeschi. Perché i soldi per salvare Mps (10 miliardi) ci sono. I soldi per regalare i robot agli industriali ci sono (13 miliardi). Alitalia costa troppo, c’abbiamo già rimesso 7.4 miliardi. E poi è colpa dei lavoratori che si sono suicidati. Io tengo a pensare che si siano semplicemente rotti le scatole di essere presi in giro. Ma forse vivo su un altro pianeta. E poi, ma a nessuno viene il dubbio che la colpa sia di manager pagati milioni e liquidati a peso d’oro? Possibile, lo ripeto, che il traffico aereo continui ad aumentare e i passeggeri di Alitalia a diminuire?

Siccome non credo che il personale Alitalia, nel suo complesso, emani odori insopportabili, non è che qualcuno ha sbagliato la strategia aziendale? Sempre che ve ne sia mai stata una. L’attuale amministratore di Alitalia, tal Crames Ball guadagna nel complesso 2.2 milioni di euro l’anno, solo per restare all’attualità. Ma velo ricordate, per fare un altro esempio, Giancarlo Cimoli? Si prese 3 milioni come buonuscita. E mi fermo per carità di patria. Solo un altro: Montezemolo. Basta il nome.

Come sempre tendo a essere curioso, apro parentesi. Abbiamo salvato Mps o abbiamo salvato i suoi debitori, dei quali per questione di privacy non si può avere la lista? Io propendo per la seconda. E chi vi racconta che sono stati salvati migliaia di correntisti vi dice una balla, quelli sono garantiti comunque.

Su Alitalia, invece, il governo ha una brillante strategia: 300 milioni per garantire la continuità aziendale, due spiccioli, e nel frattempo si vende. In pratica, visto che gli aerei sono per la maggior parte in affitto che si vende? Gli slot, detta in parole povere il diritto di partire da un aeroporto ad una determinata ora, le rotte. Poco altro. I dipendenti? I tedeschi ne vogliono solo 3mila su 12mila. Insomma si smantella quel poco che resta di Alitalia. Come sempre.

Cosa resta di Alitalia l’abbiamo capito e dell’industria in genere? Poco. Non produciamo praticamente più nulla. I capitalisti coraggiosi hanno venduto a multinazionali o hanno de localizzato le proprie imprese. La nostra rete commerciale è in mano a multinazionali. Che ci resta? Turismo e pastorizia? E come si regge un paese solo sul turismo? Qualcuno si ricorda che fine hanno fare alla Grecia? Del resto siamo un paese dove un paio di anni fa il presidente del Consiglio spiegò che elaborare un piano di sviluppo industriale per l’Italia non era compito del Governo, questa è la logica conseguenza.

Io resto convinto che alcuni settori siano strategici per un paese che vuole essere competitivo. Quelli bravi li chiamano asset. Letteralmente vuol dire “beni”.  Trasporti e reti di comunicazione, l’industria pesante. E in questi settori ci deve essere la mano pubblica. Lo fanno i francesi a piene mani, con qualunque governo e nessuno pensa che siano dei pericolosi bolscevichi.  In Italia no, siamo ancora vittime della balla anni ‘90° per cui privato è bello e il pubblico non funziona.

Ecco, io la vedo così: cambiamo rotta in fretta, magari proprio a partire da Alitalia. Non sta scritto da nessuna parte e soprattutto in nessuna regola europea (e chi ve lo racconta dice balle) che lo Stato non possa essere azionista di società private o proprietario di industrie. L’economia da noi riparte soltanto se riprendono gli investimenti. Così si creano i posti di lavoro, non eliminando i diritti. Le imprese assumono se hanno bisogno di produrre. E lo Stato può dare il primo segnale, ricominciando a investire nel futuro del Paese. Lo diceva Keynes, un liberale, non un pericoloso comunista.
Questa furia antipubblica ci ha portato a svendere il nostro paese. Abbiamo privatizzato anche l’acqua, ci manca solo l’aria, ma state sereni…

Lo #spiegone del lunedì/6.
Il suicidio politico alla francese

Apr 24, 2017 by     No Comments    Posted under: lo spiegone del lunedì

La dico subito, se fossi in Francia non avrei dubbi e farei due cose: fra due settimane voterei Macron, cominciando però a lavorare a una larga alleanza delle sinistre per le elezioni legislative dell’11 giugno. Ci sono, infatti, due diverse modalità di suicidio politico in questo scorcio di storia francese. Il primo è quello della sinistra del Partito socialista, che ha vinto – a sorpresa – le primarie interne, ma senza capire che l’eredità di questi cinque anni di Hollande all’Eliseo erano un fardello troppo grande per chiunque. Un bel pezzo di Ps è già scappato con Macron, non a caso sostenuto apertamente dai centristi di mezza europa. Occorreva lavorare a una coalizione unitaria, anche con i comunisti, fin dal primo turno delle presidenziali. Bisognava rinunciare ognuno a pezzo della propria identità per arginare le destre.

E invece ci ritroviamo con l’annunciato ballottaggio fra la fascista Le Pen e il liberista moderato Macron. Su cosa si debba fare fra due domeniche non si possono avere dubbi. E non ne avranno i francesi. Sbaglia, in questo caso, Mélenchon che non capitalizza il suo importante 19 per cento. Fossi stato in Francia lo avrei votato senza troppe esitazioni. Non mi ha mai convinto questa menata del cosiddetto “Piano B”, un eufemismo per non dire “vogliamo uscire dall’Euro”, che ritengo un errore di tattica (lo accumuna troppo alla Le Pen) e di prospettiva (senza una dimensione internazionale della politica e dell’economia, diventeremo irrilevanti). Ma per il resto non trovo nel suo programma distanze incolmabili da quello socialista. Lo avrei votato, dicevo, ma mi aspetto che da oggi assuma sulle sue spalle un ruolo di ricostruttore della sinistra.

Perché guardate che la vera notizia francese, come è già successo prima in Grecia e poi in Spagna è la scomparsa della sinistra “tradizionale”. Solo che qui non c’è nulla di pronto per sostituirsi al vecchio partito socialista e dare una risposta forte al liberismo e ai diversi populismi. E allora che fare? Per chi come me ha da sempre una grande ammirazione per la concretezza togliattiana non ci sono dubbi: per prima cosa si battono i fascisti, poi si prova a costruire un asse di sinistra per le elezioni di giugno. Macron al momento ha mostrato un campionario delle ricette classiche del liberismo: meno vincoli per le imprese, meno tasse. Ricette che non funzionano. E che una forte presenza della sinistra nell’Assemblea nazionale potrebbe correggere in maniera sostanziale. Le elezioni francesi, del resto, sono una sorta di partita andata e ritorno. Le presidenziali sono soltanto l’andata. Le legislative rappresentano il ritorno. Non un contentino, una competizione che può condizionare davvero l’Eliseo.

E quindi, dopo il primo suicidio politico avvenuto ieri, evitiamo di cadere ancora nell’errore. Il maggioritario a doppio turno, per chi non lo avesse ancora capito, funziona così: ci si conta al primo turno, si vota il meno peggio al ballottaggio. E chi invita a restare a casa non ha ben capito il rischio che si corre, neanche dopo la Brexit e dopo la vittoria di Trump negli Stati Uniti. A me questa “nuova” destra sovranista e xenofoba ricorda tanto il passato. Sarò anche vintage, ma per me sempre imperialisti rimangono.

Il pippone del venerdì/7.
Sinistra, c’è una luce in fondo al tunnel (?)

Apr 21, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Sala in centro di Roma, arrivo presto e conto le sedie. Circa 300. Non una folla, ma neanche poche. Quando entra Bersani si riempie in un attimo, restano una cinquantina di persone in piedi. Descrizione del pubblico: molti over 50, una quindicina di ragazzi estremamente giovani (diciamo sui vent’anni a occhio), una robusta presenza di quarantenni. Uno spaccato della società italiana, con tendenza alla prevalenza degli anziani.
E’ la “prima” di Articolo Uno a Roma. Il movimento che vuole ricostruire un nuovo centrosinistra in Italia, dopo un lungo peregrinare in giro per l’Italia arriva anche qui. E già il fatto di non partire da Roma è significativo. Incontro con Bersani, recita la locandina.
In realtà l’ex segretario del Pd concluderà soltanto un pomeriggio con interventi di professionisti,  lavoratori, esponenti del mondo sindacale e del terzo settore. Si parte dall’ascolto. La platea, a occhio mi sembra un curioso mix di quadri di partito, dirigenti politici locali e intellettuali. Capita così di vedere seduti fianco a fianco Roberto Zaccaria,  ex presidente Rai poi parlamentare di Margherita e Pd, e il segretario di un circolo Pd della periferia romana. Mancano, sempre a occhio, i militanti di base. Il livello si ferma ai quadri di partito. Il “popolo della sinistra”? Bersani risponderà che va riconquistato. E proverà a dire anche come, con quali parole d’ordine.

Prima notazione politica: avevo in testa il Bersani stanco della campagna elettorale del 2013, poi quello “sballottato” dalle vicende successive alle elezioni. Non l’avevo più sentito da allora, se non in dichiarazioni di pochi secondi. L’ho trovato differente. Meno metafore, non manca la concretezza emiliana ma viene meno banalizzata in immagini, questa volta. Più analitico. Parla più di un’ora e – per usare una metafora – ti mette le mutande al mondo. Poi forse restano un po’ strettine, per come la vedo io. Ma era da tempo che non ascoltavo un ragionamento così. Analisi, racconto, soluzioni. Mi dirà un collega, giornalista e compagno: “Guarda che quelli delle agenzie di stampa hanno preso il primo appunto dopo cinquanta minuti di intervento, quando ha nominato Renzi”. E’ la maledizione di esce dal Pd: per il mondo dell’informazione conta solo la contrapposizione al leader democratico. E poi Bersani non è tipo da 140 caratteri. Ma ci serve un tipo da 140 caratteri? Basta questo? Io non credo, non vorrei un altro partito del leader.

Seconda notazione politica: l’ex segretario del Pd capisce, lo dice chiaramente, di essere un reduce: fa un po’ lo stesso ragionamento di D’Alema. Noi ci siamo per dare solidità a questa nuova avventura. Ma non guardate a noi come ai futuri leader. Chiede  – a se stesso e a tutti – un atto di generosità: siamo a disposizione, ma bisogna fare spazio. Mettiamo dunque al bando – questo il ragionamento – tatticismi e personalismi, non siamo un partito, ma un movimento, disposto a confrontarsi, nel merito, con tutti quelli che ci stanno. “E il rapporto con il Pd? – si chiede retoricamente Bersani – Costruiamolo noi il nuovo centrosinistra, poi sarà il Pd a dover decidere cosa fare”. Mi sembra convincente: un movimento, un raggruppamento di forze culturalmente autonomo che si pone l’obiettivo, non l’ossessione, del governo. Poi le alleanze verranno.

Terza e ultima notazione politica: nel suo intervento Bersani ha criticato duramente la globalizzazione e l’atteggiamento di quella sinistra che ha fatto spallucce continuando a proporre ricette di destra. “Ora – si chiede ancora retoricamente – arriverà il conto di questi anni in cui si è detto che tutto andava bene e il tema vero è: chi lo paga? Io avevo provato a dirlo nella campagna del 2013, forse non sono stato capito. Ma per me resta questo il discrimine fondamentale. Paghi chi ha di più”. Per chi è ossessionato dalle “cose di sinistra” questa è una. Bella chiara.

E ora vediamo ai punti dolenti. Non entro nella polemica di chi dice “eh ma che ve ne siete accorti adesso?”. Ci sarà stato anche qualcuno più bravo che ci era arrivato prima, senza dubbio, ma non ha lasciato grandi tracce della sua esistenza. Mi ci metto anche io, nel mio piccolo. Quello che mi interessa è l’aver finalmente capito la fase che sta vivendo il mondo, capito i problemi e capito quali sono stati gli errori della sinistra a livello mondiale. Non la faccio tanto lunga: “Mentre la destra – ha argomentato Bersani – ha cambiato radicalmente la sua ricetta passando dal liberismo sfrenato di Reagan e della Thatcher al sovranismo e al protezionismo di oggi, noi non abbiamo capito il cambio di fase”. E quindi la crisi della cosiddetta globalizzazione porta alla luce anche gli errori del passato, quando la sinistra ha vinto in tutto il mondo proponendo soltanto un modello un po’ più umano. Adesso invece spuntano fuori quelle che l’esponente di Articolo Uno chiama le spine: finanza senza controlli, diseguaglianze diffuse, attacco ai diritti, umiliazione del lavoro. Fin qui tutto bene, la parte che mi sembra debole nel ragionamento di Bersani è quella delle soluzioni al problema. Posto che la risposta che abbiamo dato fin qui, almeno in Italia, ovvero sostanzialmente assistere inerti alla deindustrializzazione del nostro paese, è del tutto inadeguata e ci porta dritti nel baratro, non basta ripartire dai tre classici capisaldi europei, ovvero diritti dei lavoratori, stato sociale universalistico e fiscalità progressiva. Non basta neppure aggiornando i contenuti.

Mi piace però ripartire, da due belle definizioni che ha dato nell’appuntamento romano. La prima: “Se l’Europa non è un’idea per il mondo non potrà mai farsi Europa”. La seconda: “La sinistra è quella cosa che esiste perché non gli piace il mondo così com’è”.
Io le stamperei e le attaccherei in tutte le sezioni, circoli, comitati o come diamine si chiameranno le articolazioni locali di Articolo Uno. Perché lì dentro ci sono le nostre radici e il nostro futuro. C’è la necessità impellente di trovare strade nuove, di dare risposte a quella fortissima crisi che sta vivendo l’idea stessa di democrazia rappresentativa. La risposta di Renzi è “più potere con meno consenso”. Ha ragione Bersani, questo volevano dire Italicum e riforma della Costituzione: spazzare via i corpi intermedi, smantellare il sistema della rappresentanza vuol dire avere meno democrazia. E la famosa democrazia diretta tanto decantata dal movimento 5 stelle vuol dire un sistema autoritario dove i cittadini non contano più nulla.

Rimango ai tre punti di cui ha parlato Bersani. Della questione del lavoro, ovviamente centrale, ho già parlato, ampiamente, qui.  Vorrei soffermarmi, invece, nel “pippone” di oggi sulla questione delle diseguaglianze, che ieri sono state ridotte, in sintesi, alla necessità di garantire un welfare di natura universalistica. E’ importante porsi nuovamente questo tema, uscendo finalmente dalla retorica del merito. Ma credo che sia un errore limitarsi a questo ragionamento. E anche limitarsi a descrivere il tema delle diseguaglianze come tema interno a un paese. Fra gli stipendi dei supermanager e i vaucher, tanto per usare la semplificazione di Bersani. Chi vuole definirsi di sinistra non può continuare a leggere le diseguaglianze solo all’interno degli anacronistici confini nazionali. E allora la differenza è fra gli stipendi dei supermanager italiani e lo stipendio di un operai africano o cinese. Qua stanno le diseguaglianze, qua sta la vera lotta di classe del nostro tempo. Altrimenti continuiamo a essere prigionieri della contrapposizione fra migranti e proletari “interni”. Giochiamo la partita nel terreno di gioco scelto dalle destre.  Continuare a parlare di stati e di nazioni, insomma, ci condanna a una visione miope e alla sconfitta. E allora che fare? Io credo che dobbiamo, ad esempio, mettere in discussione seriamente la casa del Partito socialista europeo. E usare il “metodo Bersani” anche a livello internazionale. Una cosa del tipo: “Guardate ragazzi che ognuno per sé mica reggiamo più, qua tocca mettersi insieme davvero”. Potrebbe sembrare eccessivamente ambizioso: non riusciamo a rimettere in piedi una sinistra italiana e ci preoccupiamo del livello europeo? Io credo sia essenziale, limitarsi ai patri confini sarebbe un errore tragico. Tornare a produrre, come Europa, idee che siano modello per tutti, sui grandi temi che abbiamo di fronte. Da quelle diseguaglianze che sono il concime per tutti i fondamentalismi, ai temi ambientali, a quelli economici, della produzione, della finanza. Io credo che una delle riflessioni che dobbiamo fare sia su questo.

Abbiamo di fronte un’ondata di destra senza precedenti, non basta chiudersi nei confini nazionali, non basta una strategia di difesa dei diritti del novecento. Occorre riaprire davvero la partita, sfidare le destre e i populismi, sfidare le paure di un occidente che si sta accartocciando sempre più su se stesso. Ancora una volta, come è ovvio, mi limito ai titoli. Non sono in grado di fare di più. Serve un vero e proprio intellettuale collettivo per un’elaborazione compiuta su questi e altri temi. Ma secondo me la strada da percorrere, la direzione da prendere è segnata.

Ecco, se cominciamo a fare questo possiamo dire che in fondo al tunnel in cui si è cacciata la sinistra, non solo italiana, c’è una luce. Senza punto interrogativo. Neanche fra parentesi.

#iolavedocosì.
Riprendiamoci il 25 aprile, tutti insieme.

Apr 20, 2017 by     No Comments    Posted under: dituttounpo'

A Roma, dal 2014, il 25 aprile è motivo di polemica. Cosa è successo quel 25 aprile? Succede che un gruppo di (poco) simpatici componenti del servizio d’ordine della comunità ebraica di Roma aggredisce alcuni militanti palestinesi rei di voler partecipare al corteo con le loro bandiere.
Qui trovate uno dei video che racconta quanto successe. Poi la Brigata ebraica fu fischiata durante tutto il corteo da molti dei partecipanti e ci furono anche – bisogna dirlo – dei tentativi di esagitati di parte opposta di cacciarli dal corteo stesso. Da allora ogni anno è una polemica continua. Gli ebrei romani contestano il diritto dei palestinesi a partecipare alla manifestazione e da due anni hanno deciso, di fronte al diniego dell’Anpi, di non partecipare alla manifestazione. Anche il sedicente commissario romano del Pd, Matteo Orfini ha deciso di non partecipare (una vera e propria ripicca dopo il referendum, non prendiamoci in giuro) definendo l’Anpi “divisiva”. Una affermazione non commentabile. Credo che sia l’ennesimo errore commesso dal commissario. Provo, brevemente a dirvi come la vedo io.

Il 25 aprile per me è la festa di tutti. Fascisti esclusi. Alcuni anni fa, eravamo a Milano, mi ritrovai addirittura a fare il cordone per proteggere gli esponenti della Lega Nord che volevano manifestare. Non accetto lezioni di piazza da nessuno. Per questo per me, possono – anzi devono – scendere in piazza quelli che hanno lottato e lottano contro il fascismo. Contro tutti i fascismi. Hanno titolo i palestinesi a stare in piazza (perché questo è il tema cero che pone la comunità ebraica)? Per me assolutamente sì. Perché da decenni ormai sono impegnati in una vera e propria lotta di liberazione che tanti punti in comune ha con la nostra resistenza. La brigata ebraica ha titolo a partecipare al 25 aprile? Assolutamente sì. Anche se, a rigor di logica, non fu una formazione partigiana ma un corpo militare dell’esercito inglese, rappresentò un elemento importante, anche in Italia, della lotta di liberazione.

Dico di più. A me piacerebbe che la comunità ebraica romana, così colpita dal fascismo, e la comunità palestinese sfilassero fianco a fianco. Perché la nostra lotta di ieri è la loro lotta di oggi. E aiuterebbe tutti una presa di distanza della comunità romana da quello stato di Israele che spesso si comporta come fecero i fascisti.

Un errore va evitato: lasciare la piazza ai violenti di tutti i colori. Ce ne sono ovunque, vanno resi marginali riempiendo le strade di colori e suoni, come abbiamo sempre fatto. Spero che nel Pd non siano tutti d’accordo con la ripicca del commissario. Anche da qui si ricostruisce una sinistra diversa. Riprendiamoci il 25 aprile, tutti insieme.

#iolavedocosì
La trasmissione non mi piace, che si chiuda

Apr 19, 2017 by     No Comments    Posted under: dituttounpo'

In Italia c’è un riflesso automatico di stampo dittatoriale: quando una trasmissione non piace, che si chiuda. Lo fece Berlusconi, con il famoso “editto bulgaro”, lo stesso D’Alema più volte ha evidenziato un certo fastidio verso i giornalisti. E la stessa cosa succede a Report adesso.

Fa qualche servizio che non piace al potente di turno, in questo caso a Renzi, si aspetta una settimana, si prende come spunto un servizio su un vaccino, forse un po’ traballante, ma tutto sommato credibile e si spara a zero sul conduttore. Sui giornali di oggi si parla addirittura dei consiglieri del Cda Rai legati all’ex premieri che chiedono la sospensione immediata della trasmissione.

Ora, a me Report non piace da sempre. Ho sempre sostenuto che il tipo di giornalismo che fanno è squilibrato. Perché spesso, troppo spesso, non cercano la verità, a almeno di avvicinarsi alla verità. No, Report parte da una tesi e costruisce il servizio in maniera da rafforzare quella tesi. Comprese tecniche discutibili, come quella del taglio ad arte delle interviste, della telecamera accesa quando dovrebbe essere spenta. E questo comporta degli abbagli clamorosi. Ricordo anni fa un servizio sul Piano regolatore di Roma che capovolgeva la realtà su una edificazione importante, la “centralità” di Romanina. Avevo seguito la vicenda di persona e il servizio di Report attribuiva intenzioni edificatorie a chi si era opposto e viceversa. Per partito preso, tagliando abilmente le dichiarazioni.

Allo stesso tempo però, Report ci ha regalato negli anni inchieste importanti e coraggiose. E, cosa da rilevare, malgrado le tante denunce non ha mai avuto una condanna per diffamazione. Certo, è una trasmissione di parte. Secondo me dichiaratamente e smaccatamente e questo non mi piace. Ma non può essere il piacere al leader politico di turno il criterio per cui si va in onda. Funziona così in Turchia nelle dittature. Nei paesi liberi invece si accettano le trasmissioni che non piacciono e al massimo di chiede di replicare. Non si fanno editti, né si lanciano avanti gli sgherri per azzannare le caviglie dei giornalisti.

Il pippone del venerdì/6.
Zingaretti? Speranze e perplessità

Apr 14, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

La dico subito chiara: il fatto che i turborenzini romani tacciano depone a favore della (auto)ricandidatura di Zingaretti a presidente della Regione Lazio. Poi uno avrebbe voluto un percorso diverso, magari anche meno mediatico. Annunciarlo ad Amatrice, insieme al sindaco che potrebbe essere addirittura il suo avversario, secondo me, è una caduta di stile.
Ma si capisce l’esigenza di mettere un punto in una situazione politica interna al suo partito che lo vede sconfitto nelle assemblee di circolo e probabilmente anche alle primarie del 30 aprile. Sarà anche vero che si vota sul segretario nazionale e che il congresso romano sarà a giugno, ma la progressiva orfinizzazione del partito è evidente. Nel Pd comanda chi gestisce il tesseramento. Da qui, mi pare di leggere fra le righe, la necessità di anticipare i tempi.

Ora però, Zingaretti deve avere ben chiara la strada da percorrere. Non baloccarsi sui presunti risultati raggiunti in questi quattro anni di governo del Lazio, anche perché molte delle promesse sono state disattese, e avviare un confronto serio con tutti gli attori politici e sociali (sottolineo sociali) disponibili a ragionare sulla costruzione di una nuova coalizione. Non del vecchio centrosinistra ormai seppellito da Renzi, ma di una nuova coalizione (sottolineo nuova). Non si accontenti dei peana dei vicini di stanza, insomma, sia esploratore di strade innovative.

Si svincoli, innanzitutto, dall’immagine di uomo di partito, di esponente del Pd che troppo spesso in questi anni ha taciuto sui disastri compiuti da Renzi e dai suoi. Sia a livello nazionale che romano. E si metta alla guida di un grande movimento di rinnovamento. Riformista. Progressista. Vero.

Abbiamo ancora un anno, intanto, per correggere la rotta. La giunta Zingaretti ha rimesso in ordine i conti della sanità, si dice. Il prezzo pagato, in termini di efficienza e di “giustizia” del sistema sanitario regionale, è stato altissimo. Diamo, in questo anno che rimane, un segnale forte di discontinuità? Possiamo dire che, risanati i conti, ora si parte alla ricerca della qualità, dell’eccellenza?
C’è un tema, ad esempio che mi ha sempre appassionato: come si fa a ragione sui costi della sanità, quando il pubblico rappresenta, nella nostra regione, meno della metà dei posti letto accreditati? Si ha intenzione di rimettere mano seriamente agli accreditamenti? Certo è materia complicata, mica dico di no. Altra questione. Riusciamo a creare un sistema di ticket come quello toscano, con un sistema progressivo in base al reddito? Ancora. Diamo un segnale forte sui servizi socio-sanitari, a partire dai consultori? Sono solo titoli e anche parziali ovviamente.

In una sola frase: riusciamo ad uscire, in questo anno che ci rimane, dalla logica della propaganda e degli annunci, che se va bene fa guadagnare a ZIngaretti qualche titolo sui giornali, per entrare in quella dei reali servizi da garantire ai cittadini. Guardate che quando vai in ospedale e aspetti ore al pronto soccorso, quando prenoti una qualsiasi prestazione specialistica e devi aspettare mesi, quando ti rendi conto che assolute punte di eccellenza della sanità sono ridotte al collasso, mica te li ricordi più i titoli dei giornali. E temo che quando i cittadini andranno alle urne conterà di più la realtà dell’apparenza.

La stessa riflessione vale per altri temi. L’inizio dell’esperienza di questo governo regionale aveva suscitato grandi speranze. Un vero riformismo di sinistra poteva cimentarsi nel Lazio, con alla guida quello che tutti ritengono uno dei suoi esponenti migliori. Giudizio talmente unanime che nel Lazio non ci fu neanche bisogno di fare le primarie. Tutti d’accordo. Le attese sono però rimaste in gran parte tali. Non si ricordano provvedimenti legislativi epocali. La distanza fra gli annunci e i voti in aula è stata molto superiore a quella fra via Garbatella (dove ha sede la giunta) e la Pisana (dove c’è l’assemblea).

Serviva un’opera di accorpamento e semplificazione delle norme in materie complicate. Il testo unico sul commercio è rimasto, al momento, impigliato in qualche commissione. Di urbanistica meglio non parlare: anche qui al testo unico più volte annunciato come imminente, si sono sostituiti gli interventi tampone: dalla proroga del piano casa Ciocchetti-Polverini (con poche correzioni e neanche tutte positive) alla legge sulla rigenerazione urbana in discussione in queste settimane che, di fatto, rende permanenti ampie parti dello stesso piano casa. Invece di tagliare radicalmente le troppe leggi che ci sono in questo campo e farne una sola, complessiva, si aggiungono altre norme. La legislazione urbanistica nel Lazio è talmente incomprensibile che diventa inapplicabile. Norme buone soltanto per foraggiare schiere di azzeccarbugli. E nelle pieghe delle quali prospera l’abusivismo.

Per non parlare dei rifiuti. Ora,  va ricordato che in questo campo sono innegabili le responsabilità del Comune di Roma nelle varie declinazioni amministrative e politiche: la capitale produce la gran parte dei rifiuti del Lazio e dunque il nodo resta questo. Ma anche qui si è andati avanti senza un progetto organico, invece di presentare un nuovo piano rifiuti, che metta in pratica i buoni propositi più volte annunciati, ci si limita a una serie di provvedimenti scollegati che correggono il piano esistente, anche questo risalente all’epoca Polverini.

Nulla, infine, dal punto di vista della mobilità, dove la annunciatissima agenzia regionale è rimasta impantanata nell’intricato gioco di assetti societari e non è più in calendario. Serviva un ente unico di programmazione e controllo dei trasporti del Lazio. Che creasse un sistema coordinato fra Roma e le Province. La coincidenza di colore politico fra Roma, la sua area metropolitana e la Regione rappresentavano un’occasione da cogliere al volo. Tutto sfumato. E ci ritroviamo ancora con un sistema capace soltanto di moltiplicare i debiti senza assicurare un servizio decente.

Mi limito a questi flash sugli argomenti che conosco meglio per non farla troppo lunga. Ha ragione, insomma, Stefano Fassina quando mette in guardia sui troppo facili entusiasmi di questi giorni: “Un modello Lazio non esiste”, sostiene il deputato di Sinistra italiana. Il che non significa che non si possa e si debba lavorare per costruirlo. Ma per fare questo bisogna tornare al punto uno. Costruiamolo questo modello, che rappresenti un’indicazione per il futuro a livello nazionale.

Provo a buttare giù un paio di punti, di sicuro non esaustivi, ma credo siano argomenti su cui aprire una discussione.
Intanto ragioniamo sul fatto che si andrà a votare probabilmente lo stesso giorno per regionali e politiche. Un fatto che, inevitabilmente, complicherà le cose. Soprattutto se resterà questa la legge elettorale nazionale. Ora, in politica non si può mai dire, ma è facilmente prevedibile che, in questo caso, la campagna elettorale nazionale prevarrà su quella per il Lazio. E le divisioni che è facile prevedere sulle schede per la Camera e il Senato, tenderanno a prevalere rispetto alle ragioni di unità che Zingaretti avanza con la sua candidatura. Il quadro, insomma, bisogna averlo ben presente: avremo un Renzi scatenato a livello nazionale che farà la sua compagna isolazionista, tutta basata sul Pd e uno Zingaretti che invoca l’unità per vincere il Lazio. E’ evidente a tutti quanto il primo rischi di travolgere il secondo. Anche perché che senso avrebbe presentarsi a livello nazionale e regionale con due programmi divergenti in nome dello stesso partito?

Insomma, c’è il rischio, non lo nascondo, che questa ricandidatura rappresenti più che altro una foglia di fico, utile soltanto a puntellare quella che, se le elezioni nazionali andassero male, potrebbe essere dal prossimo anno la postazione di governo più importante a livello nazionale per il centro sinistra. E se fosse solo questo, è evidente, non riuscirebbe neanche in questo intento.

D’altro canto il sistema elettorale con cui si vota alle regionali è chiaro: turno unico, il candidato presidente che prende più voti vince. E dunque, ove le forze del centro sinistra scegliessero di non andare unite alle urne, una sconfitta sarebbe quasi automatica. Non dimentichiamo che nel 2013, in una situazione di gran lunga più favorevole di quella attuale, Zingaretti, candidato strafavorito, superò di poco il 40 per cento. Una vittoria ampia, perché il suo avversario, Francesco Storace, non arrivò al 30, indebolito però dalla candidatura di Giulia Bongiorno (Fli, Udc, Sc) che spacco il fronte della destra. Il movimento 5 stelle, allora, si fermo al 20 per cento.

Insomma, se non ci si coalizza si rischia non solo di perdere (nel caso del Pd), si rischia la totale irrilevanza (nel caso delle forze alla sinistra del Pd). Ora io non sono un innamorato del governo a tutti i costi. Tutt’altro: credo che l’opposizione sia addirittura utile per rinnovare e formare la propria classe dirigente. Però, al tempo stesso, credo se uno corre debba avere quanto meno la possibilità di vincere. E proprio se non riesce a vincere deve avere la possibilità di entrare in consiglio regionale. La democrazia rappresentativa funziona se hai il cuore e la testa nel tuo blocco sociale, nelle città, nei quartieri, ma i piedi ben piantati nelle istituzioni, altrimenti svolgi un ruolo di mera testimonianza. Perfino rispettabile, ma sostanzialmente inutile. Se non si ha la possibilità di realizzare le proprie idee, di metterle alla prova del governo, si cambi occupazione.

Dunque che fare? Io credo che i propositi annunciati da Zingaretti in forma molto mediatica vadano verificati lontano dai riflettori. La sinistra non può tirarsi indietro e deve rispondere alla sfida. Io ci sto, se la sua volontà è quella di lavorare a un nuovo modello di coalizione “sociale”, così la chiamo io, non civica si badi bene. Ovvero una coalizione che si assume come compito la rappresentanza di un blocco di interessi. E dichiara prima con chiarezza quali sono. Se riproponessimo una semplice riedizione dell’alleanza elettorale del 2013 ci andremmo a schiantare, lo voglio dire chiaramente. Per questo ben vengano anche gli stati generali del centro sinistra del Lazio, annunciati dal presidente per l’autunno. Ben vengano se però evitiamo la solita passerella dove facciamo parlare un’operaia di una fabbrica in crisi, un giovane imprenditore che ha aperto un’impresa innovativa, un impiegato dell’Alitalia, un giovane volontario possibilmente brufoloso, quale amico molto smart che ci parla dei diritti civili.

Io credo che serva un luogo di confronto vero e che non siano sufficienti un paio di giorni chiusi in qualche luogo caro alla sinistra romana per sciogliere i nodi e dare nuovo vento a vele stanche. Credo che queste vele dobbiamo metterle nuove. E per farlo serva un percorso di partecipazione dal basso. Servono comitati locali che diano radici diverse alla coalizione sociale e insieme costruiscano un percorso dal basso. Serve una campagna radicale: assemblee in ogni città del Lazio, in ogni quartiere di Roma. In cui non si vota un candidato, ma si discutono e si votano le idee per rifondare questa Regione.
Zingaretti, insomma, può fare due cose: essere semplicemente il candidato del Pd – un brand in profonda crisi (come direbbero quelli bravi) – il candidato che poi si porta appresso qualche cespuglietto irrilevante e magari vince anche stancamente, nella migliore delle ipotesi. Fa il presidente per altri cinque anni in cui si tira a campare, la stampa non gli ostile, alla fine un posto da parlamentare glielo danno. Oppure può essere il costruttore di una rete sociale nuova. Che può rappresentare il modello da replicare poi a livello nazionale. Una rete, lo ripeto al di là e oltre le forze esistenti che non rappresentano più il proprio blocco sociale. I punti da cui partire sono sempre quelli: lavoro, uguaglianza nei diritti – primo fra tutti quello alla salute – amministrazione sana ed efficiente.

Io credo che Zingaretti abbia l’intelligenza e le qualità per guidare, fare il regista di un progetto simile. Una nuova speranza, si potrebbe dire. Ma credo anche che il troppo consenso interessato non gli faccia bene. Che debba confrontarsi di più con chi gli fa notare quello che non va. E magari ascoltare meno chi fa sempre e comunque la ola. Si può ripartire dal Lazio, insomma. Con un po’ di coraggio e anticonformismo.

Lo #spiegone del lunedì/5.
Appunti sui partiti politici

Apr 11, 2017 by     No Comments    Posted under: lo spiegone del lunedì

spiegoneLa scorsa settimana leggevo un articolo di Curzio Maltese nel quale il giornalista ed eurodeputato fa un’analisi impietosa sul nostro sistema democratico. Al di là dei ragionamenti più contingenti, la tesi di Maltese è netta: con la probabile affermazione di Matteo Renzi alle primarie del 30 aprile tramonta  in Italia l’era dei partiti politici organizzati. Ormai sono tutte liste personali.

Andiamo con ordine. L’esistenza di partiti politici è prevista dalla Costituzione stessa. In particolar modo dall’articolo 49: ”Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

Parole, come al solito, precise: i partiti vengono riconosciuti come l’anello di congiunzione fra cittadini e istituzioni, e determinano la politica nazionale, con metodo democratico. Da queste parole più volte si è rimarcata la necessità di normare il funzionamento dei partiti in maniera da favorire la partecipazione democratica, poi in realtà ci si è fermati alle proposte di legge. In questa legislatura si è arrivati a un testo unificato, approvato dalla Camera e in discussione al Senato.

Comunque sia, i costituenti davano grande importanza all’esistenza dei partiti. Che poi nel corso del dopoguerra hanno assunto in Italia il carattere di organizzazioni di massa, a cui aderivano milioni di cittadini. Ora, sostiene Maltese, l’ultimo dei grandi partiti si avvia a diventare lista personale, come Forza Italia, come il M5s, la Lega. Per non parlare delle sigle minori, di cui, appunto, spesso si ricorda il leader ma non il nome.

Non so, sinceramente, se abbia ragione Maltese. Di certo, fin dalla scelta delle primarie come meccanismo per la selezione del segretario, il Pd si è presentato come un partito dalla forma un po’ atipica. Tanto che si è parlato più volte di partito liquido, destrutturato, in contrapposizione al partito pesante del ‘900. Una forma liquida che ha sicuramente favorito quell’identificazione con li leader che denuncia Maltese. Resta da vedere cosa capiterebbe in caso di una nuova sconfitta elettorale: una lista personale tenderebbe a sfaldarsi e a scomparire, un partito vivrebbe un momento di crisi per poi rigenerarsi con nuovi dirigenti.

Ma perché, assumendo per valida la tesi del giornalista, sarebbe un fatto così grave? Cosa cambia? Noi siamo in una democrazia rappresentativa. In pratica eleggiamo i nostri rappresentanti nelle istituzioni a cui deleghiamo, detta banalmente, la sovranità che (articolo 1) appartiene al popolo. Il nostro potere si limita, nel caso in cui non siamo soddisfatti del loro operato, a sostituirli alle elezioni successive.
I partiti, in questo contesto, svolgono una duplice funzione:

1)   Danno la possibilità ai cittadini di partecipare alla vita democratica fra un’elezione e l’altra;

2)   Selezionano la classe politica che poi sarà sottoposta al giudizio degli elettori.

Sono tutte e due funzioni essenziali se non vogliamo vivere in una sorta di democrazia autoritaria, dove pochi, senza alcun controllo, decidono tutto e le possibilità di incidere da parte dei cittadini sono limitate al momento elettorale.

I partiti, insomma, sono il luogo principe dove si dispiega la partecipazione dei cittadini, dove la politica, nel senso più alto della parola, svolge a pieno la sua funzione di composizione del conflitto. A patto che non siano liste personali, perché in quel caso, invece che favorire una sorta di continuità democratica fra un’elezione e l’altra, diventano semplicemente strumenti per amplificare la linea politica del leader. Una sorta di megafono puntato costantemente verso i cittadini. Quella della propaganda, insomma, da funzione derivata, di secondo livello, diventa preminente. E una certa idiosincrasia dei partiti personali nei confronti degli altri corpi intermedi che esistono nella società di oggi, dalle associazioni ai sindacati, si spiega proprio per questo motivo. La propaganda soffre l’interlocuzione, il confronto tipico della democrazia, ha bisogno solo di un pubblico acritico.

Resta da capire quanto questa trasformazione rappresenti un passo in avanti e non un ritorno, in forme differenti, al sistema ottocentesco dei “notabili”.

Tutto questo, per la precisione.

Il pippone del venerdì\5.
Parliamo di lavoro (e di non lavoro)

Apr 7, 2017 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

logo pippone

L’articolo 1 della Costituzione nacque da un complesso dibattito nell’assemblea costituente. I comunisti avrebbero preferito la dizione l’Italia è una Repubblica di lavoratori, per sottolineare l’importanza del fattore umano, non solo della “condizione”. Ma è evidente che questa formulazione era troppo “ideologica” per la Dc e il compromesso trovato rimane comunque molto avanzato. L’articolo 1 va letto, infatti, insieme al 3, per capirne il dispiegamento pieno: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Quindi l’Italia è fondata sul lavoro e compito della Repubblica è garantire l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla costruzione dello Stato stesso. La Repubblica si costruisce solo quando tutti i lavoratori, non i cittadini si badi bene, sono nelle condizioni di partecipare. Altro che Costituzione astratta, la nostra Carta è concreta e prescrittiva fin dai principi fondamentali. Rimuovere gli ostacoli. Parole nette, precise. Che, d’altro canto, trovano un riscontro in buona parte della filosofia moderna.

Prendo a prestito André Gorz, filosofo di origine austriaca ma francese a tutti gli effetti. Nel suo saggio “Metamorfosi del lavoro”, ci ricorda con parole importanti che il lavoro salariato è un’invenzione moderna e non ha un semplice rilievo economico, ma una profonda radice sociale: “La caratteristica essenziale del lavoro – spiega  – è di essere un’attività che si svolge nella sfera pubblica, è un’attività richiesta, definita e riconosciuta utile da altri che, per questo, la retribuiscono. È attraverso il lavoro remunerato (e in particolare il lavoro salariato) che noi apparteniamo alla sfera pubblica, acquisiamo un’esistenza e un’identità sociale (vale a dire “professione”), siamo inseriti in una rete di scambi in cui ci misuriamo con gli altri e ci vediamo conferiti diritti su di loro in cambio di doveri verso di loro. Proprio perché il lavoro socialmente remunerato e determinato è il fattore di socializzazione di gran lunga più importante – anche per coloro che lo cercano, vi si preparano o ne sono privi – la società industriale si considera come una “società di lavoratori” e, in quanto tale, si distingue da tutte quelle che l’hanno preceduta”.

Insomma, la banalizzo, se l’uomo è un’animale sociale, nella società industriale dispiega a pieno la sua socialità proprio nel lavoro. E dunque non è un caso se i lavoratori vengono posti a fondamento, a garanzia direi quasi, delle nostre libertà costituzionali e sono soggetti di diritti proprio in quanto lavoratori.

Nella nostra società, ormai post industriale, il lavoro si modifica diventa prevalentemente immateriale, non produce – o meglio lo fa in quantità molto più ridotta rispetto al passato – merci, ma soprattutto servizi o merci immateriali. E il capitale del lavoratore diventa sempre più la sua stessa individualità, la sua intelligenza, il sapere. Il lavoro, nella società occidentale – tende a diventare prevalentemente intellettuale, perché – e Marx ce lo aveva spiegato qualche secolo fa  – il capitalista riduce l’apporto della manodopera nei processi di lavorazione fordisti con un uso sempre più massiccio delle macchine. L’informatica ha fatto il resto. E dove neanche in questa maniera riesce più a creare plusvalore, lo fa esportando l’industria stessa in paesi dove il costo del lavoro è più basso e i diritti inesistenti. Non sono, insomma, i migranti, il moderno “esercito industriale di riserva”, quella massa disposta a tutto pur di lavorare che fa peggiorare la qualità della vita del lavoratore salariato, ma sono paesi interi a fornire questa alternativa. Non si importa forza lavoro, si sposta la produzione.

L’analisi è evidentemente rozza e semplificata. Sarà anche un “pippone”, ma tocca rimanere nei limiti dell’umana sopportazione. Se riusciamo, per un attimo, a distaccarci dalla polemica politica quotidiana ci accorgiamo, però, che questo processo che ho solo abbozzato è evidente anche nel nostro paese. Al di là dell’evidente fallimento delle politiche neo liberiste messe in atto dai governi che si sono succeduti e che trovano il loro coronamento nel jobs act, la verità l’ha detta Draghi (non un pericoloso comunista, ma la Banca centrale europea) nei giorni scorsi: i salari sono troppo bassi, se volete far riprendere l’economia e dunque creare nuovi posti di lavoro, alzateli.

Semplice, semplice. Non serve neanche scomodare la scuola di pensiero keynesiana, per capire quanto sia vera questa affermazione. Se vuoi far girare l’economia, in un sistema capitalista avanzato, non puoi che stimolare i consumi e si consuma se si hanno soldi da spendere. E chi è che può dare una scossa? Quella che un tempo si sarebbe chiamata la classe media, ovvio.

Solo che… E se neanche questo servisse a far aumentare i posti di lavoro? Ora l’Istat ci dice ogni mese che tutto va bene e la disoccupazione è in calo. Poi se si leggono bene i dati si scopre che mica va tutto così bene: aumenta sempre più il numero delle persone che smette proprio di cercare lavoro, aumenta il numero delle persone che lavora pochi giorni al mese (per le statistiche sono occupati a tutti gli effetti).

Ora, io non sono un economista, anzi. Ne capisco anche poco. Ma mi viene il sospetto che la nostra società sia già entrata in una fase successiva. Da un lato la delocalizzazione selvaggia della produzione a cui, in Italia più che altrove, non si è in grado di opporsi. Ma non basta a spiegare la nostra crisi strutturale: siamo in quella fase in cui l’automazione e l’applicazione dell’intelligenza artificiale alla produzione fa sì che si che pur aumentando la produzione stessa l’impatto sul lavoro sia modesto. E allora, ritorno all’inizio, come far in modo che i nostri principi costituzionali diventino effettivi, siano pratica quotidiana nell’azione di governo e non un enunciato astratto? Quale partecipazione si può avere se non ci sono più i lavoratori?

Io credo che sia questa la domanda che la sinistra italiana deve porsi con forza. E credo che sia una domanda sulla quale sia doveroso aprire un grande dibattito. Vedo che in altri paesi si fa. Ci si pone il tema di una società in cui il lavoro diventa sempre più merce rara.
E si danno anche risposte, sia pur, secondo me, parziali. Dalla necessità di ridurre progressivamente l’orario di lavoro, alle varie idee di tassazione del lavoro dei robot (arrivano non solo dai socialisti francesi, ma anche dalla silicon valley). Manca ancora una riflessione complessiva. Perché se è vero che il lavoro è il fondamento delle nostre libertà, non basta trovare antidoti “economici” alla sua carenza. Se è vero che nella società moderna il lavoro, salariato, è il massimo momento in cui l’uomo dispiega il suo essere sociale, in cui realizza se stesso, si sarebbe detto un tempo, se è vero questo, una società in cui il lavoro tende a non essere più l’elemento centrale, va ripensata nei suoi paradigmi fondamentali.

Negli anni ’80, un po’ scherzando, un po’ anche no, con un nutrito gruppo di figgicciotti (si chiamavo così gli iscritti all’organizzazione giovanile del Pci), proponemmo di considerare il “non lavoro” come valore. Nel senso che sì, il lavoro nobilita l’uomo, è fondamentale eccetera eccetera. Ma andrebbe anche considerato anche il tempo del non lavoro come spazio in cui si possa realizzare se stessi. Potrebbe sembrare una battuta goliardica, ma guardate che avevamo visto giusto.

Insomma, io credo che la sinistra, non solo italiana, ma nella sua dimensione internazionale, debba porsela questa domanda: intanto come tornare a rivendicare l’espansione della sfera dei diritti sociali, perché sono quelli che ci qualificano, e non limitarsi soltanto alla difesa dell’esistente. Tutto questo, nell’era della finanzia e dell’economia globale, ovviamente non può più essere pensato su scala nazionale. Detta facile: o facciamo arrivare i diritti civili in Cina e in India, insomma, o questi ci fanno a fette. Perché da noi più di tanto i salari non li puoi comprimere e non riusciremmo ad essere concorrenziali neanche seguendo pedissequamente i dettami economici di Marchionne e soci.
Ma fatto questo, bisogna pensare, e farlo in fretta, a una società del non lavoro.

Concludo rapidamente, ma il tema ovviamente meriterebbe ben più spazio. Perché potrebbe anche sembrare, lo ripeto, un’affermazione goliardica. Ma pensare una società in cui il lavoro non è più elemento dominante rappresenta una sfida enorme, dal punto di vista stesso della struttura sociale.  Certo, noi stiamo a pensare alle primariette, ai populismi che avanzano. Ce la prendiamo con i migranti perché ci rubano il lavoro. La nostra vera crisi, non solo italiana, sta proprio qui: manca la capacità di alzare il naso dal quotidiano e vedere oltre l’orizzonte. Manca nella politica, che nel solo ha perso il contatto con il mondo reale, non riesce a fare i conti con “la pancia”, ma non riesce neanche a definire quale sia il suo cielo, la sua utopioa. E manca anche in quel mondo intellettuale tanto fecondo in passato, tanto salottiero e “terrazzaro” oggi.

#Iolavedocosì.
Votare Orlando il 30 aprile?
Un errore politico e una scorrettezza

Apr 4, 2017 by     No Comments    Posted under: dituttounpo'

downloadHa cominciato Gianni Cuperlo, con un esplicito invito a Bersani e ad Articolo Uno, in sostanza: il 30 aprile venite votare alle primarie del Pd per dare una mano a Orlando. Poi ha continuato Goffredo Bettini (che io tra l’altro ricordavo strenuo sostenitore di Renzi e Orfini, mi devo essere perso qualche passaggio), più mellifluo il suo appello: “Confido che il messaggio di Orlando arrivi all’insieme del centrosinistra, che aspetta il momento della riscossa e dell’unità; superando quelle divisioni volute più dai gruppi dirigenti per coltivare orticelli, che dai cittadini e i militanti che da tempo hanno dimostrato, soprattutto nelle città, di avere un sentire comune e la voglia di stare insieme contro la destra e la demagogia”.

E poi da li a ruota molti orlandiani si sono scatenati sui social, arrampicandosi su sentieri scoscesi e ricchi di olio, pur di dimostrare che il regolamento delle primarie del Pd permetterebbe un voto da parte di chi del Pd non è elettore. Manca solo Orlando, ma allora sarebbe disperazione pura.

Intanto non è vero che alle primarie del Pd possa votare chiunque. L’articolo 10 è molto chiaro: devi sottoscrivere un documento dove dichiari di sostenere il partito e condividere la sua linea politica. Poi non ti fanno l’analisi del Dna, diranno che in passato hanno votato folle prezzolate e truppe aviotrasportate, le regole sono chiare, però.

Ma il punto politico è un altro. Non la faccio lunghissima e procedo schematicamente.

1) Sono uscito dal Pd nel luglio del 2015, nel frattempo ho votato alle amministrative e a due referendum, sempre in contrasto con la linea decisa da Renzi, ho lavorato – e continuo a farlo – alla costruzione di una forza di sinistra, alternativa al Pd, che marchi una netta discontinuità con le politiche neoliberiste che hanno affascinato negli ultimi anni le forze che fanno riferimento al Pse. Come potrei mai firmare un documento in cui dico di condividere il progetto e la linea politica di un partito che ha proposto e approvato: introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione, fiscal compact, abolizione dell’articolo 18, legge ammazza scuola, legge elettorale truffa, riforma costituzionale in senso autoritario? E mi fermo qui, ma potrei continuare.
Non sarebbe né serio, né rispettoso, né corretto, insomma, andare a scegliere il segretario di un partito di cui, ormai, non sono non condivido la linea politica, ma neanche il progetto di fondo. Sarà anche vero che la destra nel 2013 scese in campo a favore di Renzi, non so. Ma noi siamo diversi, anche su queste cose.

2) Anche volendo passare sopra alle considerazioni regolamentari ed etiche di cui sopra, qualcuno mi spiega perché dovrei votare per uno che fino all’altro ieri ha fatto il ministro di Renzi senza mai non dico sbattere il pugno, ma neanche provare a instillare qualche dubbio, qualche idea di sinistra, nel programma della compagine governativa? La cosa più di sinistra che ha fatto Orlando in questi anni è stata chiedere la conferenza programmatica all’assemblea nazionale convocata per avviare l’iter congressuale. Insomma, anche a voler essere spregiudicati, la candidatura di Orlando sembra più decisa a tavolino per arginare la crepa che si è aperta, piuttosto che rispondere a una qualche vera esigenza politica.

3) Non capisco per quale motivo Articolo Uno dovrebbe sprecare tempo energie in questa impresa. Io non ho alcuna intenzione di tornare in un partito, lo ribadisco, è alternativo al campo che vorrei costruire. Il che non vuol dire che non ci possano essere rapporti con il Pd, alleanze locali, convergenze programmatiche a livello nazionale. Tutt’altro, sarebbe miope e minoritario non porsi il tema. Al momento opportuno. Ma, vivaddio, che il Pd faccia il Pd e la sinistra faccia la sinistra! Abbiamo da fare abbastanza, sinceramente, dobbiamo ricostruire dal nulla, anzi dalle macerie lasciate in questi anni, un campo di forze che torni a essere percepito come una speranza per il nostro paese. Le elezioni dei segretari altrui, non ci devono e non ci possono riguardare.

4) Infine un rispettoso “rimbrotto” a Cuperlo: io credo che il suo appello sia stato scorretto (per le ragioni che ho scritto all’inizio). E non riconosco in quelle parole il politico rispetto e di rigidità quasi “monastica” che ho apprezzato in tanti anni di comuni frequentazioni. E, la finisco davvero, lo ritengo anche sbagliato tatticamente, un segno di evidente confusione e debolezza. Capisco che le compagnie che frequenta non sono esaltanti, ma se le è scelte. E noi, comunque, lo aspettiamo sempre. A braccia aperte.

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