L’unico voto utile per la sinistra.
Il pippone del venerdì/42
Prima di cominciare questo mese che ci porterà alle elezioni è bene fare chiarezza sul “voto utile”. Perché questo sarà il leit-motiv che ci accompagnerà fino al 4 marzo. Non c’è solo il richiamo diretto, gli appelli dei padri nobili, quello di Prodi è solo il primo, saremo subissati di dichiarazioni simili. Basta pensare ai giornali di questi giorni, in cui tutta l’attenzione è dedicata agli scontri sui collegi. Paginate su paginate con fotine dei candidati e sondaggi a dir poco campati per aria. Tutto per creare un finto allarme sulla destra che sarebbe molto vicina alla maggioranza assoluta ma che ancora non ci arriva perché una cinquantina di seggi all’uninominale sarebbero in bilico. E allora ecco una sorta di richiamo subliminale, una chiamata alle armi contro i populisti. Se ci facciamo chiudere in questo recinto rischiamo sul serio di farci del male.
E allora proviamo a rimettere in ordine le cose. Partiamo da Liberi e Uguali. Siamo partiti bene, con le due assemblee nazionali, un clima di grande attesa, molta partecipazione, fiducia. Poi sono arrivate le spine, la questione delle alleanze sulle regionali di Lombardia e Lazio, la questione delle liste, con discussioni abbastanza consuete, ma amplificate dal fatto di non essere un partito ma – al momento – una mera aggregazione elettorale, una sorta di associazione temporanea di imprese in cui ognuno tende a salvaguardare la sua componente. E’ stato, per dirla in tutta sincerità, un mese in cui buona parte dell’entusiasmo iniziale si è spento, soffocato dalle polemiche e dalle discussioni sui candidati. In molti territori si sono aperte ferite, alcune scelte sono apparse troppo “conservative”, tese esclusivamente a salvaguardare unicamente i parlamentari uscenti. Si poteva fare meglio, senza dubbio. Ma dobbiamo tener conto anche di una legge che, di fatto, non permette alcuna competizione reale. Tutto è affidato alle scelte effettuate dai partiti, i candidati non hanno alcuna possibilità di competere realmente. Non ci sono le preferenze nella parte proporzionale, i collegi uninominali sono così grandi che difficilmente un candidato può incidere sul risultato, con le poche eccezioni, forse, di persone talmente note da rappresentare veramente un valore aggiunto. Un meccanismo infernale nel quale una formazione politica appena nata e di natura essenzialmente parlamentare come Liberi e Uguali rischiava di lasciarci le penne.
Siamo ancora in piedi. Con tutte le ferite del caso, ma siamo ancora in piedi. E abbiamo questo mese in cui non solo dobbiamo resistere ai richiami vari, ma dobbiamo rilanciare il nostro messaggio per tornare a crescere e arrivare a un risultato che ci permetta non solo di riportare una pattuglia della sinistra in parlamento e nei consigli regionali, ma anche di incidere realmente sulle scelte politiche che saranno prese nei prossimi cinque anni. Io credo che per farlo dobbiamo uscire dalla trappola del voto utile e delle sfide nei collegi. Come farlo? Provo a dire come la penso.
Intanto la definizione di voto utile. Tutte le preferenze espresse a formazione politiche che andranno a eleggere anche un solo deputato sono utili. Quindi tutti i voti dati a liste che supereranno il 3 per cento. Dunque: Forza Italia, FdI, Lega, 5 stelle, Pd, Leu. Le altre liste sono specchietti per le allodole. Servono soltanto a portare qualche decimale in più ai partiti che eleggeranno davvero deputati, grazie al meccanismo infernale previsto dalla legge: se non superi lo sbarramento i tuoi voti vengono comunque attribuiti alle altre forze con le quali sei coalizzato se hai preso più dell’uno per cento. Ecco spiegato l’accanimento del Pd nel cercare alleanze con cespuglietti apparentemente insignificanti. Oppure, nel caso delle liste che vanno da sole, servono soltanto a indebolire gli schieramenti più vicini. Liste come Forza Nuova, solo per fare un esempio, tolgono decimali alla destra, ma non arriveranno al 3 per cento.
Dunque il voto a Liberi e Uguali ha di per sé una sua utilità, non è un voto “disperso”. Perché la somma di questi voti avrà una sua rappresentanza parlamentare. Non fatevi ingannare dalle paginate sulle sfide nei collegi uninominali dove LeU non appare quasi mai. Solo un terzo dei parlamentari viene eletto con questo metodo, il resto, la grande maggioranza dei seggi, sono stabiliti in maniera perfettamente proporzionale. E questo, appunto, vale per tutti i partiti che supereranno il 3 per cento.
Resta l’altro mito da sfatare, cioè, per dirla con le parole di Casini che un “voto a LeU è un voto dato alla lega di Salvini”. Ora, intanto bisognerebbe ricordare al neo renziano Casini che lui con la Lega ci ha governato fino all’altro ieri e quindi non è titolato a parlare di sinistra e manco di centro-sinistra, ma questo mito del voto utile per evitare un governo di destra non sta in piedi. Non sta in piedi per una ragione essenzialmente matematica. E va ricordata anche a Renzi, un altro che ripete il mantra del voto utile contro LeU. Grazie alle politiche di questi anni, la partita a queste elezioni si gioca essenzialmente fra centro-destra e Movimento cinque stelle. Tutti gli altri sono staccati. Sono molto staccati. I mass media possono provare a far finta di credere che ci sia una qualche contesa in cui Renzi e la coalizioncina bonsai messa su per mascherare l’isolamento del Pd possano realmente competere. Basta fare un giro in strada per capire che non è così. Che, per le ragioni di cui abbiamo discusso ampiamente nei mesi scorsi, c’è un vero sentimento popolare contro il Pd, a favore delle destre e dei cinque stelle.
Sono due gli elementi ancora realmente aperti in questa tornata elettorale. Il primo è la dimensione della vittoria della destra, se potrà cioè esprimere una maggioranza autosufficiente in Parlamento. Il secondo, qualora questo non avvenisse è la somma dei voti fra Forza Italia e Partito democratico. Potrebbe sembrare la classica somma fra mele e pere che non può dare alcun risultato. Ma non è così: da Macron alla Merkel, il risultato che tutti si auspicano nelle alte sfere della borghesia europea è proprio questo. Un governo di larghe intese fra Berlusconi e Renzi, con l’esclusione dell’ala cosiddetta populista, da Salvini a Grillo. Le burocrazie Ue questo vogliono per anestetizzare ancora una volta il nostro Paese.
E allora è evidente come il voto a Liberi e Uguali è l’unico voto davvero utile per chi si definisce di sinistra. Perché solo riportando a votare un forte numero di astensionisti e solo con una forte affermazione si possono evitare sia la vittoria della destra che la grande coalizione marmellata alla tedesca. Solo con una forte presenza parlamentare di LeU possiamo mettere un puntello alla prossima legislatura. Altrimenti, con buona pace della parte sinistra ancora rimasta nel Pd, nascerà “finalmente” quel partito della nazione a cui si sta lavorando da anni. Non sarà a guida Renzi, non sarà a guida Berlusconi, troveranno un personaggio meno vulcanico, in grado di rassicurare banchieri e mercati finanziari. Magari quel Calenda, che tanto successo riscuote negli ultimi tempi.
Un ulteriore tassello per completare il quadro sono state le liste democratiche, dove le minoranze sono state decimate, gli uomini più autorevoli emarginati. Vana è la speranza di chi spera di aprire la strada della rivincita contro Renzi a partire dalla sconfitta elettorale. Come davvero curiosa è la posizione dei quadri delusi del Pd che minacciano di votare la lista della Bonino per “dare un segnale” al partito. Per dare questo benedetto segnale, non a Renzi, ma all’Italia, la strada è obbligata: se si vuole rafforzare la sinistra si vota la sinistra. Non certo una forza ultraliberista il cui programma essenziale è andare oltre le richieste dei potentati europei, con misure quali il blocco dei livelli di spesa nei prossimi cinque anni che porterebbero questo Paese a una nuova stagione di recessione. A me non piace una società dove il tuo datore di lavoro controlla i tuoi movimenti con un braccialetto elettronico. Per questo va ricostruita una forza che rappresenti i lavoratori. In Italia come in Europa. Il 4 marzo è solo il primo appuntamento. Importante.
E allora un ultimo appello, prima che la campagna elettorale cominci davvero: guardiamoci in faccia, scarpe comode e maciniamo chilometri. Sciogliamo il nostro “io” in un “noi” collettivo. Bandiera rossa in spalla, volantini in mano. Eppur bisogna andar.
Mi è venuta una strana idea: ma se facessimo un po’ di campagna elettorale?
Il pippone del venerdì/41
Dopo una settimana in cui abbiamo dedicato il pippone a questioni più alte, torniamo sulla terra, che le elezioni incombono. A me pare che il tarlo del masochismo non abbandoni mai la sinistra. Abbiamo cominciato questa avventura di Liberi e Uguali in ritardo, con ferite ancora aperte e con i pantaloni più o meno rattoppati. Incontrare sulla nostra strada un uomo come Grasso è stata quasi una sorpresa. Fosse che stavolta ce ne va bene una, mi sono detto. L’entusiasmo che c’era all’Atlantico, la folla, la passione. Niente. E’ durato lo spazio di un sospiro. Siamo tornati al nostro livello abituale di masturbazione mentale nel giro di pochi istanti. Per non parlare di chi pur di affermare il proprio io fa liste alternative sapendo benissimo che non arriveranno mai a superare il quorum. Ma restiamo al tema.
Nell’ordine, abbiamo riempito queste settimane con le seguenti polemiche: all’assemblea c’era troppa gente; il nome Liberi e Uguali è maschile; il leader non è stato votato dall’assemblea; Grasso ha chiamato le donne foglioline; Grasso in passato ha elogiato Berlusconi; azzerare le tasse universitarie non è di sinistra; l’assemblea dei delegati (al nazionale) del Lazio non ha votato il mandato a Grasso per aprire un confronto sulla Regione, pur non avendo votato, però, era contraria; la Boldrini sbaglia a chiudere ai 5 stelle; Bersani sbaglia ad aprire ai 5 stelle; Grasso è troppo decisionista; Grasso non decide nulla, è ostaggio dei veterocomunisti; D’Alema non deve parlare di quello che succederà dopo le elezioni; D’Alema non deve parlare di programmi, ci dica cosa farà dopo le elezioni; D’Alema non deve parlare; D’Alema deve essere più presente non può fare solo la campagna elettorale in Puglia; sono troppi i parlamentari uscenti candidati nelle liste; le liste sono state decise tutte nelle segrete stanze; Liberi e Uguali nasce con tutti i vizi del passato, la base non conta nulla; in Liberi e Uguali c’è troppo assemblearismo (vedasi caso Lombardia); dobbiamo assolutamente convincere Anna Falcone a candidarsi con noi; la candidatura della Falcone è il tipico esempio dell’opportunismo in politica.
Ometto tutte le polemiche minori su questa o quella dichiarazione che non andava bene, ometto anche le sopracciglia della Boldrini (presidente diamo una sfoltita alla foresta, il riscaldamento globale non ne risentirà). Ometto anche le prossime polemiche sul materiale di propaganda che sarà sicuramente troppo generico, ma anche troppo prolisso, colorato, ma troppo pastello, per non parlare delle liste per le regionali sulle quali non oso pensare cosa riusciremo a tirare fuori. Sarà anche vero che i social hanno sostituito le pareti dei cessi e rappresentano una sorta di moderno muro bianco in cui ciascuno di noi tira fuori il peggio di sé, ma io credo che noi di sinistra ci mettiamo un nostro quid in più. Altro che fake news. Noi abbiamo una sorta di memoria selettiva che ci porta a ricordare solo gli errori, solo le sconfitte. Per cui Bersani diventa “quello che ha governato con Berlusconi”. Che non sia vero non importa. Il problema non è che qualcuno fabbrica notizie false contro di noi, ma che noi stessi siamo i primi ad amplificarle e fare un dramma di qualsiasi pisciatina di gatto.
L’ultima in ordine di tempo, vale la pena di soffermarsi un po’ sull’attualità, è quella sulla composizione delle liste per Camera e Senato. Ora, già parlare di liste è difficile, perché questa pessima legge elettorale ha inventato un meccanismo infernale, fra collegi uninominali, proporzionali, alternanza di genere, pluricandidature e via dicendo. Un meccanismo che, di fatto, impedisce qualsiasi tipo di consultazione della base. E se guardate bene anche chi ha detto di averlo fatto, come i grillini, guarda caso non pubblica i risultati con i voti ottenuti dai candidati e alla fine si è affidato ai vertici per riempire tutte le caselle. Abbiamo provato, con le assemblee regionali, a raccogliere proposte dalla base. C’è stata una grande disponibilità di tanti compagni a metterci la faccia, come si suol dire, anche in quei collegi uninominali in cui tutti ci danno perdenti. Non sarà una corsa inutile la loro. Perché il loro nome sarà quello più in evidenza sulla scheda. E conterà eccome avere candidati credibili in tutta i collegi d’Italia. Gente conosciuta, che aiuti a dare visi e gambe alle nostre liste.
Poi sono cominciate le normali fibrillazioni su questo o sul quel nome “paracadutato” dal centro sui territori. Apriti cielo. I giornali che abitualmente non ci si filano proprio, hanno immediatamente trovato spazio e pagine intere sono state dedicate alla rivolta della Calabria o all’insurrezione della Sardegna. Cortei di protesta in viaggio verso Roma, tessere che volano, sedi occupate. Succede sempre, in ogni elezione. Questa volta il tutto è esacerbato da due fattori. Il primo è sempre riferibile a questa legge che ha eliminato tutte le possibili forme di scelta da parte dell’elettore. Ti concede di fare una croce sul simbolo che hai scelto, niente più. Il resto è già deciso. Il secondo, purtroppo, deriva dalla nostra insufficienza, dal nostro essere lista elettorale e non partito. Per cui sei mentalmente portato a difendere “i tuoi” e se invece ti propongono un candidato che arriva da un’altra formazione politica o da un’altra storia la prendi come offesa mortale. Ci sono ancora problemi, è evidente. Alcuni errori che, spero, saranno corretti.
Dobbiamo fare i conti, però, con un fattore che non dipende da noi: il tempo. Febbraio ha 28 giorni, poi arriva marzo. E’ un attimo, questa campagna elettorale, purtroppo o per fortuna, durerà davvero poco. E per una lista appena nata, con un simbolo mai visto prima, è una corsa a ostacoli. Ora, faccio una profezia, nelle prossime ore le polemiche finiranno, presenteremo le liste, nel Lazio e in Lombardia avremo un supplemento di supplizio per quelle regionali, ma lì la pratica è relativamente più semplice perché c’è spazio per tutti, i guai cominciano dopo con la caccia alla preferenza. Una volta presentate le liste resterà qualche mal di pancia, ma avremo i candidati schierati al nastro di partenza. E che siano paracadutati, aviotrasportati, fanteria o cavalleria, possono pure arrivare dalla luna, ma devono battere il territorio metro per metro.
Qui subentra il mio personalissimo appello: abbiamo limiti evidenti, in questi mesi li abbiamo visti tutti. E credo che abbiamo anche gli strumenti per correggere questi limiti nell’immediato futuro. Senza fare sconti. Ma ora serve una moratoria di un mese. Io sono di vecchia scuola. Si discute e ci si scanna fino a quando non suona il gong. Poi si diventa soldati. Io la vedo così: per un mese i nostri dirigenti sono perfetti, i migliori che avremmo mai potuto sperare. Che nessuno degli avversari osi criticare i nostri candidati. Non ne esistono di più bravi, preparati. E, a dirla tutta, sono pure belli. Esagero, state tranquilli, non sono diventato del tutto pazzo. Qualcuno dei nostri non è bellissimo, lo ammetto.
Esagero per dire come la penso: facciamo un mese di campagna elettorale tutta proiettata all’esterno a far conoscere le nostre proposte, il nostro simbolo. Mettiamoci tutti la faccia. Io resto fiducioso sul risultato finale, il mio obiettivo resta quello di riportare in parlamento non tanto la sinistra, genericamente intesa, ma quella cultura socialista che da troppo tempo manca in Italia. Si può fare. Basta smetterla con le polemiche inutili che interessano soltanto a qualche appassionato di contese sterili, appunto. Armiamoci di scarpe comode, bandiere nelle strade, bussiamo alle porte di tutti, entriamo nelle case, come facevamo un tempo. Strada per strada, portone per portone. E facciamolo soprattutto lontani dai salotti buoni delle città. Torniamo a parlare con i deboli. Se vogliamo davvero ridare voce a chi non ce l’ha dobbiamo chiedergli il voto, come prima cosa. Sono sfiduciati, incazzati con noi? Hanno ragione. La nostra lista, secondo le ultime rilevazioni è più debole proprio fra i poveracci. E allora lì dobbiamo battere. Prendiamoci gli insulti, ammettiamo gli errori, proviamo a convincere quanti più elettori possibili. Vediamo se sappiamo ancora come si fa a stare nelle piazze e nelle strade dell’estrema periferia.
Anche perché, guardate che se va male sarà veramente triste: con chi ce la prendiamo nei prossimi cinque anni se non abbiamo più parlamentari da biasimare anche quando si soffiano il naso?
L’arte di prendere per il culo il popolo.
Il pippone del venerdì/40
Lo so. A voi piace quando dedico questo spazio al taglio (spesso con l’accetta) dell’attualità politica, quando entro a gamba tesa nell’agone della quotidianità. Però il pippone non nasce per guadagnare like o portare lettori sulle mie tesi. Resta una specie di esercizio mentale che mi impongo, uno spazio nel quale soffermarmi a riordinare idee e provare a ragionare in chiave meno immediata. Si chiama pippone mica per scherzo. Vuole, anzi deve essere noioso e non sconveniente al tempo stesso.
E allora oggi vorrei partire da qui, dallo stato della politica italiana ridotta a cumulo di promesse senza senso, per capire l’origine di quanto accade. Il berlusconismo ha rotto ogni argine. Ormai “un milione di posti lavoro” lo dicono più o meno tutti, “più dentiere per tutti” sembra un ritornello di una canzonetta estiva. Insomma la gara è a chi le spara più grosse. Io non credo che sia solo questo però, il berlusconismo è l’effetto della malattia, non la causa. E’ il bubbone evidente, che va sicuramente inciso, ma l’incisione non risolve le cause profonde del degrado dell’offerta politica nel nostro paese.
Parto da un esempio concreto, ma solo per spiegarmi: ieri mattina, intervista mensile di D’Alema sul Corriere della Sera, ormai depositario dei pensieri del Max nazionale. Come al solito fa un quadro della situazione, condivisibile o meno ma sicuramente accurato, fa una previsione sul risultato delle elezioni, basato sulla concretezza sia pur effimera dei sondaggi non sulle fanfaluche della propaganda, poi spiega, in tutta crudezza che se non ci sarà, come è facile prevedere, un vincitore, servirà un “governo del presidente”, cioè un esecutivo che guidi il paese con spirito di servizio per una fase breve, con compiti limitati prima di tornare a votare. Una legge elettorale decente, ad esempio. Che magari ci dia una maggioranza alla fine dei giochi. Parrebbe una affermazione legata al buon senso. Eppure, nel giro di un battito di ciglia, si scatenano gli acefali: D’Alema farebbe meglio a stare zitto, non si dicono certe cose, siamo al solito inciucista.
Ora, non vorrei fare il solito difensore del baffetto, avranno anche ragione. Certe cose in campagna elettorale non vanno dette. Si fanno dopo. Evitando la partigianeria elettorale vorrei solo partire da qui per ragionare su come si sia estinta una cultura politica che univa al tempo stesso una visione sul futuro e la concretezza di un’analisi basata sulla realtà. La cultura dei Gramsci e dei Togliatti, ma anche dei De Gasperi e dei Nenni. Nel secolo scorso (sigh!) i partiti, non solo quelli che si rifacevano al socialismo, avevano una visione ideologica che gli dava una sorta di “cielo”, ma non dimenticavano la crudezza della situazione realtà e avevano una ricetta concreta per il presente, una specie di “terra” alla quale restare ancorati e nella quale mettere radici. Venute meno le ideologie, finite anche le visioni, ormai la dimensione della politica si è ridotta alla quotidianità. Una quotidianità alla quale manca dannatamente il cielo. Basta pensare ai giovani che sempre più si allontano dalla militanza: non hanno un sogno in cui identificarsi e i giovani hanno bisogno dei sogni, di una prospettiva visionaria, di identità. Venuti meno i grandi pensatori del ’900, i nani della nostra classe dirigente attuale hanno sostituito le idee con la pubblicità. E la politica da arte del governare è diventata arte del prendere per il culo il popolo. C’è chi lo vuole al potere e spesso schifa i quartieri che non hanno manco una sala da tè. C’è chi lo vuole felice e beota e lo rincoglionisce di termini inglesi per non fargli capire nulla. C’è chi gli promette ricchezze da mille e una notte.
Per questo i Corbyn, i Sanders sembrano giganti. Guardate che mica fanno niente di eccezionale. Parlano di socialismo, di una società del futuro che superi le ingiustizie del capitalismo e provano a rendere questo nostro cielo comune più terragno con proposte pratiche: niente tasse sull’università, ad esempio. Ha fatto discutere la riproposizione alle nostre latitudini dell’idea che in Gran Bretagna ha spopolato. Non entro nel merito, sul fatto che i diritti debbano essere universali ci sarebbe da scrivere un libro. Faccio notare che abbiamo per lo meno introdotto nel dibattito quotidiano un elemento che dà l’idea del futuro, di una nazione che non pensa solo al proprio egoistico oggi ma guarda per lo meno ai propri figli.
Ecco, tornare a coniugare sogni e realtà senza questa ipocrita confusione dei piani a cui assistiamo ogni giorno. E dunque: diritti universali – niente tasse sui diritti. Grasso, nel suo impacciato approccio mediatico, ha questa dote: farfuglia, ma ogni tanto ti butta lì un macigno. Ieri sera, rispondendo a una assurda contestazione sulla presunta irrealtà di una forte lotta all’evasione fiscale ne ha buttata lì un’altra, forse troppo in sordina: gli evasori fiscali sono ladri di diritti, ha detto. A me questo concetto piace e credo che andrebbe sviluppato. Chi non paga le tasse fa in modo che tutti noi abbiamo meno diritti, meno servizi. Non è più dritto e quindi da imitare. E’ un ladro di diritti e deve finire in galera. Chi evade ruba i tuoi diritti. Che ne dite? Funziona come slogan? Secondo me sì, molto.
Il cielo e la terra si uniscono, non si confondono.
Io continuo a sostenere che la sinistra doveva prima di affrontare l’agone elettorale ritrovare il suo cielo. Riproporre una visione sociale e soprattutto socialista. Tornare ad affrontare il tema, il nodo, del superamento del capitalismo. Tornare a dire con forza che non possiamo acconciarci al meno peggio e vogliamo una società che abbatta la forma capitalista di produzione e organizzazione politica. Solo dove l’ha fatto con coraggio la sinistra sta superando la crisi che dura dal crollo del muro. Non abbiamo avuto né il tempo né il coraggio in Italia, ancora una volta abbiamo preferito una coalizione elettorale che, purtroppo, mostra i suoi limiti appena tocca prendere una decisione. Ora bisogna, come dire, scavallare il 4 marzo. Cercando di non arrivarci con troppe ferite. Poi verrà – lo spero – il momento di fare finalmente i conti senza l’assillo di dover conservare la poltrona a qualche parlamentare.
Lo so, sono troppo dalemiano. Penso alla concretezza dell’oggi e provo a trovare la maniera di superare le contraddizioni, a vedere se si arriva a domani. con la poca lucidità di cui sono capace. Ma credo anche che di prese in giro siamo un po’ tutti stanchi, di pifferai magici ne abbiamo conosciuti tanti. Un po’ di sano realismo, secondo me, ha un suo fascino. A patto di tornare a vedere il cielo. Ovviamente biancazzurro! (E la battuta sarà anche fuori contesto, ma siamo quasi a domenica).
Le mie (poche) certezze sulle elezioni regionali.
Il pippone del venerdì/39
Sono stato fortemente tentato, lo confesso. Volevo dedicare questo pippone post feste natalizie al tema delle molestie sessuali, tornato sulle prime pagine dei giornali dopo l’appello “pro maschi” firmato, tra altre cento donne, da Catherine Deneuve. Provare a fare una riflessione al di fuori dagli opposti schematismi estremi, in un certo senso, mi incuriosisce molto. Forse incuriosisce non è il termine esatto. Io sono sempre stato disgustato dall’idea stessa di un rapporto non consensuale, quando mi occupavo di cronaca nera faticavo moltissimo a scrivere di uno stupro. Soffrivo perfino. Mi sono rifiutato di andare a intervistare le vittime. Perché mi sembrava di sottoporle a una nuova violenza solo per solleticare la morbosità di una parte dei lettori. Eppure nelle vicende di queste settimane mi riesce difficile prendere una posizione definita. Mi sembra che si stia facendo un gran calderone di storie e situazioni differenti. Mi sembra che si stia tagliando con l’accetta una discussione più sfaccettata, troppo complessa per entrare in una logica da “bianco e nero”. E mi sembra, però, che lo stesso errore lo facciano anche le firmatarie di quest’ultimo appello. Ecco, me la cavo così e torno alla politica in questi giorni troppo pressante davvero, faccio un appello io: non facciamo diventare le molestie, la violenza sessuale, materia da bar. Non dividiamoci in tifosi dell’una o dell’altra tesi.
Chiusa la parentesi, mi pare che la politica italiana, nel suo complesso, avrebbe bisogno di uno stuolo di psichiatri. Se si prova a mettere insieme un po’ delle notizie apparse sui giornali nelle ultime settimane si capisce subito la ragione di questa mia affermazione, che potrebbe apparire eccessiva. Tabacci che fa la lista con la Bonino. Berlusconi che vuole abolire – o quanto meno modificare – il jobs act. Calenda (Confindustria) che accusa Grasso di essere di destra. Gli appelli alla santa alleanza contro i barbari lanciati dagli stessi che accusano Liberi e Uguali di aiutare Salvini. Nel novero degli atteggiamenti da psichiatra ci metto anche i reiterati appelli dei cosiddetti padri nobili all’unità a tutti i costi. Prima ci hanno provato con le elezioni politiche, adesso tornano alla carica con le regionali. Ora, intanto non si capisce bene come si diventa padri nobili. C’è un concorso? Vengono eletti? No, perché almeno uno di quelli che adesso parlano e straparlano di unità della sinistra è stato quello che la sinistra la voleva morta. Ricordate Veltroni e le elezioni politiche? Ricordate Di Pietro e i Radicali sì e Bertinotti no? Ecco e allora abbiate il buon gusto di tacere, cari padri nobili.
Eppure la questione c’è, ci sta lacerando le carni in questi giorni. Se l’esito di quello che succederà in Lombardia è pressoché scontato – io derubricherei le aperture di quale esponente di Leu nel novero dei tatticismi da bassa politica – la situazione nel Lazio è sicuramente più complicata. In primo luogo perché la sinistra in questi anni ha governato con Zingaretti. Anche con silenzi troppo prolungati, se vogliamo dirla tutta. Penso al piano casa, alla sanità, innanzitutto. Ho sentito poche voci, pochi allarmi in questi anni. Hanno taciuto anche gli odierni pasdaran.
In secondo luogo perché per molti di noi Zingaretti rappresenta quella parte del Pd con cui vorremmo fare un percorso insieme in un prossimo futuro. Non prendiamoci in giro: da soli, anche andassero bene le elezioni, non si va da nessuna parte. Possiamo anche continuare a giocare e dire che tenteremo un’apertura verso i 5 stelle, ma non ci crede neanche chi lo dice. Quelli hanno un Dna diverso dal nostro. Certo, insieme alle ragioni dello stare insieme, ci sono gli argomenti, anche questi serissimi, di chi dice andiamo da soli. Al di là delle differenze programmatiche, su cui un accordo si trova sempre, sono due le obiezioni serie. La prima: mai nella stessa coalizione con la Lorenzin. E su questo mi pare che siamo tutti d’accordo. La seconda: si vota lo stesso giorno, non saremmo capiti dai nostri elettori. E in effetti chi sostiene questa tesi non ha torto. Sarà una campagna elettorale piena di schizzi di sangue. Dire che da un lato il Pd ci fa schifo e dall’altro si sostiene un suo esponente, sia pur della minoranza orlandiana, non sarebbe semplice. Né aiutano in questo senso le troppe timidezze che ha avuto Zingaretti negli anni. Si defilato per lunghe stagioni dal dibattito politico nazionale. Io credo, paradossalmente, che abbia ragione Orfini quando dice che dovrebbe assumere un profilo più politico. Ovviamente siamo in disaccordo sulla qualità del profilo politico. Il presidente del Lazio dovrebbe dire chiaramente che si candida come costruttore di una nuova stagione della sinistra, di una alleanza diversa per tornare a governare. Non solo il Lazio. Un consiglio non richiesto, dunque: esca da questa mistica della “coalizione del fare”, parli alla sinistra, ai suoi elettori. Il fare serve, ci mancherebbe, ma solo quando si ha una bussola, una agenda precisa. Torni a incarnare la famosa autonomia del gruppo dirigente di Roma e del Lazio. L’abbiamo costruita e difesa gelosamente per decennni, ci serve anche adesso.
Lo poteva e lo doveva fare nel percorso che lo ha portato dall’annuncio della sua candidatura fino ad oggi. Non lo ha fatto, ha preferito prima affidarsi a Pisapia e Smeriglio, a cui per troppo tempo ha appaltato l’esclusiva del lato sinistro della coalizione, commettendo un errore di cui paga le conseguenze adesso.
Come vedete, insomma, si tratta di una partita difficile, forse essenziale per il processo di crescita di Liberi e Uguali. Diffidate, prendete accuratamente le distanze, evitate chi ha troppe certezze. Coltiviamo il dubbio e discutiamo senza preclusioni. Anche valutando la forza di eventuali alternative. Perché nelle Regioni, non lo dimentichiamo mai, si vota in primo luogo il candidato presidente. E alle elezioni mancano ormai pochi giorni.
Una certezza però ce l’ho e vorrei fosse più diffusa e proclamata a voce alta: che alle elezioni regionali, qualunque sia la decisione che i nostri delegati prenderanno nelle prossime ore, voteremo tutti Liberi e Uguali. Non vorrei più leggere: se fate questo io me ne vado. Né voglio credere alle voci che mi parlano di liste alternative già in avanzato stato di costruzione. Liberi e Uguali è la nostra casa comune, è appena un embrione del partito che avremmo già dovuto costruire. Ma almeno questo deve essere un punto fermo per tutti noi. Indietro non torniamo. Diciamolo tutti, però.
A casa si litiga, si discute, ci si divide. Ma poi si va avanti insieme. Si trovano le strade per far prevalere le ragioni che ci fanno stare uniti. La ragione che deve prevalere, sempre, è semplice: dobbiamo ridare voce agli ultimi in questo paese. Dobbiamo portare la sinistra in tutte le sedi istituzionali. E se questa è la stella polare, dobbiamo usare, anche in maniera un po’ spregiudicata, tutte le strade utili allo scopo. Altri tentativi, lo sappiamo tutti, non ci saranno concessi. Per cui, cari compagni, discutiamo, litighiamo, prendiamoci a parolacce, che volino sonori schiaffoni. Si sceglie e poi si torna a lavorare. Per Liberi e Uguali, per riportare la bandiera rossa in Parlamento e nelle Regioni. Ci serve.
Una partita a scacchi lunga due mesi.
Il pippone del venerdì/38
La costruzione di Liberi e Uguali, dopo i sussulti iniziali, procede spedita. Il 7 gennaio ci sarà una nuova assemblea nazionale, chiusa la legge di stabilità alla Camera è arrivato anche il giorno dell’adesione di Laura Boldrini. Con lei il listone della sinistra si arricchisce di un profilo di peso, si ricompone la frattura provocata dalle bizze di Pisapia. Insomma possiamo mangiare il panettone, se non proprio del tutto sereni almeno con un tasso di fiducia in crescita.
Credo che l’appuntamento del 7 gennaio non sarà un semplice passaggio di routine. Come non saranno per nulla scontati i giorni successivi, nei quali si definiranno con precisione le liste dei candidati alle elezioni. Politiche e regionali, nelle zone dove si votano anche le assemblee locali. Dico questo perché, visto che non siamo ancora riusciti a fare un partito, dotarsi di un programma radicale, con punti qualificanti e innovativi su lavoro, diritti, stato sociale, scuola e formazione diventa essenziale. A fronte di un centrodestra sempre più aggressivo e sicuro della vittoria e di un Pd isolato e avviato sulla strada della deflagrazione post elettorale, occorre mettere un argine serio. Piantare non qualche bandierina isolata, ma un accampamento consistente. E per farlo servono due cose: le idee chiare e una squadra all’altezza per rappresentarle. Non so quale sarà il metodo scelto per selezionare i candidati. Le proposte nasceranno nelle assemblee locali e poi verranno vagliate da un comitato nazionale presieduto da Grasso. Non so quanto sarà ristretto questo gruppo. A me piacerebbe che fosse una sorta di gruppo dirigente provvisorio a cui affidare non soltanto la selezione delle candidature ma anche la definizione del percorso post elettorale. Indietro non si torna, l’ho detto e ripetuto in tutte le occasioni in cui mi è stato possibile. Perché i nostri militanti e, credo, ancor di più i nostri elettori, ci chiedono di costruire una casa.
Non ci siamo riusciti in questi anni. Io sono uscito dal Pd nel 2015, era luglio, e da allora ho sempre cercato, nel mio piccolo, di mettere insieme le forze sparpagliate della sinistra. Secondo me siamo ancora in una fase intermedia. E’ bene tenere le menti e le porte aperte. Perché il processo di scomposizione e ricomposizione della sinistra italiana non è finito. E purtroppo affrontiamo queste elezioni mentre ci troviamo in mezzo al guado. Un pezzo di strada l’abbiamo fatto, anche grazie alle accelerazioni degli ultimi mesi, tanta strada resta da fare e le acque in cui ci muoviamo sono tumultuose, le correnti forti, il nostro equilibrio precario. Per questo quei giorni, dal 7 gennaio alla presentazione delle liste, saranno essenziali.
Io dico – e dopo qualche tempo vorrei provare a scrivere due cose anche sul livello locale – che anche dalle alleanze e dalle candidature che sapremo mettere in campo nelle Regioni si capirà la cifra del nostro progetto politico. Si fa un gran dibattere in questi giorni sulla natura che deve avere il nostro progetto, radicale, di governo, di lotta. Io credo che la dimensione del governo sia talmente naturale che non si debba ripetere ogni due passi. Altrimenti sembra che lo diciamo quasi per farci forza. Mi spiego meglio. Intanto l’obiettivo di andare al governo dovrebbe essere naturale. Che senso ha presentarsi alle elezioni se non si ha in testa, nel breve o ne medio periodo, di entrare nella stanza dei bottoni e provare a guidare l’Italia? Se non si ha in testa questo si potrebbe direttamente aderire al club del bridge e si fa anche meno fatica. In secondo luogo io credo che i profili e la storia dei “soci fondatori” di Liberi e Uguali siano una garanzia. Non solo per il pezzo che viene dai Ds, ma anche per quello che arriva dall’esperienza di Sel, che si è sempre messa a disposizione – direi anche troppo – nell’ambito di un progetto di centro sinistra.
Se è vero questo, allora, il problema non si dovrebbe neanche porre: dove ci sono le condizioni per costruire un’alleanza per vincere le elezioni si fa. Non è ovviamente così banale. Intanto perché la rottura avvenuta nel Pd per molti di noi è ancora fresca. Le separazioni hanno bisogno di tempo per sedimentarsi, le polveri devono posarsi atterra dopo un’esplosione per tornare ad avere una visione chiara. E poi perché si vota lo stesso giorno. Dunque non sarebbe facile spiegare agli elettori perché su una scheda il Pd è brutto e cattivo e sull’altra un alleato affidabile. D’altro canto, scendo a livello del Lazio, non sarebbe facile neanche spiegare – se la prospettiva comune a tutti noi – è quella di costruire in futuro un’alleanza per tornare al governo nazionale, per quale motivo si lavora per dare una botta in testa a quel Nicola Zingaretti che, pur con tutti i suoi limiti, per me rappresenta comunque una delle risorse migliori per il “post Pd”.
Non dico altro perché scrivere parole definitive su questa vicenda non è possibile. Le variabili in campo sono ancora molte e non tutte, secondo me, sono ancora conosciute a pieno. Credo che però l’assemblea del 7 gennaio qualche parola chiara di “indirizzo politico generale” debba essere chiamata a dirla. Non essere un partito avrà anche i vantaggi di potersi muovere con agilità, ma se non si mette in campo una proposta politica definita non si richiamano i famosi elettori che stanno nel bosco. E questa secondo me è una discriminante seria: crediamo ancora che la prospettiva per governare questo paese sia un nuovo centrosinistra, in forme del tutto differenti rispetto al passato, oppure pensiamo a qualcosa di differente?
Resto convinto che l’incontro delle differenti culture politiche che abbiamo chiamato centrosinistra sia l’unica strada possibile. Magari evitando di ripetere l’errore di voler racchiudere prospettive differenti in un contenitore unico. Magari costruendo una sinistra che non abbia paura di essere davvero radicale. Guardate che in questa società in continua evoluzione le timidezze anni ’90 ti portano alla situazione di oggi. E ripetere lo stesso errore un’altra volta non mi pare davvero intelligente. Ma detto questo, ricostruito il nostro campo, fatto un partito forte, strutturato, pesante nelle idee non tanto nella burocrazia. Fatto questo, dicevo, bisogna farla contare la propria proposta politica. A tutti i livelli. Mi piacerebbe che nelle proposte programmatiche che i nostri delegati andranno a discutere a gennaio queste riflessioni potessero trovare cittadinanza piena.
Intanto buone feste a tutti. Per qualche settimana anche il pippone se ne va in vacanza.
Ryanair, l’ala dura del padrone e il nuovo socialismo
Il pippone del venerdì/37
C’era una volta un paese in cui lavoratori erano protetti dall’articolo 18, i dipendenti licenziati ingiustamente avevano la possibilità di essere reintegrati sul posto di lavoro. Ci volevano anni, ma le sentenze prima o poi venivano emesse. Poi arrivò un tale che si definiva di sinistra, il signor Renzi e disse: roba vecchia. Si cambi, bisogna essere smart.
C’erano una volta i sindacati dei lavoratori. Quelli a cui, con un po’ di burocrazia e tutte le loro lentezze, potevi andare a bussare per tutelare la tua dignità. Poi arrivò il signor Renzi e disse: intralciano lo sviluppo, basta, sono roba vecchia.
C’era una volta Ryanair, una roba dove i piloti volano sostanzialmente a ciclo continuo, che disse ai lavoratori che volevano scioperare: siete vecchi e se lo fate scordatevi premi e aumenti. Renzi e i suoi si infuriarono: non si fa così, i diritti dei lavoratori si rispettano. Vista dall’esterno pare una barzelletta, ma fra un po’ si vota e la sagra delle balle è appena iniziata.
Ora, l’ho raccontata un po’ così, velocemente, tagliando le questione con l’accetta, per arrivare a una conclusione, che fa riflettere sul passato, ma ci dà anche qualche indicazione sul futuro. L’articolo 18 non era inutile ciarpame ideologico come vorrebbero farci credere. Mi direte: sì ma che c’entra con la vicenda di Ryanair? Il danno maggiore che ha creato questo governo (ma secondo me le radici degli errori di questi anni stanno tutti nella nostra sbornia liberista di fine secolo) è l’aver lacerato il Paese, creando le condizioni per cui un’azienda mette addirittura nero su bianco, su carta intestata, il suo esplicito “invito” a non scioperare. Altro che i padroni cattivi che ti facevano sussurrare all’orecchio dal caporeparto che era meglio venire a lavorare, che la tessera del sindacato era meglio non prenderla. Qua abbiamo un’azienda internazionale che te lo scrive proprio. E se ne frega dell’indignazione che ha generato. Come può farlo? Semplice: in questo paese per anni il governo ha lanciato un messaggio chiaro agli imprenditori: venite e fate un po’ come vi pare. E quelli lo hanno preso in parola.
L’articolo 18 è il caso emblematico. Si toglie, si dice che serve massima flessibilità e libertà per gli imprenditori. Si mette all’angolo il sindacato, la Cgil in particolare. E gli imprenditori prendono in parola il governo: assumono con il cosiddetto contratto a tutele crescenti (spesso gli stessi lavoratori che prima avevano forme più tutelate), ci guadagnano con gli sgravi fiscali. E appena finisce il periodo di agevolazioni licenziano e riassumono in forme nuovamente precarie. E vai un po’ a dir loro che non si può fare, che non è elegante. Hai dato loro carta bianca, ci mettono sopra le parole che più gli garbano.
Questo è quello che è successo nel mondo del lavoro negli ultimi 20 anni, di cui il jobs act è una sorta di epitaffio. Un progressivo spostamento degli equilibri: si è tolto potere contrattuale ai deboli per garantire i forti. Facevo riferimento alla nostra sbornia liberista perché da lì parte tutto: dall’illusione che il compito della sinistra fosse diventato semplicemente quello di rendere meno brutto il capitalismo. La globalizzazione andava semplicemente “alleviata”, cercando di correggerne gli effetti più violenti. Che questo non funzionava lo avevano capito bene i movimenti di quegli anni, i cosiddetti “no global”, se andate a rileggere le loro elaborazioni più avanzate, i problemi, l’analisi c’era tutta. E perfino la dimensione del movimento, che univa occidente e terzo mondo, era quella necessaria a comprendere lo scenario nuovo in cui si trovava ad agire il capitalismo e in primo luogo la finanza. L’errore della sinistra fu derubricare quel movimento e quelle elaborazioni a fenomeno pittoresco, spesso anche violento. Andava marginalizzato. Noi a Genova non c’eravamo. E permettemmo che la mano violenta dello Stato spegnesse quel grande movimento mondiale. Genova è stata la fine di quell’esperienza. Quel morto, quella violenza cieca sono serviti a mettere una pietra sopra l’unica strada che la sinistra doveva percorrere.
Da lì la strada è stata in discesa: la crisi stessa dei partiti socialisti nasce dal non aver saputo offrire una sponda politica a quei ragazzi. I movimenti per loro natura sono transitori, è la politica che deve fare proprie le istanze avanzate e dargli stabilità, farle diventare patrimonio duraturo. Manca persino una riflessione approfondita su quegli anni. Non basta dire: abbiamo capito di aver sbagliato a seguire la strada indicata da Tony Blair. Bisogna anche capire, per esempio, che bisogna tornare a ragionare in una dimensione globale. Perché solo così si sfida un capitalismo che ha quella stessa dimensione. Ragionando ancora per pezzettini si rischia di fare la parte di quelli che vogliono acchiappare un elefante con il retino per le farfalle.
Noi siamo in campagna elettorale e a quello dobbiamo pensare. A prendere i voti necessari a dare forza al processo di ricostruzione della sinistra che abbiamo iniziato in questi mesi. E dobbiamo farlo sapendo che lo strumento messo in piedi in fretta e furia non sarà sufficiente. Ma queste sono le condizioni date. Se però quello strumento insufficiente, lo riempiamo di contenuti fin da subito, la sfida possiamo superarla. E dunque dobbiamo guardare a un nuovo internazionalismo, bisogna fare rete con quello che si muove in Europa nel nostro campo, anche andando oltre la casa del socialismo che appare un edificio sul punto di crollare. So che sembrano riflessioni campate per aria e inattuali. Ma io credo che vada la pena, per una volta: cerchiamo di essere un po’ meno provinciali e di affrontare i temi complessi che abbiamo di fronte senza banalizzazioni. I tempi sono brevi, ma i pensieri devono essere lunghi. Non basta dire che la Boschi è bugiarda, la legge Fornero va abolita, va rimesso l’articolo 18: dobbiamo dare una prospettiva.
Ecco, torno da dove sono partito. L’alata in faccia ai lavoratori che Ryanair ha dato nei giorni scorsi è un pezzo di questo processo di arretramento complessivo della sinistra in questi decenni. Siccome noi abbiamo sempre l’ansia degli ultimi arrivati, in Italia abbiamo fatto i compiti meglio e abbiamo cercato di smantellare in tre anni le conquiste dell’ultimo secolo. Dalle pensioni, all’articolo 18, alla scuola pubblica, al servizio sanitario. Ce lo chiede l’Europa, ci hanno detto ogni volta. Volevano soltanto farsi belli agli occhi del capitalismo globale. Che adesso, un pezzo alla volta, ci presenta il conto.
Ora, siete presi dai regali di Natale e capisco che parlare di società socialista può apparire un nostalgico richiamo a un tempo passato. Quindi vi lascio ai cenoni, ai pacchi e ai lustrini, sono stato insolitamente breve e capisco che il tema non si esaurisce di certo così. Ma guardate, sintetizzo ancora, che non c’è altra strada: tornare a parlare della necessità di un superamento del capitalismo, tornare a pensare il mondo nuovo. Liberi e Uguali, ci siamo chiamati. Per me non è un caso: partire da questo simbolo per parlare di un nuovo socialismo.
Liberi e Uguali, c’è qualcosa di nuovo.
Il pippone del venerdì/36
Ora, chi vive sui social probabilmente non se ne sarà accorto, perché la vita virtuale in questa settimana è stata dominata dalle polemiche grammaticali sul nome della nuova lista. Liberi e Uguali sarebbe maschile e quindi non va bene. E chi è sopravvissuto alle suddette polemiche è stato steso dalla nuova, ennesima, lettera di Tomaso Montanari che ha stroncato l’assemblea di domenica scorsa. Lui non c’era, ovviamente, ma ha capito benissimo tutto quello che è successo e ce l’ha spiegato – a noi che invece c’eravamo eccome – con righe di fuoco. Al leader mancato della sinistra perfetta verrebbe da rivolgere un accorato appello: “Caro Tomaso, fatti una vita tua, non parlare sempre di quanto sbagliano gli altri”. In realtà lui ci ha anche provato. Alla fine l’hanno rimasto solo.
Insomma: chi, come ormai tanti di noi, segue il dibattito politico solo ed esclusivamente sui social rischia una depressione che neanche il disastro del duo Pisapia-Fassino riuscirà ad alleviare. A me è capitato di passare un paio di giorni così. Incupito dalle notizie che apprendevo via facebook, mi si erano appannate le belle immagini di domenica. Poi ho fatto mente locale, ho partecipato a qualche riunione vera. Ho parlato con persone in carne e ossa e non con icone virtuali. Aiuta, bisognerebbe tornare a farlo con una certa continuità. Si possono perfino guadagnare voti.
Intanto alcune considerazioni: non ho trovato nessuno in giro che si lamenti dell’acclamazione di Grasso come leader. Che poi, siete davvero intossicati da questi anni passati a contarsi nel Partito democratico: ma se siamo tutti d’accordo, se c’è un candidato solo, condiviso da tutti, ma che cosa dovevano votare mai i delegati? La politica, mi riconoscerete di averlo sostenuto in tempi non sospetti, deve tornare ad essere confronto, anche scontro, ma luogo dove si cercano soluzioni condivise e non si cerca la conta a ogni angolo di strada. Perché già nelle aule istituzionali è un dovere cercare sempre punti di mediazione, ma in un partito diventa essenziale, procedere sempre a maggioranza finisce per far venire meno le ragioni per cui si è scelto di stare insieme. Avremo modo di confrontarci già nelle prossime settimane sui programmi e poi sulle liste: la strada della condivisione mi sembra la migliore.
Detto questo, parlando con le persone reali, non le icone sui social, non ne ho trovato uno che mi abbia posto i problemi di cui cianciano i soloni da tastiera dei salotti bene, da Montanari in giù. E questo mi ha francamente sorpreso. Se usciamo un po’ dalla cerchia di chi ha già la tessera di uno dei partiti che hanno fondato Liberi e Uguali (cerchia molto ristretta) i problemi che ci pongono sono altri. Nessuno ti chiede se Grasso è stato votato o come sono stati scelti i delegati.
Faccio un salto logico, ma solo in apparenza. Uscendo dall’Atlantico Live, reduce da un’assemblea complicata da un’organizzazione frammentaria, ho scritto, sinteticamente: ci siamo sentiti tutti a casa. A me non succedeva da tempo, di partecipare a un evento insieme a persone che hanno una storia differente dalla mia e non sentirla questa differenza. Ricordo il primo luglio le facce sconcertate dopo l’intervento di Pisapia, domenica al contrario ho visto facce sorridenti. Certo poi non c’è il simbolo, poi siamo stati in piedi o seduti sulle scale. Ma chi c’era ha percepito un’aria diversa in quell’assemblea.
Io credo che – è questa la novità – gli interventi, la loro qualità e anche intensità emotiva, ci hanno fatto guardare in faccia senza il pensiero rivolto al passato. Non sono stati i soliti interventi di circostanza, i testimonial scelti per dare una verniciata civica a qualcosa di preconfezionati. Io ho ancora i brividi per il discorso del medico di Lampedusa, ho ancora il senso di speranza che mi ha dato la compagna della Melegatti. Ho ancora in testa le questioni sollevate da Legambiente, le questioni non tanto contabili quanto di senso poste dal presidente di Banca Etica. E quella figura, forse un po’ da nonno saggio che tiene a bada tre ragazzini, di Piero Grasso ci ha dato finalmente alcune sicurezze. L’ombra incombente dei cattivi Bersani e D’Alema, i reduci delle sconfitte che ora mettono la figurina a coprirli. Io non ho visto né percepito questo. Bersani e D’Alema erano li in platea, pronti ad abbracciare Grasso dopo il suo intervento. Ho sentito sentimenti fraterni, non calcoli da bassa politica.
Lo dico sottovoce: c’era un’aria nuova in quel brutto capannone della periferia romana. Non c’erano i lustrini e i palloncini colorati delle convention mediatiche. C’era un popolo ansioso. Ceto politico hanno detto. Io ho qualche dubbio. Cinquemila persone in fila al freddo di una mattinata di dicembre. E poi gli applausi, quasi liberatori. Abbiamo capito tutti insieme una cosa, forse la abbiamo addirittura scoperta tutti insieme domenica. Provo a raccontarvi la mia sensazione. Sono partito dubbioso, quel nome ostico, l’assenza della parola sinistra. Sarà l’ennesimo e inadeguato papa straniero, pensavo. Poi quel discorso, quelle facce. Ho cominciato ad avere la sensazione che il “modello Grasso” non parli a noi, a quelli che con disprezzo i giornali nella migliore delle ipotesi definiscono i fuoriusciti. La costituzione, i valori, la lotta alla mafia, la questione sociale. Un discorso semplice e alto allo stesso tempo. La serenità e la fermezza di un uomo che vive sotto scorta da non so quanti anni ma non molla. Dice con fierezza: Io ci sono. Andiamo avanti tutti uniti.
Guardate che Grasso non parla alla sinistra. Non parla neanche solo a quelli che stanno ancora nel bosco. Grasso parla agli italiani. A quelli che non arrivano a fine mese. A quelli che sono stanchi dei furbi e dei favori. A quelli che rivendicano i propri diritti. Abbiamo una figura che non è solo o tanto un leader, è una specie di garante. E’ un programma vivente, ha detto Vendola con una battuta molto efficace. E’ uno serio, non un venditore di pentole, mi permetto di aggiungere.
Attenzione che c’è qualcosa di nuovo. Non siamo alla riedizione della sinistra minoritaria 2017. C’è curiosità e attesa nei nostri confronti. Ho visto facce diverse, nuove. Ho sentito tante persone che ci dicono: attenti a quello che fate, perché ci interessate. Non ci deludete. Ecco, ora tocca a noi. Usciamo dalle discussione social, troviamo un modo intelligente per selezionare i candidati migliori a ogni livello. A me non importa che siano nuovi o vecchi. Devono essere i migliori che possiamo mettere in campo. E allora magari a Lampedusa potrà essere il medico degli immigrati, nel Salento potrà essere D’Alema. Io non la vedo in contrapposizione. Devono esserci tutte e due le cose: dobbiamo portare in parlamento novità ed esperienza allo stesso tempo. E poi, lo so sono ripetitivo. Apriamo sedi, comitati, facciamoci vedere a ogni angolo di strada, nei mercati, nelle scuole, sui luoghi di lavoro. Dentro i luoghi del conflitto. Radicali, ha detto Grasso. Ha ragione. Non è tempi delle sfumature di grigio. Servono proposte da battaglia.
Attenzione che c’è qualcosa di nuovo. E cresce di giorno in giorno. Altro che ridotta di sinistra. Noi stiamo costruendo il futuro della sinistra in Italia. La ridotta (di centro) rischia di essere il partito di Renzi. Quindi, compagne, compagni eccetera: scarpe comode, poche polemiche, al lavoro e alla lotta. Anche questo l’ho già detto, ma ci stava bene.
La melma mediocre che ci avvolge.
Il pippone del venerdì/35
Lo so che siete tutti impegnati nell’attesa spasmodica di scoprire il nome della sinistra prossima ventura. Lo so che vi sareste aspettati una severa condanna dei nazi di Como. Lo so che volevate l’ennesima presa in giro di Pisapia, questo novello sor Tentenna che non riesce a decidere neanche da quale parte del letto dormire. Ma per una volta permettetemi di estraniarmi dalla quotidianità per fare una riflessione slegata dai fatti del giorno. Che poi, cari ragazzi, tirate fuori qualcosa di meglio che qui gli argomenti scarseggiano sempre più. La politica sembra un remake degli anni ’90. I social sono sempre più piatti. Le prime avvisaglie della campagna elettorale del resto non fanno presagire niente di buono. Altro che sonniferi, bastano i talk show.
E allora, in tutto questo piattume, afflitto da un raffreddore latente che se ne sta lì in agguato, pronto a prendere il sopravvento al minimo segno di cedimento, pensavo a un dato davvero epocale: avete mai notato che in Italia, caso unico al mondo, abbiamo l’abitudine di cambiare il nome alle cose? So che può sembrare una cazzata, ma seguitemi perché è un dato essenziale per il pippone di oggi.
Cambiamo nome alle società: Teti, Sip, Telecom, Tim. Fanno sempre la stessa cosa. Cambiamo nome alle tasse, Tarsu, Tari, Tasi, Imu, sigle che si susseguono vorticosamente. Cambiamo nome perfino alle leggi: la Finanziaria, per fare un esempio, è diventata la legge di stabilità. In Regione l’assestamento di bilancio è diventato il collegato. Quando non cambiamo il nome, si rinnova almeno il logo, si fa un bel restyling grafico. Se fate mente locale questo fatto succede solo da noi. ln America non è che pensano di chiamare diversamente la Cocacola e neanche di cambiargli il logo. La General electric, per fare un altro esempio, si chiama così dal 1892.
La verità è che noi siamo il paese più immobile al mondo e allora, in una sorta di gattopardismo generale, siamo costretti a cambiare almeno l’apparenza. Cambiare il logo mi pare la versione 2.0 del “facimme ammuina”. Cosa è cambiato per gli inquilini delle case popolari di Roma con il passaggio della gestione dall’Iacp all’Ater. Nulla, vengono gestite sempre male. Però per almeno qualche mese hanno avuto la speranza che si trattasse di una vera riforma. Il campione del gusto italico per il finto cambiamento è stato sicuramente quel fenomeno che risponde al nome di Achille Occhetto, che non si pose il problema della ridefinizione delle basi culturali di un moderno partito socialista in un periodo in cui tutto il mondo stava cambiando a velocità vorticosa. No, il prode Occhetto pensò di cavarsela cambiando il nome al Pci. Partito comunista era troppo complesso da sostenere e allora ebbe la grande trovata: proviamo a chiamarci Partito democratico della sinistra, che non significa un tubo, magari gli elettori ci cascano. Sappiamo come andò a finire, oggi – in pieno renzismo – lo possiamo dire con assoluta certezza: male.
Ma perché questo paese è così dannatamente mediocre? Non mi venite a dire che siamo la terra di Dante, di Leonardo, di Cavour, di Gramsci, solo per citarne alcuni. Le eccezioni non contano. Non siamo un paese di santi, poeti, navigatori. Gente nata per sbaglio da noi. Siamo un paese dove il 99,9 per cento della popolazione non solo si adagia nella melma mediocre che ci avvolge, ma odia anche chi prova a scrollarsi di dosso tale pesante retaggio. Succede in politica, basta vedere i personaggi che vanno per la maggiore. Da Renzi a Salvini. Se non siete proprio convinti cercate l’immagine di Gasparri. Ecco, appunto.
Succede nella società cosiddetta civile (prima o poi scoprirò chi per primo ha inneggiato alle qualità della società civile: non è una promessa, è una minaccia), nelle attività lavorative – per fare un altro esempio – il modo per emergere è dimostrarsi fedeli al potente di turno che a sua volta è diventato qualcuno facendosi strada a forza di sissignore. Quale qualità ne potrà venir fuori?
Siamo l’unico paese – vado a memoria, ma non credo di sbagliare di tanto – che non ha mai vissuto una rivoluzione, un fatto davvero traumatico. Basta pensare alla Francia dell’89, o alla rivoluzione industriale. Tutti eventi di cui siamo stati spettatori. Da noi i moti carbonari sono stati una cosa riservata a ristrettissime élite che, peraltro, il popolo manco amava. Tutt’altro. Da noi i Mazzini, i Garibaldi non hanno guidato le masse popolari ma esigue minoranze.
Per farla breve, io la vedo così: il progresso, non solo in politica, ma un po’ in tutti i campi, nasce da una discontinuità, da un momento di frattura. Non sono i “signorsì” che fanno la storia, sono i folli, quelli che saltano dalle barricate della storia e fanno a cazzotti con lo status quo.
Nella nostra di storia ne abbiamo avuti troppo pochi. L’unico grande moto popolare che ha davvero cambiato qualcosa è stata la Resistenza. Ma, anche in questo caso, tutto nacque da una ristretta élite (si chiamavano fra di loro “rivoluzionari di professione”), per diventare moto popolare si dovette aspettare la disfatta bellica dell’asse nazifascista e comunque non si trattò di un fenomeno esteso a tutto il territorio. Basta guardare i risultati delle elezioni e si capisce l’effetto.
Subito, tra l’altro, si pose fine al conflitto civile, permettendo a larga parte della classe dirigente, penso a tutta la burocrazia statale, di riciclarsi da un giorno all’altro. Un cervello di primissimo ordine come Togliatti avvertì il rischio dell’ennesimo ciclo gattopardesco, ma capì anche che la stragrande parte della popolazione fino a due anni prima era fascista. Non poteva epurare un popolo. Anche la Resistenza, dunque, fu un fenomeno limitato e parziale. Eppure gli effetti si sono visti per decenni. Intanto quella classe dirigente, uscita dalla guerra, si era forgiata in 20 anni di fascismo e di lotta clandestina. La lotta politica si faceva con l’Ovra che ti bussava alle porte. Ci sono stati Togliatti, Pertini, Nenni. E Sturzo, De Gasperi, Andreotti. Solo per citarne alcuni. Insomma, la frattura violenta, la lotta al fascismo, ci ha regalato 20, forse 30 anni di una classe dirigente di livello superiore. Non voglio fare un trattato storico, ma il fatto che adesso ci si contenda un Pisapia qualsiasi per vincere le elezioni la dice lunga. Siamo ripiombati nella mediocrità. A tutti i livelli. E lo stato di assoluto sfacelo in cui si trova il nostro sistema scolastico non fa ben sperare per il futuro. Addirittura promuoviamo la mediocrità, la formiamo. Non la subiamo solamente.
E lo paghiamo a maggior ragione nel mondo globale dove la mancanza di qualità la paghi duramente. Siamo come in un gara di Formula Uno dove la differenza la fanno i particolari. Basta una ruota montata in ritardo di pochi decimi di secondo e la gara è perduta. Ecco, noi la ruota ce la siamo persa per strada. Sarà anche disperante, ma secondo me bisogna avere ben chiaro il problema per provare a trovare la via d’uscita. Escluderei di dichiarare guerra a qualcuno, mi sembra una soluzione troppo estrema. Ma un qualcosa dovremo pur inventarcelo, una sorta di selezione sociale che ci porti davvero a un modello in cui ciascuno sia messo nelle condizioni di dare davvero un contributo a seconda delle sue capacità. Non è una questione di promuovere il merito. Da noi si parla di merito quando si vuole mascherare la promozione dell’amico dell’amico. Da comunista sono per l’eguaglianza delle possibilità, poi potremo anche parlare di come premiare il merito.
Io credo che questo sia il nodo vero che l’Italia deve affrontare: come si esce dalla mediocrità, come si premiamo le intelligenze rispetto ai servilismi. Come, in una frase sola, si riesce a cambiare la cultura di un popolo. Questo, per me, è il lavoro che dovrebbe fare, innanzitutto, la nuova sinistra. Creare una società in cui le individualità sono coltivate, le intelligenze sono incoraggiate e stimolate. Ecco io la farei una discussione su questi temi, non sarà la realizzazione del socialismo, ma francamente sentire soltanto parlare di come si eleggono delegati al nulla mi ha un po’ stufato.
Tre mesi da vivere pericolosamente.
Il pippone del venerdì/34
Se la data delle elezioni sarà, come dicono, intorno a metà marzo abbiamo di fronte a noi tre mesi o poco più. Io non sono uno di quelli che considera questo appuntamento una sorta di armageddon dove si decideranno i destini dell’umanità. Tutt’altro. Anche perché, diciamolo chiaramente, con tutta probabilità non si avranno maggioranze certe, anche grazie a questa legge elettorale pasticciata che non prevede né coalizioni né un premio di maggioranza. Si è partiti dicendo che gli italiani avrebbero dovuto sapere fin dalla serata chi aveva vinto, finirà che avranno vinto tutti e non avrà vinto nessuno. All’italiana appunto. Fatta questa premessa, però, è ovvio che la nuova sinistra – che proprio in queste ora affronta il battesimo nelle assemblee che si stanno svolgendo in tutte le città d’Italia – dovrà affrontare una prova severa. Senza avere il tempo per farsi davvero movimento di popolo.
Possiamo anche prenderci in giro e mi direte che sono cinico e che con il cinismo non si prendono i voti. Ma un sano realismo serve proprio, invece, a prendere le misure del problema e a cercare le soluzioni. Breve analisi della situazione, dunque.
Punto primo: abbiamo perso 8 mesi appresso a Pisapia (peso elettorale 0.5 per cento) perché ci serviva una figura “federante” che non avesse l’immagine consumata dagli scontri, dalle sconfitte. Insomma la storia la sapete. Quando ci siamo accorti che ci stava prendendo in giro, abbiamo fatto una brusca accelerazione. Pronti, via. Ed è partito il fuoco “amico” dei cosiddetti civici riuniti nell’ormai mitico “percorso del Brancaccio” che ci hanno accusato di fare un percorso verticista, tutto di ceto politico eccetera eccetera. Insomma sapete anche questa di storia.
Punto secondo: malgrado tutto ci siamo. Assemblee in tutte le province, si discute, spero che ovunque si trovi un accordo non preconfezionato ma nell’assemblea stessa sui nomi delle persone da delegare all’appuntamento nazionale. E che tutto si svolga in un clima positivo. Ne abbiamo bisogno. Non sarà un percorso di popolo, ma non è neanche un percorso verticistico. In questo fine settimana ci saranno decine di migliaia di persone, in tutta Italia, che passeranno giornate a discutere sui contenuti. Persone che, in larga parte, non aderiscono a nessun partito esistente, non hanno interessi personali da mettere in gioco. Vogliono solo partecipare, ascoltare, dire la loro. Vogliono capire (perché in questa fase siamo) se è il caso di uscire dal bosco per impegnarsi. Chi, come me, non vive di soli social ma un po’ di antenne sul territorio ce l’ha, percepisce un clima di attesa, di grande interesse. Capisco che i giornali sono appassionati di polemicucce, ma questo non avveniva da decenni e dargli uno sguardo non sarebbe male. C’è chi fa le primarie, è vero, ma quelle non sono un momento democratico di partecipazione, sono una semplice conta fra chi ha le truppe più allenate. La partecipazione, la politica direi, è altra cosa. E’ un po’ come se un pezzo non piccolo dell’elettorato ci stesse dicendo: ora, io non mi fido di voi, grazie ai vostri errori ci troviamo sostanzialmente all’anno zero della sinistra in Italia, ma sto qui a vedere se questa volta avete capito davvero. Non mi fido di voi, ma sono qui. Fatemi vedere di cosa siete capaci.
Attenzione dunque a quello che facciamo.
Punto terzo: il percorso che siamo riusciti a mettere insieme fin’ora è comunque fragile. Mi sembra che la sinistra sia come quelle squadre di calcio che prendono sette goal in una partita e che perdono completamente la fiducia. Alla partita successiva non riescono a fare neanche un passaggio di quelli elementari. E dunque, essendo un percorso fragile, va maneggiato con cura. Va nutrito e protetto. Dobbiamo arrivare all’assemblea del 3 dicembre avendo posto le basi per creare una nuova comunità: quell’appuntamento dovrà dire cose chiare, dare linee programmatiche, scoprire il nostro simbolo e, mi pare di aver capito, indicare anche il nostro leader, una sorta di presidente di garanzia (e ho detto tutto). Bene. Ma dovrà dire una cosa chiara: ci impegnamo a non tornare indietro. Le nostre casette di provenienza stanno ancora lì, ma da oggi ne costruiamo una che sia di tutti quelli che sono qui oggi e di tutti quelli che arriveranno domani e dopodomani.
Questo secondo me resta il nodo di fondo e il mio cruccio di questi mesi. Non siamo riusciti – ancora – a fare questo passo in più, che sembra piccolo ma è fondamentale. Io ho deciso di uscire dal mio personale ritiro per questo. Perché quando è stato costituito Articolo Uno il mantra che ho sentito ripetere ossessivamente è stato: noi nasciamo non per costruire un nuovo partitino, ce ne sono già abbastanza, ma per ricostruire la sinistra italiana. Non ce l’abbiamo fatta – e forse era una sorta di missione impossibile – ma questa deve restare la nostra stella polare.
Ora, fatte queste brevi premesse, provo a spiegare il titolo di queste mie considerazioni settimanali: saranno tre mesi da vivere pericolosamente. Si capisce fin d’ora quale sarà tema di fondo di questa campagna elettorale. Malgrado i tentativi disperati del Pd di uscire dalla tenaglia scaricando su di noi le ragioni del disastro che lo attende, sarà la disfida fra Di Maio e Berlusconi. Nella sua senile ingenuità lo ha esplicitato bene Scalfari. Una sorta di tenaglia che cercherà di strangolare sul nascere la nostra nuova forza politica. Se ne esce con due mosse: intanto questa lista – lo so mi ripeto come un disco rotto – deve vivere non nelle istituzioni ma nei territori. Dalle nostra assemblee provinciali deve uscire forte un messaggio: costruire comitati unitari in tutti i quartieri delle città, in tutti i comuni delle province. Facciamoci vedere tutti i giorni, stampiamo migliaia di bandiere e chiediamo ai nostri militanti di metterle alle finestre. Ci siamo e dobbiamo farlo vedere. Seconda mossa: poche proposte chiare, secche. Direi radicali. Faccio un esempio: non possiamo dire l’alternanza scuola lavoro non funziona, la dobbiamo modificare e giù 4 cartelle per spiegare come. Dobbiamo dire: la scuola – salvo quelle professionali – non deve formare al lavoro, deve formare le coscienze. Dunque aboliamo l’alternanza scuola lavoro. E così sui diritti, sull’ambiente, sul lavoro. Chiarezza e radicalità della proposta. E poi i valori. Diamo un orizzonte ideale necessario a risvegliare le passioni. La politica è anche passione.
Lasciamo perdere, e la finisco qui, la contesa quotidiana sul voto utile. C’è un sistema quasi interamente proporzionale. Siamo stanchi di votare il meno peggio per mera paura. Ognuno pesi la sua proposta nel modo più democratico possibile: con il voto. Poi non è che ricominceremo con le trattative, i caminetti. No. Poi ci ritroveremo nell’unico luogo dove si confrontano le proposte e – se si può – si trovano le sintesi: il Parlamento. Ecco, siccome il nostro compito era troppo semplice, secondo me ce ne dobbiamo assumere anche un altro: spiegare che dobbiamo tornare a dare centralità al Parlamento. A chi ci dice che servono decisioni rapide, che questo mondo, la globalizzazione e via dicendo, ce lo chiedono, possiamo rispondere che con questa strada siamo arrivati al disastro di oggi. Serve più politica e non meno politica.
Insomma, cari compagni, amici, simpatizzanti, abbiamo tre mesi complicati. Tre mesi in cui tutti passeranno le giornate a gettarci fango addosso (sono ottimista sulla natura della materia che ci pioverà da tutte le parti), quindi nervi saldi e scarpe comode. Avanti!
Fatevene una ragione: la sinistra alle elezioni ci sarà.
Il pippone del venerdì/33
Come avevamo previsto (non ci voleva di certo Nostradamus), una volta avviato il percorso per arrivare alla lista unitaria della sinistra si sono messi immediatamente in azione gli sfasciatori di professione. Quelli specializzati – perdonate la volgarità – nella martellata continue sugli attributi (i propri) senza sbagliare un colpo. Mai.
Ultimo, ma solo in ordine di tempo, è arrivato Bertinotti. Una sorta di specialista del genere. Ha pontificato dall’alto dei suoi successi indiscussi: “La sinistra alle elezioni non si deve proprio presentare”. Non ho letto, francamente, le spiegazioni, sicuramente alte, sicuramente filosofiche. Prima di lui era partito alla carica il duo del Brancaccio annullando la prevista assemblea del 18: colpa dei partiti cattivi. Poi, una volta che si è precisato il percorso e il regolamento delle assemblee locali che precederanno l’appuntamento nazionale del 2, sono scattati quelli della virgola. E il regolamento non va bene, non si garantisce la partecipazione popolare, è tutto appaltato ai partiti: serve il civismo. Spunta perfino un nuovo appuntamento convocato per il 18 dicembre, firmato Potere al popolo. No comment. Intanto riappare sulla scena perfino Ingroia. Si è dato all’ippica, sarà contento Crozza.
Dall’altro lato è partito il tentativo del mediatore culturale (la definizione non è mia, la prendo in prestito dal mitico compagno D’Avach). Renzi ha preso da parte Fassino gli ha detto: con quelli parlaci tu che sei di sinistra. Fassino si è attaccato al telefono. Speriamo per lui che abbia un abbonamento di quelli tutto compreso. Si sa già che, se gli va bene, convincerà al massimo un pezzetto del campetto di Pisapia, ma va bene così: l’unico scopo di tutta l’operazione è dimostrare quanto siamo settari, trinariciuti e perfino un po’ zozzoni. Lo chiamano il gioco del cerino, da quei fiammiferi in uso lustri fa, famosi perché ti bruciavano le dita perché erano flessibili e molto corti.
Ora, poi magari proverò anche a entrare nel merito seppur l’esercizio sia abbastanza ozioso, ma una domanda mi si agita nelle viscere prepotentemente: ma di tutto questo chiacchiericcio, se si escludono tre o quattro tastieristi da social network, interessa a qualcuno? Io direi di no. Al massimo può ingrossare, per noia, le già pingui file degli astensionisti.
La cosa che vorrei evidenziare è un’altra: i critici del progetto unitario, sia quelli del genere A che quelli del genere B, dicono che su quella strada non andremo da nessuna parte. E allora perché tanto affanno, perché mobilitare tanta intellighenzia, quasi una tenaglia che quotidianamente tenta di tagliare i fili che, pazientemente, stiamo provando a trasformare in rete? Io credo che tutto questo, con le sue contraddizioni, i suoi limiti, faccia paura. La mia tesi la conoscete: sono decenni che un pezzo di sistema politico-imprenditoriale lavora per eliminare la cultura “comunista italiana”, sintetizzo così che capiamo tutti cosa intendo. E il lavoro continua senza sosta. Appena proviamo a rialzare la testa, avete presente il gioco con gli scoiattoli e il martellone? Beh, succede la stessa cosa. Mazzate.
Provo a rimettere due o tre ragionamenti in fila. La partita che stiamo giocando non solo è uno spareggio per accedere al campionato. Ma è anche l’ultima occasione che abbiamo. Per recuperare quella credbilità perduta negli anni. Dalla improvvida svolta della Bolognina a quando abbiamo subappaltato a Prodi e Parisi i nostri destini. Fisso questi due momenti per comodità. Ma se vogliamo essere meno didascalici direi: da quando abbiamo rinunciato alla nostra autonomia culturale e ci siamo piegati a rincorrere i paradigmi che ci imponevano le forze capitaliste. Abbiamo accettato di combattere sul loro campo da gioco. Chiusi nella difesa delle conquiste del passato. E la palla non l’abbiamo toccata mai o quasi.
Autonomia culturale. Per me la chiave per ricostruire un partito (dico partito perché a me sta storia dei campi – democratico o progressista che dir si voglia – non mi convince proprio) è questa. Il percorso, che avrà nell’assemblea del 2 dicembre il suo punto di partenza e non di arrivo, a questo deve mirare. E avrà anche tutte le incertezze e le magagne che derivano dalla debolezza di chi lo avviato. Ma teniamocelo stretto questo percorso. E poi magari rendiamolo coinvolgente e democratico. Ma non affossiamolo.
Che poi, visto che io dal 2015 propongo i caucus – le assemblee decidenti – come mezzo democratico alternativo alle primarie, non mi dispiace neanche lo strumento proposto. Provo a entrare nel merito, appena un po’: si fanno le assemblee provinciali, dove possono partecipare tutti, sottoscrivendo il documento programmatico unitario e versando un contributo. Si interviene, si discute, si emenda. Poi, in ragione del numero di abitanti si eleggono i delegati. Sono previste sostanzialmente due forme. La presidenza (una sorta di commissione elettorale da vecchio congresso) prova a elaborare una lista unitaria. Se non ci riesce, si raccolgono le firme (almeno il dieci per cento dell’assemblea) e si presentano liste alternative. Io credo che ci sia lo spazio per rappresentare ampiamente non solo i partiti firmatari, ma anche esperienze locali, associazioni, movimenti. Basta rappresentare qualcosa, avere un minimo di consenso. Io non credo ci sarà bisogno di arrivare alla classica “conta”, che poi, se ragionate bene, è la sconfitta della politica, certifica l’incapacità di trovare un equilibrio attraverso il confronto.
Quanto invece al tentativo del grissino torinese, la tentazione di ricorrere a un classico ciaone è molto forte. Perché tanto l’esito non potrà che essere quello. C’è troppa distanza non tanto programmatica, ma culturale (si, lo so sono fissato) tra noi e il Pd. Il che non vuol dire che non ci si possa alleare né ora né mai. In politica sarebbe meglio evitare le dichiarazioni assolute. Vuol dire semplicemente che due culture politiche differenti, due proposte politiche distanti hanno il dovere di presentarsi agli elettori per verificare la loro solidità e il consenso che generano. Tutto qua. Questo porterà a perdere le elezioni? A consegnare il paese alle destre? Se avranno la maggioranza degli italiani ce ne dovremo fare una ragione. La democrazia funziona così. Non sarà un’alleanza basata soltanto su una ipotetica convenienza elettorale a cambiare il risultato delle urne. Un risultato provocato dalle politiche seguite in questi anni. Uniti si perde, Bersani lo ha spiegato con grande chiarezza, non ci torno su.
Del resto ci abbiamo provato. Ci siamo turati il naso e siamo andati insieme in decine di Comuni. Li abbiamo persi tutti. E anche questa volta io credo che la separazione non sarà generale. Nelle situazioni locali dove ci saranno le condizioni, politiche e programmatiche, e dove si troveranno gli uomini adatti a unire, non ci tireremo indietro. Non siamo sfascisti, non abbiamo la cultura minoritaria del tanto peggio tanto meglio.
Ma a livello nazionale serve un grande bagno elettorale. C’è l’esigenza per tutti di lavarsi le vesti nel grande mare delle urne. Vedremo se la nostra proposta sarà così residuale come dicono. Io sono convinto che ci sia lo spazio per un risultato importante, che costituisca la base solida per costruire un nuovo partito. Di sinistra. Socialista direi. Per il momento va bene qualsiasi nome, anche il banale Libertà e uguaglianza circolato nei giorni scorsi. Magari facciamo il contrario, Uguaglianza e libertà, che almeno non è cacofonico e si riesce a pronunciare bene. Io avrei scelto “La sinistra”. Con l’articolo davanti a rafforzare il concetto. Ma siccome non sono uno di quelli delle virgole: fate voi.
Come si dice a Roma, le chiacchiere stanno a zero: stampiamo bandiere e volantini con poche proposte radicali e chiare. E riempiamo con le nostre bandiere (spero ci sia una robusta dose di rosso) le strade di ogni città. Dal 3 dicembre questo va fatto. Assemblee in ogni quartiere, comitati unitari, tornare nelle fabbriche, nelle scuole. E poi, come diceva un grande comunista, compagni al lavoro e alla lotta. Casa per casa.
Fatevene una ragione. La sinistra ci sarà.
Cerca
mese per mese
L | M | M | G | V | S | D |
---|---|---|---|---|---|---|
« Set | ||||||
1 | 2 | 3 | ||||
4 | 5 | 6 | 7 | 8 | 9 | 10 |
11 | 12 | 13 | 14 | 15 | 16 | 17 |
18 | 19 | 20 | 21 | 22 | 23 | 24 |
25 | 26 | 27 | 28 | 29 | 30 |