Archive from aprile, 2020

Il caso delle Rsa, il modello sociale da costruire.
Il pippone del venerdì/138

Apr 24, 2020 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

L’Organizzazione mondiale della sanità ci dice che in Europa la metà dei morti per coronavirus è avvenuta nelle case di cura per anziani. Un dato drammatico che deve porci interrogativi, intanto sul modello socio-assistenziale, ma soprattutto su come provare a cambiare la nostra società, una volta che questo tsunami sarà passato.

Da parte mia mantengo il mio sano pessimismo, già questa prima “riapertura graduale” prevista per il 4 maggio ha prodotto un clima da “liberi tutti” che non fa presagire nulla di buono. Quelli che stavano alla finestra a fotografare runner e proprietari di cani hanno ripreso a circolare liberamente, con la falsa sicurezza generata dalle mascherine e dai guanti. Ho visto con i miei occhi persone tutte bardate che a un certo punto si calano la mascherina per parlare al cellulare o per accendersi una sigaretta. A poco valgono le spiegazioni che ci bombardano ogni giorno: una volta messa la mascherina non va neanche sfiorata e mai toccarsi il viso con i guanti, che da protezioni diventano facilmente uno strumento di contagio. Nulla da fare: l’italiano medio, a quanto si vede in giro, è convinto che la parte da proteggere sia il mento, non la bocca né tanto meno il naso. Insomma, ognuno di noi ha un suo personale concetto di sicurezza ed è convinto che sia il migliore. Se non riparte il campionato di calcio, ma bastano anche gli allenamenti, siamo davvero messi male.

Al di là di queste effimere considerazioni, c’è un dato che dobbiamo provare a interiorizzare: il 4 maggio non avremo sconfitto il virus, avremo – nella migliore delle ipotesi – reso l’epidemia compatibile con il nostro sistema sanitario. I livelli di contagio, insomma, saranno tali da consentire l’individuazione e la cura con risultati meno disastrosi di quelli lombardi, tanto per essere chiari.

Resta intatta l’emergenza e resta intatta la necessità di organizzare la nostra società in maniera, come dice il troppo spesso inascoltato ministro Speranza, da convivere con il virus.

E quindi abbiamo una settimana o poco più per riorganizzare il modello organizzativo di fabbriche e uffici, ma ancor più dei trasporti, se non vogliamo morire imbottigliati in un unico grande ingorgo che non si vedeva dai tempi del celebre film.

E dobbiamo farlo, cosa per noi del tutto inedita, ripensando complessivamente il sistema. Non basta dire che bisogna aprire uffici e negozi in maniera sfalsata se al tempo stesso non aumentiamo la portata dei trasporti pubblici. Né è sufficiente la ricetta della sindaca di Roma (vi regalo una bicicletta) che per fortuna in questo periodo ha parlato poco, anche se nel suo silenzio ha continuato a produrre danni. Vediamo cosa produrranno i famosi esperti.

Apro una parentesi. Siccome siamo un popolo di dissociati, abbiamo prima sparato sul governo perché non aveva un piano, poi quando abbiamo scoperto che fin da gennaio si lavorava a uno studio sui possibili effetti della penetrazione del virus in Italia, abbiamo gridato allo scandalo perché esisteva niente di meno che un “piano segreto” di cui ci hanno tenuto all’oscuro per non generare il panico. Cito testualmente dal Corriere della Sera, il giornale più letto in Italia. Allo stesso modo prima abbiamo invocato una cabina di regia fatta da persone competenti per programmare la riapertura – e in questo caso è Repubblica che ci ha fatto una testa tanta per settimane – e adesso invece si scopre che sarebbero troppi gli esperti al lavoro. Stessa storia per la app, per i vaccini, per tutto. Viene voglia di arrendersi ai cinesi, ma sono troppo tetri e allora propongo di dichiararsi provincia di Cuba.

Chiusa la parentesi, resta tutto intatto il problema che ponevo nell’incipit di questo pippone. In una società in cui la vita media tende, per nostra fortuna, ad allungarsi sempre di più abbiamo costruito un modello di assistenza basato essenzialmente sull’ospedalizzazione, spesso abbiamo fatto la fortuna dei grandi gruppi privati. E i nostri anziani non autosufficienti li abbiamo costretti al deposito nelle cosiddette Residenze sanitarie assistenziali, che poi sono camere ardenti ante mortem. Il coronavirus, scusate il mio realistico cinismo, ha soltanto accelerato il processo: entri in una Rsa, ti danno da mangiare e ti accompagnano solo alla morte.

Ora fanno tutti gli scandalizzati, ma come funzionano quei posti lo sapevano tutti. Non c’era bisogno di ispezioni delle Asl per sapere che l’igiene è assente, l’assistenza è soltanto dichiarata sulla carta. O meglio ce ne sarebbe stato bisogno di quelle ispezioni, ma prima dell’emergenza, non durante. Deposito carissimo, tra l’altro, se è vero che una degenza costa circa 90 euro al giorno, di cui la metà a carico del servizio sanitario e il resto versato dai parenti.

E allora, questo delle Rsa diventa secondo me davvero una specie di simbolo di come va riorganizzato il sistema sanitario che deve essere sempre più territoriale e socioassistenziale. E una parola la vorrei dire anche a tutti quelli che in questi mesi hanno puntato sempre e soltanto sugli ospedali. Riaprite il Forlanini, hanno tuonato all’unisono le destre romane unite in una poi non tanto strana alleanza con quello che resta di Potere al popolo. Facciamo un ospedale alla Fiera, ha deciso il sempre brillo Fontana, finendo per avere bella e pronta una struttura senza più avere pazienti da metterci.

Faccio notare che nel punto massimo della crisi i pazienti in terapia intensiva non hanno mai superato i cinquemila, ovvero il numero di posti disponibili normalmente, che nel frattempo erano diventati novemila. Sarebbe bastato un sistema sanitario su base nazionale e non dato in pasto agli egoismi locali dei cosiddetti governatori per non avere alcuna carenza di posti di letto.

La verità è che, anche nell’emergenza, serviva più assistenza territoriale. Lo ha scritto chiaro il ministero della Salute nelle prime linee guida, chiedendo alle Regioni di creare subito unità speciali per l’assistenza a domicilio. Almeno una per ogni distretto sanitario. Alcune Regioni lo stanno facendo soltanto adesso, in altre si continuano a costruire ospedali destinati a restare vuoti.

E allora, riusciamo a fare tesoro anche di questi errori e ripensare il nostro modello sociale partendo dalle esigenze dei più fragili. Penso agli anziani, all’assistenza, ma anche ai bambini. Possibile che pensiamo a riaprire le fabbriche, uno dei luoghi da dove è partito il contagio, ma delle scuole se ne parla, forse a settembre?

E’ questione di priorità. Di quelle priorità del capitalismo che sarebbe il caso si sovvertire: il profitto viene sempre prima, ma se poi devi stare chiuso in casa perché se esci rischi di crepare a che serve il profitto? A che serve avere la Ferrari, se tuo figlio non può neanche fare una passeggiata liberamente? Ripensare una società per gli anziani e per i bambini, non per i capitani d’industria che tanto quelli i loro capitali li tengono in giro per il mondo e magari chiedono anche i 600 euro del Governo. Perché una società costruita dai capitani di industria fa questa fine qui. In un mondo costruito per gli anziani e i bambini staremmo meglio tutti. Ma magari il problema è proprio questo.

A proposito: buon 25 aprile a tutti, quest’anno più di sempre, domani alle 15 tutti sui balconi a cantare Bella ciao. E chi non lo capisce… lasciamolo in quarantena.

Ripensare il Paese, non solo l’organizzazione.
Il pippone del venerdì/137

Apr 17, 2020 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Questo periodo di assoluta emergenza ha messo in rilievo due dati: il primo è sicuramente la grande fragilità sociale che anni di politiche neoliberiste hanno generato, il secondo è l’assoluta inadeguatezza del nostro sistema istituzionale e produttivo.

La fragilità sociale è evidente, rivendico di averlo scritto e ripetuto fino alla noia negli anni scorsi. E i consensi alla Lega, che si sono moltiplicati nell’arco di pochi mesi fino a trasformare un movimento tutto sommato marginale nell’attore principale della politica italiana, non sono la causa, sono l’effetto. E’ vero che il periodo di Salvini ministro dell’Interno è stato devastante, ma non ha causato il disagio sociale, lo ha cavalcato e moltiplicato, facendone un metodo scientifico per governare un popolo impaurito. Le radici di tutto questo vanno cercate nelle politiche degli ultimi venti anni che hanno fatto piazza pulita del sistema solidale, il cosiddetto welfare state, ovvero quel complesso di interventi che cercava di rendere meno diseguale l’Italia. Il servizio sanitario universale, in primo luogo, ma anche gli ammortizzatori sociali, la cooperazione, l’associazionismo.

E’ venuto meno, per dirla in termini novecenteschi, quel “fine sociale” dello Stato che aveva rappresentato, dal dopoguerra alla fine del secolo, il vero trait d’union che legava i partiti democratici. Al di là delle differenti posizioni, degli scontri, questo è stato il vero segno distintivo della Repubblica (non dico la prima, perché queste schematizzazioni mi danno l’orticaria). Tant’è che l’ultimo vero piano casa – nel senso di realizzazione di alloggi popolari – porta il nome di un moderato come Fanfani, non di un esponente della sinistra.

Rotto questo vincolo, si è pensato soltanto a come agevolare il mercato. Ad eliminare via via tutte le norme che cercavano di moderare la competizione fra cittadini prima che fra aziende, con il risultato finale di renderla non tanto più libera ma più violenta. Da qui nasce l’odio sociale, la necessità di trovare un nemico, uno che sta peggio di noi, per scaricare la propria frustrazione.

Come si possa uscire da questo crescendo non è un problema di immediata soluzione. Di certo con questa quarantena, confinati ognuno nel proprio egoismo, abbiamo raggiunto un picco finora inesplorato. Si è arrivati ad additare come untori i genitori che fanno fare due passi ai figli intorno a casa. Sui social si trovano discussioni assurde, cariche di una rabbia cieca che aspetta soltanto l’occasione per diventare violenza. Non scoppia soltanto perché siamo confinati dentro casa. Consiglio psicologi obbligatori insieme alle mascherine prima di avviare la famosa fase 2.

Bisogna ricominciare a fare cultura nei quartieri, serve una nuova presenza delle forze democratiche, un lavoro casa per casa. Vanno ripensate le forme di associazionismo e di volontariato. E’ il lavoro di anni, speriamo che almeno si cominci e di fare in tempo.

Il secondo punto da mettere in evidenza, che è un po’ la rappresentazione del primo sul piano istituzionale e produttivo, è che la nostra architettura organizzativa non funziona. Con la riforma della Costituzione che ha, di fatto, creato un sistema istituzionale che ha il suo fulcro nelle Regioni abbiamo posto le basi per un sistema più ingiusto, paradossalmente più lontano dai cittadini. La somma dell’attribuzione di ampi poteri, basta pensare alla Sanità, con un sistema di governo basato sull’elezione diretta del presidente, ha creato dei mostri, fonti di sprechi e non di maggiore efficienza, un moltiplicatore di diseguaglianze. Ogni Regione ha un suo sistema sanitario diverso dall’altro. E i risultati si vedono. Non è un caso, né tanto meno sfortuna, che il disastro nasca in Lombardia dove è stato smantellato il fronte territoriale, i medici di famiglia, per puntare tutto sugli ospedali, per i più privati. Tutti parlano di mancanza di posti di terapia intensiva quando, guardando i dati a livello nazionale, non sono mai stati occupati oltre il 60 per cento del totale. Quello che è mancata è una rete territoriale in grado di diagnosticare per tempo la malattia ed evitare così che sia necessario il ricovero in ospedale.

Oltre a questo va messo in evidenza come l’aver ridotto la presenza dello Stato nell’economia ci porta a essere in balia del mercato e se questo genera squilibri in tempo di pace, in caso di emergenza diventa un disastro. Non si sa chi può produrre cosa. E se l’emergenza è mondiale diventa impossibile perfino garantire l’approvvigionamento di un prodotto elementare come le mascherine o, cosa ancora più grave, i reagenti per avere i risultati degli ormai famosi tamponi, l’unica analisi in grado di rilevare il virus. Avevamo un grandissimo polo chimico di proprietà pubblica, ricordate?

Non si tratta di tornare allo Stato che produce i panettoni, ma di tornare a uno Stato che controlla direttamente i settori strategici dell’economia, strategici per lo sviluppo a cui pensa e per la sua stessa sicurezza.

Avevamo pensato che sicurezza volesse dire produrre cacciabombardieri, abbiamo scoperto che non servono a nulla se non a far vedere i nostri muscoletti in giro, abbiamo scoperto che era più sicuro produrre mascherine perché andarle a comprare in Cina sarà anche global, ma ti fa restare senza quando ne hai bisogno. Perché trovi qualcuno che le può pagare più di te.

Anche qui, come si cambia? Cominciamo con il dire chiaramente che il progetto dell’autonomia differenziata per le Regioni non esiste più. Almeno evitiamo di creare danni ulteriori. Non credo che troveremo un solo cittadino italiano disposto a difendere ancora quel disegno folle. E a chi dovesse protestare basterebbe mostrare una foto di Fontana, il presidente della Lombardia. Tu daresti ancora più poteri a questo qui? Fine della discussione.

O la borsa o la vita: gli auguri di Confindustria.
Il pippone del venerdi/136

Apr 10, 2020 by     No Comments    Posted under: Il pippone del venerdì

Intanto buona pasqua a tutti. Non vi faccio raccomandazioni perché tanto lo sapete: non potete fare grigliate da amici e parenti, non potete fare picnic nei parchi. Non potete e basta. E sarà ancora lunga.

Non parlo neanche dell’accordo raggiunto in Europa, perché di economia capisco poco, è l’unico esame universitario che ho dovuto fare due volte, complice un professore un po’ svitato, ma colpa anche la mia avversità per la materia.

Però una cosa la voglio dire, in questo pippone prefestivo e dunque anche molto breve. Trovo assurdo l’atteggiamento degli industriali che vorrebbero riaprire tutto e subito. E trovo ancora più assurdo che l’appello più pressante venga proprio dalle associazioni padronali delle regioni più colpite. Già in me è molto forte il sospetto che alcuni ritardi nel definire le zone rosse in Lombardia siano dovuti proprio alle loro pressioni, ma che adesso dicano “vabbeh ma le nostre fabbriche sono sicure e quindi si può ripartire, altrimenti fallisce l’intero paese”, mi sembra davvero un’assurdità.

I dati sono semplici da leggere e comprendere: siamo ancora in piena emergenza, il numero dei contagiati continua a crescere senza particolari cali. Al massimo è stabile. Questo vuol dire che la nostra clausura è efficace, ma anche che ci sono ancora tanti malati che non abbiamo ancora individuato. E allora che si fa? Beh, io credo che l’unica cosa da non fare sia proprio tornare a mandarli in giro tranquillamente. Del resto i dispositivi di protezione bastano a malapena per il personale sanitario. Che si fa, si seguono le indicazioni del presidente lombardo e si esce tutti con il foulard? Io tenderei a diffidare, visto che si tratta dello stesso presidente che ha deciso di mettere i malati di covid 19 nelle residenze per anziani, fianco a fianco con la categoria più fragile per eccellenza.

Quello che gli industriali scaricano sul governo è un quesito secco: o la borsa o la vita. E lo fanno con il tipico piglio del padrone ottocentesco.  Perdonatemi se ci torno ancora una volta, ma a me sembra una clamorosa dimostrazione di come il capitalismo sia incompatibile con l’esistenza della specie umana su questo pianeta. Se il dilemma è questo, non possiamo che scegliere la vita, a patto di costruire allo stesso tempo un sistema di produzione alternativo a quello esistente.

Qua, diciamoci la verità, la quarantena sarà lunga e non ci sarà un ritorno alla normalità. Perché per avere un vaccino ci vorrà almeno un anno, perché poi dovrà essere prodotto in quantità tale da creare la famosa immunità di gregge.

E allora, se le cose stanno così e se davvero vogliamo provare a uscirne migliori di come ne siamo entrati, cominciamo a pensare che dobbiamo cambiare la nostra organizzazione sociale e questo non basta: dobbiamo pensare a un mondo in cui il profitto di pochi non sia l’unica bussola che orienta le scelte dei governi. Al di là delle teorie su complotti vari e sulle responsabilità degli alieni, una cosa dovrebbe essere ormai chiara a tutti: il nostro modo di stare su questo mondo mette a rischio la nostra esistenza. Questo ci grida il coronavirus. E da questo punto occorre partire. Capisco che fare una rivoluzione in quarantena non sia proprio agevole. Ma dobbiamo trovare il modo per far sentire la nostra voce. E penso al buon vecchio Carletto che da qualche parte se la ride: “Non dite che non ve l’avevo detto che andava a finire così”.

La finisco così con questo pensiero in fondo allegro, alla faccia degli avvoltoi di Confindustria.

Il mondo che viene è peggio di quello che è stato.
Il pippone del venerdì/135

Apr 3, 2020 by     1 Comment     Posted under: Senza categoria

Appunti sparsi in queste settimane di quarantena. Sensazioni e esperienze che si intrecciano nel cervello, il risultato è che uso che questo appuntamento con il pippone per provare a metterci un po’ di ordine.
Intanto, cosa è cambiato davvero nella nostra vita in modalità “chiusi in casa”. Io non credo che sia tanto la mancanza di relazioni sociali, perché già prima, in una città come Roma erano ridotte al minimo. Per uno un po’ sociopatico come me, del resto, questa è decisamente una buona notizia. La scomparsa di alcune convenzioni sociali non può che farmi piacere. Non si stringe più la mano a persone a cui vorresti, invece, dare uno schiaffo, tanto per dirne una. Insomma, abbiamo eliminato dalla nostra vita un po’ della falsità quotidiana a cui eravamo costretti.

No, secondo me, la prima cosa che è cambiata, quella che in realtà tanto ci dà fastidio, è la mancanza di velocità. Eravamo abituati a vivere in un mondo in cui con un click avevi tutto, al massimo aspettavi un giorno per avere la consegna di oggetti di cui non avevamo nessuna urgenza. E anche in questo caso avevamo bisogno di essere rassicurati dal controllo dello stato dell’ordine: è partito, sta arrivando, sta sotto casa, è stato consegnato, fammi sapere se ti è piaciuto. Un ritmo incessante e cadenzato. Adesso al massimo spostiamo i mobili dentro casa.
Ecco, quest’ansia di velocità oggi ci manca. Sopravvive soltanto in chi sta al volante di una smart che si crede ancora di dover per forza stracciare ogni record di velocità, con la sua ridicola scatola di plastica e metallo. Ma quello è un caso clinico a parte. Ora dobbiamo aspettare per fare tutto. Per entrare al supermercato, per comprare qualsiasi oggetto. Dobbiamo aspettare per vedere un parente che si trova a cinquecento metri di distanza, ma fa parte di un’altra cella di reclusione.

Questo è il primo dato: imparare che esiste un tempo dell’attesa e che questo tempo, per di più, non ha una data certa di fine.

La seconda condizione che ci ha imposto il coronavirus è quella dell’incertezza. Gli odiatori di professione stentano perfino a identificare i nuovi obiettivi da colpire. Prima era facile, c’erano gli immigrati, quelli che andavano rispediti a casa loro perché da noi non c’era posto per loro. Adesso che è tutto il mondo a essere isolato, adesso che anche noi abbiamo perso la libertà di circolare senza alcun controllo, forse potremmo imparare a essere meno cattivi.

Invece no. Sarò anche pessimista, ma credo che il mondo che ne uscirà sarà peggiore di quello che abbiamo lasciato. Intanto perché, deve essere chiaro a tutti, non ci sarà un “dopo” immediato, ma ci sarà un tempo indefinito in cui dovremo imparare a convivere con il virus in agguato. La distanza sociale sarà la regola. Per molto tempo ancora. E questo ci imporrà di cambiare radicalmente la nostra stessa organizzazione. Basta pensare alla scuola. Come si fa a stare in una classe distanziati di almeno un metro? Il lavoro non potrà tornare quello di prima, abbiamo scoperto che tutta una serie di attività si possono fare senza spostamenti inutili e senza il bisogno della nostra presenza fisica. Saremo costretti, volenti o nolenti, a continuare a farlo.

Sarà un mondo peggiore, perché ci saranno meno soldi in giro. E perché la concorrenza fra aziende sarà ancora più serrata di quanto accadeva prima. I sognatori positivi credono che si tornerà parzialmente indietro rispetto alla globalizzazione pressoché totale a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni. Che le aziende dovranno necessariamente tornare a pensare più in chiave locale, che torneranno in Italia produzioni a cui avevamo dovuto rinunciare. Secondo me, il mercato lasciato da solo non porterà a questo risultato. Anzi, chi era debole dal punto di vista della concorrenza internazionale lo sarà ancora di più, perché la chiusura forzata di questo periodo lo porterà a perdere quote di mercato che difficilmente recupererà. E saranno tante le attività che se prima riuscivano ancora a garantire qualche stentato profitto, adesso non riapriranno proprio. Cominciamo appena a capire che l’idea di un reddito di cittadinanza non era tanto peregrina.

Sarà un mondo peggiore, perché in queste settimane abbiamo preso coscienza di quanto la stessa presenza umana su questo pianeta sia effimera. Basta ritrarsi un po’ per vedere la natura che si riprende i suoi spazi con una velocità che non potevamo immaginare. Siamo i dominatori della Terra, ma la Terra si è anche un po’ stufata di noi. E quando partiremo alla riconquista saremo ancora più cattivi, più aggressivi. Perché quando invece della pagnotta ti restano le briciole, la lotta per conquistarle diventa crudele. Ce ne fregheremo ancora di più dell’inquinamento, del riscaldamento globale, proprio perché avremo preso coscienza del fatto che potremmo sparire da un momento all’altro. Messi in crisi da una cosa che manco si vede.

Sarà un mondo peggiore perché non riusciamo a capire che la radice di tutti i nostri problemi non è il virus, ma è un sistema di produzione che non funziona, che è inefficiente nel distribuire risorse limitate ed è un pericolo in sé non per i più deboli come abbiamo sempre pensato, ma per la stessa razza umana. Abbiamo preso per matti quelli che ce lo hanno gridato in questi anni, adesso sappiamo che avevano ragione, ma continueremo a fregarcene, nell’illusione che l’uomo debba essere necessariamente lupo.

Ecco, andrebbe ripensato tutto, basta guardare le immagini dei senza tetto che nella opulenta California vengono rinchiusi in un parcheggio. Andrebbe ripensato il ruolo dello Stato, il primato della politica sull’economia, l’organizzazione del sistema sanitario, i rapporti tra nazioni. Invece no, saremo tutti più soli, non perché non ci potremo stringere la mano, ma perché i nuovi nemici da odiare saremo tutti noi.

Concludo con una nota lieta: ho finalmente stabilito il tempo giusto di cottura dei cornetti surgelati: 23 minuti a 180 gradi, forno ventilato, ben caldo. Mai  al microonde. Sarà poco, ma ti fa cominciare meglio giornate tutte uguali.

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