Quanto è triste il lavoro nel tempo di “Frank”.
Il #pippone del venerdì/124
La notizia non è di quelle che finiscono in prima pagina, si mette al massimo all’interno, più che altro per il nome dell’azienda, Deliveroo, ben nota alle cronache sindacali. In sostanza è una multinazionale leader in Europa per le consegne in bici e in moto, fatte attraverso lavoratori cosiddetti autonomi, i “rider”. Che siano sostanzialmente i moderni schiavi è cosa nota.
E’ il nostro tempo, si dirà, in cui la velocità nella consegna di un ordine è essenziale per battere la concorrenza. E fin qui tutto vero. Si potrebbe facilmente obiettare che viste le esigenze di rapidità i lavoratori dovrebbero essere semmai più tutelati, quanto meno avere diritto alla malattia e alle ferie ed essere ben pagati. Magari gli potrebbero anche dare una palestra per allenarsi a pedalare. E del resto l’utente finale la rapidità della consegna la paga eccome. A volte esplicitamente, altre con l’aumento del prezzo del bene acquistato. Funziona così, basta usare un sito per la comparazione dei prezzi per rendersi conto che la dicitura “consegna gratuita” è una balla.
Ma quello che ha catturato in particolare la mia attenzione è “Frank”, ovvero l’algoritmo su cui si basa il sistema di assegnazione delle consegne. Per i non matematici: un algoritmo altro non è che un procedimento di calcolo che, attraverso una serie di passaggi, risolve un determinato problema. In pratica hai delle variabili che, a seconda di come le imposti, danno risultati diversi.
Frank è l’algoritmo, ovvero il sistema matematico, che Deliveroo usa per assegnare le consegne ai rider. Il nome deriva da uno dei protagonisti di una nota serie televisiva It’s Always Sunny in Philadelphia, interpretato da un colossale Danny De Vito: di “professione” fa il manipolatore. Già il nome è tutto un programma, insomma. Se Frank manipoli davvero la vita dei rider lo stabilirà presto il giudice del lavoro di Bologna, investito del problema da un ricorso della Cgil.
La questione è complicata. Perché non si tratta di un semplice programma informatico che accoppia i nomi alle consegne da fare, tutt’altro. Non è un innocente foglio di calcolo. Valuta, secondo il ricorso del sindacato, la “reputazione del rider”, calcolando le sue prestazioni nelle due settimane precedenti. Se hai una buona reputazione ti vengono assegnate le consegne migliori in una fascia più comoda. Se sei stato un cattivo rider ti tocca aspettare in fila.
Già detta così, in un lavoro dove sostanzialmente vieni pagato a cottimo, suona un po’ strano. Ma sono i parametri adottati per valutare la reputazione che ti fanno saltare sulla sedia. Frank, infatti, è stato programmato per penalizzare “tutte le forme lecite di astensione dal lavoro”, si legge nel ricorso. In pratica: scioperi, sei malato, devi assistere la mamma inferma? E io non ti faccio lavorare.
Ora, che un’azienda, soprattutto quando si tratta di una grande multizonale, si doti di strumenti informatici per gestire i suoi dipendenti è del tutto lecito. Che si penalizzi chi fa valere i propri diritti, un po’ meno. Niente di nuovo sotto il sole verrebbe da dire, da sempre il padrone vuole accanto a sé gente fedele. Perché l’operaio non deve pensare, non deve ammalarsi, non deve avere una famiglia. Quella che colpisce è la sfacciataggine dell’azienda, che, secondo la Cgil, arriva a codificare la discriminazione. La difesa di Deliveroo appare deboluccia: i rider sono liberi di accettare o meno una consegna, non sono lavoratori dipendenti. In realtà, a leggere le carte portate in tribunale, sono lavoratori dipendenti, ma dipendono da Frank.
A chi ironizza sulla sconfitta di Corbyn e già pensa a un ripiegamento della sinistra in versione Blair bisognerebbe far leggere questi atti depositati in tribunale. E’ colpa del ripiegamento della sinistra negli anni ’90 del secolo scorso, è colpa nostra che non abbiamo capito un tubo della globalizzazione, se oggi siamo ridotti così.
Da parte mia resto convinto del fatto che di fronte a un capitale sempre più tracotante serve un nuovo socialismo che rimetta al centro l’individuo e la lotta per i diritti sociali. Al capitale sempre più globale e senza confini serve una risposta politica che, a sua volta, abbia la forza di andare oltre i confini del novecento.
Siccome è Natale,siamo tutti più buoni e siamo anche incasinati il pippone di oggi finisce qui, breve e conciso. Tanti auguri a tutti meno che a Frank, ci rivediamo dopo la befana.
La politica è capacità di decidere
Il #pippone del venerdì/123
Sarà anche vero che si avvicina il Natale e dovremmo essere tutti più buoni, ma vivendo in questo Paese e in particolare a Roma, il clima delle feste si sente davvero poco. La verità è che ci sono periodi in cui chi, come me, ha la passione per la politica è davvero sconfortato. Dal livello nazionale a quello locale siamo alla desolazione totale.
Certo, qualche buona intenzione questo governo l’aveva pure manifestata. Ma lì siamo rimasti. Fra veti e controveti l’unico risultato che la maggioranza è in grado di rivendicare è l’aver evitato l’aumento dell’Iva. “Abbiamo pagato i conti di Salvini, senza farli pagare agli italiani”, recita lo slogan più efficace che sono stati in grado di tirare fuori. Non è un problema di comunicazione, è che c’è davvero poco. Sarà anche un grande successo, ma qui fra una crisi aziendale e l’altra ci sono decine di migliaia di posti di lavoro a tempo indeterminato che stanno andando in fumo. Dall’Ilva, a Unicredit, all’Alitalia perennemente in crisi. Se si scende di livello e si passa alle imprese medio piccole è una specie di cimitero. Ogni giorno, basta leggere le cronache locali dei giornali, è una via crucis, fra imprenditori che fuggono, fabbriche che licenziano, imprese che delocalizzano, come si usa dire per non turbare troppo gli animi.
Se poi parliamo di Roma, siamo alla catastrofe. Per altro manco tanto imprevista. Il livello di incuria è tale che ormai per passeggiare nelle strade si fa lo slalom tra i rifiuti. E se hai la ventura di girare in moto devi avere un paio di occhi supplementari per evitare le buche che si aprono quasi a sorpresa. Ogni santo giorno ne trovi una nuova. E che fa la politica? Stanno ancora litigando fra Regione e Comune per individuare una benedetta discarica dove mandare i rifiuti. Per la sindaca Raggi non serve. La Regione fa un’ordinanza con cui le intima, fra le altre cose, di indicare un luogo idoneo e lei traccheggia, poi pensa addirittura di ricorrere al Tar, dopo aver mandato la dirigente del settore, una sorta di agnello sacrificale, a trattare al tavolo con i tecnici delle altre istituzioni coinvolte. Scaduti i termini dell’ordinanza avrebbe dovuto decidere Zingaretti, fra l’altro anche presidente della Regione. E invece si traccheggia. Perché decidere fa diventare impopolari.
Ora, almeno in questo caso avrà anche ragione il segretario del Pd e presidente del Lazio. A norma di legge la Regione decide le strategie per smaltire i rifiuti, indica gli obiettivi da raggiungere, mentre i Comuni sono responsabili della raccolta, del trattamento e dello smaltimento delle tonnellate di immondizia che produciamo ogni giorno. Ma l’immagine che ne esce è quella dell’ennesimo scaricabarile fra politici che non vogliono assumersi la responsabilità di scelte necessariamente impopolari. E non è storia di oggi. Era il gennaio del 2014, quando l’allora sindaco Ignazio Marino dichiarò che a Roma non serviva una discarica. Da allora i nostri rifiuti hanno cominciato a fare il giro del mondo. Che questo abbia costi ambientali e finanziari esorbitanti poco importa. Quello che davvero conta è togliere i rifiuti di mezzo, portarli lontani dai propri elettori e soprattutto dal loro naso.
Ecco, io credo che, ai vari livelli, l’Italia paghi la pavidità della sua classe politica. Non è un’accusa a questo o quel partito. E’ il sistema che, unicamente proiettato alla ricerca del consenso, produce questo disastrato Paese. Servirebbero scelte forti per far ripartire la nostra economia. Si vuole una svolta ecologica? Si investa in questo senso. E si facciano scelte conseguenti. E invece prima ci si inventa la plastic tax, poi si riduce rendendola un buffetto per le multinazionali della plastica, infine si rinvia addirittura. Prima si parla di riconversione ecologica dell’Ilva, poi la si affida agli indiani. Ma non è che un’azienda del genere non può proprio stare in mezzo a una grande città come Taranto?
Di Roma abbiamo già detto, ci torno soltanto per ribadire un concetto: è giusto che chi produce rifiuti pensi anche a come smaltirli in loco, senza inquinare mezzo mondo. E una discarica, sia pur ridotta, sarà sempre necessaria anche se si raggiungessero tutti gli obiettivi previsti dal Piano rifiuti sulla raccolta differenziata. Arriveremo, forse, un giorno lotano al 70, 80 per cento. Ma anche in quel caso resterà una parte di immondizia che da qualche parte andrà pur sistemata. E a Roma siamo bloccati intorno al 40 per cento. Tremila tonnellate al giorno di rifiuti vagano per l’Italia e l’Europa perché non sappiamo bene dove metterli. Colpa anche di uno sviluppo urbano insensato, a macchia di leopardo, che ha seguito sempre gli interessi dei costruttori, per decenni unico motore economico della Capitale, e mai quello che dei cittadini.
Secondo me, questa è una delle chiavi per riconquistare i consensi persi: darsi una linea politica e decidere. Nello stagno si affoga e si dà sempre più spazio alle destre, bravissime a denunciare l’incapacità altrui, ma sempre disastrose quando hanno avuto l’onere del governo.
Io credo che il messaggio che lanciano le piazze delle sardine sia anche questo: sveglia ragazzi che a litigare fra voi ci ritroviamo Salvini per vent’anni. Sul fatto che il messaggio sia recepito permettetemi di conservare intatto tutto il mio scetticismo.