Italiani brava gente? Ma de che. Nazisti e confusi
Il #pippone del venerdì/127
Il titolo forse sarà un po’ esagerato, ma i dati che arrivano dal Rapporto Italia 2020 realizzato da Eurispes lasciano sbigottiti. Il 15,6 per cento dei nostri concittadini ritiene che la shoah non sia mai avvenuta. Un altro 16 per cento, invece, pensa che non sia stata la strage di milioni di ebrei di cui parlano i libri di storia.
Ce ne sono altri, in quell’indagine, di dati preoccupanti. Dal nostro rapporto con gli immigrati, dei quali il 7 per cento dichiara di aver paura, non si capisce bene perché, al giudizio su Mussolini, un grande leader per quasi il 20 per cento dei nostri connazionali. E ci sono anche spunti interessanti: ad esempio l’ambiente è una delle preoccupazioni principali degli italiani, ma solo uno su cinque di loro adotta abitualmente comportamenti ecosostenibili. Preoccupati, insomma, ma soprattutto delle proprie tasche. E, infatti, cosa assilla l’italiano medio? L’esosità della tasse.
Ora, l’indagine Eurispes è una semplice fotografia dell’esistente, ma dà sicuramente degli spunti di riflessione a chi si occupa di politica e soprattutto alla sinistra che, va sempre ricordato, dovrebbe avere come obiettivo quello di cambiare la situazione presente.
Certo è che l’assurda percentuale di negazionisti dell’olocausto lascia interdetti. Perché non si tratta semplicemente di avere opinioni differenti: in questo paese ci sono 9 milioni di persone (facciamo le cifre perché sono più efficaci delle percentuali) che pensano che un fatto storico, accertato, provato da testimonianze, processi, documenti, filmati, sia una colossale balla. Erano il 2,7 per cento (poco più di un milione e mezzo) nel 2004, appena 16 anni fa.
Dietro questi numeri ci sono sicuramente ragioni “generazionali”. Mi piacerebbe vedere la distribuzione per età, ad esempio. Perché sicuramente la progressiva scomparsa di chi ha vissuto direttamente quegli anni pesa. Non è la stessa cosa sentirsi raccontare cosa era un campo di concentramento da chi ci è stato e leggerlo semplicemente sui libri di storia. E probabilmente la mia generazione, forse l’ultima che davvero ha conosciuto i sopravvissuti dei campi,che ha potuto vivere insieme ai partigiani, ha la grande colpa di non riuscire a trasmettere il proprio patrimonio di conoscenze, di esperienze. Speriamo che Liliana Segre possa continuare ancora a lungo il suo straordinario lavoro: il suo intervento al Parlamento europeo di pochi giorni fa per la sua efficacia e la sua semplicità andrebbe trasmesso una volta al giorno su tutte le tv a reti unificate. Sarebbe da rendere obbligatoria per legge una visita scolastica in un campo di concentramento.
Ma io credo che in quella risposta ci sia anche un dato più sociale, di un Paese più cattivo, meno colto, più ignorante nel senso proprio della parola. E guardate che basta fare un giro sui social per rendersi conto delle bufale che girano e del gran credito che hanno in tanti “insospettabili”. Siamo un Paese disposto a credere alle “verità” più assurde se chi le dice ha un minino di appeal e di senso della comunicazione. Siamo il paese che seguiva la cura Di Bella, che crede che le scie degli aerei nascondano chissà cosa. Siamo il paese dove – è capitato a me – una ragazza asserisce convinta che nello staff di Obama fosse presente un alieno. Convinta eh? Ti fa vedere foto, filmati, cita le fonti più assurde.
Saremo stati anche brava gente, ma quando eravamo noi i disperati con le valigie di cartone. Adesso non più. Io credo che per spiegare tutto questo ci sia anche da guardare all’assenza di politica a cui abbiamo assistito negli ultimi vent’anni. Perché la politica, la partecipazione, l’impegno sono l’antidoto più forte che esista. Bisognerebbe tornare all’antico – lo so sono vecchio e brontolone – alle scuole di partito, alla formazione della classe dirigente. Alla costruzione dal basso della società, ricreando luoghi di aggregazione, di confronto. Al contrario, al massimo ormai si va a votare, non si conoscono manco i vicini di casa. Siamo una società talmente poco sociale che si gioca via internet con persone che abitano dall’altra parte del mondo e non si fanno più le partite a pallone sotto casa. Sarà anche questo il nostro presente, ma io credo ancora alla possibilità di cambiare lo stato delle cose.
Giggino se n’ è ghiuto e soli ci ha lasciato.
Il #pippone del venerdì/126
Ora, capisco che mi potreste rispondere con un classico “meglio soli che male accompagnati”, ma le dimissioni di Di Maio da “capo” del Movimento cinque stelle sono decisamente la notizia della settimana. Quando ho letto su un giornale online “Di Maio si è dimesso”, titolo secco, ho sperato per un istante che avesse lasciato il ministero degli Esteri. Ho sperato che, per un istante, avesse capito i propri limiti e, smesso il sorriso eternamente stampato in faccia, avesse dichiarato: “Ebbene sì, lo ammetto, di politica estera non capisco un tubo, meglio lasciare questa postazione ad altri, soprattutto vista la situazione internazionale così complessa”.
Manco per niente, con una mossa che potrebbe sembrare infantile lascia la guida del Movimento a 4 giorni dalle elezioni in Emilia-Romagna e in Calabria. Potrebbe sembrare infantile, dicevo, perché potrebbe essere interpretata come la volontà di scaricare la colpa della probabile débâcle dei penta stellati ad altri. Magari c’è anche questo. Secondo me, invece, questo è uno che la sa lunga, viene dalla scuola migliore dei democristiani del ‘900. Deve aver studiato con solerzia la loro storia. Perché io penso che Giggino guardi oltre questo pur importante appuntamento. O meglio, in questi due anni abbiamo imparato a conoscerlo: del destino dell’Italia e degli italiani gli interessa poco. Guarda al suo interesse personale ed è capace di tripli salti mortali all’indietro per difendere la sua poltrona. Se ne abbandona una, quella per cui si ritiene insostituibile, è perché pensa di tornarci più forte e in tempi brevi.
Secondo me, il Di Maio pensiero deve essere stato più o meno questo: fino ad ora sono stato io a prendermi pesci in faccia da tutte le parti, mediando fra le nostre correnti interne, Conte, il Pd, con Renzi sempre in agguato. Sono insostituibile in questo ruolo, ma qua sono tutti insoddisfatti. E allora me ne vado e si scannino pure senza rete di protezione. Vediamo che succede.
Il più preoccupato di tutti pare Conte, che non ha più una sponda. Non dimentichiamoci che quando si è formato il governo rosso-giallo, è stato proprio il presidente del Consiglio a spingere perché i leader del Pd dei Cinquestelle assumessero un ruolo importante, con la responsabilità di dicasteri di primo piano. Pensava che in questo modo il tasso di litigiosità di una maggioranza fatta di acerrimi nemici sarebbe diminuito. Zingaretti non poteva accettare, si sarebbe dovuto dimettere da presidente della Regione Lazio con il rischio – se non la certezza – di lasciare una delle postazioni di governo più importanti a Salvini e soci. Giggino ha subito preteso un dicastero chiave, di cui non sapeva assolutamente nulla.
Comunque sia, e questi mesi lo dimostrano, quelle di Conte erano pie illusioni. Pd e Cinquestelle, che si somigliano più di quanto potrebbe apparire dall’esterno, sono covi di serpi per di più abitati da personaggi che hanno visioni molto differenti tra loro. Sulla mancanza di amalgama dei democratici c’è ampia letteratura, sarebbe il caso di cominciare ad indagare un po’ di più anche sulla natura del movimento fondato da Grillo. Bravissimi a fare l’opposizione, disastrosi quando si tratta di governare. Rompere è più facile e meno faticoso che costruire, si sa. E’ un’affermazione persino banale che però coincide perfettamente con quello che ci ha fatto vedere in questi anni il M5s. Dalle amministrazioni locali al governo nazionale è stato un disastro. E quelli più capaci – vedi Pizzarotti – sono stati accompagnati bruscamente alla porta appena hanno provato a manifestare una certa indipendenza.
Tagliando corto, si tratta di vedere adesso l’effetto che faranno queste dimissioni. Per adesso hanno conquistato le pagine dei giornali che hanno spostato la data in cui tutto si chiarirà dalle elezioni di domenica 26, agli “stati generali” grillini, così loro chiamano il congresso.
In tutto questo fiorire di “date fondamentali”, mi permetto di segnalare che il Governo, a parte qualche diatriba e qualche provvedimento solamente annunciato, è fermo. Paralizzato dall’attesa di vedere cosa succede, prima era la sfida emiliana a rappresentare la linea di confine fra stabilità e rischio di sfasciare tutto, adesso sono i nuovi equilibri in casa grillina. E non è che il mondo resta a guardare: le crisi internazionali ci vedono sempre più spettatori distanti, l’economia va più o meno a rotoli. Soltanto i mercati sembrano dare ancora fiducia al Conte Bis, più che altro timorosi di quello che potrebbe arrivare dopo.
Lo stesso annuncio di Zingaretti di voler rifondare il Pd sembra soltanto l’ennesimo cambio di contenitore della sinistra italiana che quando non sa bene cosa fare annuncia di voler costruire “una casa più grande, in cui nessuno si senta ospite”. Partì qualche decennio fa Occhetto, poi è stato un susseguirsi di “case più grandi” e si è passati dal rappresentare un terzo degli elettori (e anche qualcosa in più) a un quinto scarso.
Qua, dal sottoscala della sinistra, c’è grande confusione e sconforto. Incrociamo le dita per domenica.
Ps: il titolo è una mezza citazione, voglio vedere chi indovina.
Ma dobbiamo per forza dare mazzate ai lavoratori?
Il pippone del venerdì/125
Intanto ben trovati. Probabilmente più che di un pippone, dopo i bagordi natalizi, di capodanno e della Befana, avreste bisogno di una robusta dieta e di qualche corsetta. Me compreso, che me ne sto invece qui davanti al computer, bolso come un cavallo spompato.
Tant’è, accontentatevi di qualche considerazione di inizio anno, tanto per riprendere l’abitudine. Sulla situazione internazionale c’è poco da dire. Anzi ci sarebbe parecchio, a partire dal ruolo sempre più marginale dell’Onu, mai come adesso in balia dei capricci delle grandi potenze e, in particolare, di un Trump che sembra sempre più usare i missili e i droni per far aumentare la sua popolarità in vista delle elezioni. Nelle ultime ore pare che possano prevalere le colombe sui falchi, ma si sente sempre nell’aria odore di polvere da sparo. Sono giorni complicati, nei quali basta un nulla perché alle diplomazie che si muovono in silenzio e lentamente possano sovrapporsi i generali pronti con il dito sul grilletto. Personalmente sento un grande senso di impotenza, come mi successe nelle ore precedenti alla guerra del Golfo. Che fare? Servirebbe la politica, una grande iniziativa europea. E invece assistiamo soltanto alle gaffe di Conte e di un ministro che di Esteri sa ben poco.
Sulla situazione interna italiana, mi pare che siano giorni di attesa. Si aspetta il voto dell’Emilia per capire se davvero questa esperienza un po’ raffazzonata possa costituire il fulcro di una possibile alleanza da contrapporre alla destra. Io credo che non sia sufficiente. Perché il Conte Bis mi pare una fotocopia del Conte Uno. Sono cambiati i programmi, abbiamo recuperato un po’ di credibilità internazionale (ma ci voleva poco), sia a livello politico che sui mercati. Ma resta un difetto di fondo: quando si alleano forze di natura differente si deve cercare una linea comune. Invece, in questi anni, abbiamo assistito a coalizioni che non si sono mai fuse, cercando la via più facile ma meno redditizia in termini di risultati: ognuno punta sui suoi cavalli di battaglia. Il risultato è che manca un progetto, una visione. E questo lo paghiamo tutti i giorni in termini di minore competitività, di decadenza di un Paese che, al contrario, avrebbe bisogno come il pane di seguire una indicazione precisa, di sapere dove si vuole arrivare e muoversi di conseguenza.
Capisco che è chiedere tanto. Ma se davvero si punta al green new deal, servono i provvedimenti necessari, senza titubanze. Non si può, ad esempio, obiettare che gli imballi in plastica li producono in Emilia e dunque va tutto rinviato in attesa delle regionali. Sarà bene che qualcuno dica con chiarezza a quegli imprenditori che sarebbe il caso che producessero altro, semplicemente perché tutta questa plastica ci sta uccidendo.
Gli esempi sarebbero tanti. E ci vorrebbe, non mi stancherò mai di dirlo, una sinistra in grado di rinnovare il suo campo di valori e muoversi di conseguenza. Visto che non è alle porte, mi accontenterei almeno di una sinistra che la finisca di dare mazzate in faccia ai lavoratori.
Lo dico con affetto al segretario del Pd: caro Nicola, non è che per tenere insieme il tuo partito devi per forza continuare a sposare i provvedimenti che hanno portato il partito stesso a un passo dall’irrilevanza elettorale. Perché ostinarsi a difendere il jobs act, che non ha prodotto nulla e ha eliminato diritti fondamentali dei lavoratori e perché ostinarsi a voler eliminare quota 100, che sarà anche una misura parziale, ma ha avuto un riflesso positivo sulle vite di decina di migliaia di persone, quelle – tra l’altro – che a parole consideri il tuo elettorato di riferimento? Credi davvero che diminuire appena un po’ la pressione fiscale sia sufficiente a far respirare i lavoratori dipendenti?
Ho l’impressione che, come troppo spesso è successo nella breve storia del Pd, il feticcio dell’unità a tutti i costi porti a cedimenti inaccettabili, che manchi quella chiarezza di linea politica che è essenziale per tornare a essere un punto di riferimento per i più deboli. Si possono anche perdere le elezioni, ma non si può perdere la propria anima, altrimenti si viene travolti dagli eventi. Il Partito democratico, malgrado tutti i suoi limiti, è ancora oggi, l’unica grande organizzazione di massa che esiste in Italia. Le altre forze politiche sono partiti del leader, legati indissolubilmente al destino del capo. E questo rende tutto il sistema Paese più debole, troppo legato ai sondaggi, troppo attento a creare bisogni e paure fittizi per evitare di dover affrontare i nodi veri che da troppo tempo abbiamo attorno al collo.
Un sistema scolastico che è stato cambiato talmente tante volte da essere ridotto ai minimi termini. L’istruzione da noi è ormai una specie di collage scombinato, in cui gli studenti annaspano e gli insegnanti sono sempre meno motivati. Le infrastrutture cadono a pezzi, letteralmente. L’amministrazione della giustizia cambia a seconda del Tribunale. Se sei a Roma hai meno diritti di chi sta a Milano. Ora sarà anche un problema grandissimo quello della prescrizione, ma sarà forse il caso di investire in strutture più efficienti, dotate di tecnologie adeguate? Quando si entra nel tribunale civile di Roma, non di un paesino ma della Capitale d’Italia, si piomba di botto nel medioevo, tutto si regge sulla buona volontà di cancellieri, avvocati e giudici. Per non parlare della sanità, dove gli squilibri territoriali sono ancora più evidenti. Negli ultimi dieci anni è stata amministrata con lo spirito dei ragionieri. L’unico obiettivo è stato quello di riportare i conti in ordine. Con il risultato che il servizio pubblico sta morendo per asfissia.
Ho indicato solo quattro temi, che secondo me sono però, un po’ la carta di identità con cui un paese si presenta. Del resto non è questo il luogo per scrivere un programma compiuto.
Sarebbe bello però avere finalmente un governo che faccia cose non dico di sinistra, ma almeno diverse dal liberismo sfrenato della destra italiana. Sono soltanto speranze di inizio decennio?