Avete voluto l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti?
Il #pippone del venerdì/122
Si moltiplicano i casi giudiziari che riguardano le fondazioni legate ai partiti o alle correnti varie. Dovrebbero essere organizzazioni di naturale culturale, centri di elaborazione per mettere a disposizione della politica idee e progetti di alto livello. Dei “pensatoi”, insomma. In realtà, a parte rare eccezioni, sono dei collettori di denaro, per loro natura poco trasparenti. Tanto per farci un’idea di cosa stiamo parlando, ne risultano attive una sessantina. E, in quanto fondazioni, rispondono a norme differenti rispetto ai partiti stessi. Si fa fatica a trovare l’elenco dei finanziatori, ad esempio. In questi giorni è scoppiato il caso di Open, la fondazione legata a Renzi, ma gli esempi sono molti, in realtà, da destra a sinistra. Insomma, il problema non è Renzi (almeno non in questi caso specifico, ma il sistema in sé).
Andiamo come al solito con ordine. Dando una sponda alle campagne (politiche e di stampa) contro i partiti e contro la kasta, nel 2014, siamo al governo Letta, viene di fatto abolito il sistema di rimborsi elettorali, il cosiddetto finanziamento pubblico. Oggi restano soltanto due forme di finanziamento, il 2 per mille, ovvero la libera scelta del singolo contribuente di destinare parte delle sue tasse a una formazione politica, oppure il finanziamento diretto dei privati, tramite donazioni che possono arrivare a 100mila euro l’anno e che devono essere rendicontate.
Dal 2016, anno in cui la legge ha effettivamente dispiegato a pieno i suoi effetti, dunque, i partiti si finanziano soltanto con contributi privati. E già questo, l’ho scritto più volte, è discutibile. In più quasi tutte le maggiori forze politiche hanno messo in piedi fondazioni che, come detto, hanno regole meno rigide e meno trasparenza.
Ora, lungi da me essere contro il finanziamento del singolo militante, tramite il 2 per mille, il tesseremento, o sottoscrizioni libere. Qui si discute di altro. Ovvero di imprenditori che versano in forme varie centinaia di migliaia di euro ogni anno a organismi privati e spesso fuori controllo. A volte lo fanno in cambio di un “lavoro” fatto (uno studio, un convegno), a volte a fondo perduto.
Al di là dei singoli reati che i magistrati contestano di volta in volta, viene da chiedersi per quale motivo un imprenditore dovrebbe donare a un partito (a una fondazione, in realtà, ma questo è soltanto un passaggio di comodo) cifre così ingenti. Passione politica, mecenatismo? Sono imprenditori illuminati che capiscono l’importanza che hanno i partiti per la democrazia? Si può anche crederlo e ci sarà anche qualche caso così. Io credo, però, che in realtà si tratta di mera azione di lobbing: ti finanzio e tu porti avanti i miei interessi.
Letta così l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti li ha resi ancora più deboli e costretti a piegarsi alle logiche economiche anche soltanto per sopravvivere. Altro che autonomia del sistema politico. Da qui la risposta alla domanda che ponevo nel titolo di questo pippone: ora vi beccate un quadro politico non solo meno trasparente, ma per sua natura soggetto al ricatto dei finanziatori.
Questa è la caratteristica dell’azione di lobbing, se non è sottoposta a regole certe. Che il lobbista, occulto, diventa padrone, per quota parte, delle scelte che il beneficiato compirà in parlamento. Senza che i cittadini possano avere immediatamente contezza di quello che succede. E fin’ora abbiamo parlato soltanto delle fondazione e dei partiti, che quanto meno sono organismi collettivi. Applicando lo stesso ragionamento ai finanziamenti fatti al singolo candidato alle elezioni il quadro è ancora più fosco. Insomma, non si tratta solo di accertare eventuali reati: ovvero uno scambio di favori diretto che configura vere e proprie ipotesi di corruzione. E’ il sistema intero che è di per sé sbagliato. Ha prodotto l’effetto esattamente contrario a quanto, almeno a parole, si proponeva l’ondata contro i partiti, cavalcata in primis dai grillini.
E’ uno dei danni prodotti dalla debolezza culturale della sinistra in questi anni. Troppe le occasioni in cui non si è riusciti ad andare controcorrente e prendere decisioni che in quel momento sarebbero state impopolari, ma erano giuste. E’ successo con la riforma del titolo V della Costituzione, che ha generato quel sistema misto Stato-Regioni che ha devastato un diritto essenziale come quello alla salute e ha moltiplicato carrozzoni e enti inutili, invece che avvicinare il governo ai cittadini. Ci siamo cascati ancora con l’abolizione del finanziamento pubblico.
Inutile aspettarsi un’inversione di tendenza netta. La ricetta sarebbe semplice: vietare le donazioni dei privati (fatte salve le sottoscrizioni di modesta entità) e tornare a rimborsi legati all’attività dei partiti. Servirebbe coraggio, magari una legge che garantisca regole democratiche nel funzionamento delle forze politiche, in maniera da avere un effettivo controllo sull’impiego dei fondi pubblici. E invece, ancora una volta vesto i panni comodi del facile profeta, si preferirà parlare di responsabilità dei singoli (che ovviamente vanno accertate e perseguite): come dire, si toglierà qualche pagliuzza dagli occhi dei cittadini, la trave resterà ben piantata al suo posto.
Anche le sardine, nel loro piccolo, si incazzano.
il #pippone del venerdì/121
La dico subito, a me questa cosa delle “sardine” in piazza piace parecchio. Ha ragione Bersani, danno due messaggi molto chiari: a Salvini mandano a dire che non sarà una passeggiata, a partire dalle elezioni emiliane, a noi sinistra dicono chiaramente che è il momento di finirla con le pippe mentali. E’ una sorta di appello collettivo.
L’ho scritto subito, perché in queste due settimane in cui il movimento spontaneo si è allargato in tutta Italia ne ho lette di tutti i colori. C’è chi dice che devono avanzare proposte, che non si può dire soltanto no a Salvini. Chi chiede addirittura un programma delle sardine. Siete fuori dal mondo.
Riassumiamo: quattro ragazzi bolognesi, all’avvio della campagna elettorale per le elezioni regionali, decidono che non ci stanno ad assistere al solito tran tran, fatto delle solite facce che si incontrano nelle solite sale. E quando Salvini organizza un comizio al PalaDozza, lanciano uno slogan “Bologna non si lega” e chiamano in piazza Maggiore “6000 sardine”. Insomma: facciamo vedere che ci siamo anche noi, tutti stretti come il noto pesce che ama compensare la sua debolezza con la creazione di grandi banchi compatti. Le sardine saranno molte di più. E colpiscono le segno, le reazioni scomposte di Salvini ne sono la riprova evidente. Da quel giorno si moltiplicano appuntamenti, gruppi facebook, manifestazioni in tutta Italia. I quattro ragazzotti bolognesi diventano subito star di un mondo dei media sempre più stanco e alla ricerca di un guizzo per destare un po’ di interesse.
Tanto basta per generare una vera e propria esplosione. I gruppi facebook aumentano iscritti a ritmi vertiginosi, soprattutto pensando alla stanchezza attuale del gigante dei social. Quello principale è arrivato alle 7,40 di oggi a quota 114mila. Erano 105mila prima di andare a letto ieri sera. E sono gruppi attivi, dove i post si accavallano, gli appuntamenti si sovrappongono. Poi ci sono anche i polemici e i soliti troll. Ma la maggioranza è fatta da persone comuni, senza una precisa appartenenza politica, vagamente di sinistra potremmo dire, che vogliono semplicemente riaffermare alcuni valori: intanto la solidarietà contrapposta all’odio che Salvini in questi anni ha sparso a piene mani. E c’è anche una positiva voglia di essere protagonisti, di provare a fermare la deriva italiana che fino a pochi giorni fa sembrava inesorabile.
Insomma, le sardine sono una scossa salutare. Ci fanno capire che c’è vita oltre le stanche forze politiche attuali e che una strada per uscire da questo pantano esiste. E’ folle, invece pretendere che, da un giorno all’altro, quattro ragazzi organizzino un partito, con manifesti ideali, programmi, strutture e tutto il resto.
Come spiega Bersani, sempre fra i più lucidi quando si tratta di fare analisi politica, le sardine pongono un problema a tutta la sinistra, che dovrebbe essere il loro alveo naturale (se non altro per contrarietà, come direbbe Guccini) ma che non riesce a esserlo. Le ragioni, o almeno quelle che secondo me sono le ragioni, le ho scritte cento volte e non voglio ripetermi ancora.
Ma adesso c’è un fatto nuovo: la sinistra riscopre che un suo popolo esiste. Almeno potenziale. Ed è lontano da quelle rappresentazioni che girano da anni sui media. Ci raccontano sempre che alle varie assemblee “ufficiali” ci sono più vecchi, c’è solo quello che un tempo si sarebbe definito il ceto medio riflessivo, gente di una certa cultura, anche un po’ radical chic.
Ecco, invece, le sardine ci raccontano che non è il popolo della sinistra a essere così, è la sinistra a essersi rinchiusa in quel recinto con le sue paranoie, le sue parole d’ordine incomprensibili e lontane dal sentire comune. Nelle piazze emiliane, ma adesso un po’ in tutta Italia, si rivedono tanti ragazzi che in un partito (forse per loro fortuna) non ci hanno messo mai piede. C’è gente di tutti i ceti sociali, di tutte le età. E stanno insieme senza chiedersi a che corrente appartieni, chi ti manda.
Non sarà certo la panacea di tutti i mali. Quella delle sardine è un’ondata. Che toccherà rapidamente un suo picco e poi tenderà inevitabilmente a calare. Non è una novità: è successo, per restare agli anni scorsi, prima con i girotondi, poi con l’ancora più effimero popolo viola. Sta alla sinistra provare a rivoluzionare se stessa e offrire un mare sicuro a questo popolo. Se ci fosse una classe dirigente in questo Paese non proverebbe a cavalcare l’onda, ma proverebbe a fornire risposte: la prima che mi viene in mente è: ragazzi, avete ragione voi, ci mettiamo a disposizione per costruire insieme un futuro differente per questo Paese. Postare le foto delle manifestazioni con commenti entusiastici serve davvero a poco. Diamoci una scossa, perché le sardine sono piccole, ma si incazzano. Anzi sono già belle incazzate.
Bologna, Emilia: dateci un bel segno.
Il #pippone del venerdì/120
Dopo la divagazione “personale” della settimana scorsa, mi pare il caso di tornare a occuparsi della politichetta italiana. Fra il disastro di Venezia e la paventata chiusura dell’Ilva questa è sicuramente la settimana di Bologna. Si concentra tutto lì, dalla manifestazione di apertura della campagna elettorale di Salvini al PalaDozza (sigh) alla tre giorni che dovrebbe dare il via alla rifondazione del Pd (sob). Con in mezzo la piacevole sorpresa dei quindicimila bolognesi che hanno riempito come altrettante sardine piazza Maggiore per far vedere che sono più dei leghisti, che hanno dovuto cammellare truppe dalla Lombardia per riempire lo storico palazzo dello sport. In piazza, altra piacevole sorpresa, anche il padre della candidata leghista alla presidenza della Regione.
L’Emilia-Romagna, diciamolo subito, non è una Regione qualunque. Insieme alla Toscana ha sempre rappresentato un baluardo insormontabile dal dopoguerra a oggi. Più della Toscana rappresenta l’epicentro di un sistema non solo politico, ma anche economico, che ha sempre rappresentato un’alternativa possibile. Una sorta di palestra in cui le idee della sinistra hanno avuto modo di innervare profondamente il tessuto sociale. E quindi si è spesso parlato negli anni di modello emiliano in economia, con la crescita dei grandi colossi cooperativi, dalle mense, alle assicurazioni, alle costruzioni, di modello emiliano nella sanità e nell’istruzione. Gli asili nido emiliani, andrebbe risposto a chi straparla del caso di Bibbiano, li venivano a studiare da tutto il mondo fin dal secolo scorso.
Certo, il vento nazionale resta contrario. Le difficoltà del governo, acuite dall’egocentrismo di un Renzi che si considera un novello Macron, sono sotto gli occhi di tutti. E’ difficile andare avanti sulla normale attività, si va in tilt appena c’è una crisi. In più il sempre più rapido declino dei 5 stelle li porta a dei guizzi disperati, come il pesce preso all’amo che tenta l’ultimo vacuo tentativo di sottrarsi alla lenza.
Andiamo con ordine. Il fiorentino dice ormai apertamente quello che qualcuno “sospettava” già da anni. La sua lettura della famosa “vocazione maggioritaria”, che tanti danni ha portato alla sinistra italiana, era già evidente, bastava avere la capacità di guardare con occhi distaccati le sue azioni: trasformare il Pd in una novella Dc, capace di aggregare voti un po’ da tutte le parti, ma puntando decisamente a quel centro moderato che il declino di Berlusconi ha via via liberato. Che in tanti se ne se siano accorti a cose fatte è uno dei sintomi più evidenti della pochezza della nostra classe dirigente. E di fatti con c’è riuscito più per la sua incapacità strategica che per meriti altrui. E adesso ci riprova con la sua nuova creazione. Lo ha dichiarato apertamente: vuole fare come Macron, (che a casa sua sta riscuotendo evidenti successi!) ovvero svuotare il campo socialista come è successo, a suo dire, in Francia. Peccato che dimentichi come la crisi irreversibile del Psf ha portato sì consensi a Macron, ma parallelamente è cresciuta fino a raggiungere il 20 per cento l’esperienza della sinistra della France Insoumise. Devo ancora ripetere che in Italia manca, a oggi, una risposta da sinistra?
Di certo, comunque, il protagonismo renziano, sia sulla manovra economica, che sui temi più politici delle alleanze per battere la destra, alza il livello di conflittualità nella coalizione che sostiene il governo Conte e questo non fa bene. Sia per il blocco dell’azione del governo stesso che deriva dai veti contrapposti fra Italia Viva e i 5 stelle, sia perché tutto questo, come risultato finale, porta a un grande disorientamento fra gli elettori. La politica, mi prendo una riga per ricordarlo, è una cosa in fondo semplice: i voti si conquistano lanciando messaggi chairi al blocco sociale che si vuole rappresentare. La confusione, o il voler rappresentare tutti che in fondo è un po’ la stessa cosa, ti porta automaticamente a perdere.
Dall’altro lato il Movimento 5 stelle appare incapace di tornare alle origini, dopo la sbornia dei 14 mesi leghisti. Per cui quella che dovrebbe essere, almeno a guardare le rispettive carte di identità, la parte più vivace del governo, quella capace di lanciare proposte innovative, di dare risposte originali ai problemi che dobbiamo affrontare, si ritrova al contrario a guardare soltanto al proprio ombelico. Il centralismo poco democratico di Di Maio ha avuto come prima conseguenza l’imborghesimento di tutto il Movimento che è diventato nel giro di pochi anni un partito normale, con le sue correnti, le sue poltrone da difendere, senza però avere la struttura e le regole democratiche di un partito normale. E’ evidente, soprattutto, la distanza con le aspettative del suo corpo elettorale.
E allora cambiano linea due volte al giorno, vagano alla ricerca della purezza perduta, senza capire che la strada giusta sarebbe quella indicata da Zingaretti. Il M5s, sulla carta, potrebbe essere davvero la gamba indispensabile per provare a costruire un’alleanza in grado non solo di battere la destra, ma di governare il nostro Paese con la necessaria discontinuità rispetto al passato. Ma deve tornare a essere quello che difendeva l’acqua pubblica e predicava trasparenza in tutte le scelte. Servirebbe, forse, una presenza rinnovata di Beppe Grillo, che sarà anche un pazzo, ma è forse l’unica ancora di salvezza alla quale possono aggrapparsi.
Tutto questo per dire che a gennaio sarà dura anche in Emilia. Anche in una Regione da sempre governata bene dalla sinistra, che rischia però di piegarsi a un vento nazionale contrario che sembra sempre più forte. Per questo piazza Maggiore è un bel segnale. Un segnale che c’è ancora un tessuto sociale forte che non vuole “legarsi”, come dicono i ragazzi che hanno organizzato la manifestazione di ieri. Dobbiamo avere la capacità di partire da quella piazza e non dalle convention che si annunciano storiche e finiscono per essere un vetrina mediatica di basso profilo.
Emilia, a gennaio dacci un bel segno.
Storia di un vasetto di yogurt greco.
Il #pippone del venerdì/119
Ora, dopo una settimana di assenza sarebbe scontato parlare di Ilva, di Renzi e Di Maio che continuano a fare i pierini, di Salvini e della Segre, magari tornare a parlare di elezioni regionali, dall’Umbria all’Emilia. Deluderò le aspettative di chi pensava di leggere una tirata contro il fiorentino o un pezzo sull’antifascismo. Su tutti questi argomenti trovate chi scrive e pensa molto meglio di me.
Parlerò di un vasetto di yogurt greco. Allora la scena è questa: saranno circa le due di una tranquilla giornata. Tranquilla… Esci dall’ufficio, arriva di corsa a casa, porta fuori la cucciola, convincila a fare rapidamente i suoi bisogni che devi tornare al lavoro, che se non fai una quindicina di ore di straordinario mensile non arrivi a fine mese, poi dalle da mangiare sperando che sia in giornata buona e non faccia la difficile. Poi riprendi la moto e ti fermi in un noto supermercato per comprarti gli yogurt per pranzo. Fai la fila alla cassa uno ti dà una leggera gomitata e dal castelletto che avevi fatto casca una confezione e si spacca. E’ plastica (sob), non va in mille pezzi, ma si apre irrimediabilmente.
E allora che fai? Per me la cosa più normale del mondo, raccolgo il vasetto e lo metto comunque sul nastro della cassa. Quando arriva il mio turno spiego al commesso che mi è caduto e gli chiedo di conteggiarlo comunque, visto che era colpa mia.
La cosa sorprendente è la reazione del ragazzo. Faccia stupita come se avesse visto un marziano. Mi risponde che non me lo avrebbe messo in conto, ma che era la prima volta che gli succedeva una cosa del genere, perché di solito non solo non vogliono pagare, ma tendono a nascondere questi fatti, magari riportando il pezzo rotto nello scaffale e facendo i vaghi. Lo stupito questa volta sono io, perché mi sembrava la cosa più naturale del mondo. Per di più si tratta di pochi centesimi, perché rischiare una figuraccia?
In realtà ogni tanto mi sento un po’ un coglione, soprattutto in questa città martoriata anche dai troppi furbi. Sono uno di quelli che si mette in fila in ogni occasione e puntualmente viene sorpassato da tutti i lati, fa la raccolta differenziata e cerca ostinatamente i cassonetti liberi (a Roma è come cercare un ago in un pagliaio), paga le tasse e quando arriva una multa si sente pure un po’ in colpa. Magari mi fermo sulle strisce quando sono in moto per evitare in faccia i tubi di scappamento delle macchine, ma mediamente sono un cittadino decisamente non adatto a vivere a queste latitudini.
Non volevo, comunque, autoincensarmi. L’episodio raccontato sopra, per quanto insignificante, mi ha riportato alla mente com’era la politica qualche decennio fa. In più poi c’ha pensato D’Alema sull’Huffington a rendermi il collegamento naturale. Dice D’Alema: ho nostalgia del Pci e non dell’Urss. Mi chiedo come mai siamo in tanti, fra quelli che hanno vissuto quell’epoca e quel partito, a pensarla allo stesso modo. E mi chiedo perché quell’esperienza non sia ripetibile, da cosa fosse caratterizzata.
Quelli bravi risponderebbero che era la prospettiva di superamento del capitalismo a tenerci insieme, che ci faceva essere davvero una comunità a tutto tondo, non solo politica. Sicuramente c’è questo elemento. E andrebbe ritrovato. Ma c’era qualcosa di speciale in quel partito che non è ripetibile nella società di oggi. Ed era il rigore morale. Quella era la vera diversità dei comunisti italiani. Quell’essere profondamente onesti, quasi bacchettoni direi. E per questo non solo eravamo rispettati da tutti, ma siamo stati un fattore importante nella società italiana. Un esempio di come poteva essere il nostro Paese praticato ogni giorno in ogni luogo, dai posti di lavoro, alla famiglia, alle istituzioni per le quali avevamo un sacro rispetto.
Per questo abbiamo anche preso delle cantonate e spesso non abbiamo capito i cambiamenti che avvenivano nella società. Penso al fastidio con cui abbiamo guardato ai vari movimenti studenteschi, dal ’68 in poi. Gli espropri proletari, la violenza nei confronti della polizia, non erano nelle nostre corde. Le splendide parole di Pasolini che, un po’ scandalosamente, si schierava dalla parte dei poliziotti dopo i fatti di Valle Giulia sono un altissimo esempio di cosa fossero i comunisti italiani. Più modestamente ricordo la severità di mio nonno, per il quale dovevo solo studiare senza pensare alle gonnelle che agitavano i miei sogni di adolescente. Studiare non solo per la propria realizzazione personale, ma per poter contribuire alla crescita della nostra società.
Ecco, quel vasetto di yogurt greco fa parte di quella cultura, bacchettona, ma rispettosa delle regole e soprattutto delle altre persone. Di questo io ho nostalgia, di un partito che formi i propri dirigenti con questa severità, con questa cultura delle regole e delle istituzioni che non trovo da nessuna parte.
Adesso è tutta una rincorsa alla poltrona, alla carica sia pure insignificante, si fa politica pensando al proprio tornaconto e non alla crescita, ai diritti. Secondo me è anche per questo che la sinistra è rimasta senza popolo. Non solo perché le sue idee troppo spesso sono state distanti da quel blocco sociale che si vorrebbe rappresentare, ma perché non viene più percepita come esempio positivo da seguire. Siamo caduti in pieno in quel “sono tutti uguali” che un tempo consideravamo, a ragione, come un’offesa gratuita.
La finisco qui, capisco che sono un vecchio bacchettone e che in questa società non è facile vivere con le mie convinzioni. Però sto bene così e almeno mi evito gastriti da senso di colpa.
Ps: mio figlio è molto più bacchettone di me, ne sono molto orgoglioso.